Salute e immigrati in Italia: non più esclusi ma ancora “fragili”

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Salute e immigrati in
Italia: non più esclusi
ma ancora “fragili”
di Salvatore Geraci, Presidente Società
Italiana Medicina delle Migrazioni
L’esperienza della Caritas di Roma
e il network nazionale sui temi della salute
N
el 2003 si celebra il ventennale di attività del
Poliambulatorio per immigrati della Caritas di Roma; dal 1983 questo servizio, gestito
da centinaia di medici ed altri operatori socio-sanitari volontari, è stato un polo assistenziale per migliaia di immigrati, in particolare per quelli momentaneamente non in regola con le norme per il soggiorno. Sono stati oltre 75.000 gli stranieri che si sono rivolti a
questa struttura e sono state effettuate oltre 250.000 prestazioni sanitarie, tanto che
progressivamente la struttura ha assunto il ruolo di osservatorio privilegiato sulle condizioni di salute degli immigrati a Roma e nel Lazio. Il collegamento in rete con altre strutture simili in varie città (Milano, Palermo, Genova, Bologna, Verona, Ladispoli, Torino,
Caserta, Bergamo, Sassari, Catania, Messina, Foggia, Lodi, Padova, Ancona, ecc.), basate essenzialmente sul volontariato (alla fine degli anni ottanta rari erano i centri pubblici
impegnati; ricordiamo alcune iniziali esperienze a Brescia, Roma e Treviso), ha permesso
che si sviluppasse una specifica competenza su questo tema non solo in ambito clinico e
relazionale ma anche nel riconoscimento dei bisogni assistenziali e nella definizione e
realizzazione di politiche sanitarie adeguate. Non a caso dal 1990, molti degli ambulatori di queste realtà territoriali si sono riuniti nella Società Italiana di Medicina delle
Migrazioni, vero network nazionale sui temi della salute dei cittadini immigrati.
Dalla metà degli anni ottanta alla metà degli anni novanta, a fronte di un diritto
alla salute per gli stranieri negato per legge (ai clandestini) o nascosto ai più (per complessi ed inutili iter burocratico-amministrativi), il volontariato ha supplito a tale situazione garantendo di fatto un diritto irrinunciabile come quello alla salute.
Successivamente, dalla fine degli anni novanta, questa azione ha saputo organizzarsi in
proposta politica che ha portato all’emersione di tale diritto. Oggi in Italia, almeno teoricamente, è garantita l’accessibilità alle cure, seppur in forma diversificata, per tutti gli
immigrati presenti sul nostro territorio: per i regolari è prevista l’equiparazione ai cittadini italiani e la semplificazione degli iter amministrativi, per i clandestini sono assicurate le cure urgenti, essenziali e continuative con particolare riferimento alla medicina
preventiva, alla tutela della maternità e dei minori.
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La fase dell’emersione del diritto alla salute ha raggiunto il suo culmine con le
norme sanitarie del Decreto legislativo 286 del 1998, non modificate dalla più recente
legge n. 189/02. Tale impostazione normativa è stata supportata da alcuni documenti
programmatici, primi fra tutti il Piano Sanitario Nazionale 1998 - 2000 e quello 2003 2005, nei quali si evidenzia la realtà dell’immigrazione e si incentivano interventi ed
azioni locali sia per garantire accessibilità e fruibilità delle prestazioni, sia per avviare
percorsi di maggiore conoscenza del fenomeno.
Non sorprende quindi come progressivamente negli ultimi anni sempre più strutture pubbliche si siano avvicinate a tale problematica, nell’organizzazione di servizi, nel
proporre percorsi formativi adeguati, nella rilevazione di dati e nella promozione di
indagini epidemiologiche specifiche.
Il profilo sanitario tracciato fino a pochi anni fa dalle rilevazioni provenienti dalle
strutture del volontariato sopra citate e che ha permesso in un momento storico di
mancanza di conoscenza del fenomeno di abbattere pregiudizi e risolvere paure infondate, oggi trova conferma e si arricchisce di un maggior numero di ricerche statisticoepidemiologiche e di flussi di dati seppur ancora frammentari e non omogenei.
I ricoveri ospedalieri
Abbiamo scelto di riferirci, nella trattazione dell’argomento, al rapport o
dell’Ufficio di statistica del Ministero della Salute su “Il ricovero ospedaliero degli
stranieri in Italia”, presentato all’inizio del 2003 (pur se relativo all’anno 2000) e successivo ad un analogo rapporto sulle dimissioni ospedaliere del 1998 (gia ampiamente descritto nel Dossier Statistico 2001). Questi rapporti nazionali, a cui stanno
seguendo relazioni regionali (in particolare segnaliamo quelle del Lazio e della
Lombardia per completezza ed articolazione dell’analisi e quelle del Piemonte e delle
Marche per capacità di differenziare nei flussi statistici ordinari, i ricoveri di immigrati
regolari e clandestini), pur facendo riferimento ad uno specifico evento assistenziale
(il ricovero) e presentando alcuni limiti statistici, hanno il pregio di essere rappresentativi per consistenza numerica e distribuzione nazionale. Non può essere sottaciuto,
come abbiamo spesso ricordato, che il ricovero ospedaliero costituisce solo un evento nella complessa rete dei bisogni assistenziali: si tratta infatti di un evento non rinviabile rispetto alla molteplicità delle situazioni cliniche che la popolazione in esame
può richiedere. L’analisi dei ricoveri fornisce informazioni su percorsi assistenziali che
possono rivelarsi inadeguati, partendo dalla considerazione che agli stranieri, spesso,
manca quella rete di continuità assistenziale che garantisce l’appropriato, tempestivo
ed efficace ricorso alle cure.
Riprendiamo in sintesi le maggiori evidenze dell’analisi dei dati sulle Schede di
dimissione ospedaliere (Sdo) del 1998:
■ il numero totale dei ricoveri per pazienti non italiani era pari a 238.327 (di cui
189.389 riguardavano cittadini di Paesi in via di sviluppo);
■ circa la metà dei ricoveri si concentrava nella classe di età 25-44 anni (un valore più
che doppio rispetto al 22,6% degli italiani). I Paesi più rappresentanti erano:
Marocco, Albania, ex Jugoslavia, Romania, Tunisia;
■ per i residenti – regolari, il motivo del ricovero ordinario era costituito prevalentemente da gravidanza e parto, traumatismi intracranici, dolore addominale non speCARIT AS -
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cificato, traumatismi superficiali e contusioni; mentre tra i non residenti, compresi
gli immigrati irregolari, dai disturbi mentali dovuti ad abuso di alcol (al sesto posto
tra le cause di ricovero). In entrambi i gruppi le malattie cronico-degenerative
erano scarsamente rappresentate. Le maggiori cause di ricovero in day hospital
erano costituite da aborto indotto, infezione da HIV, tubercolosi e, con minor frequenza che negli italiani, la chemioterapia e radioterapia;
■ l’utilizzo dell’ospedale era caratterizzato da una durata della degenza più breve di
quasi 1 giorno rispetto a quella degli italiani, dal maggior numero di ricoveri di 0-1
giorno (oltre il 18% dei casi, rispetto al 12% tra i ricoveri degli italiani) e dal minor
ricorso all’assistenza in day hospital;
■ la distribuzione dei ricoveri per pazienti non italiani tra le Regioni, espressa in
numero assoluto, vedeva ai primi posti Lazio e Lombardia, con oltre 53.000 ricoveri
ciascuna; Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana registravano oltre 18.000
ricoveri ciascuna.
A due anni di distanza e con significative modifiche nelle politiche migratorie (Testo
Unico sull’immigrazione del 1998 e regolarizzazione) e specificatamente in quelle sanitarie (iscrizione al Ssn anche dei non residenti e codice Stp per i clandestini) è stato
importante verificare l’andamento del fenomeno a parità di metodologia di rilevazione
ed analisi.
In estrema sintesi, i dati elaborati dall’Ufficio di Statistica mostrano i seguenti
risultati:
■ il numero totale dei ricoveri per pazienti non italiani è aumentato del 19,2%, raggiungendo le 283.987 unità; un incremento maggiore (circa il 25%) ha riguardato
i ricoveri di stranieri non appartenenti all’Unione Europea. A livello territoriale, l’aumento c’è stato soprattutto nelle regioni del nord (36% complessivamente e
42,6% per gli stranieri non U.E.); mentre il centro ha conosciuto una diminuzione
(-11,3% e -5,8%). Per oltre i 2/3 si è trattato di ricoveri ordinari e circa 1/3 in day
hospital; parallelamente, le giornate di degenza sono lievitate di quasi il 21%.
L’incidenza sul totale dell’attività ospedaliera nazionale è stata dell’1,9% sia rispetto
al numero di ricoveri che rispetto alle giornate di degenza;
■ le caratteristiche demografiche dei pazienti sono rimaste pressoché invariate, ma
con aumenti di pazienti provenienti dall’Albania (+12.000), Marocco (+9.000),
Romania (+7.000), Cina ed Ecuador (+4.000);
■ anche i motivi dei ricoveri sono inalterati, con incrementi di parti e gravidanze
(complessivamente +14.000), di neonati sani (+6.000) e quelli patologici (+2.000),
di aborti (+7.000), stabile il numero di traumatismi intracranici e di quelli superficiali; modesti aumenti si sono avuti per altre forme morbose, anche infettive, proporzionali all’incremento assoluto del totale dei casi;
■ sono confermati i caratteri generali dell’ospedalizzazione, con degenza media pari a
6,3 giorni (italiani: 6,9), maggior peso dei ricoveri di 1 giorno e minor ricorso al
day hospital. In tutte e tre queste variabili vi è, tuttavia, una distanza minore nel
2000 rispetto al 1998 tra i caratteri dei ricoveri degli stranieri e quelli degli italiani;
■ la distribuzione tra le Regioni dei ricoveri in pazienti non italiani ha visto la netta
prevalenza della Lombardia (70.000 ricoveri), seguita da Lazio (36.000), Veneto
(30.000), Emilia (27.000), Piemonte e Toscana (25.000 ciascuna).
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Ricordiamo che questi dati si riferiscono ai ricoveri di pazienti e non a singoli individui: è dunque possibile ci siano stati ricoveri ripetuti per lo stesso soggetto durante
l’anno. Bisogna anche specificare che dai dati contenuti nelle schede di dimissione
ospedaliera non è possibile, ad oggi, distinguere lo status di irregolarità o clandestinità
ed infine che dal 1998 al 2000 si è avuto un incremento degli immigrati regolari di
circa il 34% (da 1.033.325 a 1.388.153 individui; se poi si considera la stima Caritas di
1.686.606, sia ha un + 63% dal 1998).
I risultati dell’analisi delle Sdo appaiono dunque coerenti con quanto ci si poteva
attendere sia per l’aumento degli stranieri in Italia, sia come auspicabile conseguenza
di politiche tese a dare maggiore permeabilità alle strutture sanitarie pubbliche. In questo senso può essere letta, ad esempio, la tendenza alla diminuzione della differenza
tra i ricoveri di un giorno e l’utilizzo del day hospital, trend da valutare attentamente
negli anni a venire per capire se ciò indichi una maggiore appropriatezza dei percorsi
assistenziali. Questa tendenza sembra emergere da una ricerca recentemente pubblicata dall’Istituto Superiore della Sanità (Rapporto Istisan 03/4 del 2003) che ha indagato
e monitorato nel tempo alcuni punti critici del percorso delle nascite tra le donne
immigrate provenienti da paesi ad economia meno avanzata, tra cui il grado di accessibilità in gravidanza ai servizi sanitari pubblici. Lo studio, partito nel 1995-96, è stato
riproposto nel 2000-01 al fine di valutare i cambiamenti avvenuti nel tempo e l’influenza della normativa introdotta nel 1998. In generale, si è osservato un miglioramento
dell’assistenza in gravidanza, al parto e puerperio. Ad esempio è diminuita la percentuale di donne che hanno effettuato la prima visita dopo il 1° trimestre (da 25% a
16%); il numero di ecografie è quello raccomandato dai protocolli nazionali e il mese
della prima ecografia è risultato essere in media con il 3°, come tra le italiane. Come
vedremo in seguito, altre rilevazioni sugli esiti della nascita effettuate su diversi campioni di popolazione a livello nazionale confermano questa tendenza al miglioramento dei
percorsi assistenziali e degli esiti sulla salute da quando l’Italia ha scelto chiare politiche
di accesso ai servizi per tutti gli immigrati.
I dati sui ricoveri ospedalieri e i numerosi report epidemiologici sullo stato di salute
della popolazione immigrata in Italia hanno dimostrato che le malattie che interessano
gli immigrati sono strettamente connesse ai sistemi di accoglienza e ai processi di
inclusione sociale messi in atto nel paese ospite. Infatti, la maggior parte delle patologie scaturiscono dalle scadenti condizioni abitative, lavorative, dalle difficoltà di relazione e di socializzazione, dal grado di accesso ai servizi sanitari.
I dati sanitari disponibili evidenziano un superamento delle situazioni di esclusione
dai servizi da parte degli immigrati ma indicano anche una fragilità sociale di questa
popolazione che, pur nella sua eterogeneità, mostra ambiti di sofferenza sanitaria
(malattie da disagio, infortunistica soprattutto sul lavoro, alto ricorso all’ivg, alcune
malattie infettive prevenibili, ...) in gran parte imputabile a incerte politiche di integrazione soprattutto in ambito locale, a difficoltà di accesso ai servizi, a problematiche
relazionali-comunicative. Tuttavia il pregiudizio sugli immigrati come “untori”, portatori di malattie infettive e tropicali (oggi il numero maggiormente significativo di immigrati in Italia proviene dall’Europa dell’Est!) sembra essere ancora radicato, non solo
nella popolazione italiana, condizionata da un dibattito sull’immigrazione sempre dai
toni troppo accesi, ma anche tra gli stessi operatori sanitari.
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Un nostro studio su un ampio campione di operatori sanitari italiani (circa 3.000)
ha evidenziato che oltre il 35% ritiene che le malattie più frequenti tra gli stranieri in
Italia siano proprio quelle infettive, in particolare la tubercolosi, la malaria, quelle sessualmente trasmesse e l’Aids (per quest’ultima condizione patologica, è da evidenziare
come a fronte di un aumento assoluto e relativo dei nuovi casi in cittadini stranieri, in
realtà i tassi, cioè i casi rapportati alla popolazione di riferimento, indicano un trend di
chiara diminuzione nel tempo).
Questo pregiudizio, spesso alimentato da semplificazioni parascientifiche, è purtroppo trasversale in tutte le professionalità sanitarie (medici, infermieri ed altri operatori socio-sanitari) e costante nel tempo (la rilevazione è iniziata dieci anni fa ed è tuttora in corso). A completamento, va anche rilevato come un altro 35% del campione
attribuisce a problematiche psichiatriche, che di per sé sono stigma di alienità, i quadri
patologici più frequenti tra la popolazione straniera e solo una minoranza ha inquadrato il fenomeno nei termini corretti (malattie routinarie o condizioni patologiche espressione di un disagio socio-economico e culturale).
In definitiva possiamo indicare a partire dall’evidenza dei dati disponibili, come il
profilo sanitario dell’immigrato in gran parte si sovrappone (per tipologia delle condizioni patologiche) a quello della popolazione autoctona di pari età, seppur condizionato dall’effetto di scadenti condizioni di vita presenti soprattutto nelle prime fasi dell’immigrazione nel nostro paese, che comportano più casi di malattie delle alte vie respiratorie (abitazioni non riscaldate e sovraffollate), disturbi gastrointestinali (alimentazione
inadeguata), malattie dermatologiche (alta promiscuità abitativa, carenze igienicosociali).
La salute dei bambini stranieri
Abbiamo scelto di approfondire l’analisi sulla salute dei bambini stranieri convinti
che ciò possa essere un indicatore di adeguate politiche di integrazione sociale ma
anche di organizzazione sanitaria nel nostro Paese. Sappiamo come la presenza di
minori stranieri connota il passaggio definitivo da una migrazione di tipo individuale
ad una di tipo familiare, da progetti “a tempo” ad una presenza stabile e duratura. Ai
minori va dedicata una particolare attenzione, sia per i problemi di una identità in bilico tra due margini culturali dove spesso quello d’origine dei genitori è misconosciuto o
considerato estraneo, ma soprattutto per via delle significative trasformazioni di cui
sono portatori. Ad esempio, la nascita di un bambino viene a modificare in modo
sostanziale il progetto migratorio del singolo individuo ed è tra i fattori fondamentali
che inducono gli immigrati a stabilizzarsi, costringendoli ad uscire dalla “condizione di
invisibilità sociale” in cui spesso si trovano a vivere, con il rischio di un passaggio in una
“condizione di fragilità sociale” che, a fronte di una spinta alla stabilizzazione, se non
governata da politiche adeguate, può provocare processi di marginalità. Parlare di
minori stranieri significa anche riferirsi a molte tipologie, spesso con significative differenziazioni nei profili culturali, economici, sociali e anche sanitari. Per un’analisi più
approfondita sull’argomento rimandiamo a tre volumi appena editati: “Bambini in
cammino” di M. Mazzetti, Percorsi editoriali Carocci, 2002; “Il bambino immigrato”
coordinamento di G. Bona, Editeam, 2003; “Ambiente e infanzia in Italia” a cura di I.
Figà Talamanca e A. Mantovani, Verducci editore, in corso di stampa.
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Appare evidente come ogni gruppo di riferimento (minori figli di uno o entrambi i
genitori stranieri; ricongiunti; minori affidati o adottati; richiedenti asilo e rifugiati;
apolidi; profughi di guerra o sfollati; minori stranieri non accompagnati, accolti temporaneamente provenienti da paesi colpiti da carestie, guerre civili, catastrofi ecologiche; figli di irregolari o clandestini; minori zingari) sia sollecitato da fattori di rischio per
la salute più o meno specifici e le generalizzazioni in questo ambito appaiono certamente fuorvianti.
Come per gli adulti, possiamo fortemente ridimensionare il rischio di importazione
di malattie esotiche; in base alle dinamiche migratorie attuali è altrettanto ipotizzabile
che ai piccoli (nati o giunti in seguito ad una stabilizzazione o miglioramento delle
condizioni economiche dei genitori) siano risparmiati dei rischi legati alla precarietà
socio-economica. Non è di secondaria importanza ricordare come la maggioranza
degli immigrati oggi presenti legittimamente nel paese ha ottenuto il permesso di soggiorno a seguito di una delle 5 sanatorie che si sono succedute in Italia dal 1986 ad
oggi, a causa della scarsa praticabilità dei percorsi legali per entrare nel nostro paese.
Ciò significa che per tutti costoro vi è stata una fase iniziale di irregolarità con condizioni di vita significativamente difficili. Buona parte di queste situazioni sono oggi risparmiate ai loro bambini anche se esistono nicchie di marginalità, soprattutto nelle grandi
città, particolarmente preoccupanti.
Per cercare di definire le problematiche sanitarie dei bambini stranieri ci rifaremo ad
alcuni studi condotti dal “Gruppo di lavoro nazionale per il bambino immigrato”
(GLNBI), sorto da qualche anno all’interno della Società Italiana di Pediatria, che ha
avuto il merito di aver messo in rete molti centri di pediatria italiani ed avviato un
approfondimento su questo tema. Un importante obiettivo del gruppo è stato di tipo
conoscitivo: è stata intrapresa una indagine multicentrica a livello nazionale per identificare i reali problemi sanitari dei bambini immigrati. Tale indagine si è avvalsa di una
scheda informativa a struttura modulare che è stata utilizzata, a seconda delle esigenze, nelle sedi di pronto soccorso, nei punti nascita, negli ambulatori pediatrici e nei
reparti di diversi ospedali italiani. Riportiamo alcuni dati dall’esame delle schede di
8.007 neonati di diversa provenienza (17% Europa orientale; 31% Medio oriente e
Nord Africa; 11% Africa sub-sahariana; 21% Estremo oriente e sub-continente indiano;
13% America latina e 7% Nomadi) e di 6.694 bambini italiani come gruppo di controllo.
La nascita può presentare alcune differenze rispetto ai neonati di genitori italiani.
Oltre il 30% dei bambini africani e sud americani sono nati mediante taglio cesareo;
mentre la percentuale più bassa di parto operativo viene registrata fra i cinesi ed i
nomadi (meno del 15%). Il parto con l’utilizzo del forcipe o ventosa ostetrica si è verificato più frequentemente nelle popolazioni dell’Asia, dell’Est Europa e del Nord Africa.
Il 57% delle donne nomadi al momento del parto aveva già due o più figli, mentre
o l t re il 50% delle italiane era al primo figlio (solo le donne dell’Est Europa e
dell’Estremo Oriente avevano valori leggermente più alti).
I neonati nomadi e sud americani presentano maggiori percentuali di nascite pretermine (età gestazionale inferiore o uguale a 32 settimane nel 3,8% e nel 2,4% dei
rispettivi totali). Un bambino nomade su 5 nasce prima della 37 settimana.
Un peso inferiore a 1.500 grammi è stato riscontrato in oltre il 2% dei neonati con
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genitori latino-americani, asiatici e dell’est Europa; mentre il 14,2% dei neonati di genitori zingari ed il 13,9% dei bambini indiani aveva peso neonatale inferiore a 2.500
grammi (gruppo di controllo italiano: 6,8%).
Il peso alla nascita è un indicatore importante poiché può condizionare lo stato di
salute del bambino soprattutto nei primi mesi di vita. Una dettagliata ricerca è stata
effettuata nella regione Lazio dall’Agenzia di Sanità Pubblica attraverso l’analisi dell’archivio delle schede di nascita dell’anno 2001, prendendo in considerazione peso, età
gestazionale, Apgar a 5 minuti (indicatore della salute del neonato), dimissioni a domicilio con peso alla nascita >2500 grammi.
I nati da madri cittadine di un paese estero sono risultati 3.755 (7,6%), tra cui
3.481 di un paese in via di sviluppo ed i figli di italiane nate all’estero 3.804 (7,7%).
Fra le aree di provenienza, quella più rappresentata era l’Europa centro-orientale
(38,4%) seguita dall’America centro-meridionale (13,9%) e dall’Asia orientale (10,6%).
I nati da madri provenienti, per area di nascita, da un paese in via di sviluppo erano
5.769 pari all’11,8% del totale dei nati vivi (n=49.083); fra questi il 54,7% aveva una
cittadinanza straniera. I nati da donne provenienti da paesi sviluppati rappresentavano
il 3,6% delle nascite e fra questi la frequenza di nati stranieri era del 32,8%. Fra i neonati da donne con cittadinanza straniera si osserva una maggiore frequenza della classe di peso <1.499 grammi rispetto al gruppo di riferimento (1,4% versus 0,8%).
Frequenze più elevate di nati pretermine (<37 settimane) si rilevano sia nei figli di
donne straniere (8,6% vs 6,6%) che nei figli di donne italiane nate all’estero (8,0%
versus 6,6%); in questi due gruppi si osserva una maggiore frequenza di Apgar a 5
minuti dalla nascita < 6 (1,5% e 1,4% versus 0,9%). Rispetto al gruppo di riferimento,
una minore frequenza di neonati dimessi a domicilio con peso alla nascita >2500
grammi si osserva nel gruppo dei nati da donne straniere (90,7% versus 91,9%).
Lo studio multicentrico del GLNBI registra, per quel che riguarda le patologie neonatali, una maggior incidenza di asfissia nei bambini africani (2,6%) e nei nomadi
(2,1%), rispetto ai controlli italiani (0,5%); sud americani e nomadi hanno presentato
con maggior frequenza distress respiratorio (2% e 2,8%) rispetto agli altri gruppi etnici. Un analogo studio (seppur relativo ai Raggruppamenti omogenei di diagnosi – Drg
- del 2001) effettuato nella regione Lombardia mette in evidenza una disuguaglianza
significativa per quel che riguarda i neonati gravemente immaturi e/o con sindrome di
distress respiratorio per i bambini con genitori dell’Africa sub-sahariana rispetto alla
media degli stranieri e soprattutto degli italiani: 3,8% versus 1,5% versus 0,8%. Altri
Drg evidenziano differenze a svantaggio della popolazione immigrata: neonati a termine con affezioni maggiori sono il 5,3% tra gli italiani e il 6,9% tra gli immigrati, con
punte del 22,2% dell’Estremo Oriente (ma solo 4 casi) e 10,7% del sud est asiatico (57
casi); la prematurità con e senza affezioni maggiori riguarda il 4,4% tra gli italiani e il
5,2% tra gli stranieri (7,5% per l’Africa Occidentale).
Possiamo concludere questa breve rassegna di dati evidenziando come se da una
parte i minori stranieri non hanno peculiarità assistenziali assai diverse dei loro coetanei
italiani, dall’altra esistono delle disuguaglianze sulla salute da riferirsi essenzialmente
alla primissima fase della vita ed in particolare, come sempre maggiori evidenze
mostrano, da collegare più che a degli stili di vita propri del paese di origine o a fattori
genetici, al basso livello di integrazione nella società ospitante.
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Conclusioni
Il grado di accessibilità e fruibilità dei servizi sanitari rappresenta una questione cruciale per la salute del migrante, dipendendo la prima prevalentemente dalla normativa, e la seconda dalla capacità “culturale” dei servizi di adeguare le risposte alle necessità dei nuovi utenti.
Il degrado più o meno rapido del patrimonio di salute del migrante nel paese ospite pone seri problemi sia alla persona che si ammala, che viene a perdere un’importante risorsa da investire per la realizzazione del progetto migratorio, sia alla collettività
che è costretta a sostenere i costi sociali ed economici che questo comporta.
Attualmente, la medicina delle migrazioni si trova di fronte a scenari che richiedono
nuove risposte: dalla fase dell’emergenza si è passati alla promozione del diritto e quindi al suo riconoscimento. Oggi è fondamentale garantire realmente agli stranieri pari
opportunità rispetto ai cittadini italiani, per l’accesso ai servizi e per la fruibilità delle
prestazioni sanitarie, come sancito anche dalle leggi in vigore. E’ necessario ed urgente
avviare un percorso di promozione della salute che, come definito dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, non si esaurisca nella cura delle malattie ma promuova un
benessere fisico, psicologico e sociale a tutela individuale e dell’intera collettività.
Misure di accoglienza, politiche sociali e sanitarie devono integrarsi ed interagire perché, come dimostrano i dati e le considerazioni fatte, la fragilità sociale è il fattore di
rischio maggiore per la salute della popolazione immigrata e il progressivo inserimento
ed inclusione nel tessuto sociale, economico e culturale è la migliore forma di prevenzione e benessere per l’intera popolazione.
➧ ITALIA. Minori non accompagnati (settembre 2003)
Numero totale (con e senza perm.1) 7.440
Fascia d’età 15-17
Paesi di provenienza
Prime regioni di insediamento
* Albania (5.743 nel 2002)
2.122
* Piemonte
* Marocco (639 nel 2002)
1.602
* Friuli Venezia Giulia
* Romania (639 nel 2002)
1.462
Regioni di insediamento
Situazione attuale
* Lombardia (15,5% nel 2002)
20,9%
* presso privati (33,7% nel 2002)
* Lazio (come lo scorso anno)
13,0%
* presso strutture (44,9% nel 2002)
* Puglia 17,3% nel 2002)
11,0%
* irreperibili
* Piemonte (9 % nel 2002)
11,0%
Di cui con permesso di soggiorno 1.557
-di cui senza permesso di soggiorno 5.883
paesi di provenienza
44
* fascia prevalente (14-17 anni)
Maschi
83,1%
* 0-4 anni
82,9%
26,3%
17,1%
51,7%
39,8%
8,5%
84,6%
1,6%
(1) Precedente rilevazione di marzo 2002: 8.307 minori non accompagnati (cf. anche Dossier Statistico
Immigrazione 2002, pp. 175-176)
FONTE: Dossier Statistico Immigrazione. Elaborazioni su dati Ministero del Lavoro-Comitato Minori
Stranieri Non Accompagnati/IPRS
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