Progetto Chirone Inquadramento culturale e
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Progetto Chirone Inquadramento culturale e
Progetto Chirone Inquadramento culturale e senso del progetto Alberto Ricciuti Attivecomeprima ha avuto più volte negli anni l’occasione di incontrare e ascoltare medici che hanno vissuto o che vivono come pazienti l’esperienza del cancro. E sempre abbiamo potuto constatare che tale esperienza, proprio quando inserita così profondamente nel contesto della professione medica, è una fonte straordinariamente ricca di riflessioni e contenuti che accomuna sia i medici che i pazienti come persone, al di là del loro ruolo. Al trauma personale che coinvolge comunque l’individuo nella sua globalità, nel caso dei medici, però, si aggiunge spesso un particolare tipo di disorientamento che li coinvolge proprio come professionisti della salute abituati a gestire la malattia dell’altro secondo le modalità prescritte dal sapere medico individuale e collettivo. L’esperienza diretta della malattia - proprio perché vissuta da persone che hanno la doppia veste del paziente e del professionista che lo cura - evidenzia infatti in modo dirompente le conflittualità che spesso emergono tra i principi teorici di riferimento della prassi medica sul piano strettamente tecnico-scientifico e dottrinale e i problemi di gestione della salute sul piano dei bisogni e delle scelte dell’individuo. La comunicazione tra malato e medico, la gestione clinica del percorso diagnostico-terapeutico, l’adeguatezza organizzativa delle strutture socio-sanitarie, la formazione del medico, sono solo alcune delle aree dove oggi è maggiormente sentito il bisogno di uno spostamento del baricentro dell’attenzione e dell’agire medico dalla malattia alla persona malata. Nell’autunno del 2004, ad Attivecomeprima è così maturata l’idea di promuovere la realizzazione di una indagine - denominata “Progetto Chirone” - da svolgere a livello nazionale, per valutare l’impatto che un’esperienza di vita così dirompente può avere sulla professione del medico con particolare riguardo alla relazione fra medico e paziente. E’ infatti qui, nella diretta esperienza dell’“essere malato” e del sentirsi al cospetto del rischio di poter morire, che emerge il conflitto fra i bisogni e le sensibilità più profonde della sua “umanità” e l’immagine che il medico tende ad avere di se stesso e del suo ruolo, così come è indotta da un percorso formativo che enfatizza costantemente gli aspetti scientifico-tecnici della sua professione fino a consacrarli come un inderogabile imperativo etico. E qui stanno le ragioni della scelta della denominazione “Progetto Chirone”. Si fa infatti esplicito riferimento al mito greco del centauro Chirone, di stirpe divina; il più saggio e sapiente fra i centauri; celebre medico e chirurgo; maestro di Asclepio, il dio della medicina. Ferito accidentalmente da una freccia avvelenata, si era rinchiuso nella sua caverna soffrendo tremendamente a causa di quella ferita inguaribile. Essendo immortale, infatti, non poteva né guarire né morire. La via d’uscita da questa eterna prigione gli fu offerta da Prometeo che, nato mortale, offrì a Chirone la possibilità di porre fine alla sua sofferenza in cambio della sua immortalità. Chirone accettò di poter morire e trovò così la pace. Questo mito – come ricorda Gadamer (1993) - riporta all’immagine del medico come guaritore ferito. …Per poter curare, il medico non deve mai pensarsi separato dal suo aspetto di paziente. […] Un medico “senza ferita” non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: “da un lato sta il medico sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole”. E questa immagine, un po’ onnipotente e distorta del suo ruolo professionale, il medico fa una tremenda fatica a scrollarsela di dosso. E questo dato è fortemente presente anche nell’analisi dei questionari che abbiamo potuto valutare: tanto più radicata è questa immagine di sé e del suo ruolo, appresa durante il suo percorso formativo, tanto più profondo è il conflitto generato dall’esperienza del cancro, dall’essersi trovato improvvisamente gettato – come si dice – dall’altra parte della barricata. Dall’aver provato cosa significa essere considerato “un caso clinico”, una malattia e non un malato. Ciò che però è importante riconoscere è che questa immagine del medico superuomo, è l’immagine che di esso hanno comunque da sempre, loro malgrado, anche gli stessi pazienti. E’ l’immagine del medico prodotta dalla nostra cultura della salute e della malattia: due categorie fra loro in antitesi e non due aspetti in rapporto dialettico nel produrre giorno per giorno il percorso di vita di ogni essere umano, medico compreso. Rapporto dialettico che definisce la dinamica di quel “processo” nel quale la vita stessa consiste. C’è peraltro motivo di pensare che questa immagine del medico superuomo sia motivata dal fatto che, ognuno di noi, quando sente che la morte potrebbe essere vicino, ha bisogno di poter credere che esiste qualcosa o qualcuno che, al di là delle conoscenze tecnico-scientifiche, possa produrre per lui qualcosa di speciale per salvargli la vita. Un bisogno profondo, una sorta di ineliminabile riflesso di sopravvivenza intimamente connesso con ciò che Franco Fornari (1985) chiamò “capacità di speranza”. Oggi però il modo di noi tutti di sentire la vita e il nostro stesso ruolo nel mondo, sta cambiando non solo profondamente ma anche a velocità vertiginosa; e così pure, di conseguenza, i rapporti gerarchici fra i diversi ruoli sociali. Ridisegnare i ruoli e ridefinirne i rapporti è un lavoro immane che richiede capacità progettuale, tempo (quel tempo contratto che ci sta fuggendo via) e la piena consapevolezza di essere coinvolti in un processo del genere, affascinante e inarrestabile, ma anche travolgente, se non riusciamo a governarlo. La differenza essenziale rispetto ai secoli passati è il ruolo che oggi ha in tutto ciò lo sviluppo scientifico-tecnologico e i suoi rapporti con la vita quotidiana, con la ricerca scientifica, con l’economia e infine con la nostra salute e la nostra malattia. Una volta erano le conoscenze scientifiche a produrre tecnologia; oggi il processo si è in gran parte rovesciato, sono le nuove possibilità tecniche a indurre e consentire la produzione di nuove conoscenze. E mai come in passato, nell’ultimo secolo il sapere scientifico-tecnologico (oggi appunto non sono più dissociabili) ha scardinato le coordinate del rapporto medico-paziente. Va peraltro riconosciuto che nei confronti del medico di medicina generale, l’indice di gradimento da parte dei pazienti è sempre stato elevato; probabilmente perché il suo lavoro riguarda la medicina del quotidiano, e rappresenta di fatto un riferimento fondamentale per i molti disagi, malesseri e sofferenze che affondano le loro radici nella vita intima della persona e nelle sue relazioni sociali. Ciò nonostante, nell’immaginario collettivo quando si pensa alla Medicina e si esprimono le critiche più aspre nei suoi confronti, è all’immagine “specialistica” di essa che ci si riferisce. E’ infatti a questo orientamento “specialistico” del sapere medico nel suo complesso che sono rivolte le critiche più feroci; riguardano in gran parte la mancanza di uno sguardo clinico globale sulla persona e la disumanizzazione prodotta nel rapporto tra paziente e medico da un certo uso della tecnologia. Ma non è quest’ultima che l’uomo sta rifiutando, anzi. E’ che, nel vissuto comunemente espresso nelle ormai numerosissime indagini di medicina sociale, il medico è visto come un professionista che troppo spesso non usa il sapere scientifico-tecnologico ma si fa da questo usare. Un professionista che ha tradito la sua arte per la scienza. E ciò è tutt’altro che privo di conseguenze quando il medico si ammala e deve attraversare il guado. E quindi una riconsiderazione sul senso del lavoro del medico - alla luce di queste indicazioni - oggi si impone. La Medicina non è di per sé una scienza, è una prassi che usa strumenti scientificamente validati ogni volta che ciò è possibile; è un’attività complessa che si svolge nel contesto dell’incontro fra un io e un tu, fra due soggetti. E’ un’attività che è il risultato della cooperazione fra razionalità e intuizione di un uomo alla ricerca del significato di una realtà della quale egli stesso fa parte. È per questo che ogni preteso tentativo di approccio alla malattia in senso oggettivo, ossia che esclude dalle sue considerazioni l’osservatore che fa parte di quella realtà che lui stesso osserva, non può di per sé portare a quel tipo di comprensione che va oltre il livello descrittivo della spiegazione dei semplici meccanismi biologici, per accedere al livello di quel valore aggiunto al treno di materiaenergia che costituisce la realtà che noi siamo e che chiamiamo significato. E la comprensione del significato è ciò che eleva il corpo biologico dell’individuo a corpo biografico, cioè un corpo biologico contestualizzato, che vive nello spazio-tempo e produce storia; un corpo al quale un padre e una madre hanno dato un nome. Riconoscere queste come caratteristiche intrinseche e fondanti del fare medicina, significa saper sviluppare quella capacità empatica che rende più facile individuare il sottile confine che esiste fra l’opportuno e il superfluo, fra l’utile e il dannoso, fra il troppo e il troppo poco. E ciò può aiutare non poco il medico a lasciare emergere il paziente che ha dentro di sé, a saper riconoscere la propria umanità e ad avere il coraggio di lasciarla entrare nella relazione col proprio paziente per poterla usare come strumento di cura in alleanza con le risorse che il sapere tecnico-scientifico ci ha messo a disposizione. L’analisi dei dati di questa indagine sembra indicare che il medico, quando è toccato in prima persona dall’esperienza di malattia, diviene più consapevole di alcuni aspetti critici e conflittuali della relazione di cura e del suo stesso ruolo professionale e sembra manifestare una spontanea apertura a dare ascolto e risposta ad alcuni bisogni attinenti alla sua sfera affettiva, a valorizzare alcuni aspetti della sua umanità e, in molti casi, a lasciarli abitare positivamente la relazione coi suoi pazienti. Anche se, per un complesso di ragioni non affrontabili in questa sede, non sembra probabile che possa avvenire in tempi brevi, a noi piace pensare che questi possano essere i primi segni di un nuovo orientamento conoscitivo emergente fra i medici che possa portare nel tempo a una ridefinizione in senso biopsicosociale dei principi fondanti della stessa epistemologia medica.