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I MONSONI
2
Web Tsunami
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Titolo originale dell’opera: “Ghost Rider - Travels on the healing road”
Copyright © Neil Peart
Edizione originale pubblicata in Canada da:
ECW Press - 2120 Queen Street East, Suite 200, Toronto, Ontario, Canada M4E 1E2
Copyright © 2014 A.SE.FI. Editoriale Srl - Via dell’Aprica, 8 - Milano
www.tsunamiedizioni.com - twitter: @tsunamiedizioni
Traduzione di Stefania Sarre
Prima edizione Tsunami Edizioni, settembre 2014 - I Monsoni 2
Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl
Prima edizione, settembre 2014 - I Monsoni 2
Grafica e copertina: Eugenio Monti
La foto di copertina è di Deborah Deponti
Stampato nel mese di agosto 2014 da
ISBN: 978-88-96131-66-4
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato, senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.
Neil Peart
IL VIAGGIATORE
FANTASMA
Un anno in moto
per ritrovare la vita
Traduzione di
Stefania Sarre
DEDICATO AL FUTURO,
ONORANDO IL PASSATO.
We’re only immortal for a limited time
DREAMLINE, 1991
[Siamo immortali solo per un breve lasso di tempo]
INDICE
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Libro Primo
IN VIAGGIO PER LA STRADA DELLA GUARIGIONE
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
1
2
3
4
5
6
7
8
-
IN ESILIO_____________________________________ 11
VERSO OVEST_________________________________ 23
A NORD VERSO INUVIK______________________ 43
A OVEST VERSO L’ALASKA_____________________ 61
UN PASSEGGERO DI LUSSO_ _________________ 73
LA STRADA PIÙ SOLITARIA D’AMERICA______ 91
DESERT SOLITAIRE___________________________ 125
LETTERE A BRUTUS__________________________ 153
Libro Secondo
ANGELO IN VOLO, DIRETTO A CASA
Capitolo 9
Capitolo10
Capitolo11
Capitolo12
Capitolo13
Capitolo14
Capitolo15
Capitolo16
Capitolo17
Capitolo18
-
INTERLUDIO INVERNALE___________________ 197
DISTURBO AFFETTIVO STAGIONALE________ 223
DI NUOVO IN SELLA_ _______________________ 253
EUFORIA PRIMAVERILE______________________ 261
INTERLUDIO ESTIVO________________________ 281
VERSO EST___________________________________ 313
CAVALCANDO LA CORRENTE_ ______________ 331
IL VIAGGIATORE DELLA COSTA_ ____________ 345
TELESCOPE PEAK_____________________________ 363
EPILOGO... E VISSERO PER SEMPRE...________ 369
Ringraziamenti_____________________________________________ 375
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Libro Primo
IN VIAGGIO
PER LA STRADA
DELLA GUARIGIONE
Suddenly
You were gone
From all the lives
You left your mark upon
AFTERIMAGE, 1984
[All’improvviso
Eri sparita
Da tutte le vite
Su cui avevi lasciato il segno]
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Capitolo 1
IN ESILIO
You can go out, you can take a ride
And when you get out on your own
You get all smoothed out inside
And it’s good to be alone
FACE UP, 1991
A
[Puoi uscire, puoi farti un giro
E quando esci da solo
Ti senti tranquillo dentro
Ed è bello essere solo]
ll’esterno della casa sul lago, la pioggia battente sembrava contenere l’oscurità
che, riluttante, sfumava lentamente dal nero, al blu, al grigio. Mentre preparavo
l’ultima colazione che avrei fatto a casa, spremendo le arance, bollendo le uova, annusando il toast e il caffè, guardavo fuori dalla finestra della cucina gli annebbiati alberi
del Quebec mettersi lentamente a fuoco. La fine di un’estate umida era vicina, l’abete, la
betulla, i pioppi e i cedri erano di un verde intenso, brillante, e pieni di rugiada.
Mi aspettavo un auspicio migliore per questa importantissima partenza, invece
di questa fredda, scura e piovosa mattina che, grazie a una certa fallacia patetica1,
1 - Figura retorica simile alla personificazione. Trattamento di oggetti inanimati come se avessero
sentimenti umani.
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
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sembrava essere solidale con il mio “clima” interiore. Ad ogni modo, il clima non era
importante; stavo partendo. Non sapevo ancora per dove (Alaska? Messico? Patagonia?) o per quanto tempo (due mesi? Quattro mesi? Un anno?), ma sapevo che
dovevo andare. La mia vita dipendeva da questa decisione.
Sorseggiando l’ultima tazza di caffè, combattevo con la mia tuta, infilavo gli stivali e, dopo avere risciacquato la tazza nel lavandino, presi il mio casco rosso. Lo
spinsi in basso sopra il fine passamontagna, strinsi il colletto della tuta antipioggia e
indossai gli spessi guanti impermeabili. Sapevo che si sarebbe trattato di un viaggio
freddo, umido e che se il mio cervello non fosse stato pronto, almeno lo sarebbe
stato il mio corpo. Questo era tutto ciò di cui mi potevo occupare.
La casa sul lago era il mio rifugio, l’unico posto che ancora amavo, l’unica cosa
che mi fosse rimasta e dalla quale mi stavo separando controvoglia, ma disperatamente. Non credevo sarei stato di ritorno entro breve e, in un angolo oscuro della
mia mente, temevo che avrei anche potuto non rientrare mai più. Mi aspettava un
viaggio rischioso che avrebbe potuto terminare molto male. A questo punto della
mia vita, sapevo che le tragedie potevano capitare anche a me.
Non avevo piani prestabiliti, giusto una vaga idea di dirigermi verso nord lungo
il fiume Ottawa, poi virare verso ovest, magari attraversando il Canada, e raggiungere Vancouver per far visita a mio fratello Danny e alla sua famiglia. Oppure,
avrei potuto dirigermi verso nord-ovest attraversando lo Yukon e i Northwest
Territories raggiungendo l’Alaska, che non avevo mai visitato, per poi prendere
il traghetto che mi avrebbe portato sulla costa del British Columbia verso Vancouver. Sapendo che i biglietti del traghetto sarebbero andati esauriti con molto
anticipo, quella era l’unica prenotazione che mi ero azzardato a fare, e mentre mi
preparavo per partire, in quella scura e piovosa mattina del 20 agosto 1998, avevo
due settimane e mezzo per arrivare a Haines, in Alaska – con la consapevolezza
che non sarebbe importato a me come a nessun altro se avessi usufruito o meno
della prenotazione.
Nel vialetto di accesso, la mia moto rossa era sul cavalletto centrale, ornata di
goccioline di pioggia e risplendente dopo la mia accurata preparazione. Il motore si
riscaldava rapidamente, un pennacchio di vapore bianco zampillava dallo scarico, i
tappi per le orecchie e il casco coprivano il suo continuo ronzio.
Chiusi la porta senza voltarmi. In piedi, vicino alla moto, controllai un’ultima volta i bauletti, aggiustando i teli antipioggia e le funi elastiche. Il proverbiale profondo
respiro mi diede l’illusione di dedizione completa alla giornata e al viaggio; misi lo
stivale sinistro sul pedale, feci passare la gamba destra sopra la moto ben carica e mi
sistemai sul familiare sellino.
La mia rodata BMW R1100GS (modello “adventure-touring”) era attrezzata con tutto il necessario per un viaggio di durata sconosciuta verso destinazioni
sconosciute. Due bauletti rigidi affiancavano la ruota posteriore, mentre sistemati
dietro alla sella vi erano un borsone, una tenda, un sacco a pelo, un materassino
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< IN ESILIO >
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gonfiabile, un telo per campeggio, una borsa degli attrezzi e una piccola tanica di
benzina in plastica. Volevo essere preparato a tutto, ovunque mi fossi trovato.
Siccome ogni tanto mi piaceva viaggiare al di sopra dei limiti di velocità imposti
dalla legge, in particolare sulle strade larghe e spianate dell’Ovest – dove era sicuro
in termini di visibilità, ma rischioso per le pattuglie nascoste – avevo deciso di provare a usare un piccolo radar detector che avevo infilato nella tasca della giacca, con
l’auricolare connesso al casco.
Altre cose di cui avrei potuto aver bisogno, come qualche strumento in più e il
mio piccolo marsupio, riempivano la borsa allacciata al serbatoio di fronte a me, che
in cima aveva una copertura in plastica trasparente da cui potevo vedere la cartina
stradale. Il resto del bagaglio che portavo via con me quella mattina era meno ingombrante, ma molto più pesante – quel peso invisibile che mi aveva spinto a partire
per quello che già sembrava una specie di esilio.
Ma in quell’attimo, prima che facessi muovere una ruota o togliessi il cavalletto,
ricevetti il primo premio di questo viaggio: il momento in cui i miei pensieri e le
mie energie si focalizzarono e restrinsero il loro campo sulla guida del mezzo. La
mano destra ruotò dolcemente l’acceleratore, la mano sinistra rimosse le gocce di
pioggia che si stavano ammassando sulla visiera trasparente del casco e poi tirai la
leva della frizione. Il piede sinistro spinse il giù il pedale del cambio inserendo la
prima e cominciai a lentamente a muovermi sul vialetto tra gli alberi umidi. In cima
alla strada mi fermai per chiudere il cancello alle mie spalle, strofinai nuovamente la
visiera e partii su una fangosa strada sterrata, via da tutto.
Solamente un anno prima di quella mattina, nella notte del 10 agosto 1997, quello stesso vialetto venne percorso da una volante della polizia che ci portò la notizia
della prima tragedia. La mattina stessa, mia moglie Jackie e io avevamo abbracciato
e baciato nostra figlia Selena, all’epoca diciannovenne, mentre si preparava per andare a Toronto in macchina, pronta per iniziare l’università a settembre. La notte
era calata, non avevamo ricevuto notizie da Selena e Jackie era sempre più preoccupata. Da incorreggibile ottimista (quale ero, una volta), non prendevo neanche in
considerazione la possibilità che potesse accadere qualcosa di brutto a Selena, o a
qualcuno di noi, ed ero sicuro che si trattasse della leggerezza di una adolescente.
Avrebbe chiamato, sicuramente con qualche scusa già pronta.
Vidi dei lampeggianti attraversare il vialetto, e quando incrociarono le luci di casa
riconobbi le scritte sull’auto che mi ricordarono di quando, l’estate prima, la polizia
locale ci fece visita per chiedere informazioni su un furto avvenuto al fondo della
strada. Pensavo che si trattasse di qualcosa di simile. Ciononostante, una madre possiede una specie di sentinella interiore e, nell’istante in cui le dissi che era la polizia,
vidi gli occhi di Jackie spalancarsi e il suo volto sbiancare; se lo sentiva.
Istintivamente, presi la sua mano e andammo nel vialetto per parlare con il capo
della polizia locale, Ernie Woods. Lui ci fece ritornare in casa e ci mostrò il fax ricevuto dalla polizia dell’Ontario, mentre noi tentavamo di capire le sue parole: “Ho
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
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una brutta notizia, sarebbe meglio che vi sedeste”. Poi cercammo di leggere le righe
scure sul foglio, provando a dare un senso all’incomprensibile, a credere nell’inaccettabile. La mia mente si contorceva in una lotta senza speranza per riuscire ad
assimilare quelle parole: “coinvolta un’unica auto”, “apparente perdita del controllo”,
“decesso sul colpo”.
“No”, sospirò Jackie, poi più forte, “NO”, di nuovo e di nuovo, mentre crollava sul
pavimento dell’ingresso. All’inizio rimasi lì in piedi, paralizzato dall’orrore e dallo
shock, solamente nel momento in cui Jackie cominciò ad alzarsi mi preoccupai di
quello che avrebbe potuto fare, mi buttai a fianco a lei e la strinsi. Lei si divincolava,
mi diceva di lasciarla andare, ma io non lo facevo. Il nostro grande samoyedo bianco,
Nicky, era spaventato e confuso da questa scena, e abbaiava freneticamente cercando
di mettersi tra di noi. Il comandante Ernie aveva paura di toccare il cane, io non
lasciavo andare Jackie e Nicky cercava di proteggere qualcuno per porre fine a quello
che stava succedendo. Era il pandemonio, poiché entrambi lo spingevamo via e gli
urlavamo contro mentre i suoi latrati striduli echeggiavano per tutta la casa.
Tenni stretta Jackie fino a quando venne pervasa dal torpore di autodifesa provocato dallo shock, e chiesi al comandante Ernie di chiamare un dottore. Il tempo
perse completamente senso e, a un certo punto, Nicky strisciò via lentamente per
andare a nascondersi da qualche parte. Il dottor Spunt arrivò cercando di proferire
parole di conforto, ma noi non eravamo per nulla ricettivi. Poco dopo, il comandante Ernie se ne andò, seguito dal dottor Spunt, e per il resto della notte camminai
senza tregua intorno al tappeto del salone (in quella che, più tardi, scoprii chiamarsi
“modalità di ricerca”, nella quale inconsciamente “cercavo di trovare la persona che
avevo perso”, come fanno alcuni animali e uccelli), mentre Jackie rimase seduta a
fissare il vuoto, e nessuno di noi proferì parola. Nella grigia zona d’ombra del mattino, mettemmo l’avvilito Nicky in macchina e ci avviammo verso Toronto, guidando
sotto la pioggia per affrontare la fine del mondo.
Prima che quelle luci attraversassero il vialetto e trasformassero le nostre vite
relativamente piacevoli e tranquille in un incubo ad occhi aperti, Jackie stava in
ansiosa attesa sul porticato mentre io guardavo spensieratamente un documentario
riguardante la traversata dei pionieri mormoni del 1847. Si parlava di una donna
che era sopravvissuta alle traversie delle immense difficoltà che avevano sopportato,
e ricordo che le sue ultime parole erano state: “L’unica ragione per la quale sono viva
è perché non potevo morire”. Quella frase terribile sarebbe ritornata a perseguitarmi
nei mesi seguenti.
Divenne subito evidente che il mondo di Jackie era distrutto completamente e
per sempre; era ridotta a pezzi e non sarebbe più riuscita a rimetterli insieme.
E con lei si era distrutto anche il nostro rapporto, sebbene cercassi di fare qualsiasi cosa per lei. Siccome la vita, all’improvviso, mi forzava ad imparare più di
quanto si possa desiderare sul dolore e sul cordoglio, appresi il triste fatto che la
maggior parte delle coppie che perde un figlio non rimane insieme. È scandaloso!
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< IN ESILIO >
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È così sbagliato, così ingiusto, così crudele riempire di ulteriore dolore e ingiustizia
coloro che già hanno sofferto così tanto. Nella mia beata ignoranza, mi aspettavo il
contrario – ovvero che le persone maggiormente coinvolte in un lutto si stringessero
ancora di più l’una all’altra. Invece no.
Forse la motivazione è da ricercare nel fatto che il lutto reciproco rappresenta un
ricordo costante ad entrambi, quasi una condanna, oppure il motivo può essere più
profondo, come se dei “geni egoisti” rifiutassero il fallimento del proprio tentativo
di riproduzione. Di qualunque cosa si trattasse, era dura pensare che Jackie e io
avevamo superato 22 anni di convivenza, eravamo riusciti a stare insieme nella buona e nella cattiva sorte (con solamente un paio di allontanamenti temporanei), in
ricchezza e in malattia, nei fallimenti e nei successi, crisi di gioventù e di mezza età
(lei aveva 42 anni e io 45), in tutte le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza di Selena
e nonostante le mie frequenti assenze, sia da musicista che da viaggiatore cronico.
Eravamo riusciti a gestire tutto questo, e ora la perdita di colei che entrambi amavamo di più al mondo ci stava dividendo.
Durante le prime orribili settimane a Toronto, i nostri amici e la nostra famiglia
riempivano la casa giorno e notte, cercando di distrarci e di aiutarci ad affrontare
questa insopportabile realtà al meglio che potevano, ma Jackie rimaneva inconsolabile, consumandosi e appassendo visibilmente in un fragile e sofferente spettro di
se stessa. Un giorno, scuotendo la testa, mi guardò e disse: “Non dispiacerti, ma ho
sempre saputo che questa era l’unica cosa che non sarei stata in grado di affrontare”.
Non lasciava che la consolassi e non voleva avere nulla a che fare con me. Sembrava come se sapesse di aver bisogno di me, ma nel suo cuore affranto non vi fosse
posto per me o per nessun altro. Se non poteva avere Selena, non voleva niente altro
– voleva semplicemente morire. Dovevo persuaderla per mangiare e parlava incessantemente di suicidio. Dovevo controllare attentamente i sedativi e le pillole per
l’insonnia e assicurarmi che non rimanesse mai da sola in casa. Quando si lasciava
andare in un sonno drogato, teneva stretta fra le braccia una cornice con la fotografia
di Selena.
Dopo un paio di settimane, portai Jackie a Londra insieme ai nostri amici Brad e
Rita. Conoscevo Brad dall’infanzia, e nei primi anni ’70 condividemmo un appartamento a Londra dove lui conobbe Rita, una rifugiata dell’Iran dello Scià, che portò
con sé in Canada. Brad e Rita avevano affrontato grandi tragedie nelle loro vite e
rappresentavano la scelta azzeccata per aiutare Jackie e me all’inizio del nostro esilio.
Quando ritornarono a casa, vennero altri amici a farci compagnia per una settimana
o due, e alla fine ci trasferimmo in un piccolo appartamento vicino a Hyde Park,
dove vivemmo per 6 mesi. Cominciammo ad andare più volte durante la settimana
alla Traumatic Stress Clinic da un medico specialista in elaborazione del lutto, “la
dottoressa Deborah”, che sembrò darci una piccola mano e, se non altro, era una scusa per uscire ogni tanto. Per me era difficile forzare Jackie anche solamente per fare
una passeggiata, poiché qualsiasi cosa vedesse in giro la tormentava – la pubblicità
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
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con i bambini vestiti per la riapertura delle scuole (Selena!), i bambini che giocavano al parco (Selena!), giovani ragazze a cavallo a lezione di equitazione (Selena!),
giovani donne attraenti nel pieno splendore della loro giovinezza (Selena!). Questi
input pugnalavano anche me, ovviamente, e anche io mi sentivo sconfortato, cupo e
molto spesso mi veniva da piangere, ma sembrava che stessi già erigendo un muro
tra me e le cose che trovavo troppo dolorose da affrontare, che stessi indossando dei
paraocchi mentali mentre attraversavo le trafficate strade di Londra. Sobbalzavo e
mi scostavo da quelle associazioni, ma Jackie rimaneva pura e vulnerabile, incapace
di proteggere se stessa dall’orrore della memoria.
Nello sforzo di farle mangiare qualcosa di sostanzioso, imparai persino a cucinare
piatti semplici nel nostro cucinotto (grazie al supermercato situato nel centro commerciale Marks & Spencer a Oxford Street, che proponeva delle ricette per ogni
articolo venduto, persino per il pesce fresco e le verdure), arrivando a farmi chiamare
“Chef Ellwood,” un nomignolo infelice tratto dal mio secondo nome. Ma nulla di
tutto ciò era abbastanza. Mentre cercavo di prendermi cura di Jackie in ogni modo
possibile, lasciandola da sola unicamente per delle passeggiate veloci al parco o per
le vie di Londra durante il pomeriggio (con le pillole nascoste nella cassaforte), o
per comprare il pasto del giorno, era come essere testimone di un suicidio provocato
dalla più totale apatia. Semplicemente, non le importava di nulla.
Il gennaio seguente, quando stavamo decidendo di ritornare definitivamente da Londra per cercare di riprendere qualche sorta di vita in Canada, Jackie cominciò a patire
acuti dolori alla schiena e tosse notturna. Rifiutava che chiamassi il dottore, sostenendo
“Diranno solo che è stress”, ma alla fine la dottoressa Deborah mi convinse a prendere
una decisione irrevocabile e chiamare un dottore. La sera della nostra partenza, a Jackie
venne diagnosticato un cancro in stadio terminale (i dottori lo chiamavano cancro, ma si
trattava sicuramente di un cuore infranto), ed ebbe inizio un secondo incubo.
A Toronto incontrammo Steven, il fratello di Jackie, che presto assunse il controllo della casa tenendo sotto controllo il numero di visitatori (che lo chiamavano
“il Portinaio”) e si prese cura del benessere di Jackie, dato che io ero caduto preda
di una specie di “sindrome di autodifesa”, un rifugio costruito da alcol e medicinali.
Nonostante tutto, Jackie apprese la notizia quasi con gratitudine – come se questo fosse l’unico destino accettabile per lei, l’unico prezzo che potesse pagare. Dopo
mesi di infelicità, disperazione e rabbia (solitamente rivolta contro di me, visto che
ero più a portata di mano), dopo la diagnosi non pronunciò mai una parola ostile e
raramente piangeva. Per lei, la malattia era una specie di terribile giustizia. Per me,
tuttavia, era solo terribile. E insostenibile.
Dopo due mesi di dissolutezza a Toronto, mi ricomposi ed esaudimmo il desiderio di Jackie di partire per le Barbados. Due anni prima avevamo passato una
memorabile vacanza in famiglia su quella piacevole isola-nazione, che offriva servizi
medici sufficienti per permetterci di continuare a fornire assistenza in casa a Jackie,
anche quando cominciò il declino netto e il bisogno di ossigeno si fece costante
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< IN ESILIO >
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mentre lei svaniva sia mentalmente che fisicamente, finché una serie di infarti la
portò a una fine relativamente clemente.
Esausto e desolato, volai a Toronto e vi rimasi il tempo necessario per sistemare
la casa da mettere in vendita, con l’aiuto della mia famiglia e degli amici, poi me ne
andai alla casa sul lago, ancora inconsapevole di quello che avrei fatto. Prima di morire,
Jackie mi diede un’idea, dicendo: “Beh, viaggerai con la tua moto”, ma a quel tempo
non potevo neanche immaginare di farlo. Ma più i lunghi e vuoti giorni di quell’oscura
estate passavano lentamente, più mi sembrava che fosse l’unica cosa da fare.
Non avevo un reale motivo per andare avanti; non avevo nessun interesse riguardo la vita, il lavoro o l’aldilà, ma a differenza di Jackie, che sicuramente aveva desiderato la propria morte, io sembravo armato da una specie di istinto di sopravvivenza,
un riflesso interiore che si aggrappava alla convinzione che “qualcosa sarebbe successo”. Per qualche specie di forza (o difetto) di carattere, non sembravo chiedermi
“perché” avrei dovuto sopravvivere, ma solamente “come” – sebbene a quel tempo
fosse certamente una domanda difficile da porsi.
Mi ricordo di aver pensato: “Come si può superare qualcosa del genere? E se ci
si riesce, che tipo di persona si diventa?”. Non lo sapevo, ma durante quell’oscuro
periodo di dolore, pena, desolazione e disperazione totale, qualcosa in me sembrava
determinata ad andare avanti. Qualcosa sarebbe successo.
O forse era qualcosa di più simile alla frase della donna mormona: “L’unica ragione per la quale sono viva è che non potevo morire”.
Ad ogni modo, stavo sistemando la mia motocicletta per cercare di capire quale
tipo di persona sarei diventato e in che tipo di mondo avrei vissuto. Durante il
primo giorno di viaggio, mentre solcavo l’autostrada scivolosa a nord verso il volto
roccioso del Quebec, la mia fragile risolutezza venne messa alla prova alcune volte.
Teso e tremante, mentre cercavo una possibilità di sorpasso tra i turbolenti spruzzi
di acqua provenienti da un camion di legname, più di una volta pensai di finirla lì.
“Chi ha bisogno di questo viaggio? Non mi sto divertendo e non credo di essere
abbastanza forte per gestire questa situazione in questo momento. Perché non me
ne torno indietro, vado alla casa sul lago e mi nascondo lì ancora per un po’?”.
No. Sarebbe stata una strada troppo pericolosa.
Quando mi decisi a prendere in considerazione l’idea di tornare indietro, il pensiero che mi tenne sulla strada fu: “E poi?”. Ho provato per più di un mese a vivere
lì da solo, con qualche visita sporadica di amici per cercare di distrarmi dai miei
pensieri, eppure continuavo a sentirmi sprofondare in quell’oscuro e profondo buco.
Svariati stimolanti e tranquillanti mi aiutavano a superare i giorni e le notti, ma
come avevo scritto recentemente a un amico: “Quelli sono un perfetto palliativo
temporaneo, ma questa non è vita”.
Avevo provato a isolarmi in tutti i modi, ma era venuto il tempo di provare a
tirare fuori il mio lato gitano. Cercavo solo di non pensare a cosa sarebbe successo
se non avesse funzionato.
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
[20 agosto ’98]
Argh. Fa freddo ed è umido. Ho pranzato a Cadillac, in Quebec. Nelle ultime ore
è scesa una forte pioggia, il traffico è sorprendentemente intenso. I camion ruggiscono
ornati da creste d’acqua. Il paesaggio? È oscuro, umido, uggioso – come me. Lo Scudo
Laurenziano è parecchio inzuppato, ci sono stati straripamenti sporadici. Da queste
parti, Val d’Or e Noranda, ci sono miniere e fabbriche ovunque. Questa mattina
c’erano circa 10°C, per il momento non c’è altro da segnalare.
Durante l’attraversamento dell’Ontario, la pioggia diminuì ma la giornata rimase
fresca e alla fine cercai riparo al Northern Lites Motel a Cochrane. 850 chilometri
erano abbastanza per una giornata del genere. Mentre versavo un po’ di scotch Macallan dalla fiaschetta al bicchiere di plastica, sentii il suo calore pervadermi e, nel
frattempo, appesi l’attrezzatura da viaggio umida nella stanza.
In doccia ripensai a Cochrane, cittadina isolata ai margini del confine nord
dell’Ontario e riaffiorarono dei ricordi di un concerto che avevamo fatto qui a metà
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Viaggiare è sempre stata una condizione naturale nella mia vita, non solo perché
era indispensabile per un musicista che ha passato gli ultimi 23 anni in tour con i
RUSH, ma anche come metodo per fuggire da quello stesso ambiente. Durante i
tour, ho solcato le strade di Cina, Africa, Europa e del Nord America, prima in bicicletta e più tardi in moto, e quella specie di viaggio in solitaria aveva instillato nella
mia immaginazione un senso di curiosità e sfida.
Sin dal principio ero solito tenere dei diari durante i miei viaggi, e quando tornavo a casa li usavo per concretizzare il mio interesse verso la scrittura in prosa, sperimentando diversi metodi di approccio al racconto di un viaggio. Il mio interesse per
la parola scritta era iniziato con la composizione dei testi per la band, ed era stato
sostenuto dalla scrittura di lettere e sfociato in un vero amore per la concatenazione
di parole su una pagina. Mentre continuavo ad esercitarmi con i racconti di viaggio,
ne stampavo qualche copia per gli amici e compagni di scorribande e sono arrivato
a realizzarne privatamente circa 5 volumi sino al 1996, quando mi sono sentito
pronto per pubblicarne uno sul serio: The Masked Rider, riguardante un mio viaggio
in bicicletta in Africa occidentale.
Ultimamente, però, non mi ero dilettato molto nella scrittura di alcun genere,
tranne alcune lettere ad amici lontani. Ma durante il nostro soggiorno a Londra, la
dottoressa Deborah mi aveva incoraggiato a cominciare a scrivere quotidianamente
un diario con delle “lettere per Selena”, e quella si era dimostrata una buona terapia.
In questo tentativo di iniziare un nuovo tipo di viaggio (pieno di propositi, ma senza
scopi), dubitavo che avrei sentito la vecchia necessità di documentare quello che
vedevo e sentivo, e non avevo neanche la minima idea di trasformare questo triste
viaggio in un libro. Ma così, casomai mi fosse venuta la voglia, mi portai un piccolo
taccuino nero, e il primo giorno scrissi una nota sperimentale:
< IN ESILIO >
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degli anni ’70. Dopo aver guidato tutta la notte da Winnipeg, suonammo la scaletta
per una spruzzata di applausi e, alla fine del concerto, abbandonammo il palco credendo che fosse finita lì. Tuttavia, quando raggiungemmo il camerino, il promoter,
un franco-canadese tarchiato e peloso chiamato “Hunk”, entrò di corsa, angosciato
dal fatto che non avessimo fatto nessun bis. Diceva che il nostro agente gli aveva
promesso che l’avremmo fatto.
Reclamammo che il bis è solitamente una richiesta di un’altra canzone da parte
del pubblico e che quella sera non vi era stata nessuna reazione che ci indicasse un
desiderio di quel tipo. Hunk, ancora più sconvolto, disse con il suo forte accento
francofono: “Non ho mai pensato che i RUSH mi avrebbero fatto questo!”. Noi ci
guardammo, alzammo le spalle e tornammo sul palco. Il pubblico stava aspettando
pazientemente, suonammo un’altra canzone e tutti se ne andarono a casa. Nessuno pareva particolarmente esaltato, ma tutti sembravano soddisfatti. Sapevamo
che tutti in città erano al corrente di quanto venivamo pagati (probabilmente un
migliaio di dollari), e che il nostro agente aveva promesso ad Hunk un bis. Dopo
aver ritirato gli strumenti e averli caricati sul camion, sette di noi della band e dello
staff si ammassarono in una station wagon a noleggio e guidammo tutta la notte
verso Toronto.
Cochrane. Hunk. Fantasmi.
Mi sembrava tutto così lontano e così distante, parte di un’altra vita. Persino dopo
la mia prima terribile perdita sentivo di non avere più alcun desiderio di lavorare con
la band, e il giorno del funerale di Selena dissi ai miei colleghi dei RUSH, Geddy e
Alex (eravamo tutti in lacrime), che dovevano considerarmi “in pensione”. Non mi ero
minimamente preoccupato di chiedermi se potessi “permettermi” di non lavorare più;
era semplicemente impensabile. Dopo 23 anni insieme, Geddy e Alex furono degli
amici leali e premurosi durante questa concatenazione di incubi e furono, ovviamente,
di grande sostegno e comprensivi riguardo a qualsiasi cosa avessi deciso di fare. Ora
che stavo cercando di sostenere il peso di un’altra insostenibile tragedia, avevo ancora
meno ragioni per preoccuparmi del futuro – se mai avessi avuto un futuro.
Ovviamente non provavo il benché minimo interesse nel suonare la batteria o
nello scrivere testi per canzoni rock. Prima della notte in cui il mondo mi sarebbe
crollato addosso, stavo lavorando a un libro sulle avventure in motocicletta che avevo avuto insieme al mio amico Brutus durante il tour appena terminato dei RUSH,
Test for Echo, e ora non potevo pensare neanche di riprendere in mano quel progetto.
Quella notte, a Cochrane, mi rifugiai ancora una volta nei miei appunti di viaggio, mentre sedevo nella sala da pranzo del Northern Lites di fronte al mio luccio
fritto (solitamente il più gustoso fra i pesci d’acqua dolce, ma non in questo caso).
Gli altri commensali erano due coppie di pensionati che si meravigliano di provenire da due città dell’Ontario, Brantford e Petersborough, che distavano due ore l’una
dall’altra. Una delle due signore si sentì addirittura in dovere di osservare quanto
fosse piccolo il mondo.
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
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Uno degli uomini cercò anche di essere socievole con il commensale solitario e,
sporgendosi verso di me, disse: “Lei è tremendamente silenzioso, sa?”.
Colto di sorpresa, mi vennero in mente circa una dozzina di risposte possibili,
tutte vere, ma alcune di queste avrebbero dato un taglio netto alla conversazione.
Alla fine feci una timida risatina, feci un cenno verso la mia cena e dissi: “Oh... è
tutto a posto”.
Poi scrissi sul diario: “I pericoli della solitudine, numero 1: le persone ti parlano.
Io preferisco ascoltare”.
La mattina seguente continuai ad attraversare l’Ontario occidentale, in strada
dall’alba fino al tardo pomeriggio, fermandomi solo per fare benzina e per sporadiche pause sul ciglio della strada per sgranchirmi un po’ le ossa e fumare una sigaretta.
Continuavo a muovermi, spaventato all’idea di fermarmi per troppo tempo, terrorizzato dall’avere del tempo per pensare. Guidare una moto in completa concentrazione, dedicare un’attenzione scrupolosa alla strada in costante cambiamento e al
traffico erano sufficienti per mantenere occupata la maggior parte del mio piccolo
cervello.
La mia mente veniva cullata dal movimento, la vibrazione continua, i dossi e le
curve provocavano un effetto di trance e il mondo mi veniva incontro, miglio dopo
miglio, ora dopo ora.
Qualche tempo prima, quella stessa estate, mentre riflettevo sul naufragio della mia vita, avevo deciso che la mia missione sarebbe stata quella di proteggere
una certa sostanza dentro di me, una scintilla scoppiettante di vita, proteggere uno
spirito affievolito come se tenessi le mie mani attorno alla fiamma di una candela
in procinto di spegnersi. Nelle lettere avevo cominciato a chiamare quella scintilla
rimanente “la mia piccola anima” e il mio compito adesso, avevo deciso, era quello
di allevare quello spirito al meglio che potessi.
La mia piccola anima non era una bambina felice, ovviamente, con molto di cui
lamentarsi ma, come impara ogni genitore, un bambino irrequieto spesso si calma se
viene portato in giro. Imparai così che, il mio spirito urlante poteva essere calmato
allo stesso modo, con il movimento, e fu così che decisi di partire per questo viaggio
verso l’ignoto. Per portare a spasso la mia piccola anima.
Arrivato nel Quebec da Toronto, dopo che tutto il resto se n’era andato, non
avevo molto interesse nel mondo che mi circondava. Non mi piaceva niente, non
mi importava di niente e non volevo fare niente. Il primo accenno di un possibile
capovolgimento della situazione arrivò un pomeriggio mentre ero seduto sul molo
con un bicchiere di Macallan in una mano e una sigaretta nell’altra. Ben più distante
da dove mi trovavo, verso l’estremità dello scintillante lago, vicino ad una delle isole,
i miei occhi incrociarono due a scogli a forma di cuneo che uscivano dall’acqua.
Quei due scogli mi avevano sempre ricordato due oche una di fronte all’altra e, per
qualche motivo, la mia piccola anima decise di dare loro un significato. Una voce
nella mia testa diceva: “Vedi, ti piacciono ancora quegli scogli”.
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< IN ESILIO >
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Le mie sopracciglia si sollevarono a quella scoperta: mi piaceva qualcosa; potevo
costruire un nuovo mondo partendo da quei due scogli. Un mondo nel quale la
mia piccola anima sarebbe stata in grado di sopportare la vita, che includeva tutto
quello che mi era successo, un mondo molto diverso da quello che avevo vissuto in
passato. Tuttavia, stavo ripartendo dalle basi, dalla Terra, e ora che stavo viaggiando
verso ovest cominciavo anche a rispondere al paesaggio che mi circondava, le aspre
scogliere e le foreste attorno al Lago Nipigon e la costa settentrionale del Lago
Superiore.
Anche se non riuscivo a provare la gioia di un tempo per quel panorama magnifico, almeno riuscivo di nuovo a comprenderlo, a sentire la bellezza intorno a me e ad
essere curioso di come sarebbe sembrata la prossima tappa sulla mappa.
Ma mentre guidavo verso quella tappa sulla mappa, la mia serenità, i miei pensieri e la mia musica interiore vennero interrotti bruscamente dal più terribile dei
suoni. Nonostante i tappi per le orecchie, il casco e il rumore del vento, non c’era
possibilità di errore nel riconoscere quel rumoroso strillo, un misto tra un grido e
un belato elettronico, e i miei occhi balzarono sullo specchietto retrovisore che era
illuminato da un insistente flash rosso e blu proveniente da dietro la mascherina
di una macchina della polizia locale. Accostai sul ciglio della strada imprecando e
rimasi a cavalcioni sulla moto. Il poliziotto venne verso di me, stese la mano e disse:
“Posso avere il suo radar detector, per favore?”.
Reclamai sconvolto: “Ma doveva essere irrintracciabile!”.
Lui scosse la testa: “Non dovrebbero permettere ai venditori di dire delle simili
sciocchezze. Qualcuno dovrebbe arrestarli. Ho capito che era uno di quelli ‘irrintracciabili’ perché emanava uno strano segnale”.
Accidenti. Poi venne il peggio. Mentre controllava la mia patente dell’Ontario,
vidi che la sua testa fece un leggero sobbalzo, e poi si avvicinò a me. Sbirciò dentro
al casco, stava sorridendo. “Lei è un musicista?”.
Rovistai di nuovo nella mia lista delle risposte, cercando un diversivo credibile
(non è facile dare risposte ad un uomo con un’uniforme e una pistola).
Alla fine mormorai: “Ehm... non più”.
Si fermò un attimo, mentre controllava l’assicurazione e la carta di circolazione.
“Quindi lei è stato musicista?”.
“Ehm... anni fa”.
Seguitò a parlare di un posto a Toronto dove aveva vissuto e che era, a quanto
pare, vicino a qualcosa che avrebbe dovuto essere familiare al tipo di persona che
pensava che fossi, ma io stavo ancora ricercando risposte alternative sulla mia lista
delle risposte.
“Sono stato parecchie cose”.
Ultimamente avevo scritto ad uno dei miei amici: “Non so chi sono, che cosa
sto facendo o che cosa dovrei fare”. Il tempo avrebbe dato la sua risposta, potevo
solo sperare e, se è vero che il tempo lenisce le ferite, allora, la cosa migliore che
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< IL VIAGGIATORE FANTASMA >
The road unwinds toward me
What was there is gone
The road unwinds before me
And I go riding on
It’s my turn to drive
DRIVEN 1996
[La strada si estende verso di me
Quello che c’era non c’è più
La strada si estende davanti a me
E io continuo ad andare
È il mio turno di guidare]
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potessi fare era cercare di farlo passare nel modo più indolore possibile, cercando di
minimizzare i desideri distruttivi e stando alla larga dalla casa sul lago per un po’ di
tempo.
Lasciare passare il tempo. Portare a spasso la mia piccola anima.
Il poliziotto finì di scrivere la multa e io ripartii per la mia strada.
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Capitolo 2
VERSO OVEST
What a fool I used to be
PRESTO, 1990
P
[Che scemo che ero]
rima che l’alba raggiungesse Thunder Bay e la sponda occidentale del Lago
Superiore, portai le borse e il casco nel parcheggio dell’hotel. Mi fermai vicino
alla moto per ammirare la spettacolare apparizione dell’aurora boreale – veli scintillanti di luce verdastra che drappeggiano i cieli del nord. Viaggiando tra le foreste
dell’Ontario nord-occidentale, la strada solitaria gettava sul mio umore il suo ipnotico e rassicurante effetto. Il ronzio fisso del motore, il rumore costante del vento,
l’aria profumata di foresta e lo sguardo fisso sulla strada di fronte a me occupavano
la maggior parte dei miei sensi, mentre la mia mente, oltrepassando le funzioni di
monitoraggio, vagava nei meandri della memoria.
Il fantasma del Natale passato mi riportò ad un nevoso dicembre del 1993, qualche giorno prima di Natale. Selena, Jackie e io trascorrevamo la maggior parte
dell’anno a Toronto, ma eravamo soliti passare le estati e le vacanze alla casa sul lago
nel Quebec e, per la nostra famiglia piccola e unita, il Natale era un periodo speciale.
La neve era caduta copiosa quell’inverno e superava i due metri sia nei boschi che
nelle vicinanze del lago ghiacciato. La casa era stata decorata minuziosamente sia
dentro che fuori, con lucine appese sugli alberi pieni di neve e il salotto dominato da
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