PRIMA PARTE Famiglie fragili a cura di Elisabetta Carrà

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PRIMA PARTE Famiglie fragili a cura di Elisabetta Carrà
PRIMA PARTE
Famiglie fragili
a cura di Elisabetta Carrà
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Direzione scientifica
Giovanna Rossi
Coordinamento
Elisabetta Carrà
Gruppo di ricerca
Marta Bonadonna, Valentina Calcaterra, Cristina Giuliani, Francesca Maci, Matteo Moscatelli, Costanza Marzotto, Paola Pavesi, Sabrina Re, Mariettina Ressico
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1. INTRODUZIONE
L’area della fragilità delle famiglie con figli minorenni è molto sfaccettata e le intersezioni tra le
diverse problematiche sono frequenti e complesse.
Il gruppo di ricerca si è focalizzato in particolare su 3 ambiti, scegliendo le problematiche per
le quali è maggiormente evidente la necessità di sperimentare soluzioni innovative, che si distinguano per la capacità di vedere i soggetti da una prospettiva “relazionale” e “familiare” e
non individualistica o settoriale:

famiglie con minori in tutela o a rischio di allontanamento

famiglie in cui i genitori sono separati/divorziati

famiglie migranti
Nel primo ambito (famiglie con minori in tutela o a rischio di allontanamento), le ricerche e la letteratura sia nazionale sia internazionale hanno messo in evidenza come sia urgente realizzare
interventi di promozione delle relazioni familiari, per prevenire le situazioni in cui non c’è altra
soluzione che l’allontanamento dei figli minori o, quando questo si è già verificato, per favorire
quanto più possibile la ricomposizione del nucleo familiare. In Italia, sono ancora pochi i servizi che non si prendono cura solo del minore, ma dell’intero nucleo familiare: prevalgono le situazioni in cui sono soggetti/servizi diversi ad occuparsi del minore e della sua famiglia, senza
un effettivo interscambio e lavoro comune. In questo senso, appaiono particolarmente interessanti i casi in cui attualmente vengono sperimentate metodologie di lavoro sul nucleo familiare, considerandolo una risorsa e non qualcosa da cui il minore deve essere sempre e solo
tutelato.
Nel secondo ambito (famiglie in cui i genitori sono separati/divorziati), è sempre più evidente
che la separazione e il divorzio sono eventi che non possono essere trattati solo da un punto
di vista legale, ma che necessitano per tutti i soggetti coinvolti di un sostegno specifico, che
abbia come obiettivo principale quello di valorizzare le relazioni pur difficoltose tra i diversi
soggetti coinvolti. Le esperienze più interessanti in questo senso sono quelle di servizi che offrono una pluralità di interventi e affiancano alla ormai abbastanza diffusa mediazione familiare, altre iniziative che promuovono l’auto-mutuo-aiuto in varie forme e tra tipologie diverse
di soggetti: i Gruppi di parola, a cui partecipano i figli o i genitori con i figli e in alcuni casi anche i nonni; oppure gruppi di mutuo-aiuto per genitori separati o nella fase della separazione.
Nel terzo ambito (famiglie migranti), appare sempre più urgente implementare percorsi
d’intervento del tutto innovativi, che sappiano uscire dalle metodologie standardizzate dei
servizi tradizionali, che non riescono a includere la complessità di situazioni in cui la diversità
culturale ha implicazioni fortissime nel rispondere a bisogni, spesso del tutto inusitati: sono
numerosissime le iniziative che stanno sorgendo ed è particolarmente interessante studiare
quelle che riescono a cogliere la dimensione familiare di problematiche che finora sono state
affrontate in ottica individuale. Così, servizi che fanno leva sulla famiglia per ricostruire la rete
relazionale dei migranti appaiono particolarmente interessanti, riferendosi alla relazione familiare come risorsa chiave per l’integrazione.
1.1. PIEMONTE E LOMBARDIA: DUE REGIONI VICINE, MA NON TROPPO
La ricerca si è focalizzata su due regioni del Nord Italia limitrofe, con caratteristiche culturali
non troppo distanti, con l’obiettivo anche di confrontare – seppur in modo superficiale – orientamenti, punti di forza e di debolezza delle vigenti politiche familiari
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Lombardia e Piemonte, pur avendo caratteristiche territoriali piuttosto simili, hanno una differente impostazione delle politiche familiari, che sfocia in una marcata differenza organizzativa
e di attribuzione dei compiti.
Diverse sono anche le caratteristiche socio-demografiche di cui la Tabella 1 – sulla base dei dati riportati nel Dossier famiglia 2010 dell’Istat – fornisce un quadro sintetico, soffermandosi su
alcuni indicatori particolarmente interessanti per comprendere la situazione delle famiglie nei
due territori del Nord-Ovest.
Tabella 1 – Alcuni indicatori socio-demografici delle Regioni Piemonte e Lombardia
Piemonte
Lombardia
Popolazione
4.446.230
9.826.141
Superficie
25.399,83
23.862,85
Densità
175
412
N. medio componenti famiglie
2,21
2,30
N. convivenze
2.633
3.419
Famiglie in casa di proprietà
73,1
76,7
Quoziente nuzialità - 2008
3,7
3,5
N. Medio figli per donna - 2008
1,39
1,50
N. Separazioni concesse per 100 coniugati - 2008
345,9
290,5
Famiglie con 1 componente
31,7
28,8
Coppie con figli
32,7
38,4
Coppie senza figli
24,2
22,3
Famiglie monogenitore
8,4
8,3
Coppie con uno solo figlio minore per 100 coppie con figli minori
59,1
55,9
Coppie con tre o più figli minori per 100 coppie con figli minori
5,7
6,3
Coppie non coniugate senza figli per 100 coppie non coniugate
53,2
57,3
Coppie ricostituite senza figli per 100 coppie ricostituite
44,5
42,1
Famiglie con almeno un minore
24,4
27,0
Persone che hanno dato aiuti non retribuiti ad altre famiglie (per 100 persone>14 anni)
23,8
29,4
Famiglie che ricevono aiuti
14,7
16,4
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Tabella 2 – Spese per i servizi sociali (Istat, 2008)
Spesa per Famiglie e minori
Piemonte
Lombardia
37,5
42,3
Spese settoriali

anziani
22,0
20,1

disabili
22,4
21,6

immigrati
3,1
2,5

multiutenze
8,1
6,4

altro
6,9
7,1
Totale
100,0
100,0
Spesa media pro capite per interventi e servizi sociali
139,1
120,1
Veniamone brevemente i punti salienti.
Su una superficie poco più grande di quella della Lombardia, in Piemonte vive meno della metà della popolazione e delle famiglie; in proporzione è maggiore il numero di convivenze.
Alcuni segnali possono essere interpretati come indice di una maggiore “sofferenza” delle famiglie piemontesi.

Innanzitutto il Piemonte fa registrare un tasso di disoccupazione giovanile elevatissimo e in
crescita, superiore di ben 2,6 punti percentuali rispetto alla Lombardia, dove è in diminuzione;

anche le famiglie in case di proprietà sono di meno che nella regione confinante.

Le famiglie sono più piccole:
-
hanno un numero medio di componenti inferiore,
-
è maggiore la quota di famiglie con un solo componente,
-
sono di più le coppie senza figli,
-
quelle con un solo figlio,
-
di meno le coppie con tre o più figli,
-
inferiore, di conseguenza, il numero medio di figli per donna (1,39 contro 1,50) e il numero di famiglie con almeno un minore.

Non si tratta solo di famiglie piccole, ma anche deboli, se in Piemonte si registra il più altro
tasso di separazioni e di divorzi d’Italia (346 separazioni per 100 coniugati, contro 290 della
Lombardia), pur in diminuzione dal 2003 al 2008 (-12,0), ma di entità inferiore a quella
lombarda (-18,7).

Un altro dato, rilevato però nella precedente indagine multiscopo (2003), aggiunge un elemento significativo al quadro fin qui delineato – che mostra rilevanti differenze tra le due
regioni confinanti: in Piemonte le famiglie si aiutano di meno, lo scambio di supporto è più
limitato; sia la quota di persone che danno aiuti a famiglie, sia quella di famiglie che ricevono aiuti è inferiore in Piemonte.
Emerge, dunque, un quadro piuttosto diverso per le due Regioni, più critico per le famiglie
piemontesi, che induce a riflettere sulle politiche familiari che sono state messe in atto e sulla
tipologia di servizi offerti nell’ambito dei due modelli di welfare.
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Alcune – pur molto superficiali e limitate – indicazioni su questi due aspetti possono essere
desunte da alcuni dati forniti dall’Istat sulla spesa per i Servizi sociali. Sempre la Tabella 1 mostra che il Piemonte risulta complessivamente più generoso (una spesa di € 139 a fronte degli
€ 120 lombardi), ma poi, osservando la ripartizione di tale quota per tipologie di soggetti, è evidente come nella regione piemontese essa sia improntata ad una logica decisamente più
settoriale: a famiglie e minori presi complessivamente è destinata una quota decisamente più
bassa che in Lombardia, rispetto invece alle categorie singole (quali anziani, disabili, immigrati,
multiutenze) che ricevono in proporzione più attenzione. È forse questa la più immediata e visibile conseguenza dell’assenza di una legge regionale sulla famiglia e di un’organizzazione
ancora molto centralistica e scarsamente orientata ad una sussidiarietà di tipo orizzontale,
12
come del resto una recente delibera del Giunta regionale riconosce: “Il sistema di welfare in
Piemonte è forte di un’elevata componente pubblicistica, rappresentata da n. 56 soggetti istituzionali, Comuni singoli e associati, Comunità montane e Consorzi di Comuni, che offrono
prestazioni e servizi socio-assistenziali ai cittadini piemontesi gestiti prevalentemente in maniera diretta, a fronte di una limitata applicazione dei principi della sussidiarietà orizzontale
tra pubblico e privato e del principio di libera scelta del cittadino del fornitore di servizio”. Il Piano di Zona, lo strumento che potrebbe orientare alla sussidiarietà attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti, pubblici e di privato sociale nella progettazione delle politiche sociali, ha
una scarsa rilevanza nella regione piemontese, essendo subordinato alla forma organizzativa
degli Enti gestori dei servizi socio-assistenziali (Comuni singoli o associati) che erogano in forma diretta le prestazioni e, non avendo nei propri statuti un chiaro orientamento ad assumere
come destinatario degli interventi la famiglia, anziché l’individuo. Uno dei servizi che dovrebbe
essere garantito da ciascun Ente gestore è il Centro per le Famiglie, sempre a gestione pubblica, che offre interventi quali la mediazione familiare o iniziative per promuovere la partecipazione e la mutualità tra i genitori. In Piemonte, dunque, c’è una visibilità e un riconoscimento
del ruolo del terzo settore nel welfare plurale decisamente più scarsi che nella vicina Lombardia, che invece – da un decennio a questa parte – ha fatto della promozione del privato sociale
e, in particolare, dell’associazionismo familiare uno dei pilastri del welfare regionale, avvalendosi di strumenti quali il finanziamento di progetti e l’accreditamento per ridurre notevolmente la gestione diretta da parte del pubblico dei servizi per le famiglie. Il momento di svolta è
rappresentato in particolare dalla l.r. 23/99 “Politiche regionali per la famiglia” che – pur con i
suoi limiti – ha avviato un processo di rinnovamento e riorientamento delle politiche sociali in
chiave familiare. I dati a disposizione sono troppi limitati e superficiali per poter essere letti
nell’ottica di una valutazione d’impatto, ciò non toglie che si possa comunque evidenziare che
in Lombardia dal 2003 al 2008 è in atto un trend relativo agli indicatori familiari prima presi in
considerazione, sensibilmente più positivo, che non si può del tutto escludere che non sia legato alla qualità delle politiche familiari messe in atto.
1.2.
RICOGNIZIONE DELLE “BUONE” PRATICHE
In ognuna delle 2 regioni e per i 3 ambiti considerati è stata svolta una ricognizione degli interventi e dei servizi per le famiglie, al fine di individuare tipologie o filoni innovativi e rilevare
anche punti di forza e di debolezza della rete di interventi. Tale analisi è stata poi collocata nel
quadro di alcuni dati di sfondo che entrano maggiormente nel dettaglio, relativamente alla situazione delle famiglie, per i 3 ambiti studiati.
12
DGR 14 – 714 del 29 settembre 2010, Approvazione di criteri transitori per la ripartizione del fondo regionale di cui
all’art. 35 della L.R. 8/1/2004 n.1 “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi
sociali e riordino della legislazione di riferimento”.
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La ricerca delle buone pratiche o presunte tali è sempre molto complessa ed è difficile individuare il metodo che consenta di farne emergere il più possibile: non trattandosi per definizione di servizi standardizzati, il più delle volte sfuggono alle normali prassi d’indagine. Spesso
operatori dello stesso territorio e del medesimo ambito non sono a conoscenza di interventi
che affrontano il problema da un altro punto di vista. Si è così deciso di procedere attraverso
due percorsi paralleli:

da una parte, sono stati individuati per ciascuna delle due regioni gli interlocutori “formali”
che avrebbero potuto essere maggiormente informati sulle esperienze innovative nei tre
ambiti presenti nel loro territorio; è stata inviata una mail:
-
per Piemonte e Lombardia, a tutte le Fondazioni prosociali e comunitarie; agli Osservatori sull’immigrazione; alle principali organizzazioni di terzo settore
-
per il Piemonte, a tutti i soggetti gestori delle funzioni socio-assistenziali (Consorzi, Comunità montane, Centri per le famiglie)
-
per la Lombardia, a tutti gli Uffici di piano e ai direttori sociali delle Asl
chiedendo di compilare una scheda informativa (in Allegato) per ognuna delle pratiche che
ritenessero opportuno segnalarci;

dall’altra parte, è stata realizzata una ricognizione sul web e attraverso tutti i possibili canali
informali che possono essere attivati per raccogliere informazioni.

La ricognizione ha fruttato complessivamente 72 schede (53 in Lombardia e 44 in Piemonte) più le 6 pratiche che sono state poi oggetto di studio, che sono sicuramente solo una
piccola parte di ciò che viene realizzato sul territorio, che forse è impossibile ricostruire
completamente, proprio per le caratteristiche intrinseche del welfare plurale in cui gli interventi non rientrano in un’offerta rigida e standardizzata, ma sono il frutto di iniziative
spontanee e capillarmente diffuse nelle comunità di vita. Certo è che il deficit di comunicazione, che impedisce alle “centrali” del welfare sia pubbliche (servizi territoriali, uffici di piano) sia di terzo settore (come ad esempio le fondazioni di comunità) di avere un quadro
preciso dell’offerta, rende molto complesso comprendere quali sono i punti di forza e debolezza nella risposta ai bisogni delle famiglie e ostacola anche il processo di creazione di
reti virtuose per rispondere alla problematiche complesse che le famiglie oggi presentano.
Sulla base dei risultati della ricognizione sono stati individuati 6 casi (2 per ambito, 1 per Regione) da studiare approfonditamente.
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2. DALLA TUTELA DEL MINORE ALLA PROMOZIONE
DELLE RELAZIONI FAMILIARI
a cura di Elisabetta Carrà
2.1. PREMESSA
Il percorso della tutela dei diritti dell’infanzia sta oggi attraversando una nuova fase, in cui
l’esigenza di protezione del minore viene connessa con quella di tutela e promozione delle sue
relazioni primarie, accogliendo una visione più ampia e meno individualista del benessere
personale (Bramanti, Carrà, a cura di, in press). Tutelare il minore e il suo benessere significa
sempre di più attuare interventi che prevengano l’allontanamento dal suo nucleo d’origine, attraverso un rafforzamento delle relazioni familiari e una valorizzazioni delle loro risorse. Tali
interventi di sostegno ed aiuto possono evitare che provvedimenti di allontanamento dei minori colpiscano nuclei che, se opportunamente aiutati, potrebbero dispiegare risorse autonome o cogliere opportunità impreviste (Di Blasio, 2007).
Circa i motivi che conducono all’allontanamento dei minori dalla loro famiglia, una ricerca di
Browne et al. (2004) che confronta i dati dell’Europa occidentale con quelli di altri Paesi europei, evidenzia posizioni differenti: in Europa occidentale, una larga maggioranza di bambini
(69%) si trova nei servizi di accoglienza residenziale a causa di abuso e negligenza, il 4% per
abbandono, il 4% a causa di gravi deficit fisici o psichici e il 23% per motivi sociali, quali ad esempio situazioni di malattia dei genitori, o genitori in carcere. La situazione appare ben diversa invece per il resto dell’Europa, in cui solo il 14% dei bambini è a carico dei servizi di accoglienza residenziali per abuso e negligenza, il 32% sono abbandonati, il 23% è portatore di
gravi disabilità, e il 25% sono orfani “sociali”, cioè accolti a causa di malattia dei genitori e incapacità parentale, e il 6% sono orfani. Tali risultati sono in linea con i risultati di un’altra ricerca
svolta da Every Child (Carter, 2005), secondo cui l’allontanamento del minore dalla famiglia
d’origine è associato a povertà e al cambiamento sociale in quei Paesi che stanno attraversando un periodo di transizione a livello economico.
Per molti anni, l’attitudine dei servizi sociali verso la famiglia d’origine del bambino preso in
carico è stata colpevolizzante: la famiglia veniva giudicata inadeguata e considerata la causa
dei traumi subiti dal minore, quindi vista come elemento solo negativo, da cui il bambino doveva essere separato (Hellinks, 2002). Anche l’utilizzo del termine “tutela” per qualificare i servizi che si occupano dei minori con famiglie in difficoltà (il Servizio Tutela italiano, ad esempio)
indica che l’intenzione non è tanto quella di “prendersi cura” di relazioni problematiche, ma di
difendere la parte più debole. Oggi sta gradatamente consolidandosi una prospettiva secondo
la quale la collaborazione con la famiglia naturale del bambino risulta essere un importante
obiettivo da raggiungere, per un benessere relazionale (Carrà, 2008) o “ecologico”, secondo il
modello elaborato da Brofenbrenner (1986), che comprende quello del minore e delle sue reti
di relazioni.
2.2. DALL’ESPERIENZA INTERNAZIONALE DUE FORME INNOVATIVE D’INTERVENTO
Anche a livello scientifico, ci si è resi conto che la voce delle famiglie, come quella dei bambini,
se ascoltata, può diventare un valido strumento (Colton, Roberts, & Williams, 2002). La riflessione internazionale è consapevole della necessità di ricercare nuove soluzioni per garantire
una più efficace tutela dei bambini e dei ragazzi che vivono in situazioni di rischio, in cui coesistono abbandono, disadattamento, grave emarginazione. È anche consapevole che va evitato
un uso indiscriminato dell’allontanamento, di cui non sempre si conosce l’effettiva utilità. È in-
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fatti necessario chiedersi se quanto viene realizzato è appropriato, se è collegato ai bisogni, se
non produce dipendenza assistenziale, e se non allontana la possibilità di interventi più efficaci. Bambini e famiglie che chiedono aiuto, sovente esprimono una multiproblematicità che ha
bisogno di essere valutata ed affrontata da un’ottica “relazionale” per trovare soluzioni davvero efficaci e in grado di produrre un vero benessere per i minori implicati.
In questo senso, un tema cruciale su cui la ricerca si sta orientando è senz’altro quello del lavoro svolto con le famiglie, sia nell’ambito della prevenzione, allo scopo di evitare l’escalation
di problemi e di effetti dannosi per lo sviluppo e il benessere dei bambini, sia nell’ambito del
sostegno, per il miglioramento delle competenze parentali. Un’adeguata prevenzione è il primo passo essenziale, e la costruzione di strumenti che aiutino gli operatori a migliorare
l’intervento precoce nelle famiglie a rischio di gravi problemi genitoriali, si rivela un utile supporto per la presa di decisioni. Le pratiche e i programmi di tipo “multisistemico” – come vengono generalmente definiti – si stanno moltiplicando e già un certo numero di studi ne provano l’efficacia.
Ne prendiamo qui in considerazione due a titolo esemplificativo: il primo, Family Group Conference, perché diffuso in un certo numero di paesi nel mondo, il secondo, Family Day Unit,
all’interno del Malborough Famliy Service.
2.2.1 IL MULTIFAMILY APPROACH, UNA METODOLOGIA DI LAVORO INTERNAZIONALE
di Valentina Calcaterra
Il trattamento Multifamiliare è una metodologia di lavoro con le famiglie multiproblematiche
che nasce a metà degli anni ’70 presso il Marlborough Family Service di Londra dal dr. Alan
Cooklin e in seguito promosso dal dr. Eia Asen.
L’approccio multifamiliare nasce dalla consapevolezza che le problematiche espresse dalle
13
famiglie definibili come multiproblematiche non derivano da difficoltà di natura solamente
psicologica, ma a queste, spesso, sono associate difficoltà nell’area delle competenze educative e relazionali.
L’approccio multifamiliare propone un modello di lavoro che vede al centro le famiglie considerate protagoniste principali dell’intero intervento. La metodologia di lavoro pone
l’attenzione in primo luogo alle risorse esperienziali e alle capacità che ciascun nucleo familiare porta e che possono scaturire dalla riflessione condivisa nell’incontro con altre famiglie che
vivono simili difficoltà. Le famiglie, che partecipano attivamente fin dalle prime fasi decisionali
dell’intervento, hanno la possibilità di sperimentarsi in contesti di vita quotidiana “buoni” in un
setting multifamiliare appositamente pensato. La metodologia prevede la possibilità che un
ristretto gruppo di famiglie (da 4 a 7 famiglie) frequentino contemporaneamente un ciclo in14
tensivo di day unit dove, condividendo alcune giornate in una dimensione di reciprocità, pos13
14
Secondo il modello qui presentato con il termine multiproblematiche ci si riferisce a quei nuclei familiari solitamente
seguiti dai Servizi Sociali pubblici a seguito di provvedimenti di allontanamento o affidamento all’Ente dei figli
minorenni emessi dall’Autorità Giudiziaria competente; famiglie che presentano contemporaneamente differenti
problematiche quali, a titolo esemplificativo, abuso fisico, sessuale ed emotivo, e negligenza - problemi cronici
relativi alla salute mentale - emarginazione sociale e altri problemi sociali, come povertà, disoccupazione,
discriminazione, alloggi inadeguati - abuso di alcol e altre sostanze - violenza, delinquenza - emarginazione e
fallimento scolastico.
Nel modello di lavoro multifamiliare è prevista l’organizzazione di un calendario di day unit, comprese nell’arco tra le
6 e le 10 settimane con l’indicazione di alcune giornate (dalle due alle tre giornate per settimana) in cui le famiglie si
ritrovano in un contesto “naturalistico” in uno spazio abitativo appositamente individuato, arredato con cucina e
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sano riscoprire le proprie competenze aiutandosi vicendevolmente nell’organizzazione e gestione della giornata e nel fronteggiare le difficoltà che emergono nella quotidianità della relazione genitori-figli. L’intervento, oltre che essere intensivo nel tempo, è multi-contestuale sia in
riferimento ai luoghi in cui si svolge come il Centro Multifamiliare, luoghi di vita delle famiglie
quali il loro domicilio, spazi di aggregazione pubblici, che per le modalità di lavoro in setting di
condivisione in gruppo di famiglie, per singoli nuclei familiari o per genitori da un lato e figli
dall’altro.
La proposta di partecipazione di una famiglia ad un progetto multifamiliare avviene, generalmente, su invito da parte dei servizi che la seguono. Prima dell’avvio del ciclo intensivo è pre15
vista la realizzazione di un network meeting iniziale che coinvolge i professionisti, la famiglia e
le figure significative indicate da quest’ultima. Obiettivo di questo incontro iniziale è, oltre alla
possibilità di riunire insieme tutte le persone interessate, la condivisione fin dall’inizio delle
preoccupazioni relative a quella determinata condizione familiare, sia ascoltando la voce dei
professionisti che il parere della famiglie stessa, per poi arrivare ad una “definizione” comune
del problema e all’individuazione di obiettivi concreti del lavoro sulla base delle aspettative e
del parere di tutte le persone coinvolte. Molta importanza è data alla possibilità di parlare apertamente, chiaramente e senza nessuna pre-conversazione segreta tra operatori, ma condividendo fin dal principio del percorso le informazioni con la famiglia e gli altri significativi rendendo le informazioni comprensibili a tutti. Gli incontri di rete allargati, con queste stesse attenzioni metodologiche, sono poi riproposti sia in fase di monitoraggio dell’intervento che in
fase di valutazione degli obiettivi. A seguito del network meeting iniziale con le famiglie, viene
definito il calendario degli incontri multifamiliari che generalmente è compreso tra le 6 e le 12
settimane.
Una giornata multifamiliare tipica segue questa scansione di attività:

gruppi multifamiliari all’inizio di ogni giornata nei quali ciascuno è stimolato a confrontarsi
con gli altri presenti sui desideri e sugli obiettivi concreti che ci si pone in relazione alle altre
famiglie e alla propria partecipazione,

realizzazione delle attività scelte insieme in differenti setting (per nuclei familiari, in gruppi
paralleli genitori - figli, come gruppo multifamiliare),

preparazione e pranzo in gruppo multifamiliare,

uscite in gruppo in contesti pubblici di socializzazione (supermercato, parco, oratorio, biblioteca, centro città, …),

gruppo multifamiliare alla fine di ogni giornata intensiva per riflettere su quanto fatto insieme e dare reciprocamente feedback (operatori e famiglie) che faciliteranno la partecipazione alle giornate successive.
La metodologia prevede poi la possibilità di organizzare incontri multifamiliari per i soli genitori al fine di riflettere sulle difficoltà incontrate con i propri figli e sulle strategie adottate o
possibili per farvi fronte, oltre che sui temi legati genitorialità individuati e condivisi dai partecipanti.
15
locali in cui svolgere attività multifamiliari, con famiglie singole, individuali o gruppi paralleli adulti – minori. Le
attività possono svolgersi anche in altri contesti quali il domicilio delle famiglie o luoghi pubblici di socializzazione
(parco, biblioteca, supermercato, musei, …).
L’intera metodologia di lavoro prevede che le decisioni vengano prese in un contesto relazionale allargato alla
presenza di tutti gli operatori, anche dei servizi specialistici, interessati e che seguono la famiglia, dei genitori dei
minori e di altre figure significative indicate dalla famiglia (altri parenti, conviventi, amici, …). Anche le verifiche
dell’andamento del progetto intermedie e finali vengono effettuate in un contesto allargato tenendo conto dei
differenti punti di vista e aspettative.
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Le famiglie sono accompagnate nell’intero progetto dalla presenza di operatori, con qualifiche
professionali differenti, il cui compito non è tanto intervenire tecnicamente a sostegno/sostituzione delle carenze dei singoli, quanto facilitare la relazione tra le famiglie e dare
feedback che aiutino a rileggere le dinamiche che nascono nel gruppo. Cambia quindi la posizione, da un lato, degli operatori, che da valutatori/risolutori delle difficoltà diventano accompagnatori e facilitatori; dall’altro delle famiglie che da utenti e fruitori di interventi di sostegno/controllo, quindi persone aiutate, diventano aiutanti delle altre famiglie in una posizione
di sostanziale parità. La presenza di altre famiglie che vivono simili situazioni di fragilità nella
cura e accudimento dei figli permette ai genitori e ai bambini o ragazzi di uscire da una situazione di isolamento e di etichettamento, di aprirsi ad un confronto scevro da giudizi e valutazioni e di promuovere dinamiche di auto-mutuo aiuto nel gruppo dei pari dando feedback e
trovando insieme soluzioni alle difficoltà che si creano nella vita di ogni giorno.
Gli obiettivi della terapia multifamiliare sono:

superare l’emarginazione

superare lo stigma

creare solidarietà

sostegno e feedback reciproco

creare punti di vista nuovi e molteplici

imparare l’uno dall’altro

coinvolgimento attivo dell’utente

dall’“aiutato” all’“aiutante”

sperimentare relazioni sostitutive

effetto serra

iniezione di speranza
Esperienze di lavoro con le famiglie multiproblematiche secondo l’approccio multifamiliare
sono diffuse in diversi contesti internazionali. Sette Paesi europei hanno presentato e ottenu16
to un finanziamento con fondi del Programma Daphne II annualità 2004-2008 per la realizzazione di un progetto di promozione e sviluppo dell’approccio. I partner del progetto sono
stati Belgio, Inghilterra, Germania, Danimarca, Francia, Polonia e Italia con l’esperienza del
Centro di Trattamento Multifamiliare dell’ASL di Milano. Ad oggi è stata riproposta una seconda progettualità all’interno del programma Daphne che vede, tra gli altri partner, anche
17
l’Italia.
In Italia sono ad oggi conosciute quattro differenti esperienze di attivazione di Centri Multifamiliari. Nel 2001 nasce a Milano il Centro Trattamento Multifamiliare dell’ASL Città di Milano,
esperienza chiusa nell’anno 2006. Nel 2004 il Centro del Bambino e della Famiglia dell’ASL di
Bergamo avvia un’esperienza simile, mentre nel 2008 anche il Comune di Sondrio parte con
un progetto di terapia multifamiliare. Nel 2009 a Varese nasce un nuovo Centro Multifamiliare
16
17
L’obiettivo del programma Daphne II è “sostenere le organizzazioni che sviluppano misure e azioni di prevenzione o di
lotta contro tutti i tipi di violenza verso bambini, giovani e donne, e per proteggere le vittime di gruppi a rischio”.
http://www.multifamilyassessment.net
Il progetto, che è stato selezionato tra quelli presentati per l’approvazione, è presentato in partnership tra diversi
Paesi Europei tra i quali troviamo anche l’Italia rappresentata dall’esperienza del Centro Multifamiliare di Varese e di
Sondrio. Il progetto si pone la finalità di promuovere l’implementazione della metodologia di lavoro multifamiliare
attraverso la creazione di un “manuale” da parte di una équipe di lavoro internazionale, che verrà poi tradotto e
diffuso nei singoli Paesi partecipanti.
53
dalla collaborazione tra l’Amministrazione comunale e la Cooperativa Sociale “La Casa davanti
al sole”, oggetto di studio della presente ricerca.
2.2.2 LE FAMILY GROUP CONFERENCE
di Francesca Maci
Le Family Group Conference rappresentano un modello d’intervento innovativo adottato prevalentemente nell’ambito della tutela minorile che ha trovato una significativa diffusione nel
panorama internazionale perché, abbracciando un approccio partecipativo alla soluzione dei
problemi (family decision making), si propone come un valido strumento per lavorare con le
famiglie (Morris, 2008).
Nascono in Nuova Zelanda in risposta alla necessità dei professionisti di trovare una modalità
differente, meno oppressiva, di lavorare con le famiglie Maori nell’ambito della protezione del
minore, che nel tempo si era caratterizzata per un’elevata conflittualità, legata ad una difficoltà
di reciproca comprensione delle differenti appartenenze culturali, essendo i social worker in
prevalenza bianchi. Il modello, sulla scia dell’esperienza neozelandese, si è successivamente
diffuso in 17 Paesi (Nixon, Burford e Quinn, 2005): le Family Group Conference sono utilizzate
in Gran Bretagna, in Irlanda, in molti Paesi del Nord Europa, in Canada, negli Stati Uniti e in
Australia.
In termini generali, si ricorre a una Family Group Conference quando si deve assumere una
decisione riguardante il benessere di un minore che si trova a vivere una situazione di rischio
o pregiudizio (Burford, 2010). Sinteticamente può essere definita come un incontro tra i componenti della famiglia, gli operatori della tutela minorile e altre persone legate al nucleo familiare volto ad elaborare un Progetto di tutela (plan) per la protezione e la cura del minore in
difficoltà.
L’idea di famiglia a cui si fa riferimento nelle Family Group Conference presenta confini ampi:
coinvolge, infatti, oltre ai parenti, anche gli amici, i colleghi, i vicini di casa e le altre persone
(insegnanti, allenatori…) che i genitori e il bambino sentono come significative all’interno della
loro vita e che potrebbero aiutarli.
Il carattere di novità di questo modello è rappresentato dalla concezione della tutela minorile
a cui fa riferimento, differente rispetto a quella normalmente diffusa all’interno dei servizi. Essa travalica il comune approccio specialistico, centrato sul sapere tecnico dell’operatore, per
aprirsi al coinvolgimento di altri attori e relazioni significative a partire dalla famiglia stessa.
Oltre alla famiglia, protagonista indiscussa del processo, diversi sono gli attori che prendono
parte alla Family Group Conference e collaborano attivamente alla sua realizzazione: fra questi un ruolo cruciale è ricoperto dal coordinatore (co-ordinator) e dall’operatore di advocacy (advocate).

Il coordinatore è il soggetto al quale viene affidata la regia del processo. Si occupa della gestione della Family Group Conference dall’inizio alla fine: dalla fase di preparazione
dell’incontro a quella di facilitazione vera e propria, con l’obiettivo di sostenere la famiglia
nel suo importante compito di progettazione. In senso generale, le sue azioni sono orientate al coinvolgimento del minore, della famiglia, degli operatori dei servizi e delle altre relazioni significative che potrebbero contribuire all’elaborazione del Progetto di tutela. La sua
caratteristica principale è quella dell’indipendenza; il coordinatore, infatti, non deve essere
coinvolto in altri procedimenti decisionali riguardanti la famiglia in questione. È importante
che sia considerato neutrale sia rispetto agli operatori del servizio di tutela minorile sia ri-
54
spetto ai familiari. Al coordinatore non sono richieste particolari competenze professionali,
bensì considerevoli abilità nelle relazioni interpersonali e qualità personali che lo portino
ad essere aperto, accogliente e fiducioso nelle capacità della famiglia di far fronte ai propri
problemi.

Altra figura rilevante è l’operatore di advocacy che nel corso della Conference svolge la funzione di affiancare e sostenere il minore e, laddove necessario, i suoi genitori. La finalità
principale del suo operato è quella di dare voce ai pensieri e alle opinioni dei bambini affinché vengano ascoltati e trovino un posto concreto nell’elaborazione del Progetto di tutela.
Può essere un professionista del servizio di Family Group Conference o un volontario.
18
Il modello delle Family Group Conference fa riferimento a specifiche linee guida , che, a partire
da alcuni principi ispiratori orientati ad affermare la centralità della famiglia, ne definiscono la
dimensione operativa. La finalità principale perseguita con la stesura di questo documento,
che a tutt’oggi resta un significativo e riconosciuto punto di riferimento per tutti coloro che
desiderano dar vita ad un progetto di Family Group Conference, è quella di garantire un buon
livello informativo alla famiglia rispetto a cosa sono e a come funzionano le Family Group Conference. Un’ulteriore obiettivo perseguito è quello di definire requisisti e standard di qualità
per la progettazione e implementazione di servizi in questo ambito.
Il processo della Family Group Conference è suddivisibili in quattro fasi distinte, ma strettamente connesse l’una con l’altra che, per la buona riuscita dell’intero percorso, richiedono
un’azione sinergica dei vari attori coinvolti (Figura 1).
Figura 1 – Le fasi del processo di Family Group Conference (Ashley et al., 2006, p. 9)
Segnalazione
Preparazione
Conference
 condivisione delle informazioni
 tempo riservato alla famiglia
 presentazione del Progetto di tutela e
accordo
Implementazione del Progetto di tutela
Monitoraggio del Progetto di tutela (review)

La segnalazione della famiglia
La segnalazione (referral) di una famiglia al servizio di Family Group Conference avviene ad
opera degli operatori del servizio di tutela minorile referente del caso, una volta conclusa la
fase della valutazione della situazione familiare e su espresso consenso della famiglia. Questa
18
Barnardo’s, Family Rights Group e NCH, ( 2002), Principles and practice guidance.
55
prima fase del processo è fondamentale perché è solo a partire dalla fiducia degli operatori in
questa modalità di lavoro orientata a valorizzare e nel contempo responsabilizzare la famiglia
che una Family Group Conference si può realizzare.

La preparazione
La fase di preparazione della Family Group Conference è considerata cruciale sia per la famiglia sia per gli operatori che vi parteciperanno. Il coordinatore lavora in stretta collaborazione
con il minore, la sua famiglia e con i servizi sociali segnalanti per identificare la rete familiare e
le persone che desiderano invitare all’incontro. Incontra i soggetti coinvolti per spiegare loro in
cosa consiste la Family Group Conference, il senso della loro presenza e per raccogliere il punto di vista dei minori, dei genitori e degli altri componenti della famiglia, ma anche le opinioni
dei professionisti coinvolti. Decide insieme ai partecipanti le questioni organizzative legate alla
data, all’ora e al luogo dell’incontro.

L’incontro vero e proprio
Questo step rappresenta il cuore dell’intero processo perché è il momento in cui tutte le persone interessate alla costruzione di una situazione di maggior benessere per il minore si riuniscono con l’obiettivo di elaborare un Progetto di tutela efficace e sostenibile in favore del minore e dei suoi genitori.

Apertura dell’incontro e condivisione delle informazioni (information giving)
Nel momento di avvio dell’incontro il coordinatore presenta tutti i partecipanti e ciascuno dei
presenti è chiamato a spiegare in che rapporto è con il minore di cui ci si deve occupare. I professionisti sottolineano gli elementi di rischio e pregiudizio che intravedono nella situazione, le
informazioni in loro possesso sulla famiglia, i loro compiti istituzionali e le risorse a disposizione per la realizzazione del Progetto di tutela. In questa fase vanno gettate le basi per la creazione di un clima sereno e accogliente, basato sulla collaborazione e il sostegno reciproco, dove tutti possano percepire di ricoprire un ruolo rilevante e paritario. In particolare, la famiglia
deve poter vedere gli operatori come figure che sono lì per aiutarla, piuttosto che per “investigare” o per “valutare” le sue azioni ed emettere un giudizio a favore o contro la sua capacità di
cura. Dopo l’apertura, il coordinatore si cura di esplicitare nuovamente la finalità dell’incontro,
dando spazio ad eventuali richieste di chiarimento. Inoltre, l’operatore referente del caso deve
ribadire i requisiti, già esplicitati nella precedente fase di preparazione, che il Progetto di tutela
dovrà presentare per essere approvato. Di seguito, si passa ad ascoltare le informazioni fornite da quei partecipanti (information givers) invitati alla Conference, in accordo con la famiglia,
che possono contribuire a chiarire e affrontare il problema presente perché coinvolti nella situazione attraverso interventi specifici.
Alla famiglia verrà garantito lo spazio necessario per porre delle domande agli operatori o al
coordinatore, in modo da capire bene il compito che la attende.

Tempo riservato alla famiglia (private time)
La famiglia viene lasciata sola nella stanza per delineare, in autonomia, un Progetto di tutela in
cui sia indicato concretamente come i membri potranno reciprocamente aiutarsi nel prendersi cura del bambino o del ragazzo. Il Progetto individuato deve tenere in considerazione le
questioni sollevate dall’operatore che ha segnalato il caso e le condizioni di tutela ritenute indispensabili e imprescindibili (bottom line) per il servizio di tutela minorile. Il coordinatore, in
questa fase, resta a disposizione della famiglia, che può richiedere il suo aiuto nel caso in cui si
trovi in difficoltà a procedere o abbia dei dubbi da chiarire.
56

Approvazione del Progetto di tutela
Terminata l’elaborazione del Progetto di tutela, le altre persone (coordinatore, advocate, operatori sociali della tutela minorile, information givers) presenti alla Conference rientrano nella
stanza per ascoltare le proposte della famiglia e discuterne insieme. Solitamente è necessario
un minimo di negoziazione prima di raggiungere un accordo e di avere l’approvazione da parte dell’operatore sociale referente della situazione. L’unico motivo che giustifica la non approvazione del Progetto di tutela da parte dei professionisti è la mancanza delle condizioni di sicurezza per il minore. Il coordinatore si premurerà di accertare che ciascuno abbia compreso
gli accordi presi e fornirà in tempi rapidi a ognuno una copia scritta del Progetto.

Monitoraggio e verifica del Progetto di tutela
Il Progetto di tutela deve specificare in che modo si procederà a monitorare lo stato di attuazione di quanto stabilito e a verificare come stanno “procedendo le cose”. Nel corso
dell’incontro verrà proposta alla famiglia la possibilità di fissare una Family Group Conference
di verifica (review) che avverrà con le stesse modalità della prima .
Le Family Group Conference rappresentano una possibilità concreta di valorizzare la capacità
della famiglia di assumere decisioni efficaci in grado di modificare la storia familiare: una famiglia, adeguatamente sostenuta da una rete di relazioni significative, fra cui quella con gli
operatori, diventa capace di occuparsi in maniera sufficientemente buona dei propri bambini.
2.3. DATI DI SFONDO SULL’ACCOGLIENZA E L’AFFIDAMENTO DEI MINORI CHE VIVONO “FUORI”
FAMIGLIA
di Matteo Moscatelli
Se è sempre più viva la consapevolezza che le problematiche delle famiglie fragili in cui sono
presenti minori possono essere affrontate prevenendo o evitando l’allontanamento di questi
ultimi dalla propria rete primaria, un rapido sguardo alle statistiche nazionali mostra che sono
ancora molto numerosi e in crescita i bambini e gli adolescenti che oggi in Italia vivono fuori
dal proprio nucleo familiare giudicato inadeguato da diversi punti di vista a garantire loro
condizioni di vita sufficientemente buone.
19
In questo paragrafo vengono presentati i dati su bambini e adolescenti che per motivi diversi
vivono fuori dalla famiglia di origine, illustrando la distribuzione nazionale, le caratteristiche
dell’accoglienza e dell’affido, le caratteristiche dei minori attraverso le informazioni raccolte
19
Circa i motivi che conducono all’allontanamento dei minori dalla loro famiglia, una ricerca di Browne et al (2004) che
confronta i dati dell’Europa occidentale con quelli di altri Paesi europei, evidenzia posizioni differenti: in Europa
occidentale, una larga maggioranza di bambini (69%) si trova nei servizi di accoglienza residenziale a causa di abuso
e negligenza, il 4% per abbandono, il 4% a causa di gravi deficit fisici o psichici e il 23% per motivi sociali, quali ad
esempio situazioni di malattia dei genitori, o genitori in carcere. La situazione appare ben diversa invece per il resto
dell’Europa, in cui solo il 14% dei bambini è a carico dei servizi di accoglienza residenziali per abuso e negligenza, il
32% sono abbandonati, il 23% è portatore di gravi disabilità, il 25% sono orfani “sociali”, cioè accolti a causa di
malattia dei genitori e incapacità parentale, e il 6% sono orfani. Tali risultati sono in linea con i risultati di un’altra
ricerca svolta da Every Child (Carter, 2005), secondo cui l’allontanamento del minore dalla famiglia d’origine è
associato a povertà e al cambiamento sociale in quei paesi che stanno attraversando un periodo di transizione a
livello economico.
57
dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, dall’Istat e
attraverso alcuni dati messi a disposizione dalle direzioni delle Regioni Piemonte e Lombardia.
Come premessa al quadro che stiamo per esporre, segnaliamo che i dati dell’Istat riferiti al 31
dicembre 2006 indicano, fra le motivazioni per cui in Italia un minore non vive nella propria
famiglia, ma è ospitato in “presidi socio-assistenziali” (che includono comunità educative e familiari, RSA, comunità socio-riabilitative e centri di accoglienza per immigrati), una netta prevalenza dei “problemi familiari e relazionali, economici, abitativi”, rispetto ad altre problematiche
quali gli handicap fisici, psichici o sensoriali, l’alcolismo e la tossicodipendenza o il coinvolgimento in procedure penali. Le difficoltà delle famiglie che portano all’allontanamento dei figli
dai genitori e dal proprio nucleo di convivenza sono, dunque, un problema sociale molto rilevante, che incide molto più di altri fattori nel determinare una rottura o, quantomeno, un indebolimento delle reti relazionali dei minori.
La tabella seguente, riferita alla data del 31 dicembre 2007, mostra il quadro di conoscenza
più aggiornato sulla dimensione e sulle caratteristiche dei bambini e adolescenti fuori famiglia
per le ragioni suddette (Tabella 3).
58
Tabella 3 – Bambini e adolescenti in affidamento familiare e accolti nei servizi
residenziali per Regione e Provincia autonoma. Al 31/12/2007
Bambini e
adolescenti
in affidamento familiare per
1.000 residenti di 017 anni
Bambini e
adolescenti
accolti nei
servizi residenziali per
1.000 residenti di 017 anni
Bambini e
adolescenti
fuori famiglia per
1.000 residenti di 017 anni
Bambini in
affidamento familiare
ogni bambino accolto nei servizi residenziali
Bambini e
adolescenti
in affidamento familiare
Bambini e
adolescenti
accolti nei
servizi residenziali
1.634
990
2.624
2,4
1,5
3,9
1,7
41
16
57
2,0
0,8
2,8
2,6
2.454
1.790
4.244
1,6
1,1
2,7
1,4
179
134
313
1,8
1,3
3,1
1,3
99
256
355
1,1
2,7
3,8
0,4
Veneto
793
880
1.673
1,0
1,1
2,1
0,9
Friuli-Venezia Giulia
166
453
619
0,9
2,6
3,5
0,4
Liguria
854
404
1.258
3,9
1,9
5,8
2,1
Emilia-Romagna
1.283
1.084
2.367
2,0
1,6
3,6
1,2
Toscana
1.397
774
2.171
2,6
1,4
4,0
1,8
Marche
309
358
667
2,3
2,6
4,9
0,9
Umbria
183
319
502
0,7
1,3
2,0
0,6
2.338
1.585
3.923
2,5
1,7
4,2
1,5
250
290
540
1,2
1,3
2,5
0,9
6
58
64
0,1
1,1
1,2
0,1
Campania
1.250
1.570
2.820
1,0
1,3
2,3
0,8
Puglia
1.370
1.823
3.193
1,8
2,4
4,1
0,8
Basilicata
76
156
232
0,7
1,6
2,3
0,5
Calabria
450
570
1.020
1,2
1,6
2,8
0,8
1.284
1.700
2.984
1,3
1,8
3,1
0,8
350
420
770
1,4
1,6
3,0
0,8
16.800
15.600
32.400
1,7
1,5
3,2
1,1
Regioni e Province autonome
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Provincia Bolzano
Provincia Trento
Lazio
Abruzzo
Molise
Sicilia
Sardegna
Italia
Totale
Fonte: Elaborazione Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza su dati Regioni e Province
autonome
20
Gli affidamenti familiari in corso sono risultati pari a 16.800; negli ultimi 8 anni si registra un
incremento percentuale davvero consistente, pari al 64%: si è passati infatti dai 10.200 affidamenti del 1999 ai 16.800 del 2007. La legge 149/2001 è stata promulgata tra le due rilevazioni censuarie e l’incremento rilevato è incoraggiante oltre che esplicativo dell’evoluzione
20
Con questo termine si intendono sia gli affidamenti a singoli, parenti e famiglie. È inclusa anche un’accezione più
restrittiva, relativa all’affidamento residenziale per almeno cinque notti alla settimana. Rimangono esclusi i periodi
di interruzioni previsti nel progetto di affidamento, quando disposti dai servizi locali e resi esecutivi dal tribunale per
i minorenni o dal giudice tutelare.
59
dell’operatività dei servizi sociali che hanno investito molto nell’affidamento familiare laddove
si ravvisasse la necessità di allontanare temporaneamente il bambino dal proprio nucleo familiare.
Per quello che riguarda l’accoglienza nei servizi residenziali per minori, che sono classificati
21
nelle 4 tipologie a seguito della conferenza Stato-Regioni , la rilevazione al 31 dicembre 2007
registra 15.600 bambini e ragazzi che alloggiano in queste strutture.
La prima indagine del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e
l’adolescenza sul tema è riferita all’anno 1998; in quella data i bambini ospiti nei servizi residenziali per minori erano 14.945, pertanto emerge una sostanziale stabilità del fenomeno nel
tempo a livello numerico (Moretti, Ricciotti, Zelano, Andolfi, 2009). Sono però considerevolmente cambiate la qualità dell’accoglienza dei bambini e degli adolescenti grazie al processo
ormai compiuto di de-istituzionalizzazione: se al 31 dicembre 1999 gli istituti per minori in Italia risultavano essere 475, con un’accoglienza pari a 10.626 minori ospitati, dopo 10 anni al 31
marzo 2009 ammontavano complessivamente ad appena 15 unità, distribuiti in due strutture
siciliane e in una struttura pugliese. Le altre strutture del Sud Italia sono di fatto attualmente
vuote e hanno già ri-orientato le loro attività verso altre modalità di servizio.
Complessivamente sia per gli affidamenti familiari che per i servizi residenziali al 31 dicembre
2007 i casi stimati di minori “fuori” famiglia in Italia sono 32.400 (Tabella 3).
La Lombardia (insieme al Lazio) è la Regione con il maggior numero assoluto di minori “fuori”
famiglia (4244), ma nel Nord Italia sono il Piemonte e la Liguria ad avere il tasso più elevato di
bambini e adolescenti fuori famiglia per 1000 abitanti residenti di 0-17 anni (4 minori circa ogni 1000 la Liguria e 2,4 il Piemonte); vicini a questa elevata proporzione piemontese anche le
Marche, la Toscana, il Lazio e la Puglia. Tratto che accomuna la maggior parte delle Regioni è
la crescita dei tassi di minori fuori famiglia tra il 1997 e il 2007 (Moretti, Ricciotti, Zelano, Andolfi, 2009): ben 16 regioni su 21 fanno registrare un aumento dei tassi, con punte del 166% in
Abruzzo e 152% nelle Marche (Tabella 4). Il Piemonte e la Liguria presentano una variazione
percentuale di poco superiore al 10%, mentre in Lombardia si abbassa al 6%. Solamente due
Regioni fanno segnare un decremento nella variazione percentuale nel periodo preso in considerazione: la Valle d’Aosta e il Molise, dove le variazioni sono molto contenute e vi è una so22
stanziale stabilità nel tempo (Moretti, Ricciotti, Zelano, Andolfi, 2009).
21
Si tratta della comunità educativa, comunità di pronta accoglienza (o di pronto intervento), comunità familiare e gruppo
22
appartamento (o alloggi per l’autonomia).
Va considerato che si tratta di realtà territorialmente e demograficamente ridotte sulle quali incidono piccole
fluttuazioni demografiche della popolazione minorenne.
60
Tabella 4 - Variazione % dei tassi dei minori in affidamento familiare e accolti
(a)
nei servizi residenziali per Regione e Provincia autonoma - Periodo 1998/1999
- 2007
Tassi minori fuori famiglia (per 1.000)
variazione %
(2007 1998/1999)
1998/1999
2007
Piemonte
3,5
3,9
12,8
Valle d’Aosta
3,2
2,8
-11,4
Lombardia
2,5
2,7
6,0
Provincia Bolzano
2,4
3,1
32,5
Provincia Trento
4,0
3,8
-6,2
Veneto
2,1
2,1
-1,6
Friuli-Venezia Giulia
2,4
3,5
41,5
Liguria
5,0
5,8
16,4
Emilia-Romagna
2,8
3,6
30,5
Toscana
2,5
4,0
60,5
Marche
2,0
4,9
152,6
Umbria
1,9
2,0
4,7
Lazio
2,2
4,2
89,8
Abruzzo
0,9
2,5
166,7
Molise
1,5
1,2
-19,2
Campania
1,8
2,3
28,8
Puglia
2,7
4,1
55,9
Basilicata
1,6
2,3
39,6
Calabria
3,4
2,7
-18,5
Sicilia
2,5
3,1
23,4
Sardegna
2,4
3,0
22,0
Italia
2,5
3,2
29,3
Regioni e Province autonome
(a) Il dato sull’affidamento familiare è riferito al 1999 e quello sui servizi residenziali al
1998
Fonte: Elaborazione Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e
l’adolescenza su dati Regioni e Province autonome
A questo aumento dei tassi di affido e accoglienza sono correlati anche il numero degli interventi dei servizi sociali territoriali e le relative spese. I dati della rilevazione Istat 2007 sugli Interventi e servizi sociali dei comuni singoli o associati registrano un totale di spesa in Italia per le
attività di servizio sociale professionale per i minori pari a 196.792.532 (di cui 9 milioni circa
spesi per l’intermediazione abitativa e/o assegnazione alloggi e 26 milioni e mezzo di spese
per l’affido minori), e in aumento rispetto al 2006 quando i milioni erano 188 (8 milioni circa
per l’intermediazione abitativa e 23 milioni per l’affido minori). La spesa per il totale delle
strutture comunitarie e residenziali per minori si attesta sui 227.297.708 milioni di euro, molto
aumentata rispetto al 2006 quando i milioni erano 196. A testimonianza delle elevate richieste
61
al servizio sociale si citano anche i dati della Regione Piemonte che registrano 1.413 interventi
per minori in luogo neutro, 1.102 interventi di tutela, amministrazione di sostegno per minori
23
attivati durante l’anno 2008 .
Oltre alla diversa diffusione quantitativa del fenomeno nel Paese, le Regioni si caratterizzano
anche per i valori dell’indicatore che registra il rapporto tra “affidamenti e bambini accolti nei
servizi residenziali”. Questo indicatore a livello nazionale fa segnare un rapporto medio di 1,1
24
affidamenti ogni bambino accolto nei servizi residenziali . Nelle diverse zone d’Italia, questo
indicatore, registra elevate differenze: l’affidamento familiare appare preferito dalle modalità
operative dei servizi territoriali del Centro e del Nord. Infatti, qui le Regioni Piemonte (rapporto 1,7), Lombardia (rapporto 1,4), Liguria (2,1), Valle d’Aosta, Provincia di Bolzano, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna hanno valori superiori all’1 e pertanto un ricorso all’affidamento maggiore. Al contrario tutte le Regioni del Sud non sembrano assumere quest’ottica preferenziale per
l’affido, presentando un maggiore ricorso all’accoglienza nei servizi residenziali. Tuttavia, oltre
alla valutazione dei livelli differenziati del rapporto tra affidamenti e accoglienza nei servizi
raggiunti nel 2007, è utile considerare anche le variazioni percentuali dei valori dell’indicatore
nel periodo 1998/1999-2007. In questo caso sono molte le Regioni del Sud (Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia) che fanno segnare più alti e positivi incrementi percentuali del rapporto
“n. affidamenti/n. accolti nei servizi residenziali”, indicazione che nel tempo l’investimento
nell’affidamento familiare è incrementato (Moretti, Ricciotti, Zelano, Andolfi, 2009).
L’incidenza di bambini di 0-2 anni in affidamento familiare sul totale dei bambini della stessa
età allontanati dalla propria famiglia è del 39,8%, ma ci sono dei picchi particolari con l’88%
nella Provincia di Bolzano, del 53% in Puglia e in Veneto, del 52% in Piemonte, Regioni nelle
quali l’inserimento in struttura residenziale per i bambini in questa fascia di età risulta davvero
contenuto.
In merito al genere dei bambini fuori famiglia, la distribuzione maschile e femminile presenta
una forte disparità tra le Regioni. In generale, si registra una prevalenza di femmine
nell’affidamento familiare, a fronte di una più equa distribuzione dei maschi tra affidamento e
servizi residenziali. Ciò è da mettere in relazione con l’aumento crescente di minori stranieri,
prevalentemente maschi, accolti preferibilmente in comunità educative. Infatti, il 62% dei
bambini stranieri è ospitato in servizi residenziali, piuttosto che affidato a famiglie; tale quota
raggiunge il 94% se si considerano solo i minori stranieri non accompagnati, un fenomeno che
non riguarda il Piemonte e la Valle d’Aosta.
Sulla base dei dati presentati, si può affermare che complessivamente è il forte aumento
dell’accoglienza dei minori stranieri in strutture che ha fatto registrare una “tenuta” del numero di accoglienze nei servizi residenziali nel periodo 1998-2007.
Osserviamo inoltre che l’incidenza dei bambini stranieri negli affidi familiari si è quasi triplica25
ta, passando dal 5,6% del 1999 al 14% del 2007 , e la loro presenza nei servizi residenziali
26
passa dal 18% del 1998 al 31% del 2007 (poco meno di 1 bambino su 3) . Si ricorda anche la
23
24
25
26
Dati della Direzione Politiche Sociali e Politiche per la Famiglia del Piemonte 2008.
Se questo valore in un territorio risulta maggiore di “1”– 1, indica la perfetta coincidenza tra il ricorso all’affidamento
familiare e all’accoglienza nei servizi residenziali –, allora la situazione dei minori fuori famiglia evidenzia un ricorso
preferenziale all’affidamento familiare, come previsto dalla legge 149/2001.
I valori per Regione oscillano tra quelli massimi di Umbria (30%), Emilia-Romagna (28%), Veneto (24%) e quelli
minimi del sud, dove il fenomeno è ancora contenuto: in Campania (2,2%) e Sicilia (4,7%). Piemonte e Lombardia
sono ad un livello intermedio di incidenza percentuale (rispettivamente il 14,7% in Piemonte e il 15,9% in
Lombardia).
I picchi massimi si sono registrati in Lazio (53%), Marche (61%), Toscana (51%) e Friuli Venezia Giulia (69%) dove gli
stranieri hanno superato gli italiani. Gli stranieri accolti in strutture della Lombardia sono pari al 24,1% del totale,
62
tipologia dell’affidamento omoculturale, che per esempio a Parma ha già riguardato 230 affidamenti conclusi, sui 398 totali che hanno avuto per protagonista un minore straniero nel periodo tra il 2000 e il 2008 (perlopiù adolescenti tra i 15 e i 17 anni, non accompagnati).
Questo grande cambiamento ha comportato nelle statistiche sugli accolti anche una variazione di altri equilibri: l’incidenza delle bambine si è ridotta del 6% dal 1999 al 2007 e si è verificato, contemporaneamente, un elevato incremento degli adolescenti prossimi alla maggiore età,
27
in quanto la percentuale dei 15-17enni accolti nei servizi è balzata dal 31% del 1999 al 42% .
Tabella 5 - Minori fuori famiglia: distribuzione secondo affidamento e servizi
residenziali delle classi di età, del genere, della cittadinanza al 31-12-2007
% in affidamento
% nei servizi residenziali
0-2 anni
39,8
60,2
3-5 anni
57,6
42,4
6-10 anni
58,7
41,3
11-14 anni
53,2
46,8
15-17 anni
41,4
58,6
maschio
49,5
50,5
femmina
56,7
43,3
italiani
54,6
45,4
stranieri
37,6
62,4
6,5
93,5
classe di età





genere


cittadinanza



stranieri non accompagnati
Fonte: Elaborazione Centro nazionale di documentazione e analisi
per l’infanzia e l’adolescenza su dati Regioni e Province autonome
Anche per quanto riguarda l’affido familiare si registra nel complesso, con piccole variazioni
regionali, un aumento dell’età media dei minori affidati. Negli anni considerati la quota dei 1517enni è aumentata, si è ridotta quella dei bambini 6-10 anni, mentre è rimasta più stabile la
presenza della fascia 0-5 anni. La distribuzione di genere degli affidati tra il 1999 e il 2007 è invece rimasta equilibrata e costante nel tempo.
2.3.1 I PERCORSI DEI MINORI OUT OF HOME
Come abbiamo visto all’inizio di questo paragrafo, le problematiche relazionali o economicoabitative sono la ragione prevalente che determinano un allontanamento dei minori dal pro-
27
ma il flusso dei nuovi ingressi del 2007 fa rilevare un’incidenza pari al 58,2% (Fonte: Osservatorio Minori Regione
Lombardia, supporto alla documentazione statistica prodotta da Lombardia Informatica S.p.a., Report su
“Minoriweb”, Aprile 2009)
In Lombardia al 2007 oltre la metà del totale (il 61,4%) circa era composta da minori di 11-17 anni, con una
sostanziale parità da maschi e femmine (Fonte: www.minori.it).
63
prio nucleo familiare d’origine. Mentre la soluzione di altre problematiche dipende essenzialmente dall’efficacia dell’intervento svolto dal “presidio residenziale socio-assistenziale” nel
quale il minore viene inserito (quando, ovviamente, la problematica sia risolvibile), nel caso il
problema sia un’inadeguatezza della famiglia (più o meno grave e relativa a ad aspetti di tipo
materiale o educativo), la soluzione non dipende tanto dall’intervento svolto dal servizio di accoglienza (che può, al massimo, garantire le migliori condizioni possibili di benessere psicofisico del minore ospitato), quanto da un lavoro sulla famiglia d’origine (a meno che la sua inadeguatezza non sia insuperabile) o dalla decisione di rompere in modo definitivo il legame
tra il minore e la sua famiglia, con un decreto di adottabilità. È dunque molto interessante seguire fino alla fine il percorso dei minori per farsi un’idea del modo in cui oggi si riesce a rispondere a tali problematiche così rilevanti. Il possesso di tali informazioni dovrebbe essere
un requisito fondamentale per valutare la qualità e l’efficacia della rete d’interventi che presidiano l’area della fragilità familiare. Al contrario, si tratta quasi sempre di dati molto difficili da
reperire, perché le fonti da consultare sono numerose e con livelli di connessione perlopiù
deboli. Nelle pagine che seguono, oltre ad una panoramica nazionale, offriremo uno spaccato
sulla situazione della due Regioni prese in considerazione per gli studi caso, Lombardia e Piemonte.
Tabella 6 - Minori dimessi dai presidi residenziali socio-assistenziali, per tipo di destinazione
(a)
e area territoriale. Valori percentuali – Anno 2006
Rientrati
in famiglia
REGIONI
Affidati
ad
un nucleo familiare
Adottati
da
un nucleo familiare
Trasferiti
in altra
struttura
Resi
autonomi
Rimpatr.
Destinaz.
ignota
Totale
minori
usciti
Nord-ovest
42,3
8,5
4,7
24,6
7,6
0,7
11,5
100,0
Nord-est
28,1
4,6
2,4
14,1
17,6
0,5
32,7
100,0
Centro
30,5
7,3
4,2
15,4
10,2
0,8
31,6
100,0
Sud
58,6
11,5
5,7
12,8
6,8
0,4
4,3
100,0
Isole
55,9
9,1
2,6
12,2
2,5
0,5
17,1
100,0
TOTALE
38,0
7,3
3,7
17,2
11,0
0,6
22,2
100,0
(a)
I dati relativi alla provincia di Bolzano non sono stati resi disponibili.
Fonte: Istat, 2006
Sull’esito del percorso di accoglienza il dato italiano (Tabella 6) mostra che circa il 38% dei minori rientra in famiglia. Il 7,3% viene affidato ad un nucleo familiare, e il 3,7% viene adottato, il
17,2% vene trasferito in un’altra struttura; l’11% dei minori è diventato autonomo; c’è poi
un’elevata percentuale di cui non si ha notizie sulla destinazione (circa il 22%); il Nord Est eccelle nella categoria relativa all’autonomia con oltre il 17% dei minori resi autonomi, il Nord
ovest e il Sud Italia si distinguono invece per numerosità dei rientri in famiglia (rispettivamente
il 42,29% e il 58,63%), nel Sud c’è anche una quota superiore ad altri contesti di affidati e di
adottati (5,68%).
I dati forniti dalla regione Piemonte su 839 minori che vengono dimessi da una comunità, nel
2008, mostrano che il 28% finisce il percorso di accoglienza per “cessazione delle cause di ricovero”, il 13,3% per il raggiungimento della maggiore età, il 12,2% per difficoltà di inserimento, il 7,6%% si avvicina all’abitazione dei genitori, il 6,8% per un provvedimento di de-
64
istituzionalizzazione, il 5,1% per chiusura di un presidio e il restante 26,8% per altre motivazioni non specificate dai dati resi disponibili.
Per quanto riguarda gli affidi familiari, invece, che hanno interessato 531 minori nel 2008
(Figura 2): il 28% continua il progetto con i servizi sociali fino al raggiungimento della maggiore
età, il 12% viene collocato in un’altra famiglia affidataria, l’8% viene adottato mentre l’11%
viene inserito in una struttura residenziale. Solo il 16% rientra presso i genitori a conclusione
del progetto e un numero residuale di poco superiore all’1% raggiunge una sistemazione
autonoma.
Figura 2- Sistemazione minori dopo la conclusione dell’affido- Piemonte
Rientro presso i genitori
16,01
22,55
1,38
Sistemazione autonoma al
raggiungimento della maggiore età
Inserimento in comunità
8,78
11,02
Adozione
Collocamento in altra famiglia
affidataria/modifica tipo di affido
Continuazione del progetto al
raggiungimento della maggiore età
28,06
12,22
Altro/dati mancanti
Fonte: Ns. Elaborazione su dati dimissioni 2008 della Direzione Sociale Regione Piemonte
28
Attraverso una ricognizione svolta dall’Osservatorio regionale sui minori in Lombardia nel
2009, è possibile avere un quadro abbastanza dettagliato sui percorsi dei minori nei servizi residenziali: il 70% delle permanenze in comunità ha una durata superiore ai 6 mesi, oltre il
12,4% alloggia nelle strutture per un periodo superiore ai 36 mesi, tra questi ultimi la durata
media è di poco inferiore ai 5 anni ed è in calo rispetto agli anni precedenti; nel complesso la
durata media dei ricoveri è di circa 15 mesi e si accresce all’aumentare dell’età, passando da
10 mesi per 0-5 anni e a 19 mesi per la fascia 15-17. Gli stranieri permangono per minore
tempo in comunità (circa 8 mesi in media) rispetto al totale. I soggetti invianti sono nel 65,5%
dei casi i servizi sociali territoriali e nel 25,6% il tribunale dei minorenni. Solo il 50% dei minori
proviene direttamente dalla famiglia (e la metà di questi da una famiglia monoparentale), negli altri casi si tratta generalmente di trasferimenti da altre strutture. I dati lombardi del 2009
sulle dimissioni discordano parzialmente da quelli dell’Istat antecedenti di 3 anni: non è certo
tuttavia che si tratti di un’evoluzione, perché le fonti non sono omogenee: secondo il rapporto
“Minoriweb” quasi il 30% dei dimessi sono costituiti da trasferimenti o passaggi ad altra co28
Fonte: Osservatorio Minori Regione Lombardia, supporto alla documentazione statistica prodotta da Lombardia
Informatica S.p.a., Report su “Minoriweb” (comunità residenziali), Aprile 2009.
65
munità (27,2% secondo i dati Istat del 2006); solo nel 18% dei casi la dimissione coincide con
un reinserimento nella famiglia di origine (percentuale decisamente inferiore a quella dell’Istat
del 2006 – 43,2%), mentre un ulteriore 8,4% (7,3%, Istat 2006) riguarda un reinserimento presso una famiglia affidataria. Ciò segnala come il percorso nel mondo della residenzialità sia
molto tortuoso e caratterizzato da una migrazione tra una struttura e l’altra e il periodo complessivo di allontanamento dal proprio nucleo di origine sia molto prolungato, nonostante
l’ingresso in comunità quasi sempre (80%) dei casi non comporti la perdita della potestà genitoriale. Se a ciò aggiungiamo che solo 2/5 dei minori riceve visite dei familiari almeno una volta ogni due settimane, è evidente come l’obiettivo di una qualità in cui l’intervento sulle relazioni primarie del minore sia centrale, è ancora molto lontano.
2.4.
29
RICOGNIZIONE DELLE “BUONE PRATICHE”
di Mariettina Ressico
La ricognizione delle “buone pratiche” nelle Regioni Lombardia e Piemonte ha rilevato la presenza di alcuni interventi innovativi rivolti alle famiglie fragili con minori. Si tratta d’interventi
piuttosto sporadici, che non fanno altro che confermare quanto emerso da una recente indagine, svolta dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, sulle strutture di accoglienza residenziale per minori in Lombardia. In quell’indagine, attraverso una ricognizione qualitativa che ha preso in considerazione una trentina di assistenti
sociali dei Servizi territoriali, era risultato chiaro che tali operatori si muovono con estrema difficoltà nei confronti delle famiglie dei minori out of home, avendo scarsità di risorse e competenze per poter effettuare veri e propri interventi di recupero e di sostegno finalizzati al reinserimento del minore nel proprio nucleo d’origine. Manca un collegamento stabile tra chi opera a tutela dei minori e chi dovrebbe farsi carico delle loro famiglie (Bramanti, Carrà, a cura di,
in press). Anche un’analoga ricerca svolta dal Centro nazionale di documentazione e analisi per
l’infanzia e l’adolescenza di Firenze sottolinea come “sia ancora carente una vera politica a favore delle famiglie che possa accompagnarle nelle problematiche che affrontano nel corso del
loro ciclo di vita e possa agire in senso preventivo per evitare di dover giungere
all’allontanamento” (Maurizio, 2009a, p. 117). Permane infatti “la tendenza a intervenire ancora solamente sul minore in difficoltà” (Id., p. 118). Il medesimo Centro ha anche svolto una sorta di censimento delle buone pratiche (Maurizio, 2009b), che ha portato alla luce un numero
ancor più esiguo di esperienze rispetto alla nostra ricerca, nelle due regioni da noi prese in
considerazione.
La nostra attenzione si è focalizzata su quegli interventi, erogati sia da soggetti pubblici che di
terzo settore, che non si concentrano unicamente sul malessere del minore che vive una situazione di difficoltà familiare, bensì considerano il benessere relazionale dell’intero nucleo
familiare. Le due regioni, pur limitrofe, sembrano seguire percorsi differenti: la terapia multifamiliare si sta diffondendo in Lombardia (è già stata sperimentata in quattro Asl), mentre non
è nota in Piemonte; al contrario l’affido delle famiglie, nato a Torino, è stato esportato a Ferrara ed in avvio a Novara, e solo ultimamente si è manifestato un interesse da parte del territorio di Como.
A livello dell’Ente gestore del progetto/servizio offerto, l’analisi delle “buone pratiche” ha inoltre messo in luce importanti differenze tra le due regioni considerate.
29
La raccolta è stata curata da Francesca Maci.
66
In Lombardia è evidente una forte promozionalità verso il terzo settore che eroga la maggior
parte dei servizi di questo tipo, mentre in Piemonte il compito di erogare direttamente interventi di tutela dei minori e di sostegno alle relazioni familiari è fondamentalmente pubblico,
gestito dai Consorzi intercomunali e dai Centri per le Famiglie.
Tabella 7 – Buone Pratiche (Lombardia)
Scheda
Sede
Ente
Progetto/Servizio
Tipologia
1
Monza
Fondazione Comunità di Monza e
Brianza- onlus e organizzazioni di
terzo settore
Sostenere la genitorialità
Percorsi a sostegno della genitorialità
2
Pioltello
Comune di Pioltello in partnership
con organizzazioni terzo settore
Atticus
Accompagnamento e sostegno famiglie fragili con minori
3
Sesto San
Giovanni
UDP
4
Lecco
UDP
5
Monza
UDP
6
Monza/ Desio
UDP
ETIM (Nucleo Integrato Specialistico)
Valutazione nuclei familiari
multiproblematici
7
Milano
UDP
Nuove mamme
Sostegno famiglie fragili con
minori
8
Bergamo
UDP
Nascere famiglia
Accompagnamento dentro
casa
9
Seveso
Associazione N.A.T.V.R&-Onlus
10
Romano di
Lodi
Centro di Aiuto della Famiglia
11
Ghedi
Comuni ambito 9-Bassa Bresciana
Centrale-Cooperativa Mondotondo
Affido familiare
12
Vercurago
Associazione Il Chicco di Grano
Percorsi formativi per famiglie
13
Pioltello
Centro per la famiglia e il bambino
14
Cremona
Centro per le famiglie
Competenze genitoriali
15
Venegono
Inferiore
Associazione di Promozione Sociale
GISAF
Centro diurno sostegno minori
16
Bolgare
Solco Città Aperta
Servizi affidi di ambito
17
Bergamo
Associazione Nepios in partnership
con Comune e Provincia di Bergamo, ASL, Diocesi Bergamo
18
Sesto San
Giovanni
Coop Sociale “La Grande Casa”
Sostegno a famiglie fragili con
minori
19
Melzo
MiFa – Minori e famiglie
Tutela sociale
20
Segrate
Associazione Le Vele-onlus
21
Milano, Monza, Brianza
Associazione A.M.A
Gruppi Auto Mutuo Aiuto famiglie
22
Brescia
AMA
Gruppi Auto Mutuo
23
Milano
AMAlo
Competenze genitoriali
Affido familiare: un
percorso “affidabile”
Costruzione reti di appoggio,
azioni preventive
Servizi genitorialità e infanzia
Ospitalità diurna
Il Decollo
Pianeta famiglia
Centro per il bambino e la famiglia
(CBF)
La Cascina
Genitori Efficaci
Reti familiari
Sostegno alla famiglia
Terapia multifamiliare
Accoglimento nuclei familiari e
affidi
Gruppi AutoMutuo
67
Tabella 8 – Buone Pratiche (Piemonte)
Scheda
Sede
1
Caraglio
2
Progetto/Servizio
Tipologia
Consorzio SSA delle valli Grana e
Maira in partnership con organizzazioni del terzo settore
Centro famiglia
Spazi ascolto famiglie fragili con
minori
Savigliano
Consorzio Monviso Solidale, comune di Manta, in partnership con
organizzazioni del terzo settore
Sguardo Globale
Reti a sostegno fragilità familiare
3
Verbania
Consorzio Servizi Sociali del Verbano, Consorzi Intercomunale del
Cusio e dell’Ossola, ASL VCO
La Famiglia al centro
Sostegno famiglie fragili con minori
4
Grugliasco
CISAP e ASL T03
Prima le donne e i
bambini
Sostegno alla genitorialità
5
Trecate
Cisa Ovest Ticino
Centro Famiglia
6
Ghemme
7
Varallo
8
Lanzo Torinese
Comunità montana Valli di Lanzo,
Ceronda, e Casternone, Crisalide
s.c.s. onlus
Centro per le famiglie “ME E TE ORA”
Sostegno famiglie fragili con minori
9
Pallanzeno
Consorzio Intercomunale Servizi
Sociali dell’Ossola
Il mio bagaglio
Individuazione precoce situazioni di disagio
10
Robilante
Comunità Montana delle Alpi del
Mare
Centro per le famiglie
Sostegno famiglie fragili con minori
11
Asti
Comune di Asti Settore politiche
sociali
“…Affido insieme
per accogliere”
Sostegno a famiglie affidatarie
12
Savigliano
Consorzio Monviso Solidale, in
partnership con organizzazioni del
terzo settore
La cura delle genitorialità fragili
Prevenzione famiglie fragili con
minori
13
Torino
Cooperativa sociale E.T.
14
Torino
Gruppo Abele
15
Torino
Ufficio Pio-Compagnia di San Paolo
16
Torino
C.A.M.A.P. Coordinamento Auto
Mutuo Aiuto Piemonte
Torino
Associazione VERBA, in
partnership con Servizio Passepartout Divisione Servizi Sociali e
Rapporti con le Aziende Sanitarie
del Comune di Torino
17
Ente
Comuni di Ghemme, Boca, Maggiora, Sizzano
Convenzione I.S.A.
Situazioni familiari problematiche
Interventi diretti a famiglie fragili
con minori
Potenziamento Centri per le famiglie
Comunità montana Valsesia
Ezechiele
Sostegno al nucleo familiare
Genitori e Figli
Sostegno al nucleo familiare
Il trapezio
Contrasto esclusione sociale
famiglie vulnerabili
Gruppi Auto Mutuo Aiuto famiglie
Prisma
Promozione cultura relazione
d’aiuto per famiglie fragili con
minori
2.5. GLI STUDI DI CASO
La scelta delle pratiche da studiare è caduta su due esperienze che, a diverso modo, ci è parso
nella fase istruttoria poter ben rappresentare la nuova tendenza a non emarginare nella propria fragilità la famiglia fragile, a farne in qualche modo il fulcro dell’intervento.
Il primo caso, è la “traduzione” italiana della pratica innovativa, presentata tra le esperienze
internazionali, il Multifamily Approach: risulta particolarmente interessante perché è possibile
68
osservare il processo di trasposizione di un modello di “buona pratica” nata in un contesto estraneo; inoltre, la Lombardia oggi appare come il nucleo propulsore della diffusione di tale
nuova metodologia in quanto, dopo una prima esperienza purtroppo già conclusa a Milano,
ha visto in rapida successione la sperimentazione del metodo in tre diverse città capoluogo di
provincia: Bergamo, Varese e Sondrio. Come abbiamo già avuto modo di vedere, è un intervento in cui le capacità delle famiglie “multiproblematiche” vengono valorizzate, attraverso un
loro coinvolgimento diretto nella fase di definizione degli obiettivi e poi attraverso una sperimentazione concreta attraverso la condivisione di pratiche quotidiane con altre famiglie.
Il secondo caso è altrettanto interessante, pur essendo di natura decisamente differente, in
quanto rappresenta un’estensione della dimensione familiare dell’affido familiare: se l’affido
familiare tradizionale valorizza la capacità naturale della famiglia di prendersi cura dei figli, in
questo caso minori allontanati dal proprio nucleo, la “versione” torinese dell’affido fa leva sul
fatto che le relazioni familiari sono “terapeutiche” per l’intera famiglia fragile, che viene affidata ad un altro nucleo. In questo caso, non viene solo valorizzata la capacità naturale della famiglia di essere promotore di benessere per i propri bambini, ma si assegna alla famiglia un
vero e proprio compito operativo e strategico per far sì che un’altra famiglia riesca a recuperare la propria capacità naturale di essere ambiente favorevole per la crescita dei bambini, senza che questi ne vengano allontanati.
2.6. MULTIFAMILY – VARESE
di Valentina Calcaterra
Il caso studiato è il Centro di Terapia Multifamiliare della Coop. Soc. “La Casa davanti al sole” di
Venegono Inferiore, realizzato in partnership con i Servizi Sociali del Comune di Varese.
Il trattamento Multifamiliare è una metodologia di lavoro con le famiglie multiproblematiche
che nasce a Londra promossa dal dr. Alan Cooklin e dal dr. Eia Asen presso il Marlborough
Family Service. L’approccio multifamiliare prevede la possibilità di realizzare un lavoro integrato tra interventi clinici e sociali finalizzato al sostegno e affiancamento a famiglie multiproblematiche che, secondo una valutazione del servizio inviante, posseggono potenzialmente le risorse per realizzare un intervento di riappropriazione e promozione della propria genitorialità.
Le famiglie sono chiamate ad essere co-protagoniste del progetto e a partecipare a pieno titolo ai processi decisionali per la definizione degli interventi a loro sostegno, interventi che saranno, quindi, co-progettati e co-realizzati.
Da qualche anno vi sono esperienze di implementazione della metodologia anche in alcune
realtà pubbliche e di privato sociale della Lombardia. Tra queste si è scelto di studiare
l’esperienza del Centro di Varese, promossa all’interno del progetto “Riaffermare e promuovere
genitorialità possibili”, considerando le caratteristiche di partenariato nella progettazione del
Centro e dei singoli interventi, di reticolarità, di approccio multidisciplinare e di promozione di
interventi relazionali tra le famiglie.
69
2.6.1 METODOLOGIA
Lo studio di caso è stato condotto attraverso la somministrazione e l’analisi di interviste semistrutturate, sulla base di apposite griglie tematiche specifiche per i differenti soggetti intervistati in relazione alle loro funzioni all’interno del progetto.
Si sono dapprima intervistati i responsabili del progetto referenti dei due Enti partner, nello
specifico il Responsabile della Coop. Soc. “La Casa davanti al sole” di Venegono Inferiore (Ente
capofila del progetto) e la Coordinatrice dell’Area Minori e Famiglie dei Servizi Sociali del Comune di Varese. Per entrambi l’intervista è stata condotta sulla base della “Traccia per intervista al responsabile del servizio”; con il Responsabile dell’Ente Capofila si è proceduto anche alla
compilazione della “Scheda strutturata per responsabile del servizio/ente capofila”. In seguito si
sono intervistati alcuni operatori coinvolti nella realizzazione del progetto quali:



la psicologa del Centro Multifamiliare della Coop. Soc.
un’assistente sociale dell’Area Minori dei Servizi Sociali del Comune di Varese
un’educatrice del Centro Diurno “Pali e Quaderni”.
Con ciascuno di loro si è preceduto ad un’intervista semi-strutturata con a tema le aree definite nella “Traccia per l’intervista a soggetti operativi”.
Infine si sono ascoltate anche le voci delle famiglie che hanno preso parte attivamente al progetto effettuando un’intervista con una traccia guidata per gli utenti/familiari. Si sono intervistati:


una mamma che ha partecipato con il compagno e il figlio di anni 12 al progetto, inviata dai
servizi sociali del Comune in accordo con gli operatori del Centro Diurno sopracitato,
un papà che ha preso parte al progetto con i due figli di anni 10 e 12 collocati a suo tempo
in Comunità di Accoglienza per Minori.
Per la descrizione analitica degli strumenti utilizzati si rimanda al capitolo di presentazione
metodologica degli strumenti di ricerca.
Ulteriori fonti di consultazione per l’approfondimento dell’oggetto di studio sono state il sito
web sul Multifamily Assessment, creato da Inform’Action (Nivelles, Belgio) a fronte del finanziamento di un progetto di implementazione dell’approccio multifamiliare all’interno di un bando
europeo Daphne, la documentazione relativa alla partnership tra la Coop. Soc. “La Casa davanti al sole” e il Comune di Varese (Accordo programmatico di collaborazione; Accordo di collaborazione per finanziamento distrettuale ex Leggi n. 285/97 – 45/99 – 40/98; Report intermedio Antares Ottobre 2009/Luglio 2010; Report finale Ottobre 2010, strumenti) e la Relazione
sul progetto Daphne (L’Approccio Europeo di Terapia Multi-Familiare, aprile 2007).
70
Cod.
Intervistato
Strumento
MFV1
Responsabile della Coop. Soc. “La Casa davanti al sole”di Venegono Inferiore
Traccia per intervista al responsabile del servizio/ente capofila
MFV2
Responsabile d’Area Minori Servizi Sociali Comune di
Varese
Traccia per intervista al responsabile del servizio/ente capofila
MFV3
Psicologa del Centro Multifamiliare di Varese
Intervista semi-strutturata per soggetti operativi.
Rappresentazione grafica della rete
MFV4
Assistente Sociale dei Servizi Sociali - Comune di Varese
Intervista semi-strutturata per soggetti operativi
MFV5
Educatrice Responsabile del Centro Diurno “Pali e
Quaderni” di Varese
Intervista semi-strutturata per soggetti operativi
MFV6
M., mamma partecipante al progetto
Intervista guidata per utenti del servizio30
MFV7
L., papà partecipante al progetto
Intervista guidata per utenti del servizio
2.6.2 ANALISI DEL SERVIZIO
Il progetto “Riaffermare e promuovere genitorialità possibili”, entro cui si è realizzato il Centro
multifamiliare di Varese, si rivolge a famiglie con minori che vivono situazioni di fragilità. Tutte
le famiglie che hanno partecipato al progetto erano seguite dagli operatori del servizio di tutela minori del Comune, o perché vi era già la presenza di un provvedimento del Tribunale per i
Minorenni che ne ha decretato la limitazione della potestà genitoriale, e in alcuni casi ha previsto anche l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare, o perché considerate a rischio
nello svolgimento dei compiti genitoriali per cui vi è stata segnalazione presso la Procura per i
minorenni per la valutazione della situazione familiare.
Presupposto fondante l’intero progetto è che le famiglie, seppur in difficoltà, possano essere
accompagnate nella riscoperta delle loro competenze e nell’individuazione di nuove strategie
di fronteggiamento ai problemi complessi della vita.
Si tratta di
[…] affiancare le famiglie multiproblematiche aiutandole a trovare le competenze perché i loro figli possano stare a casa loro […] sono tutte forme di affiancamento che nascono dentro
ad un lavoro integrato tra il privato sociale e l’ente pubblico dove ognuno porta la propria
esperienza e competenza (MFV1)
30
Nell’analisi di caso del Centro Multifamiliare di Varese sono state realizzate interviste guidate ad alcune famiglie. Le
interviste sono state effettuate presso il domicilio delle persone che hanno dato la loro disponibilità, nello specifico
un papà ed una mamma di due nuclei familiari differenti che, insieme ai loro figli, hanno partecipato al progetto.
Per la somministrazione delle interviste è stata predisposta una griglia semplificata che ha toccato le seguenti aree:
aspetto positivo dell’intervento; maggiore difficoltà incontrata; persone coinvolte nel progetto; relazioni instaurate
con gli operatori; relazioni instaurate con le altre famiglie; elementi di miglioramento nella situazione familiare a
seguito della partecipazione al progetto; tre parole per descrivere il progetto.
La traccia, seppur abbia prefissato alcune aree di interesse da indagare, è stata utilizzata in modo flessibile lasciando
aperta la possibilità che dalla singola situazione di intervista potessero emergere temi nuovi portati
dall’interlocutore e interessanti ai fini della ricerca. La conduzione delle interviste ha visto differenti gradi di
direttività; per larga parte del discorso è stato possibile utilizzare strategie di conduzione non direttive (Bichi, 2007)
utilizzando la tecnica della riformulazione e del rilancio a cui si sono affiancate alcune domande che richiamavano la
traccia dell’intervista rispettando, però, la logica del discorso impostato dall’intervistato.
71
Finalità del progetto è, quindi, il raggiungimento di un maggiore benessere relazionale come
risultante delle relazioni che si instaurano tra le persone protagoniste. Ogni intervento è, infatti, pensato all’insegna di un processo di empowerment relazionale (Folgheraiter, 1998, 2002)
che vede le persone coinvolte non solo come beneficiari, ma prima di tutto come coprotagoniste nella definizione e realizzazione degli interventi. Caratteristica della sperimentazione oggetto di studio è il rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, sia relativamente
alla collaborazione tra le famiglie e gli operatori, che sul fronte della partecipazione del privato
sociale alla definizione degli interventi comunitari a sostegno delle famiglie in partnership con
l’ente pubblico.
2.6.3 VALUTAZIONE DELLA “BONTÀ” DELLA PRATICA
Il Centro multifamiliare oggetto di studio è un’esperienza connotata da elementi di innovatività sia in quanto propone nel territorio di appartenenza una metodologia di lavoro innovativa
nel campo della tutela dei minori e del sostegno alle famiglie fragili, già sperimentata in altri
contesti internazionali e poco diffusa nel contesto nazionale, sia relativamente alle modalità di
implementazione del servizio, realizzato grazie ad una partnership fattiva tra pubblico e privato sociale in ogni fase progettuale.
Il Centro, nonostante sia di recente apertura, ha potuto contare sull’organizzazione di una équipe pluri-professionale al cui interno è presente una psicologa, formata presso il Marlborough Family Service e che già aveva partecipato all’implementazione della metodologia
nell’esperienza promossa dall’ASL di Milano (2001-2003). Accanto alle competenze pluriprofessionali, finalizzate a garantire un’integrazione della dimensione clinica con quella più
sociale, si trova anche una grande valorizzazione delle competenze esperienziali delle famiglie.
Le figure professionali che operano nel centro rappresentano un po’ tutto il cerchio delle professioni di aiuto, abbiamo un educatore che porta le competenze pedagogiche, un assistente
sociale che porta tutto il piano della dimensione del sociale e lo psicologo che porta lo sguardo clinico. Per cui è proprio un intreccio di visioni e visuali che si incontrano con quelle dei
genitori, dei bambini e di tutti coloro che partecipano (MFV1)
Il progetto è finanziato in gran parte con fondi dell’Ambito distrettuale a carico del Comune di
Varese, con un finanziamento della Fondazione Comunitaria del Varesotto e con fondi propri
della cooperativa sociale. La dimensione economica del progetto vede un investimento preventivo a sostegno di interventi intensivi (sia nella frequenza che nella durata degli stessi) multi-professionali (diversi sono gli operatori coinvolti e partecipi) ed infine multi-contestuali (molteplici sono gli ambiti di realizzazione delle attività, dagli spazi del Centro, ai luoghi di vita delle
famiglie fino ad arrivare agli spazi pubblici di socializzazione). Inoltre l’investimento economico
è finalizzato ad un lavoro sincronico con un gruppo di famiglie per la promozione delle loro
competenze genitoriali che, in alcuni casi, ha portato al rientro presso le loro famiglie di minori collocati in Comunità di accoglienza. Le caratteristiche strutturali del progetto e le finalità
operative permettono di affermare che il livello di efficienza degli interventi finanziati sia alto e
produca un risparmio economico per l’Ente pubblico sia in ottica preventiva, che a seguito dei
risultati operativi, come chiarisce un referente del progetto:
Il multi family
è una buona pratica perché è finalizzato a valorizzare le risorse residuali delle famiglie multiproblematiche con l’obiettivo di a) salvaguardare la permanenza dei minori all’interno della
famiglie, b) favorire il rientro dei minori nel caso in cui siano già allontanati e c) non dob-
72
biamo tralasciare, anche se dal punto di vista tecnico sembra ininfluente, il lato economico di
questo intervento che fa si che ci sia un netto risparmio economico da parte dell’ente pubblico (MFV1).
La sostenibilità dell’intervento è quindi data dalla capacità dell’Ente pubblico di individuare i
benefici preventivi della modalità di lavoro multifamiliare e di investire promuovendo la diffusione della sperimentazione. Nel caso studiato, a seguito della prima sperimentazione, l’Ente
pubblico, partner del progetto, ha deciso di rifinanziarlo ampliandolo all’Ambito distrettuale e
proponendone la realizzazione anche all’interno di un progetto presentato
dall’Amministrazione provinciale per un bando di finanziamento della Fondazione Cariplo.
Il Centro di Varese nasce a seguito di una collaborazione già attiva tra una realtà del Terzo Settore, quale appunto la cooperativa sociale, ed un Ente pubblico a cui si sono affiancate in rete
altre realtà pubbliche e del privato sociale attive nel territorio. Entrambe le realtà partner lavorano, da diverso tempo, nell’ottica del sostegno alla famiglia in una dimensione di valorizzazione della loro partecipazione cercando nuove modalità operative che possano innovare il
lavoro degli operatori nella relazione con i genitori. Dalle interviste dei responsabili dei due
soggetti partner emerge chiaramente questa impronta progettuale nell’organizzazione del lavoro il cui incontro ha permesso la realizzazione del Centro.
La cooperativa da tempo opera secondo un modello di valorizzazione della famiglia e di riconoscimento della necessità di attuare nuove modalità di intervento e affiancamento alle
famiglie multiproblematiche (MFV1)
Si sono incontrate due esigenze, da una parte quella istituzionale di voler ampliare il piano
con nuove sperimentazioni, dall’altra il privato che aveva già una esperienza in tal senso e
voleva mettere a fuoco nel territorio una sperimentazione di questo tipo, c’è stata all’inizio
una condivisione degli intenti tra le due realtà (MFV2)
La partnership si è formalizzata nella stesura di un Accordo programmatico di collaborazione i
cui obiettivi sono:

favorire l’incontro e l’aggregazione sociale tra le famiglie in un’ottica di reciprocità relazionale e di sostegno;

evitare l’allontanamento dei minori dalle loro famiglie o creare le condizioni affinché i figli
possano rientrare nell’ambito familiare;

costituire gruppi di Auto-Mutuo Aiuto a fronte dei bisogni portati dalle famiglie stesse.
L’accordo tra l’Ente pubblico e la Cooperativa sociale, oltre alla condivisione delle finalità
dell’intervento, ha definito la collaborazione tra gli enti firmatari individuando gli impegni di
ciascuno, che si sono poi sostanziati in attività operative che hanno visto coinvolti sinergicamente operatori dei Servizi Sociali comunali e della Cooperativa Sociale accanto alle famiglie
che hanno preso parte al progetto. Altri soggetti che hanno lavorato in rete (Folgheraiter,
1998, 2007) a sostegno delle famiglie, sono stati alcuni operatori della Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda Ospedaliera di Varese, insegnanti di alcune Scuole primarie di primo e secondo grado del Comune ed educatori di un Centro Diurno e di alcune Comunità di Accoglienza di
Minori, oltre alle famiglie stesse. La dimensione di partenariato risulta essere di grande importanza nella misura in cui diviene concreta e promuove un coinvolgimento attivo delle persone
interessate; in questo modo le buone pratiche diventano patrimonio delle comunità.
Credo che sia nella buona riuscita di ogni azione questo coinvolgimento, tutto quello che viene dall’alto e non viene condiviso è uno degli elementi di fallimento dell’azione, oppure va
bene per un periodo ma non crea la possibilità che le buone pratiche rimangono. Invece que73
sto coinvolgimento a vari livelli con responsabilità diverse, credo che faccia anche cultura del
cambiamento (MFV2)
Nell’esperienza in esame si possono individuare due differenti livelli di progettazione partecipata: da un lato la progettazione del Centro come servizio sperimentale, sia rispetto alle metodologie di lavoro con le famiglie, sia relativamente alla progettazione in partnership tra
pubblico e privato sociale; dall’altro la progettazione relativa agli obiettivi di partecipazione
delle singole famiglie. A questi due livelli hanno lavorato in rete soggetti differenti. Al primo
livello vediamo la partecipazione degli operatori della Cooperativa sociale, nelle figure del Responsabile del progetto, della Psicologa e dell’Assistente Sociale, e degli operatori del Servizio
sociale comunale quali la Coordinatrice dell’Area Minori, il Dirigente del Servizio Sociale ed infine, per l’approvazione formale del progetto, l’Assessore alle Politiche Sociali. Al secondo livello di progettazione hanno partecipato tutti i professionisti interessati, anche di servizi specialistici, a fronte della loro conoscenza dei nuclei familiari, gli operatori dell’équipe del Centro,
non ultimi, i genitori e in alcuni casi membri della rete familiare allargata.
Per quanto concerne la progettazione ed implementazione del Centro quale realtà sperimentale di lavoro con le famiglie nel territorio, dall’analisi della scheda strutturata compilata dal
Responsabile del servizio dell’Ente Capofila, emerge una buona capacità di lavorare in
partnership ed un elevato grado di partecipazione decisionale. I soggetti firmatari dell’Accordo
di partenariato hanno lavorato in rete sia nella fase di individuazione del bisogno di costituzione del Centro, che nelle fasi decisionali relative all’organizzazione operativa degli interventi.
Il gruppo di progettazione si è incontrato con frequenza quindicinale nella fase iniziale di avvio
e implementazione del servizio. Gli incontri progettuali si sono caratterizzati per un elevato livello di cooperazione a partire in primis dalla partecipazione e fiducia nelle competenze portate al tavolo di lavoro dai vari soggetti presenti che hanno promosso un buon livello di reciprocità tra i membri della rete. La progettazione è stata implementata in una dimensione di paritarietà tra i soggetti presenti a fronte del riconoscimento delle specifiche competenze portate
da ciascuno in relazione alla propria specificità: da un lato l’Ente pubblico, competente in materia di tutela minorile, a conoscenza dei bisogni del territorio e delle famiglie seguite dal proprio servizio sociale, dall’altro la Cooperativa sociale, rappresentante del mondo del terzo settore, portatrice della dimensione solidaristica del lavoro nel sociale e più vicina al linguaggio
delle famiglie. Il disegno della rete che ha promosso la progettazione del Centro (Figura 3) vede la presenza di tutti gli operatori dei due enti. La posizione centrale degli operatori della cooperativa, indicati in ordine di rappresentazione grafica per primi, rimanda al fatto che l’idea
di sperimentare questa nuova metodologia parte dalla psicologa referente del Centro che ha
visto poi la collaborazione nella realizzazione da parte degli operatori del Servizio di tutela minori dell’Ente pubblico, secondi ad apparire, ed il sostegno da parte del Comune e
dell’Assessorato, terzi in ordine di rappresentazione. Accanto e strettamente connessi agli operatori della Cooperativa è stato infine indicato il Centro Diurno che ha ospitato il Centro,
quasi a riconoscergli un ruolo fondamentale nella progettazione sia perché luogo fisico dove si
è collocato il Centro, sia data la presenza di un operatore che conosceva gran parte delle famiglie che hanno partecipato al progetto, vista la frequenza dei loro figli al centro diurno e,
quindi, partecipe attivamente anche nella fase di definizione degli obiettivi con diverse famiglie. Le relazioni indicate con linee continue e tratteggiate convergono verso il centro e tutti i
soggetti sono racchiusi nella cornice di una casa, quasi a rappresentare fisicamente che la collaborazione ha permesso la costruzione di una casa comune, prima di tutto tra operatori di
servizi diversi, per poi poter accogliere le famiglie beneficiarie e partecipi degli interventi.
74
Figura 3 – Rappresentazione grafica della Rete
Il trattamento multifamiliare si rivolge a famiglie definibili come multiproblematiche, anche in
questa sperimentazione protagoniste del progetto sono state alcune famiglie con figli minori
seguite dai Servizi Sociali dell’Ente, in situazione di disagio conclamato o di disagio sommerso,
segnalate ai servizi attraverso la scuola, alcune delle quali con figli allontanati e collocati in
comunità di accoglienza per minori. Hanno preso parte al primo progetto sperimentale 5 nuclei familiari nello specifico, 8 genitori, 8 minori e 5 figure parentali della cerchia allargata. La
proposta di partecipare al progetto è stata fatta loro da parte degli operatori dei servizi sociali
comunali che già le seguivano. In seguito, con ciascuna di loro è stato fatto un network meeting
iniziale alla presenza di tutti gli operatori, dei familiari coinvolti e di altre persone significative
eventualmente segnalate dalla famiglia stessa. Finalità del primo incontro di rete è stata la
condivisione dell’opportunità per la famiglia di partecipare alle attività del Centro e la definizione degli obiettivi concreti che ciascuno dei presenti si proponeva, genitori compresi. A questo livello di progettazione vediamo una grande partecipazione, a parità di status, dei singoli
nuclei familiari. Obiettivo del progetto, infatti, non è solo la possibilità di fare una valutazione
complessiva delle capacità dei genitori che vi partecipano, ma in primis promuovere processi
di empowerment affinché le famiglie riscoprano le loro competenze, le rafforzino e, in un processo di auto-mutuo aiuto con le altre famiglie partecipanti, possano apprendere nuove attenzioni genitoriali nei confronti dei loro figli (Thomson, Ros, 2003).
Inquadriamo il multi family sempre meno nella dimensione della valutazione, ma sempre più
come intervento di co-terapia, di sostegno tra le famiglie, certo c’è una premessa valutativa,
ma poi mira molto a far si che le famiglie apprendano e riconoscano le loro competenze pedagogiche, genitoriali e affettive che hanno dentro di sé attraverso l’incontro denso e profondo con le altre famiglie (MFV1)
Le famiglie, quindi, sono partner a tutti gli effetti del progetto e sono coinvolte a pieno titolo in
tutti i processi decisionali, dalla condivisione iniziale del problema, alla progettazione e defini-
75
zione degli interventi a loro sostegno, alla realizzazione e valutazione degli interventi condivisi.
È questa una modalità di lavoro con le famiglie che si fonda sul principio che i genitori, seppur
in difficoltà, hanno il diritto di continuare a partecipare alla vita dei loro figli e di essere sostenute in un percorsi di recupero delle proprie competenze. È necessario, quindi, che si ridefinisca la posizione dell’operatore nella rete, non più come esperto risolutore dei problemi di vita
delle famiglie, ma come accompagnatore delle reti nella definizioni di strategie relazionali che
possano permettere alle famiglie di riacquisire capacità d’azione e tornare a svolgere il proprio
compito genitoriale, garantendo contestualmente il compito istituzionale dell’Ente di tutela dei
minori.
Sostenere le famiglie nel vivere un processo di empowerment delle loro capacità, averne
maggiore consapevolezza. E questo è promosso proprio dalle modalità di lavoro degli operatori che hanno fin dall’inizio un ruolo un po’ più defilato e comunque “non interventista”, sono le famiglie protagoniste e quindi che devono partecipare, non sono gli operatori a dire cosa devono fare o cosa va bene, certo, loro sono garanti della sicurezza, ma sostanzialmente
danno feedback e sollecitano che siano le famiglie a risolvere le situazioni di difficoltà che si
creano perché d’altronde questo è quello che accade nella quotidianità e a casa poi sono da
sole, nel senso che “non ti dico cosa devi fare ma cerco di aiutarti a trovare la soluzione più
adatta o possibile per le tue capacità (MFV3)
L’approccio relazionale (Folgheraiter 1998, 2007) nel fronteggiamento delle problematiche
portate dalle singole famiglie, che ha caratterizzato costantemente l’intero progetto, ha sottolineato l’importanza di riconoscere una nuova voce alle famiglie, promuovendo il loro diritto a
prendere parte alla definizione degli interventi, riconoscendo loro, però, anche la responsabilità di azione a fronte di un sostegno possibile.
C’è una partecipazione più attiva ed è un po’ come se si fossero guardate di più come famiglie rendendosi conto maggiormente delle cose che fanno, ma anche attivandosi di più. Cioè
questo discorso del diritto di poter dire delle cose, e di poterle fare, adesso è più forte, tanto
che anche i servizi sociali si sono accorti che negli incontri successivi le famiglie avevano una
voce più forte […] (MFV5)
Accanto al diritto di partecipazione e autodeterminazione, troviamo come altro valore fondante l’intero intervento il concetto di reciprocità. È l’incontro con altre famiglie che vivono situazioni simili che permette di superare la condizione di isolamento,
[…] è l’auto-mutuo aiuto che favorisce la reciprocità e che crea relazioni che permettono alle
famiglie di uscire dalle situazioni di isolamento in cui molto spesso queste famiglie si trovano
a vivere che spesso diventano poi causa di ulteriori disagi (MFV1)
e di facilitare l’individuazione di nuove strategie di fronteggiamento alle situazioni di difficoltà,
di riscoprirsi ancora competenti.
Il fatto di essere in un gruppo di altri genitori aiuta ad avere meno resistenze rispetto a quello
che invece è il rapporto con gli operatori dove tendono un po’ a negare le difficoltà invece li
sono molto visibili. Il fatto che anche gli altri genitori abbiano difficoltà differenti fa sentire
meno etichettati e quindi anche una maggiore libertà di guardarsi e osservarsi senza, […] con
una minore resistenza (MFV4)
La dimensione di reciprocità è caratteristica di ogni giornata multifamiliare sia nelle attività
che si svolgono presso il Centro, che come proposta di riflessione condivisa. Ogni incontro, infatti si apre e si chiude con momenti di gruppo facilitati dagli operatori nei quali si condividono
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gli obiettivi che ci si propone per poi confrontarsi alla fine della giornata sul loro raggiungimento.
Sono momenti molto importanti per le famiglie, perché da un lato gli operatori le aiutano a
riflettere su cosa è successo durante la giornata. Ma anche le famiglie tra di loro si dicono
delle cose. Si confrontano, si scambiano. Vedi proprio come si riescono a capire, condividono
le fatiche (MFV3)
Altra importante caratteristica dell’esperienza presa in esame è la promozione di un Gruppo di
Auto-Mutuo Aiuto (Steinberg, 1997) per le famiglie al termine del ciclo intensivo del gruppo
multifamiliare. Focus del progetto non è solo la valutazione delle situazioni familiari e il potenziamento delle loro risorse attraverso il lavoro con il gruppo dei pari, ma anche
l’implementazione di una rete di sostegno formata dalle famiglie partecipanti al progetto che
permanga oltre la fase intensiva dell’intervento.
[…] altra caratteristica del nostro progetto è che non finisce dopo il ciclo intensivo ma che
prosegue dopo con un gruppo di auto-mutuo aiuto con un facilitatore che dà la garanzia alle
famiglie di continuità, non è un intervento di monitoraggio che valuta o controllo ma è una
figura che li accompagna di cui loro dovrebbero aver imparato a fidarsi e viceversa (MFV1)
L’esperienza del gruppo di auto-mutuo aiuto è un obiettivo di promozione del capitale sociale
comunitario il cui raggiungimento è connesso alle dinamiche relazionali che si sviluppano durante le giornate multifamiliari e nella relazione con gli operatori. L’instaurarsi di relazioni di
sostegno tra le famiglie diviene, quindi, non solo un processo da facilitare per il raggiungimento degli obiettivi dei singoli nuclei familiari, ma anche un risultato dell’esperienza del lavoro
fatto insieme a cui tendere.
Ci raccontano [le famiglie] che vanno a mangiare la pizza insieme, escono la domenica perché si sono instaurate delle relazioni di fiducia per cui si vedono anche al di là dei momenti
che proponiamo loro […] Credo che questo sia un risultato molto importante del progetto
perché proseguono ad incontrarsi e si vedono, insomma, escono un po’ dalle difficoltà e vivono momenti buoni tra di loro. […] E poi il fatto che le famiglie abbiano creato una relazione
tra di loro, che continuino a venire agli incontri di gruppo e si vedano al di fuori dà conto della fiducia che hanno sperimentato. E questi esiti sono sicuramente positivi per le famiglie, ma
anche agli occhi degli operatori e, come dire, innovativi, inaspettati, non li puoi programmare
nell’intervento e che in parte fanno di questo modello una pratica innovativa (MFV3)
Anche la fase di valutazione è stata condotta in modo partecipato sia relativamente alla progettazione sperimentale del servizio, che in merito alle singole situazioni dei nuclei familiari
che vi hanno preso parte. Per questo secondo livello di valutazione gli indicatori dell’efficacia
dell’intervento si sono rifatti agli obiettivi inizialmente condivisi da tutti i presenti. Sono state
considerate le dimensioni di soddisfazione dai differenti punti di vista: degli operatori, garanti
del compito istituzionale di tutela dei minori, e delle famiglie che vivono quotidianamente la
situazione di fragilità. La valutazione della sperimentazione, che ha visto impegnati gli operatori dell’ente pubblico e del privato sociale, ha toccato sia una dimensione più quantitativa,
connessa al raggiungimento degli obiettivi posti inizialmente dal progetto, che una dimensione qualitativa che ha concentrato la sua attenzione sulla potenzialità del progetto di capitalizzare l’esperienza prodotta e promuoverne la diffusione.
[…] la valutazione si basa su dati oggettivi, ma anche sulla base dello sviluppo delle relazioni,
della promozione dell’empowerment delle famiglie, del fatto che le famiglie si fidano tra di lo-
77
ro e degli operatori e viceversa. L’esito è che le famiglie hanno costruito delle relazioni, dei legami (MFV1)
La diffusione dell’esperienza non passa solo attraverso la catalizzazione di relazioni tra le persone, ma anche grazie alla promozione di un nuovo approccio al lavoro con le famiglie multiproblematiche che si è concretizza nella possibilità, per gli operatori dell’ente pubblico e dei
servizi specialistici, di partecipare in prima persona alla sperimentazione, di guardare alla famiglia con una nuova prospettiva di collaborazione, di cogliere il potenziale di cambiamento
sia nei genitori che in loro stessi, di toccare con mano la possibilità di lavorare in partnership
con i loro utenti.
Uno degli obiettivi è proprio cercare di condividere con gli operatori l’ottica di fondo
dell’intervento, promuovere il fatto che inizino a vedere le famiglie come risorse, o meglio, che
inizino a considerare il loro diritto ad essere coinvolte quando si decide della loro vita (MFV3)
Entrare a piè pari in una nuova modalità di lavoro che vede il professionista al fianco delle famiglie multiproblematiche nei processi decisionali e che riconosce le competenze esperienziali
dei genitori, spesso disorienta gli operatori abituati a lavorare tecnicamente secondo un processo di problem solving unidirezionale.
Nella storia dei servizi siamo abituati a trattare le famiglie come portatrici di bisogni ma difficilmente si considerano anche risorse, questo si fa più fatica, questa nuova metodologia invece mette proprio in luce questo aspetto (MFV2)
La partecipazione attiva degli operatori alla sperimentazione ha permesso di “contaminarli”
alla metodologia e di diffondere l’approccio relazionale nel lavoro con le famiglie, lasciando
aperta la possibilità ai singoli di aderire o meno alla proposta fatta.
Per gli operatori dei servizi la partecipazione in modo diretto ha permesso di veder la famiglia in una altro modo, anche se questo approccio spaventa, ha permesso a chi aveva voglia
di starci nella rete di sentirsi legittimato a starci e di continuare a starci. (MFV5)
D’altra parte, come sottolinea l’assistente sociale del servizio di tutela minori, il rischio che si
corre è di intravvedere la possibilità di defilarsi dal proprio ruolo istituzionale sicuri del fatto
che altri si stanno occupando dei genitori e dei ragazzi, affidandosi completamente alla capacità e alle valutazioni dei colleghi impegnati costantemente nel lavoro con le famiglie.
Il rischio può essere un po’ di delega. Il fatto di essere così presenti in un tempo, sì definito
ma molto presenti, rischia un po’ di essere visto, […] “‘va bene la situazione è seguita e monitorata ci diranno poi loro quello che andrà un po’ fatto […]” secondo me, non so in che modo,
ma questa cosa è un po’ un rischio (MFV4)
La diffusione della metodologia di lavoro è stata oggetto di un convegno organizzato dagli enti
partner del progetto, convegno che ha visto la partecipazione di diversi operatori dei servizi
territoriali pubblici e del privato sociale impegnati nel sostegno alle famiglie fragili con minori.
L’evento ha toccato temi connessi al lavoro sociale di rete, nell’attuale sistema di welfare a tutela dei minori, e alla dimensione clinica del lavoro con le famiglie multiproblematiche ospitando uno dei fondatori della metodologia di lavoro multifamiliare. È stata questa un’ulteriore
occasione di formazione per gli operatori coinvolti nella sperimentazione e di
cultura, informazione, curiosità e conoscenza (MFV2)
per gli altri professionisti presenti.
78
La voce delle famiglie si affianca a quella degli operatori nell’affermare l’importanza della partecipazione al progetto. Entrambi i genitori intervistati hanno riportato di come l’esperienza
abbia permesso loro di acquisire maggiore consapevolezza del loro ruolo genitoriale e
dell’importanza della relazione con i loro figli. La possibilità di passare del tempo insieme in un
contesto naturalistico, di svolgere attività quotidiane, con la facilitazione degli operatori, ha
permesso a genitori e figli di conoscersi meglio reciprocamente, di imparare ad esprimere le
proprie aspettative e ad ascoltare i bisogni dell’altro. Una mamma riferendosi alle attività fatte
insieme al figlio spiega che il progetto le è servito per:
vedere che se c’ero io faceva delle cose, con me voleva fare delle cose, cioè, stargli dietro. Magari a casa non succede perché c’è la casa, il lavoro e il tutto. Non riesco più di tanto a dedicarmi a lui come vorrebbe (MFV6);
mentre un papà, che ha partecipato al progetto con i due figli, allora collocati in comunità, riferisce che si è portato a casa
un po’ di gratificazione e un bagaglio di esperienze” che l’hanno aiutato nella relazione con i
suoi due figli perché “ho imparato a recepire le problematiche dei miei figli quando non mi
parlano (MFV7).
Dalle parole dei genitori intervistati si coglie una fatica iniziale alla partecipazione data dalla
non conoscenza della proposta di lavoro e dalla paura di doversi confrontare con altri, temendo valutazioni negative della propria persona.
All’inizio ero un po’ titubante perché non sapevo (MFV6)
Siccome nella mia situazione ho preso colpi bassi, non sapevo più se le altre persone credevano in me (MFV7)
Partecipando, però, le paure si sono sciolte e le famiglie hanno contribuito alla buona riuscita
del progetto mettendo in campo tutte le loro competenze esperienziali. Il confronto con altre
famiglie che vivono simili situazioni di difficoltà, scevro da giudizi di valore, ha promosso un
processo di auto-mutuo aiuto che ha generato vissuti di sostegno nel gruppo e comprensione,
che difficilmente passano dalla relazione con gli operatori. I genitori intervistatati affermano:
una persona che non ha mai avuto problemi, che non ha figli, che non c’è mai passata, secondo me può capire relativamente quello che tu passi, quello che stai provando. Una persona invece che c’è dentro anche quotidianamente o che ci è già passata, secondo me ti può
capire di più e ti può aiutare dandoti dei consigli. (MFV7)
ci crede di più una mamma, un altro genitore che ha dei bambini ci crede di più, c’è più credibilità, si apre di più e subito si da fiducia, prendi subito fiducia … Con i servizi sono sempre
persone un po’ esterne, estranee e magari non sanno veramente quando toccano proprio
con mano, personalmente, questi problemi. (MFV7)
Il lavoro in gruppo multifamiliare e la possibilità di confrontarsi con altre esperienze hanno
permesso, inoltre, di rinforzare i singoli nella percezione della possibilità di fare ancora cose
“buone” nonostante la loro situazione di difficoltà.
Quando sento persone che magari hanno problemi con i figli, o qualcosa di brutto tante volte
mi sento , anche solo parlando con lei, mi sento di averla aiutata. (MFV6)
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Quando si è dentro questo ciclo, quando ti capita direttamente, sulla pelle, ognuno fa le sue
esperienze e c’è questo scambio di informazioni e si può aiutare l’altro, l’altra famiglia.
(MFV7)
La valutazione finale della partecipazione al progetto di entrambe le famiglie intervistate è di
un’esperienza positiva in grado di portare aiuto concreto alle famiglie tanto che il consiglio è
di provare. (MFV7)
Le indicazioni operative future che emergono dalle interviste rimandano all’importanza da un
lato di proseguire nell’implementazione dell’esperienza, rendendo stabile il funzionamento del
Centro con l’individuazione di uno spazio appositamente adibito (la Cooperativa ha da poco
acquistato un appartamento nella città di Varese che verrà adibito a Centro multifamiliare),
dall’altro di proseguire nella diffusione dell’approccio multifamiliare al lavoro con le famiglie
multiproblematiche favorendo momenti di formazione, di confronto fra gli operatori e le famiglie e di comunicazione delle buone pratiche in atto.
2.6.4 LA “BUONA PRATICA” DALLA PARTE DI CHI LA VIVE: ANALISI DELLE INTERVISTE CON T-LAB
Dall’analisi dei testi delle interviste con il software T-Lab è stato possibile individuare le correlazioni semantiche attorno ad alcune parole chiave sul tema delle buone pratiche a sostegno
delle famiglie fragili con minori. Per una più approfondita disamina del metodo di analisi del
testo con T-Lab si rimanda al relativo capitolo metodologico.
Dalle interviste somministrate ai responsabili e agli operatori coinvolti nel progetto sono state
individuate due parole chiave quali Famiglia, analizzata sia dal punto di vista degli operatori
che dei responsabili, e Operatori, parola frequentemente presente nel discorso degli operatori
del servizio.
Figura 4 – Associazioni con il termine “famiglia” nelle risposte degli operatori
alla domanda sulla Buona Pratica
80
Nel “discorso” degli operatori attorno alla parola famiglia si delineano le caratteristiche di una
nuova modalità di lavoro dei servizi (modalità, nuovo, lavoro, servizi). La connessione con la parola operatore ricorda la necessità della presenza di una figura professionale che, però, si ponga in una prospettiva di accompagnamento nella ricerca di soluzioni condivise alle difficoltà
familiari. Infatti, accanto ai termini aiutare, sostenere e difficoltà, che rimandano alla necessità
di un intervento professionale a sostegno delle situazioni multiproblematiche che vivono le
famiglie, troviamo la parola insieme a significare l’importanza del coinvolgimento delle famiglie
stesse e della loro partecipazione attiva all’individuazione delle strategie di fronteggiamento
delle difficoltà che vivono.
Le correlazioni con le parole possibilità, capacità, trovare, emergere e vedere, richiamano gli obiettivi del lavoro insieme e l’impronta pro-attiva della modalità di lavoro multifamiliare, approccio che chiede di assumere uno sguardo nuovo nei confronti delle famiglie multiproblematiche che si fonda sulla fiducia nelle competenze delle famiglie, riconoscendo loro un ruolo
centrale come co-protagoniste dello svolgersi del progetto e non solo di beneficiarie degli interventi a loro sostegno.
Se osserviamo il campo semantico relativo alla parola famiglia, nelle risposte date dai responsabili del servizio troviamo co-occorrenze simili alle verbalizzazioni degli operatori relativamente alla necessità di individuare nuove modalità di intervento a sostegno della famiglia
(nuovo, lavoro, servizio), ma è di maggiore interesse analizzare la sequenza di parole che precedono e seguono il termine famiglia. Possiamo notare che i termini in carico e storia sono posizionati antecedentemente alla parola famiglia, quasi a voler ricordare che le famiglie che partecipano al progetto sono conosciute e seguite dagli operatori precedentemente l’avvio del
progetto e c’è già una storia di interventi a loro dedicati. Strettamente correlati troviamo come
molto significativi i termini lavoro e gruppo che delineano le caratteristiche metodologiche del
progetto multifamiliare: un lavoro in gruppo con le famiglie. Il posizionamento antecedente di
queste due parole e la loro vicinanza con il termine famiglia evocano le fasi di avvio del progetto dove, fin dai primi incontri, le famiglie siedono al tavolo della progettazione come coprotagoniste. Segue frequentemente alla parola famiglia il termine fragile andando a sottolineare le dimensioni di difficoltà che spesso portano con sé le famiglie che accedono al servizio. Accanto a questo troviamo, però, verbalizzato anche il lemma partecipare che richiama la
dimensione di collaborazione del progetto dove le famiglie, anche se in condizioni di fragilità,
partecipano a pieno titolo alla definizione degli obiettivi e alla realizzazione degli interventi a
loro sostengo.
81
Figura 5 – Co-occorrenze di parole che precedono (in rosso) e che seguono
(in blu) il termine famiglia
82
L’analisi del campo semantico della parola operatore è sorprendente rispetto alla sua similitudine con il campo semantico della parola famiglia nel discorso degli operatori. In una stretta
correlazione tra loro vi ritroviamo gli stessi termini quali servizio, modalità, lavoro, nuovo, a definire la sperimentazione insieme alle famiglie di un approccio innovativo al lavoro di tutela dei
minori. A corollario di questo, come per il termine famiglia, ritroviamo le parole che sottolineano l’aspetto di ricerca delle soluzioni alle situazioni di difficoltà (difficoltà, sostenere) in
un’ottica di integrazione del lavoro degli operatori con le competenze esperienziali delle famiglie (capacità, possibilità, emergere, trovare). Infine il termine vedere ci richiama alla necessità di
adottare uno sguardo relazionale alle situazioni familiari sottolineando nuovamente quanto
sia necessario osservare le famiglie non tanto per le loro difficoltà, quanto per le loro possibilità concrete di emergere dalle situazioni di fatica, passando da un ruolo di meri beneficiari a coprotagonisti dell’intervento.
83
Figura 6 - Associazioni con il termine “operatore” nelle risposte degli operatori
alla domanda sulla Buona Pratica
2.7. DARE UNA FAMIGLIA A UNA FAMIGLIA – TORINO
di Mariettina Ressico
Il progetto/servizio “Dare una famiglia a una famiglia” rappresenta un approccio innovativo
nell’ambito dell’affidamento familiare diurno, in quanto prevede l’allargamento di questo intervento non solo al minore, ma a tutta la sua famiglia, anch’essa bisognosa di aiuto e sostegno, attraverso il coinvolgimento e l’apporto dell’intero nucleo affidatario. Il progetto/servizio
si posiziona come attività di tipo preventivo, poiché pone tra gli obiettivi quello di diminuire i
fattori di rischio che possono portare all’allontanamento del minore quale risposta ai problemi
interni del nucleo familiare. L’iniziativa nasce a Torino, in un territorio già fortemente consapevole che un intervento preventivo può avere benefici non indifferenti dal punto di vista delle politiche sociali, a livello territoriale, comunitario e politico.
La proposta progettuale è stata avanzata dal Settore Minori e dal Settore Famiglia della Città
di Torino, ed è stata selezionata tra i vincitori nell’ambito del bando “La fatica di crescere: un
progetto per l’infanzia”, promosso dalla Fondazione Paideia nel 2003 allo scopo di far emergere idee progettuali innovative da sviluppare, per trasformarle in progetti esecutivi realizzabili
ed efficaci.
84
Il rapporto tra il Comune di Torino e la Fondazione Paideia è andato oltre l’approvazione del
progetto e relativo finanziamento, in quanto la Fondazione fin dalle prime fasi del progetto si
è proposta come partner attivo, fornendo il supporto di suoi consulenti lungo tutto lo sviluppo
del percorso.
Dato l’aspetto innovativo del progetto, si è resa necessaria una sperimentazione, terminata la
quale il progetto è diventato una modalità di intervento che si inserisce nelle politiche ordinarie del Comune di Torino per i minori in situazioni personali e familiari difficili. Uno degli elementi del suo successo consiste senza dubbio nella sua capacità di fornire un’utile e concreta
risposta alla domanda semplice, ma fondamentale, fatta da un minore affidato “Perché aiutate solo me? Perché non aiutate anche i miei genitori? La mia famiglia ne ha bisogno quanto
me” (Maurizio, a cura di, 2007).
2.7.1 METODOLOGIA
Per lo svolgimento dello studio del caso ci si è avvalsi di strumenti diversi a seconda del ruolo
ricoperto dagli interlocutori di riferimento nel progetto/servizio. Per la descrizione dettagliata
dei suddetti strumenti si rimanda al capitolo del report complessivo, in cui questi vengono illustrati.
Gli interlocutori di riferimento sono stati: i responsabili degli enti capofila del progetto, gli operatori coinvolti nella sua gestione, l’utenza. Qui di seguito sono illustrati nel dettaglio: il numero dei soggetti coinvolti nello studio del caso, la loro funzione all’interno del progetto/servizio,
e gli strumenti utilizzati in funzione del loro ruolo, codificati nella successiva Tabella 9 :

Responsabili dei due Enti capofila del progetto, e precisamente il Segretario Generale della
Fondazione Paideia di Torino e il Responsabile degli Interventi Territoriali Divisione Servizi
Sociali, Settore Minori città di Torino, essendo il progetto nato e gestito in partnership tra i
suddetti soggetti. Ai responsabili è stata somministrata un’intervista semi-strutturata, inoltre è stato chiesto loro di disegnare una rappresentazione grafica della rete e di compilare
la scheda predisposta per i responsabili degli enti capofila.

Due operatori che hanno preso parte alla realizzazione del progetto, e precisamente il
Consulente della Fondazione Paideia che ha seguito lo start up, lo sviluppo e il monitoraggio del progetto, e un’Assistente Sociale del Settore Minori dei Servizi Sociali del Comune
di Torino che ha partecipato alla sperimentazione. Agli operatori è stata somministrata
un’intervista semi- strutturata.

Un socio di una delle Associazioni coinvolte nel progetto (la “Vides Main” di Torino), coordinatore dell’équipe degli educatori della cooperativa che lavora in parallelo
all’associazione.

Otto famiglie solidali o affidatarie, che hanno fatto l’esperienza di dare una famiglia a
un’altra famiglia. Le famiglie hanno compilato una scheda a domande aperte per loro predisposta.

Sette famiglie affidate, che grazie al progetto hanno ricevuto l’appoggio di un’altra famiglia. Le famiglie hanno compilato una scheda a domande chiuse per loro predisposta.
Lo studio del caso è stato inoltre approfondito attraverso le seguenti fonti:

il volume “Dare una famiglia a una famiglia. Verso una nuova forma di affido” (Maurizio, a
cura di, 2007). Il volume raccoglie gli esiti, le testimonianze e la valutazione del progetto/servizio studiato;
85

gli Atti del convegno tenutosi a Torino il 19 maggio 2007 in occasione della presentazione
del volume su indicato;

il Sito web della Fondazione Paideia
Tabella 9 – Numerazione strumenti
Cod.
Intervistato
Strumento
Scheda strutturata per responsabile ente capofila
AFT 1
AFT 2
Segretario generale della Fondazione Paideia
Rappresentazione grafica della rete
Traccia per intervista responsabile del
servizio (ente capofila)
Responsabile interventi territoriali della Divisione
Servizi Sociali, Settore Minori, Città di Torino
Scheda strutturata per responsabile ente capofila
Rappresentazione grafica della rete
Traccia per intervista responsabile del
servizio (ente capofila)
AFT 3
Consulente Fondazione Paideia
Griglia per intervista soggetti operativi
AFT 4
Assistente Sociale Settore Minori, città di Torino
AFT 5
Socio di un’associazione di volontariato e coordinatore dell’équipe degli educatori della cooperativa che lavora in parallelo all’associazione
Traccia per intervista Associazioni
AFT 6
Famiglie solidali o affidatarie (da A a H)
Scheda a domande aperte
AFT 7
Famiglie affidate (da A a G)
Scheda a domande chiuse
Griglia per intervista soggetti operativi
31
2.7.2 ANALISI DEL SERVIZIO
La sotto riportata elenca sinteticamente i vari punti che saranno di seguito analizzati sulla base di quanto espresso dagli intervistati in merito alla buona pratica “Dare una famiglia a una
famiglia” in quanto servizio relazionale, e alla sua valutazione in termini di efficienza, efficacia,
relazionalità e qualità etica dei fini.
Il problema/bisogno cui il progetto “Dare una famiglia a una famiglia” risponde è quello di un
sostegno temporaneo a famiglie fragili con minori, un sostegno di tipo preventivo, in quanto
interviene su quelle situazioni che non sono ancora all’interno dei servizi codificati, e non sono
così gravi da richiederli, la cosiddetta “zona grigia”. I casi seguiti dal progetto riguardano principalmente famiglie monogenitoriali, soprattutto mamme sole con bambini, poche famiglie
straniere, e alcune famiglie multiproblematiche. Alla domanda rivolta agli intervistati “Perché
secondo lei questo progetto/servizio può essere considerato una “Buona Pratica”, le risposte
dei singoli responsabili degli enti capofila e degli operatori si concentrano su punti diversi: risorse, obiettivi, un buon utilizzo della metodologia di lavoro, e la filosofia cui il progetto/servizio risponde.
31
Alle famiglie affidatarie è stata fatta compilare una scheda con 5 domande aperte, mentre le famiglie affidate hanno
compilato una scheda con sette domande chiuse cui dovevano rispondere: falso - un po’ falso e un po’ vero – vero
(Cfr. Allegati).
86
Una delle risorse del servizio è rappresentata dalle famiglie “solidali" o “affìdatarie”, che come
sottolinea il Segretario Generale della Fondazione Paideia,
hanno la capacità di sostenere famiglie fragili con minori in un percorso, mettendo a loro disposizione, con una vera ottica di prossimità familiare, le proprie competenze, riconoscendo
comunque anche le proprie debolezze, che possono diventare punti di forza. (AFT 1)
Un’altra risorsa importante è costituita dalle Associazioni e loro reti, che essendo ben radicate
sul territorio sono i soggetti più sensibili rispetto alla collettività generale: attraverso l’utilizzo
del progetto le Associazioni hanno valorizzato competenze mai espresse in modo così formalizzato, e soprattutto così riconosciuto. Il Responsabile della Divisione Servizi Sociali Settore
Minori della Città di Torino sottolinea che oltre queste risorse
occorre anche riscoprire lo strumento nostro per eccellenza che è la relazione, perché poi ce
la giochiamo lì, e da parte dell’associazione riscoprire anche l’alfabeto emotivo, infatti quando entri in relazione con un’altra famiglia le cose sono la prossimità, la vicinanza,
l’accudimento, la cura, il dono, tutte dimensioni che rientrano nell’ambito della sfera relazionale, che per noi operatori è diventata uno strumento base del nostro lavoro. Se manca questo […]. (AFT 2)
La valorizzazione delle risorse, famiglie e associazioni, diventa quindi anche un obiettivo indiretto del progetto/servizio.
Da un punto di vista del metodo, nei riguardi dei Servizi Sociali il progetto genera un nuovo
indirizzo metodologico, come evidenziato dal Responsabile della Divisione Servizi Sociali Settore Minori della Città di Torino.
nel senso che si sposta la centratura, l’attenzione, dal minore bisognoso di cura e accoglienza, alla famiglia d’origine… con un allargamento rispetto all’azione di solidarietà e all’azione
educativa che si può svolgere. (AFT 2)
Dalle interviste emerge che una regola molto importante da seguire per la buona riuscita
dell’intervento è quella di un corretto abbinamento tra le famiglie “solidali” o “affidatarie” e le
famiglie “affidate”. Per permettere a questo incontro di fornire qualcosa di rilevante è necessaria una cura complessiva del progetto, che comprende anche l’aspetto della continua formazione e supervisione, al fine di non lasciare le famiglie solidali abbandonate a loro stesse.
Le famiglie solidali sono reperite sia dai Servizi Sociali competenti sia dalle Associazioni che
operano nell’ambito sociale a livello circoscrizionale o cittadino. Può trattarsi di famiglie che
hanno già vissuto l’esperienza dell’affido di minori, ma anche di famiglie che per la prima volta
affrontano il percorso dell’affido.
Le famiglie affidate, possono essere individuate sia tra quelle già in carico ai Servizi Sociali, sia
tra quelle segnalate dalle Associazioni; queste ultime hanno avuto non solo la funzione di segnalare e proporre famiglie solidali e famiglie bisognose d’aiuto, ma anche un ruolo di sostegno e accompagnamento a favore di entrambe, in un’ottica di reciprocità e sussidiarietà con
l’Amministrazione.
L’innovazione metodologica contenuta nel progetto rappresenta a sua volta l’obiettivo fondamentale dell’intervento, in quanto l’applicazione di tale metodo consente di evitare
l’allontanamento del minore dalla sua famiglia d’origine, che è lo scopo primario di ogni intervento a favore delle famiglie fragili con minori.
L’idea che si possa intervenire a supporto delle situazioni di fatica delle famiglie con
un’opzione non di separazione ma con un’opzione di cura della situazione di partenza, è
87
senz’altro un elemento che definisce questo servizio come una buona pratica… l’innovazione
sta nell’aver trovato questo anello di congiunzione tra una presenza in casa, che non è però
una presenza professionale, ma quella di un’altra famiglia, che può quindi giocarsi i codici di
incontro su codici comunicativi più facili per la famiglia in difficoltà, un senso di minor giudizio da parte del sistema dei Servizi e la possibilità di pensare l’intervento non in funzione del
solo bambino, ma di tutto il contesto familiare. (AFT 3)
Le parole del Consulente della Fondazione Paideia, che ha curato il monitoraggio e la valutazione della sperimentazione del progetto a Torino, ben sottolineano l’importanza della relazione nel servizio. Attraverso i legami che si creano tra famiglie, è possibile recuperare un’etica
relazionale, inoltre il coinvolgimento della comunità sociale, delle associazioni, delle parrocchie, dei volontari e delle famiglie, fa sì che nella comunità si aprano nuove azioni di sviluppo,
di miglioramento e di inclusione sociale. Tra gli obiettivi del progetto/servizio vi è quindi anche
la crescita delle comunità, che si ribalta poi sulla crescita sociale e civile di tutto il Paese. Gli obiettivi quindi si incrociano e si intrecciano, in quanto interessano l’avvio di processi partecipativi con le famiglie e con la comunità locale.
Dalla metodologia utilizzata emerge quindi un ulteriore obiettivo del progetto, quello di
intervenire su situazioni di problematica esistenza reale con prospettive di mix professionale
e non professionale […](AFT 3)
come sottolinea nell’intervista il Consulente della Fondazione Paideia.
2.7.3 VALUTAZIONE DELLA “BONTÀ” DELLA PRATICA
La valutazione della bontà del progetto/servizio “Dare una famiglia a una famiglia” implica
l’analisi delle quattro dimensioni su cui si articola il modello di “buona pratica”:
efficienza, efficacia, relazionalità, qualità etica dei fini.
Circa l’efficienza, nel progetto la congruità tra mezzi e fini è garantita in particolare dal fatto
che ogni membro del nucleo solidale offre specifiche competenze. Già nella relazione che si
costruisce tra le famiglie si crea una progettazione, “cosa ognuno fa e per chi lo fa”, e tale elemento garantisce la congruenza del modello, cioè consente di dire che si tratta veramente di
un progetto “da famiglia a famiglia”.
Un sempre maggiore coinvolgimento delle Associazioni è auspicato da tutti gli intervistati, sia
riguardo alla loro attività propositrice di famiglie solidali e di famiglie bisognose d’aiuto, sia al
loro ruolo di sostegno continuo ad entrambe durante il progetto e anche successivamente ad
esso.
Il socio dell’associazione “Vides Main” intervistato afferma che l’esperienza ha evidenziato benefici forti del progetto in tempi non troppo lunghi, con un dispendio di risorse sicuramente
minimo rispetto a quello che sarebbe stato necessario mettere in campo con interventi più
indiretti e anche più invasivi nei confronti della famiglia destinataria.
esso costituisce una via di mezzo tra il concentrare i propri sforzi su pochi e tralasciare un
impegno generale, o l’allargare l’intervento con risorse minori, in quanto consente di non
perdere di vista il singolo, ma di poter destinare risorse a un numero maggiore di persone […]
questo tipo di intervento responsabilizza molto, e fornisce delle basi affinché le famiglie possano ripartire davvero: forse questo potrebbe veramente significare il superamento di uno
stato sociale visto solo come assistenziale. (AFT 5)
88
Inoltre gli Enti partner sostengono che, da un punto di vista economico nel rispondere al bisogno per il quale è stato ideato, il servizio consente anche un risparmio di risorse. Relativamente alla sostenibilità nel tempo del servizio, la Fondazione Paideia si è impegnata a finanziare la
sperimentazione del progetto, ma nel momento in cui questa termina, sono le realtà locali,
Enti pubblici o Fondazioni che devono farsi carico del costo del servizio. La prima sperimenta32
zione del progetto, a Torino, ha coinvolto 8 famiglie , e ha avuto la durata di un anno, allo
scopo di favorire un attento lavoro di monitoraggio e analisi dell’esperienza. Oggi a Torino il
servizio è diventato stabile, e costituisce uno degli interventi dell’affidamento, prioritario rispetto alle altre tipologie di affido. Il Responsabile della Divisione Servizi Sociali Settore Minori
della Città di Torino ribadisce che “è un progetto che ora va senza il padre”.
Successivamente alla sperimentazione di Torino, sempre attraverso il finanziamento della
Fondazione Paideia, ne è iniziata un’altra a Ferrara, e ora anche a Ferrara il servizio rientra tra
le politiche sociali del Comune per le famiglie fragili con minori. Anche i Comuni di Como, Novara, Monza, Piacenza, hanno dimostrato un forte interesse per avviare il progetto. Nel caso
del Comune di Piacenza si tratterebbe di “un’innovazione nell’innovazione”, in quanto il progetto lì è pensato per i casi di riunificazione post-comunità o post-affidamento, cioè nei casi in
cui il minore rientra in famiglia, ma i problemi della famiglia ci sono ancora, e meritano
un’attenzione non più esercitata nella forma dell’allontanamento, ma del supporto, tramite il
sostegno di una famiglia affiancante.
La trasformazione da buona prassi a buona politica avvenuta a Torino, e il fatto che altre realtà nel resto d’Italia abbiano chiesto di poter sperimentare questo modello sul loro contesto
territoriale, conferma che si tratta di una pratica con aspetto di notevole qualità.
Il Segretario Generale della Fondazione Paideia afferma:
Ci piacerebbe poter sperimentare lo stesso progetto in contesti territoriali molto diversi… non
si tratta mai di replicare il progetto, le sue basi vengono mantenute, ma dal punto di vista
strutturale viene ridefinita la partnership di tutti gli enti, quindi si chiede una condivisione da
parte degli enti partner… ci piacerebbe poter arrivare a definire una modalità operativa comune, e valutare se è possibile proporla come politica a livello nazionale, come avviene per
altre politiche che, a seconda del territorio, vengono utilizzate e gestite in modo diverso. (AFT
1)
Anche il socio dell’Associazione “Vides Main” ribadisce l’utilità dell’implementazione del servizio, quale ottimo strumento per contrastare l’attuale vulnerabilità sociale, senza essere comunque invasivo per la famiglia affidata.
A livello dell’efficacia, il successo dell’intervento effettuato riguarda sia la promozione
dell’empowerment dei destinatari sia l’incremento del capitale sociale primario, comunitario, e
generalizzato, che il progetto/servizio è in grado di produrre.
Nel progetto “Dare una famiglia a una famiglia” ogni attore partecipante si è messo in gioco in
situazioni particolari e innovative, cercando di sviluppare l’attenzione non solo alla persona,
ma anche al contesto in cui la persona vive, tema che non può essere trascurato se si vuole
parlare di “benessere sociale”. Il progetto lavora con un intervento “leggero”, non invasivo, che
mira a rendere le famiglie fragili con minori consapevoli sia delle proprie potenzialità e possibilità di crescita, sia dei propri limiti, e in grado di essere più autonome all’uscita dal progetto,
rinforzando le capacità del nucleo nella sua totalità. Il processo di consapevolezza non si sviluppa però da un giudizio professionale, bensì dalla condivisione di esperienze, in cui
l’esempio educativo della famiglia solidale verso i propri figli risulta determinante, in quanto
32
Ad oggi a Torino le famiglie che hanno potuto usufruire di questo intervento sono circa 150.
89
stimola un processo di emulazione positivo nella famiglia affidata, che ammira qualcosa che
spera di poter un giorno far anche sua. Alcune famiglie, dapprima restie a rivolgersi ai Servizi
Sociali, all’uscita del servizio, hanno addirittura chiesto a questi di costruire con loro un progetto.
Il passaggio da un’ottica del controllo a un’ottica del sostegno, fa sì che man mano che la famiglia affidata si avvicina a tali obiettivi, avvenga in essa un salto qualitativo, in quanto si percepisce più capace di recuperare la propria funzione genitoriale con i figli, nonché nuove autonomie lavorative, abitative. Le varie azioni del progetto/servizio vanno nella direzione di una
crescita di autostima, di pensiero positivo su di sé, di recupero di un pensiero progettuale,
cambiamenti che avvengono grazie al non sentirsi giudicati, ma supportati. Il Responsabile
della Divisione Servizi Sociali Settore Minori della Città di Torino sottolinea che
questo progetto punta molto alla valorizzazione dell’autostima… tutte le famiglie aiutate si
sono sentite valorizzate, rafforzate nella loro autostima, arrivando a pensare che ce la possono fare, che non sono sole… questo è anche un modo per rispettare di più le nostre famiglie bisognose. (AFT 2)
Molte famiglie affidate, al momento del loro ingresso nel progetto erano piuttosto isolate, anche a causa dell’inesistenza di una vera e propria rete nel territorio. Attraverso la relazione con
le famiglia solidali, i destinatari del servizio imparano ad utilizzare le risorse delle Associazioni,
quali ad esempio lo sportello lavoro, le attività sportive, l’aggregazione tra adulti attraverso
cene o gruppi di formazione, superando così l’isolamento sociale, e creandosi nuove possibilità di incontro con altre famiglie dello stesso quartiere, e ciò continua anche quando il progetto
è giunto a termine. Anche i legami di solidarietà che si creano tra famiglie affidatarie e famiglie
affidate permangono nel tempo, oltre la chiusura dell’intervento: sono esiti indiretti del progetto, che portano un benessere, in quanto favoriscono lo stare bene nella vita. Il socio
dell’Associazione “Vides Main” evidenzia come
si vede crescere non una famiglia ma due, infatti sarebbe limitante pensare che l’aiuto lo dà
solo una famiglia all’altra: molto spesso anche il fatto di avere la responsabilità di affido di
una famiglia genera dei bei processi anche all’interno di chi sta un po’ meglio. (AFT 5)
Inoltre nel progetto spesso la garanzia della qualità dell’intervento è determinata dal fatto che
la famiglia solidale non è sola nell’affiancamento, bensì collabora con altre famiglie. Tra le famiglie nascono processi auto-organizzativi, ma anche tra le associazioni stesse, che imparano
a interagire, a cooperare, irrobustendo così la rete. Inoltre il costante rapporto con le istituzioni può tradursi anche in altri progetti che hanno un impatto sul territorio. Il Socio
dell’Associazione intervistato sostiene che
Si tratta di un progetto che fa da catalizzatore dei processi sociali… in quartieri esposti alla
vulnerabilità, il fatto che ci sia qualcuno che ha voglia di mettersi in gioco aumenta le
chances che questo spazio migliore diventi uno spazio comune, poiché l’idea che in un
contesto in cui tutto viene visto come negativo ci sia la voglia di investire su quello che c’è di
positivo, sulle forze importanti, fa sentire valorizzato chi vi abita. (AFT 5)
Inoltre non è da trascurare l’elemento “integrazione delle famiglie straniere”, infatti quando
famiglie straniere si offrono come famiglie solidali, diventando protagoniste di un progetto,
dimostrano in modo concreto che fanno parte della comunità in modo positivo e importante,
che sono ben radicate in essa, anche questo è un elemento di “innovazione nell’innovazione”.
La relazionalità del progetto/servizio è dimostrata da vari elementi: la sua progettazione/realizzazione in modo partecipato fin dalla definizione del bisogno/problema cui risponde,
90
dal coinvolgimento dei beneficiari nella sua attuazione, e dalla valutazione effettuata
dell’intervento.
A livello territoriale il progetto è stato gestito dai Servizi Sociali, mentre la Fondazione Paideia
è stata direttamente impegnata nell’azione di coordinamento e monitoraggio progettuale. La
sperimentazione ha coinvolto gli Uffici Centrali dell’Assessorato alle Politiche Sociali, gli operatori dei Servizi Sociali di territorio, molte Associazioni ed Enti della Città di Torino, ma soprattutto ha suscitato l’interesse di numerose famiglie, con la loro preziosa disponibilità a tentare
nuove forme di solidarietà, di vicinanza, di sostegno.
Il passaggio dall’idea progettuale al progetto esecutivo ha richiesto una progettazione condivisa e partecipata, nonché molta cura e attenzione, quindi parecchio tempo, circa un anno e
mezzo, durante il quale il gruppo/tavolo di coordinamento si radunava periodicamente, con
una maggior frequenza iniziale. Dalla scheda strutturata compilata dai Responsabili degli Enti
capofila emerge che complessivamente il livello di partecipazione dei soggetti, il loro grado di
paritarietà, di fiducia e reciprocità tra loro, nonché la capacità di cooperare, risultano essere
piuttosto elevati. Circa la relazionalità del progetto, entrambi i Responsabili degli Enti capofila
ritengono che la rete sia indispensabile per rispondere in modo più efficace al bisogno per cui
il servizio è nato: ci si fa carico insieme, c’è condivisione di intenti, contenuti e processi, la risposta si articola col bisogno con gradi diversi di responsabilità dei diversi soggetti. I soggetti
33
della rete comprendono Enti pubblici e Enti di terzo settore .
Il consulente della Fondazione sottolinea che
il progetto nasce come frutto di un processo di interazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, e soggetti quali la Fondazione, che in questa esperienza si è posizionata in modo nuovo,
non nella funzione di solo erogatore, ma nella funzione di partner nel lavoro. (AFT 3)
Il Segretario Generale della Fondazione evidenzia come
la partecipazione condivisa ha avuto inizio già dalla definizione del problema centrale cui il
progetto voleva dare una risposta, degli obiettivi specifici cui era possibile dare una risposta,
gli attori, gli stakeholder che era possibile coinvolgere, e il gruppo target che avrebbe poi portato avanti il progetto e da lì in avanti tutte le azioni. (AFT 1)
La rappresentazione grafica della rete disegnata dal Segretario Generale della Fondazione
Paideia (Figura 7) mostra al centro il Coordinamento Generale del progetto/servizio, che ha
rapporti: con la Fondazione Paideia, responsabile della tutorship; con l’Ente Pubblico, a sua volta composto da Servizi Sociali, Assessorati, Aziende Sanitarie Locali; con il Coordinamento delle reti associative, intorno al quale gravitano le Associazioni Familiari, all’interno delle quali si
trovano le famiglie di sostegno, i Centri per la famiglia, le Parrocchie, le Organizzazioni di volontariato, le Associazioni formalizzate, i Consultori. Attraverso la Fondazione Paideia il Coordinamento Generale è anche in rapporto con altre Fondazioni, sia di origine bancaria sia comunitarie, che intervengono nel progetto quali partner finanziari.
Tutte le relazioni tra i vari partecipanti al Coordinamento Generale sono di tipo istituzionale,
quindi formali, mentre quelle all’interno del Coordinamento delle reti associative sono di tipo
informale. Inoltre all’interno di questi rapporti formali e informali, il legame tra le parti è mantenuto e curato dal Coordinamento delle reti associative.
33
Tra gli Enti pubblici: i Servizi sociali territoriali (partner principali), i Consorzi, nel caso gestiscano i servizi sociali, i
Comuni, gli Assessorati, i Consultori familiari, i Centri per la famiglia, che possono essere coloro che realizzano
l’affido. Tra gli Enti di terzo settore: Organizzazioni di volontariato, Associazioni prosociali, Parrocchia/Altre comunità
religiose, Fondazioni di origine bancaria e Comunitarie (comunità locali), Associazioni familiari, Reti informali (ad
esempio vicini di casa in situazioni specifiche)
91
Figura 7 – Rappresentazione grafica della rete da parte del Segretario Generale
della Fondazione Paideia
Anche secondo il socio dell’Associazione
sicuramente il fatto che ci sia un forte accordo tra chi pensa il progetto, chi lo finanzia, e chi
lo porta avanti, è una delle carte vincenti del progetto. (AFT 5)
L’Assistente Sociale intervistata sottolinea che
questo intervento costituisce una buona pratica di lavoro sociale poiché lega due concetti
fondamentali: la condivisione e la partecipazione. (AFT 4)
Quanto finora esposto nell’analisi evidenzia che anche Associazioni, famiglie solidali e famiglie
affidate sono coinvolti attivamente in tutte le fasi del progetto di intervento.
Come evidenzia il Consulente della Fondazione Paideia,
il progetto di intervento non è costruito dall’Associazione, dai Servizi, dalla famiglia affiancante, o dalla famiglia affidata, ma è costruito dagli uni e dagli altri insieme, infatti nel patto
firmato c’è scritto cosa si impegna a fare la famiglia in difficoltà, cosa si impegna a fare la
famiglia affiancante, cosa l’Associazione e cosa il Servizio Sociale. Se non c’è questa chiarezza
è difficile arrivare a un incontro progettuale. (AFT 3)
Inoltre il coinvolgimento attivo dei beneficiari è garantito dal fatto che
il nucleo familiare bisognoso, che si trova in una condizione di bisogno, di fragilità, prende
consapevolezza della sua situazione, e ha fiducia che attraverso aiuti concreti, e grazie alla
relazione con la famiglia solidale, che in quanto possedente risorse, capacità e tempo, mette
a loro disposizione questo “patrimonio”, possa andare verso una condizione di miglior benessere, di minore fragilità: modificare, migliorare, cambiare, agendo in modo partecipato e
vicino, favorendo empowerment, sono principi di buona pratica. (AFT 3)
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Vista l’elevata complessità del progetto, in quanto l’affidamento coinvolge un intero nucleo
familiare, nella fase di sperimentazione il progetto è stato monitorato in tutto il corso del suo
sviluppo da un gruppo tecnico centrale, che ha verificato e valutato i risultati dell’intervento, e
che come evidenzia il Consulente della Fondazione Paideia
è un luogo vivo, non formale, in cui si dialoga molto, nel quale anche le differenze di opinione
e di punti di vista sono sempre state un grande elemento di ricchezza nel lavoro. (AFT 3)
La successiva sperimentazione del progetto a Ferrara ha fatto emergere quello che, sempre
secondo il Consulente della Fondazione Paideia, è stato un limite nella sperimentazione a Torino, e precisamente la mancanza di una sponda di carattere scientifico-universitario. A Ferrara, la presenza nel gruppo tecnico centrale di una professoressa dell’Università locale, ha fatto
sì che il dialogo non restasse a livello operativo, ma si spostasse sui processi, sulle posizioni,
sulle culture che vi stanno dietro.
Oggi come criterio a chiunque si sta avvicinando al progetto, diciamo di trovare una sponda
in un’università locale, in quanto tale apporto può proseguire anche quando il progetto è
terminato, come contributo importante per rendere buona quella che siamo convinti sia una
buona pratica…è importante che il territorio crei un legame con qualcuno che appartiene al
mondo della ricerca scientifica, e che stia dentro al progetto in quanto lo sente come terreno
di ricerca, portando la sua competenza dentro a un gruppo di lavoro che serve anche a se
stesso, per crescere culturalmente. (AFT 3)
Circa la valutazione, sono state fatte: una valutazione ex ante, poiché ogni situazione portata
al tavolo decisionale era valutata sulla reale coerenza con gli obiettivi che il progetto si proponeva; inoltre veniva effettuata una valutazione periodica in base agli esiti attesi. Durante tutto
il percorso sono stati rivisti sia l’abbinamento tra le due famiglie, sia gli obiettivi, nonché il
tempo di raggiungimento degli stessi. A conclusione del periodo di affido definito, vi è una valutazione ex post, per verificare se gli obiettivi prefissati sono stati realmente raggiunti.
L’Assistente Sociale sottolinea l’importanza di una verifica congiunta con le due famiglie almeno ogni tre mesi,
per poter evidenziare insieme i punti di forza e le debolezze del progetto, rimodularne gli obiettivi e il livello di aspettative. (AFT 4)
Circa la Qualità etica dei fini, cioè la capacità del servizio di promuovere il welfare sussidiario
plurale, il responsabile della Divisione Sociale Settore minori della Città di Torino afferma che
nel progetto non sono coinvolti solo i Servizi Sociali, bensì vi è un allargamento alla comunità
locale, alla società civile, affinché si facciano carico anche delle azioni di inclusione sociale
del minore e delle famiglie che si trovano in difficoltà, riprendendo i principi di solidarietà,
sussidiarietà, reciprocità e aiuto tra famiglie. (AFT 2)
Durante il convegno tenutosi a Torino il 19 maggio del 2007 egli sottolineava inoltre la volontà
da parte del pubblico di dare slancio alla sussidiarietà orizzontale, affinché non sia solo
un’enunciazione di principio, ma si concretizzi.
Se vogliamo un’amministrazione condivisa, cioè che sia condivisa da cittadini, le associazioni
e le famiglie devono farsi carico anche loro di una serie di difficoltà, e quindi diventare dei
partner. Il passaggio è dal silenzio dell’istituzione al rumore della comunità locale, per favorire il miglioramento di questo progetto che va proprio in quest’ottica. (AFT 2)
Il coinvolgimento attivo del terzo settore è dimostrato dal ruolo delle Associazioni, che in questo progetto sono sia partner sia soggetti operativi. Il Responsabile della Divisione
93
Servizi Sociali Settore Minori ribadisce che
bisogna riuscire a fare sempre più sistema tra ente locale, il cosiddetto pubblico per eccellenza, e queste realtà nuove che stanno entrando in scena, ma che sono anche realtà radicate
nella realtà di Torino; bisogna trovare quel giusto mix per far sì che il sistema funzioni… le
Associazioni dovrebbero esercitare la funzione di mediazione, di ponte tra servizi e famiglie in
difficoltà, e anche tra famiglie, proprio in quanto sono vicine a loro, e c’è un rapporto di fiducia. Si tratta di aspetti che possono far migliorare, e quindi eliminare le criticità che nel progetto ci sono ancora. (AFT 2)
Ponendosi il progetto/servizio studiato quale obiettivo primario il non allontanare il minore
dalla propria famiglia d’origine, sostenendo non solo il minore, bensì tutto il nucleo familiare,
esso dimostra di aver ben presente che il benessere del minore è strettamente correlato a
quello delle sue relazioni familiari. Il servizio mira dunque a un benessere “familiare”, il raggiungimento del quale costituisce l’elemento determinante della riuscita del servizio offerto,
poiché consente al minore di recuperare un legame che poteva compromettersi. Il progetto/servizio “Dare una famiglia a una famiglia” rafforza le relazioni familiari anche in quanto dà
loro più tempo per essere sia pensate sia svolte, elemento importante.
Data la relazionalità del benessere, il benessere familiare, una volta raggiunto, permetterà a
sua volta alle famiglie di tessere nuove relazioni, evitando quindi il generarsi o il mantenersi di
processi di esclusione sociale.
Tutti gli interlocutori intervistati hanno sottolineato la positività dei risultati ottenuti dal progetto/servizio, che quindi introduce un valore aggiunto nell’offerta dei servizi: è uno strumento
buono, che funziona, però va inserito nella complessità e nella pluralità degli interventi previsti. Secondo l’Assistente Sociale intervistata essendo tale servizio basato
sulla “consensualità”, esso andrebbe attivato quando
ci sono bisogni concretamente percepiti da parte dell’utente, e quando questi percepisce che
l’affidarsi a un altro nucleo lo aiuterà nel concreto, ma soprattutto lo aiuterà ad avere una
rappresentazione di cambiamento di sé, per fare un po’ meno fatica a vivere. (AFT 4)
2.7.3.1. IL PUNTO DI VISTA DELLE FAMIGLIE SOLIDALI O AFFIDATARIE
Le famiglie solidali arrivano tutte al progetto con grossi timori circa la propria capacità e competenza, e questa esperienza permette loro di poter cogliere con miglior consapevolezza la
propria storia e le proprie qualità. A questo progetto di affido, considerato “più leggero”, hanno aderito anche famiglie che invece non se l’erano sentita di impegnarsi in un affido tradizionale.
Le famiglie che si sono rese disponibili alla compilazione della scheda a domande aperte loro
sottoposta, esprimono le opinioni di uno dei partner più importanti del progetto, che infatti
senza di loro non potrebbe esistere.
Dalle schede compilate, emerge che la motivazione principale che spinge queste famiglie a
dedicarsi ad altre famiglie, è la voglia di aiutarle nelle difficoltà educative, di relazione, familiari, in modo continuativo, in alcuni casi formalizzando situazioni di aiuto già precedenti. La risposta di una famiglia sottoscrive quanto precedentemente già affermato a livello degli intervistati:
94
abbiamo accettato volentieri perché i casi a noi sottoposti precedentemente hanno dimostrato che le difficoltà dei minori sorgono sempre dalle problematiche familiari in cui sono immersi. Intervenire sulla famiglia significa ridurre le difficoltà in cui i bambini vivono, perché si
agisce sui modelli relazionali del gruppo familiare, sui conflitti palesi e su quelli latenti. (AFT 6
H)
Le ricadute del progetto sulle famiglie solidali sono tutte positive: aiutare un’altra famiglia fa
riscoprire loro la solidarietà, e il piacere di esercitarla, inoltre costituisce un esempio, e uno
stimolo per ogni membro della famiglia ad essere cittadini consapevoli e partecipanti a una
comunità sociale, che dà e riceve. La famiglia si allarga, e con lei anche l’amore dato, vi è un
arricchimento personale, e la famiglia che sta meglio impara a conoscere, a comunicare e a
mettersi in relazione con famiglie in difficoltà. Il fatto che le relazioni tra le famiglie continuino
anche dopo la conclusione del progetto testimonia che si sono create delle relazioni che vanno al di là dell’ottica dell’aiuto, diventando legami profondi e duraturi.
Le famiglie solidali, quale punto di forza del progetto, ne riconoscono il suo obiettivo primario,
la non separazione dei bambini dalla propria famiglia. Secondo le famiglie solidali il progetto
inoltre aiuta a superare il pregiudizio diffuso tra le famiglie in difficoltà che “l’affidamento è togliere i bambini ai genitori poveri”. Grazie al progetto “Dare una famiglia a una famiglia” i genitori aiutati possono sentirsi ancora “titolari” della loro famiglia, dell’educazione dei propri figli,
dell’andamento della loro casa, con il vantaggio di avere a fianco persone fidate disponibili ad
aiutarli, nel pieno rispetto delle loro idee, e con riservatezza, quindi senza alcuna forma di sostituzione, ma solo come punto di riferimento cui appoggiarsi.
Le famiglie solidali sostengono che il ruolo attivo del Servizio Sociale che fa da supervisore è
necessario, sia per il sostegno sia per la valorizzazione delle risorse che nascono dall’incontro
tra le due famiglie. Alcune famiglie solidali si sentono ben supportate a livello istituzionale,
mentre altre affermano di sentire il bisogno di qualcuno che le guidi e le consigli; tale discrepanza segnala probabilmente un diverso modo di lavorare da parte sia di alcune Associazioni
sia di Assistenti Sociali.
Uno dei rischi maggiori che le famiglie segnalano è quello di
voler trasmettere all’altro il nostro modello, il modello che ho scelto per la mia famiglia. Questa è veramente una tentazione tremenda. (AFT 6 A)
Un punto di debolezza evidenziato dalle famiglie solidali sembra essere la durata del progetto,
troppo limitata, nonché il fatto che non sia ancora del tutto entrato come “cultura di affidamento”, e quindi non sia molto conosciuto.
Secondo le famiglie solidali, un fattore che incide sul successo del progetto è riuscire a “fare
famiglia” con la famiglia affidata, cioè riuscire a instaurare un buon rapporto con i suoi membri, favorendo così il benessere e la serenità al suo interno, e riuscire a dare alla famiglia una
maggiore sicurezza, autonomia, possibilità di dialogo, ponendosi come famiglia “accogliente”.
Risulta anche molto importante allo scopo il coordinamento dell’attività con gli operatori sociali, e il giusto abbinamento tra le due famiglie, nonché le precedenti esperienze delle due
famiglie nel campo dell’affido.
Alcune famiglie solidali, attraverso Associazioni o Parrocchie, partecipano a incontri con altre
famiglie affidatarie, ritenendoli luoghi e momenti di confronto, stimolo e sostegno reciproco,
in cui si condividono gioie e difficoltà. Il gruppo spesso diventa il supporto per la famiglia solidale.
95
2.7.3.2. IL PUNTO DI VISTA DELLE FAMIGLIE AFFIDATE
Le famiglie affidate, utenti del servizio “Dare una famiglia a una famiglia” sono i destinatari del
progetto, pertanto la loro testimonianza rivela se in qualche modo gli obiettivi del progetto
sono stati raggiunti. Le schede raccolte, anche se non molte, ci permettono di avere comunque un’idea della soddisfazione delle famiglie rispetto al progetto.
La maggior parte delle famiglie affidate dichiara di ricevere risposte chiare e frequenti su ciò
che sta succedendo, ma non tutte, e questo risultato ricalca un po’ quanto già emerso come
punto di debolezza dalle schede delle famiglie solidali, alcune delle quali affermavano di non
sentirsi sufficientemente seguite e consigliate, cosa che di conseguenza si riflette sulle famiglie
affidate.
Sempre la maggior parte delle famiglie afferma che il supporto della famiglia affidataria rende
la loro famiglia più serena, aiutandole ad essere un buon genitore, a conferma che il benessere personale è in grado di diventare benessere familiare, attraverso il miglioramento delle relazioni all’interno della famiglia, a totale beneficio dell’utente primario del progetto stesso, cioè
del minore, che può così vivere in un ambiente più sereno e sentire i suoi genitori più vicini a
lui.
Poche famiglie ritengono che il supporto della famiglia affidataria le abbia rese più fiduciose
verso gli altri: questo può essere il segnale di precedenti esperienze negative da parte della
famiglia affidata, o di una maggior difficoltà percepita nel trasferire il sentimento di maggior
capacità al di fuori della relazione con la famiglia affidataria.
Grazie alla famiglia affidataria le famiglie affermano di aver avuto la possibilità di conoscere
più persone, entrando a far parte di una rete che consente loro di uscire dall’isolamento sociale. Inoltre, grazie all’aiuto ricevuto sentono di essere capaci di affrontare i compiti quotidiani:
ciò testimonia come il progetto promuova l’empowerment dei destinatari, i quali inoltre pensano che al termine del progetto saranno in grado di occuparsi autonomamente della propria
situazione. Questo rappresenta il risultato atteso del progetto, quello che fa sì che soprattutto
i destinatari possano affermare che si tratta di una “buona pratica”.
2.7.4 LA “BUONA PRATICA” DALLA PARTE DI CHI LA VIVE: ANALISI CON T-LAB
Per un approfondimento dello studio della buona pratica “Dare una famiglia a una famiglia”, ci
si è avvalsi del software per il trattamento di testi T-LAB. Per la descrizione dettagliata dello
strumento si rimanda al capitolo del report complessivo, in cui è illustrato.
L’analisi statistica dell’uso del linguaggio utilizzato nelle interviste dai responsabili e dagli operatori coinvolti nel progetto/servizio “Dare una famiglia a una famiglia”, ha evidenziato alcune
parole chiave; tra di esse, “famiglia” e “minore” sono state approfondite attraverso alcune elaborazioni, che hanno consentito di cogliere le correlazioni semantiche intorno all’uso di tali
termini. Relativamente alla parola chiave “famiglia” è stata effettuata un’analisi aggregata, che
comprende le verbalizzazioni sia dei responsabili sia degli operatori, mentre la parola chiave
“minore” è stata analizzata dal punto di vista dei responsabili.
96
Figura 8 – Associazioni con il termine “famiglia” nelle risposte dei responsabili e
degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
Relativamente al campo semantico che circonda il termine “famiglia” (Figura 8), esso rimanda a
una serie di riflessioni. La connessione con i termini sostegno, aiutare, affidare richiama
l’obiettivo generale del progetto/servizio, che rientra appunto tra le offerte dell’affido, ma in
un’ottica sempre meno invasiva per la famiglia affidata, che va accompagnata, e mai sostituita,
proprio allo scopo del raggiungimento di quell’empowerment che le consentirà di muoversi poi
autonomamente nella quotidianità. Alcuni lemmi sono invece correlati a una prospettiva situazionale (bisognoso, difficoltà), ad indicare il momento dell’intervento, che ha la caratteristica
della prevenzione, ma anche della temporaneità, in quanto tendendo a un obiettivo di autonomia di chi in un certo momento della propria vita si trova ad aver bisogno di aiuto, mira a
una definizione nel tempo della sua durata. I lemmi minore, familiare riportano all’ambito e al
destinatario primario del progetto/servizio, il minore, che è però associato alle sue relazioni
familiari, la cui importanza per il suo benessere costituisce il fondamento del progetto stesso.
La correlazione dei termini “associazione, solidale” sottolinea lo stretto rapporto che intercorre
con le famiglie affidatarie che si fanno carico dell’aiuto: come è stato sottolineato nelle interviste, per una buona efficacia del progetto non devono essere lasciate a loro stesse, poiché
anch’esse necessitano di qualcuno che le guidi nel percorso d’aiuto. Il legame con le parole sociale, intervento, risorse, futuro rimanda alla categoria dell’efficienza della buona pratica, nonché alle aspettative circa la sua sostenibilità nel tempo, diffusamente sostenuta nelle interviste
sia dai responsabili sia dagli operatori.
97
Figura 9 - Associazioni con il termine “minore” nelle risposte dei responsabili e
degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
Molti dei termini associati alla parola “famiglia” ricorrono anche nel campo semantico della parola “minore” nelle interviste dei responsabili del progetto/servizio (Figura 9). Anche qui, a conferma che il minore non può essere visto sganciato dalle sue relazioni primarie, vi è la stretta
associazione con il termine famiglia, entrambi destinatari ultimi del progetto/servizio. Al lemma aiutare, si aggiungono quelli di cura e attenzione, a segnalare due elementi di particolare
importanza quando si lavora nell’ottica di un servizio alla persona. Come per il termine “famiglia”, la presenza degli stessi termini sociale, intervento, risorse, futuro nel campo semantico del
termine “minore” sottolinea la condivisione di indirizzo e aspettative. Infine compaiono i termini buona, pratica, a sottolineare che quella della “buona pratica” è la strada da percorrere
nel sostegno a famiglie fragili con minori, per un risultato che ne valorizzi il cambiamento, verso una maggior capacità di affrontare le difficoltà, ma sempre nel mantenimento delle relazioni primarie, indispensabili allo sviluppo dell’essere umano.
98
3. IL GRUPPO DI PAROLA PER FIGLI DI GENITORI SEPARATI
a cura di Costanza Marzotto
3.1. PREMESSA
Accogliere i bisogni dei figli di genitori separati è una necessità che nelle società dopomoderne
emerge sempre più evidente e che rappresenta una sfida per il benessere futuro delle nuove
generazioni e della comunità intera.
Anche in Italia abbiamo un elevato numero di minorenni coinvolti in questa laboriosa transizione del divorzio e dall’esperienza di altri paesi del mondo si è già evidenziato quali possono
essere le conseguenze di breve e lungo periodo di questo passaggio critico per gli adulti e per
i minori se non vengono messi in atto interventi preventivi e di cura relazionale.
Il declino della nuzialità, la crescita dell’instabilità coniugale e la dissoluzione matrimoniale assumono dimensioni sempre più importanti e sono entrati a far parte degli eventi della vita
quotidiana di molte famiglie e nello specifico di oltre due milioni di italiani: ogni anno si contano, tra separazioni e divorzi, circa 130 mila nuovi casi. Queste tendenze hanno contribuito a
rendere i giovani più insicuri sul futuro del matrimonio, hanno moltiplicato i tipi di famiglia, le
famiglie di single, le famiglie nucleari costituite da un solo genitore e le famiglie ricostituite,
mettendo in moto nuovi processi di mobilità sociale ascendente e discendente (Barbagli,
1990) e innescando molte situazioni che possiamo definire di “fragilità familiare”.
3.2. DATI DI SFONDO SULLE SEPARAZIONI E I DIVORZI
di Matteo Moscatelli
Per avere un’indicazione della misura di questi fenomeni basti pensare che annualmente vi è
una rottura coniugale ogni due nuovi matrimoni: un rapporto elevato, anche se in Italia si di34
vorzia meno che nel resto d’Europa . Dagli anni settanta, da quando è cambiata la legislazione sul tema, la frequenza di separazioni è cresciuta sino agli attuali oltre 80 mila casi annui e,
in parallelo, è incrementato anche il numero di rotture definitive: i circa 50 mila divorzi segnalati nelle statistiche più recenti rappresentano l’ultimo gradino di una tendenza che ha portato
il fenomeno a raddoppiarsi nell’arco di un solo decennio (rispetto al 1995 le separazioni sono
aumentate di oltre una volta e mezza, +61 per cento, e i divorzi sono praticamente raddoppiati, +101 per cento) (Istat, 2010).
I matrimoni celebrati in Italia nel 2008 sono stati 246.613 (Figura 10). Si osserva una lieve diminuzione rispetto al 2007: 3.747 matrimoni in meno. Il numero di matrimoni in cui almeno
uno dei due sposi è di cittadinanza straniera è rilevante, e rappresenta il 10,3% del totale dei
matrimoni (25.548 nel 2008).
34
Infatti, ad esclusione di Malta – dove il divorzio non è previsto dalla legislazione – l’Italia è il Paese europeo con la
minore incidenza di divorzi (0,8 ogni 1.000 abitanti). La crescita in questi ultimi anni (+17% tra il 2001 e il 2005) è
risultata superiore al valore medio registrato nell’Unione Europea (+11%), ma il nostro paese resta, con l’Irlanda, in
coda a una graduatoria che vede il predominio dell’area baltico-scandinava. Un tasso di divorzi particolarmente alto
si registra anche in Belgio e in Gran Bretagna.
99
Figura 10 – Matrimoni, separazioni e divorzi (anni 1995-2008)
Nel 2008 le separazioni sono state 84.165 e i divorzi 54.351 (Figura 10), con un incremento rispettivamente del 3,4 e del 7,3 % rispetto all’anno precedente e del 3 % e del 23 % rispetto al
2003. I due fenomeni sono in continuo aumento: nel 1995 si verificavano 158 separazioni e 80
divorzi ogni 1.000 matrimoni, nel 2008 si è arrivati a ben 286 separazioni e 179 divorzi (Istat,
2010).
Il paese è interessato in maniera differenziata dal fenomeno dell’instabilità coniugale: valori
più elevati si registrano nel Nord-ovest (363,3 separazioni per 1.000 matrimoni nel 2008) mentre valori più contenuti si osservano al Sud (186,3). Tutte le Regioni del Nord (con l’eccezione
del Veneto), compresi la Lombardia e il Piemonte - dove sono state studiate le buone pratiche
oggetto di questo rapporto - si collocano al di sopra della soglia di 300 rotture del patto coniugale per 1.000 unioni. La Toscana e il Lazio arrivano a 387,4, mentre la Liguria e la Val d’Aosta
raggiungono un livello di ben 400 separazioni per 1000 matrimoni celebrati nel 2008.
3.2.1 LA DURATA MEDIA DEL MATRIMONIO E IL “TEMPO” DELL’INSTABILITÀ CONIUGALE
A causa di questi processi la durata media del matrimonio al momento dell’avvio del procedimento di separazione è risultata nel 2008 pari a 15 anni (nel 2005 era 14 anni). Un dato particolarmente preoccupante se si prende in considerazione il ciclo di vita familiare. Circa un
quarto delle separazioni, proviene da matrimoni di durata pari o inferiore ai sei anni, quindi
ancora in una fase iniziale di questo ciclo. Considerando per lo stesso anno solamente i provvedimenti di divorzio, il matrimonio dura mediamente 18 anni (17 anni nel 2005). Oltre un divorzio su cinque ha riguardato, però, matrimoni celebrati da meno di 10 anni.
I dati Istat mostrano tuttavia che la crisi coniugale non riguarda solamente le giovani coppie,
essa coinvolge sempre più frequentemente anche le unioni di maggior durata. Infatti le separazioni oltre i 10 anni di matrimonio sono più che raddoppiate dal 1995 ad oggi e quelle oltre i
25 anni sono quasi triplicate. Questa tendenza fa sì che in termini relativi sia diminuita in realtà la quota delle separazioni più precoci: quelle prima del quinto anno di matrimonio nel 1995
erano il 24,4% del totale e dieci anni dopo sono scese al 18,7%.
I mariti hanno mediamente 45 anni e le mogli 41 al momento della separazione; in caso di divorzio l’età media è rispettivamente 46 e 43 anni: il rischio di una rottura coniugale è maggiore
100
tra i 40 e i 50 anni, sia per le donne che per gli uomini. Questi valori sono andati aumentando
negli anni sia per una notevole diminuzione delle separazioni sotto i 30 anni (anche per effetto
del cambiamento del modello di nuzialità con la posticipazione delle nozze verso età più mature), sia per un aumento delle separazioni con almeno un partner over 65. Il 53,3% degli uomini separati è single mentre circa la metà delle donne separate (il 45%) vive in nucleo monogenitoriale. Nelle regioni del Nord del paese è più frequente una nuova esperienza di coppia e
di famiglia per i separati.
Quasi la totalità dei divorzi concessi nel 2008, il 99,1%, è stato preceduto da una separazione
legale. Questa fase intermedia tra separazione e divorzio (per legge di almeno 3 anni) solitamente ha una durata relativamente breve: per il 71,2% dei divorzi concessi nel 2008 l’intervallo
di tempo intercorso tra la separazione legale e la successiva domanda di divorzio è stato pari
o inferiore a cinque anni. Tuttavia questo intervallo sembra mostrare negli ultimi anni una
tendenza ad ampliarsi: ben 4 su 10 separazioni pronunciate in Italia nel 1998 non sono giunte
al divorzio nel decennio successivo.
3.2.2 L’INSTABILITÀ CONIUGALE NELLE COPPIE MISTE
Nelle coppie miste (si intendono le coppie formate da un cittadino italiano per nascita e un cittadino straniero o ex stranieri divenuti a suo tempo cittadini italiani proprio per matrimonio)
dove all’instabilità coniugale si sommano spesso anche problemi di integrazione, i dati su separazioni e divorzi sono particolarmente preoccupanti.
Le separazioni tra soggetti che appartengono a coppie di questo tipo sono state 7.536 nel
2005, contro le 4.266 del 2000, con un incremento del 77%. Successivamente si è registrato un
rallentamento della tendenza: nel 2008, le 5.996 separazioni non hanno ancora raggiunto il
livello del 2005 sia in valore assoluto sia in percentuale (Istat, 2010).
Per quanto riguarda la tipologia di coppia mista che si separa con più frequenza (in oltre sette
casi su dieci) è quella del nucleo composto da un marito italiano e una moglie straniera o che
ha acquisito la cittadinanza italiana e non viceversa; ciò è anche dovuto della maggior propensione degli uomini italiani a sposare una straniera. La diversità dei coniugi rispetto al contesto
di origine sembra influire in modo evidente sulla stabilità del matrimonio, ma ha anche un
grosso impatto sulle modalità di gestione del conflitto che si innescano al termine delle unioni.
Le coppie miste formate da soggetti nati entrambi in Italia presentano un tasso di separazione
di 228 per ogni 1.000 matrimoni, un valore simile si registra quando è solo il marito ad essere
nato all’estero mentre se è la moglie ad essere nata all’estero il tasso sale al 347 per mille.
3.2.3 I FIGLI COINVOLTI NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
Queste tendenze, insieme al fenomeno crescente della conflittualità di coppia intra coniugale,
influenzano il benessere famigliare complessivo e soprattutto quello dei figli che sono a rischio di sviluppare problemi comportamentali ed emozionali (Amato, 2010; Iafrate, 2010) per
esempio in età prescolare e in adolescenza (Marzotto, 2008). Difficoltà che spesso hanno ripercussioni anche sulle nuove famiglie di questi figli e pertanto nelle generazioni a seguire.
Le ricadute sulle condizioni di vita delle famiglie italiane sono sempre più ampie e il numero di
figli coinvolti nella crisi coniugale dei propri genitori è elevato: sono stati 102.165 nelle separazioni e 53.008 nei divorzi. Nel 2008 oltre 2/3 delle separazioni (70,8%) e il 62,4% dei divorzi
hanno riguardato coppie con figli, avuti durante la loro unione.
101
Oltre la metà (il 52,3%) delle separazioni e oltre un terzo (il 37,4%) dei divorzi provengono da
matrimoni con almeno un figlio minore di 18 anni. I dati sull’età dei figli affidati nelle separazioni, mostrano che il 56,2% di questi ha meno di 11 anni. In caso di divorzio i figli sono generalmente più grandi: la quota di quelli al di sotto degli 11 anni scende al 35,4% del totale (Istat,
2010).
Nel 2008 si sono chiuse consensualmente la maggioranza delle separazioni (l’86,3%) e dei divorzi (77,3%).
Una importante inversione di tendenza si è verificata relativamente al tipo di affidamento sia
35
nelle separazioni che nei divorzi. Infatti, con l’entrata in vigore della legge 54/2006 , è stato
introdotto l’istituto dell’affido “condiviso” dei figli minori come modalità ordinaria. Se fino al
2005 prevaleva l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre (ad esempio nel 2003 era
“congiunto” solo l’11,9% degli affidi), nel 2008 ben il 78,8 % di separazioni con figli si è conclusa
con l’affido condiviso, tipologia che prevale quando le separazioni sono consensuali, mentre
quelle con figli affidati esclusivamente alla madre sono state solo il 19,1%. Nei divorzi si è passati dal 9,8% del 2003 al 62,1% del 2008 (Istat, 2010). Nel Mezzogiorno i coniugi trovano un accordo con maggiore difficoltà e la gestione consensuale della crisi matrimoniale è più rara,
pertanto la modalità di affido condiviso scende al 67,3 % nelle separazioni e al 52,3 % nei divorzi (Tabella 1).“La quota di affidamenti esclusivi al padre continua a rimanere a livelli molto
bassi. Infine, l’affidamento dei minori a terzi è una categoria che ottiene valori residuali, interessa meno dell’1% dei bambini” (Istat, 2010).
Bisogna considerare, tuttavia, che, nonostante l’affido condiviso, in Italia il 20% dei padri vede
meno di 1 volta all’anno i figli, il 20% meno di 1 volta al mese e un altro 20% meno di 1 volta
alla settimana. E nell’arco dei 5 anni successivi alla rottura del matrimonio – come nel resto
d’Europa – spesso scompare dall’universo relazionale dei figli.
35
Secondo la nuova legge entrambi i genitori ex-coniugi conservano la potestà genitoriale e devono provvedere al
sostentamento economico dei figli in misura proporzionale al reddito
102
Tabella 10 - Figli affidati in divorzi per tipo di affidamento e regione - Anno 2008
(Fonte: Istat, 2010)
Esclusivo al Esclusivo alla
padre
madre
Condiviso
A terzi
Totale
Piemonte
3,1
29,5
67,1
0,3
100,0
Valle d’Aosta
3,7
29,6
66,7
-
100,0
Lombardia
2,4
34,3
62,0
1,2
100,0
Trentino-Alto Adige
1,2
19,1
79,3
0,4
100,0
Veneto
2,6
24,8
72,3
0,3
100,0
Friuli-Venezia Giulia
3,4
29,9
66,4
0,3
100,0
Liguria
1,6
23,9
73,7
0,8
100,0
Emilia-Romagna
2,4
27,1
70,0
0,5
100,0
Toscana
1,2
30,6
67,5
0,6
100,0
Umbria
0,8
33,0
66,3
-
100,0
Marche
2,1
27,9
68,8
1,2
100,0
Lazio
1,8
46,5
50,9
0,9
100,0
Abruzzo
1,8
46,6
51,3
0,4
100,0
Molise
1,2
50,6
47,1
1,2
100,0
Campania
2,9
43,9
53,2
-
100,0
Puglia
2,0
35,0
62,9
0,2
100,0
Basilicata
4,6
58,7
36,7
-
100,0
Calabria
4,9
44,7
50,0
0,4
100,0
Sicilia
5,2
50,2
43,9
0,7
100,0
Sardegna
2,0
29,0
68,6
0,4
100,0
Italia
2,6
34,7
62,1
0,6
100,0
3.2.4 SEPARAZIONE, DIVORZIO, CONDIZIONE ECONOMICA E CURA DEI FIGLI
Tra gli elementi che compongono il puzzle delle fragilità e a volte della multiproblematicità delle famiglie fragili per l’instabilità coniugale, ci sono anche le difficoltà di tipo economico, che
possono essere sia tra le cause che tra gli effetti della rottura coniugale e la condizione di impoverimento ha poi un impatto anche nella cura e il benessere dei figli.
Le elaborazioni sull’indagine IT-SILC 2008 “Reddito e condizioni di vita” calcolate sulle famiglie
di divorziati e separati con figli minorenni mostrano che complessivamente nel 2,6% dei nuclei
famigliari il reddito è diminuito a causa della separazione e del divorzio; questo aggravamento
della condizione economica è avvenuto soprattutto nel centro Italia (5,2%); il numero dei figli
non sembra avere un impatto sull’impoverimento delle famiglie; sappiamo anche che la difficoltà ad “arrivare a fine mese (precursore di una condizione economica già delicata) è un altro
103
fattore che determina una più alta percentuale di impoverimento delle famiglie divorziate o
separate con minori.
Tabella 11 - Famiglie con genitori separati/divorziati e con figli minorenni il cui reddito è diminuito a
causa della separazione/divorzio - Anno 2008. Valori percentuali.
Sul totale delle famiglie di divorziati/separati
con minori
 Nord-ovest
2,0
 Nord-est
2,0
 Centro
5,2
 Sud e isole
1,6
 Famiglia con 1 figlio
2,6
 Famiglia con 2 o più figli
2,7
 Con difficoltà o grande difficoltà ad arrivare
a fine mese
3,0
 Con qualche difficoltà o facilità ad arrivare a
fine mese
2,2
Totale
2,6
Fonte: Ns. Elaborazioni su dati Istat, Indagine IT-SILC “Reddito e condizioni di vita”, anno 2008
3.3. LE RISORSE PER IL SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE NELLA TRANSIZIONE DELLA SEPARAZIONE E
DIVORZIO
di Costanza Marzotto
Dalla fine degli anni settanta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dalla fine degli anni ‘80 in Italia e negli altri paesi europei e in Canada, è stata introdotta la risorsa della Mediazione familiare come percorso extra giudiziale in cui la coppia genitoriale, sposata o convivente, può opportunamente, con l’aiuto di un terzo equidistante dalle parti, elaborare degli accordi buoni
per sé e per i figli in vista della riorganizzazione della vita familiare sotto due tetti (Cigoli, 2000;
Marzotto e Tamanza, 2004; Marzotto 2005). A fianco di questa risorsa offerta agli adulti per un
accompagnamento in questa dolorosa e complessa trasformazione della vita quotidiana dopo
la rottura del patto coniugale o la fine della convivenza, sono stati pensati anche altri interventi mirati al sostegno dei figli di questi nuclei divisi.
In questo paragrafo – rimandando ad altre fonti per quanto riguarda la conoscenza della mediazione familiare – ci soffermeremo sui dati emergenti dalla letteratura esistente su una risorsa peculiare e innovativa offerta ai figli di genitori divisi, i gruppi per figli di genitori separati, o i Gruppi di parola, che potrebbero avere come utenza potenziale – come abbiamo visto
nelle pagine precedenti – oltre 155mila persone. Sono i figli infatti ai quali la scelta della separazione tra i genitori si presenta come un evento critico a volte prevedibile, a volte inatteso,
ma sempre doloroso e incancellabile (Vegetti Finzi, 2005); e per essi – pur non manifestando in
modo esplicito una patologia – è indispensabile avere un luogo e un tempo per elaborare un
evento familiare in ogni caso drammatico.
104
La maggior parte dei figli di separati non viene informata in modo adeguato sul divorzio, sui
cambiamenti dell’organizzazione familiare e viene lasciata sola e “all’oscuro” senza possibilità
di parlare dei sentimenti e delle paure specifiche di questa transizione (Kelly, Emery, 2003).
Uno studio scozzese ha riportato che, nella fase iniziale, il 23% dei figli non aveva ricevuto nessuna informazione dai genitori in merito alla separazione, il 45% aveva ricevuto una o due
brusche parole di spiegazione e solo il 5% era stato informato in modo adeguato dei cambiamenti familiari ed era stato incoraggiato a fare domande (Dunn et all, 2001).
La maggior parte dei genitori non è in grado di comprendere e venire incontro ai bisogni dei
figli soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla separazione, in quanto è troppo
concentrata nella gestione del legame di coppia e sui bisogni personali (Marzotto, Telleschi,
1999). Ecco perché in Canada a partire dalla fine del secolo XX alcuni professionisti, impegnati
con le famiglie separate in ambito legale o dei servizi sociali, hanno messo a punto un provvedimento idoneo ad ascoltare la popolazione infantile e ad accompagnare i genitori con strumenti sempre più idonei all’assolvimento della co-genitorialità malgrado la frattura del legame
di coppia. Obiettivo di questi interventi è quello tra l’altro di permettere ai figli non solo un “adattamento apparente” al divorzio, ma di poter elaborare e cercare di capire quello che è successo tra i genitori, e nel lungo periodo prevenire le difficoltà relazionali future, nel mondo
degli affetti e nel mondo del lavoro.
Da qui l’interesse specifico per i Gruppi di parola, una metodologia innovativa, finalizzata ad
accompagnare le famiglie rese fragili dall’evento inatteso del divorzio, risorsa da poco
presente in Italia (Marzotto, 2000). Dopo un’indagine sulle numerose sperimentazioni esistenti
nel mondo, sulle quali presenteremo di seguito una breve rassegna, l’esperienza più
interessante è apparsa quella di Lorraine Filion del Servizio di Mediazione Familiare del Centre
de la Jeunesse a Montreal in Canada, dove presso il Tribunale dal 1991 ad oggi sono stati
36
attuati oltre 100 gruppi per figli di divorziati, denominati appunto Groupes de parole o
Groupes Confidences. L’interesse specifico di quest’esperienza risiede nel paradigma teorico di
riferimento, in cui viene privilegiata la cura delle relazioni intergenerazionali e la dimensione
simbolica dei legami familiari tra generi diversi e tra stirpi diverse. Inoltre, la scelta di un aiuto
in gruppo per attraversare la fase del divorzio, piuttosto che un lavoro individuale con colloqui
con il singolo bambino, è fondato sul riconoscimento esplicito del bisogno di rinforzare
l’appartenenza di questi soggetti al corpo familiare: nel momento in cui l’unitarietà del gruppo
d’origine è intaccata e sta attraversando un mare in tempesta, sembra più opportuno lavorare
in piccoli gruppi.
Il vantaggio del lavoro in gruppo è riscontrabile anche nel fatto che i figli di separati non sono
costretti a un’osservazione introspettiva, ma all’interno dello spazio intersoggettivo possono
parlare (con diversi linguaggi) delle emozioni, delle paure, dei conflitti in modo meno pericoloso che nel rapporto uno ad uno e al tempo stesso possono osservare i cambiamenti e le reazioni dei coetanei per arrivare a loro volta a porsi degli interrogativi su di sé e sulla propria
famiglia, attraverso la funzione così detta “di rispecchiamento” (Marzotto, 2000). Inoltre a differenza dell’ascolto del minore o di altri interventi propri dell’area cosiddetta di “tutela minori”,
in cui il singolo figlio viene fatto parlare in presenza del giudice o di un esperto, nel Gruppo di
parola i contenuti sono confidenziali e la parola del minore non si sovraccarica di un potere
eccessivo e forse “pericoloso” per sé e per la sua famiglia.
36
Il nome prende spunto da un’espressione della nota psicanalista francese Françoise Dolto, 1991.
105
3.4.
UNA RASSEGNA DELLA LETTERATURA ESISTENTE SUI GRUPPI PER FIGLI DI GENITORI SEPARATI O
DIVORZIATI
di Marta Bonadonna
Oggi il divorzio può considerarsi una transizione a cui corrisponde un’impegnativa riorganizzazione della famiglia, anche se non è necessariamente e sempre un danno. Nessuno può
mettere in dubbio che il divorzio di per sé rappresenti una prova, un evento critico che comporta per tutti difficoltà e complessi cambiamenti da affrontare; ma non sono la separazione o
il divorzio in sé il vero rischio per i figli bensì il permanere del conflitto oltre la separazione e la
svalutazione reciproca tra i genitori e tra le due famiglie di origine.
Altrettanto evidente e ben documentata è la correlazione positiva tra il benessere dei figli e il
mantenimento dell’accesso ad entrambe le figure genitoriali (Cigoli, 1998; Emery, 1999; Kelly,
2009; Cigoli et all, 2002 ) e per questo nei vari paesi le politiche sociali hanno approntato risorse per favorire questa continuità dei legami tra le generazioni e la comune responsabilità ge37
nitoriale, per prevenire eventuali danni .
Con questo obiettivo sono stati realizzati specifici interventi di gruppo rivolti a bambini ed
adolescenti, figli di coppie divise per sostenerli nell’elaborazione della perdita ed aiutarli a
comprendere l’evento del divorzio e vivere meglio i cambiamenti derivanti dalla riorganizzazione familiare (Montanari, 2008).
Ecco allora che troviamo diversi programmi rivolti prevalentemente ai figli, ma spesso con un
intervento parallelo per i genitori, con un incontro finale congiunto per un rinforzo reciproco.
Come ampiamente dimostrato (Amato, 2010), il divorzio ha un costo sociale ed economico oltre che psicologico e il benessere/malessere dei figli è strettamente connesso alla qualità della
relazione educativa avuta con gli adulti di riferimento, ed ha una ricaduta economica nel breve
e nel lungo periodo (Heckmann, 2010; Iafrate, Marzotto e Rosnati, 2010). Ricercatori internazionali e appartenenti a diverse discipline sostengono questo tipo di progetti di prevenzione e
sostegno in gruppo, in quanto il comportamento del figlio è in buona misura collegato al tipo
di interazioni che avvengono in famiglia e spesso i problemi comportamentali del bambino
sono da rinvenirsi nei deficit di abilità genitoriali (Barlow, 1998).
Dai dati raccolti è possibile ricostruire (Marzotto, 2010) una tipologia di programmi per il sostegno alle relazioni familiari nella fase del divorzio, tenendo conto di 3 variabili fondamentali
(obiettivi, destinatari e strumenti relativi al contesto e al contenuto):

programmi informativi ed educativi

programmi di tipo clinico o terapeutico

programmi non specialistici di supporto e sostegno
Nel primo tipo segnaliamo ad esempio il programma Kids First, attivo dal 1988 nelle Isole Hawaii, che prevede un unico incontro di 2 ore e 30 minuti in cui, in modo pragmatico, viene an38
che fatto visitare il tribunale ai bambini e i genitori devono compiere obbligatoriamente un
itinerario parallelo (Di Bias, 1996).
Gli interventi di tipo terapeutico utilizzano tecniche terapeutiche in gruppo, allo scopo di aiutare i bambini ad affrontare le difficoltà legate alla separazione e ai cambiamenti che ne deri-
37
38
I paesi oggetto della nostra rassegna sono stati gli Stati Uniti d’America, il Canada, l’Australia, e numerosi paesi
europei quali Francia, Belgio, Germania, Svizzera e Gran Bretagna.
Nel nord degli Stati Uniti alcuni tribunali non emettono la sentenza finale di divorzio se genitori e figli non hanno
partecipato ai rispettivi percorsi.
106
vano. I percorsi sono offerti da servizi per la famiglia, centri di igiene mentale, centri di counselling, centri privati, servizi di mediazione, associazioni no-profit, consultori e possono anche
39
svolgersi a scuola . Particolarmente interessanti sono gli interventi da noi catalogati come
“del terzo tipo”, così detti non specialistici di supporto e sostegno, che offrono uno spazio e un
tempo finalizzati ad esprimere e condividere con altri coetanei i propri sentimenti inerenti la
separazione, con la guida di un adulto volontario appositamente preparato. In merito allo
svolgimento si può andare da una semplice discussione in gruppo ad attività più strutturate.
Ricordiamo ad esempio il programma Rainbows diffuso in tutto il Canada, in molti stati americani ed anche in Australia, destinato a bambini e ragazzi dai 3 ai 18 anni, ed anche agli adulti,
per affrontare la morte, la separazione ed altre difficili transizioni familiari. La struttura e gli
obiettivi sono simili ai gruppi di mutuo-aiuto. I gruppi sono omogenei per la composizione, ma
prevedono programmi differenziati in base all’età; sono previsti 12 incontri a scadenza settimanale, più un incontro finale congiunto, di congedo (Kramer et all. 2000). Il programma è offerto da scuole e organizzazioni religiose ovvero in strutture che potremmo definire di welfare
sussidiario plurale, e che rappresentano le soluzioni maggiormente prescelte in Europa e in Italia per promuovere la risorsa del Gruppo di parola come intervento clinico non terapeutico.
Per i nostri obietti risulta opportuno evidenziare che questi interventi di gruppo per figli e genitori coinvolti nel divorzio possono essere strettamente collegati ad un tribunale (courtconnected), o essere proposti e attivati in strutture comunitarie (community-based), ovvero
presso servizi territoriali pubblici o di terzo settore. Dal punto di vista dei costi i percorsi possono essere gratuiti in quanto i progetti sono finanziati dalle politiche sociali, o prevedere un
contributo delle famiglie, molto spesso commisurato al reddito delle stesse.
Per quanto abbiamo potuto rilevare nell’area nord americana, lo sviluppo dei programmi si
deve principalmente al lavoro di studiosi quali Stolberg (1994), Pedro-Carroll (1996), Kalter
(1987), Johnston (1994) e Rossiter (1988) ed attualmente vi è una grande offerta di interventi di
gruppo sia per i figli che per i genitori (nel 2001 sono presenti in 152 contee).
3.4.1 PECULIARITÀ DEGLI INTERVENTI DI GRUPPO PER LE FAMIGLIE DIVISE
Da una rassegna dei modelli operativi diffusi, alcune sono le peculiarità a nostro parere più
significative e delle quali tenere conto per una ricognizione e progettazione nazionale. In particolare ci soffermeremo a riflettere sulla questione dell’età e del numero dei partecipanti, sulla sede istituzionale, sull’accesso e sulla valutazione dell’esperienza nelle ricerche internazionali.
In questa sede non è possibile approfondire le caratteristiche di questi gruppi, le loro finalità e
40
la metodologia operativa , riteniamo però opportuno definire sinteticamente che un Gruppo
di parola è inteso come un luogo neutro di scambio, di parole e di aiuto con altri figli che vivono la medesima situazione della separazione dei genitori. È altresì un luogo “per prendersi un
tempo” per esprimere le diverse emozioni relative alla separazione e condividerle. I figli sono
considerati degli “esperti” e attraverso varie attività sono invitati ad aiutarsi a trovare soluzioni
39
40
Tra questi ricordiamo ad esempio Sandcastle in Florida, creato dallo psicoterapista Gary Neuman, finalizzato al
miglioramento della comunicazione tra genitori e figli. Il programma è stato esportato in Sud Africa ed è stato
oggetto di una recente studio di valutazione.
Si rimanda al recente contributo elaborato dal gruppo di lavoro dell’Osservatorio sui Gruppi di parola del Servizio di
Psicologia clinica per la coppia e la famiglia dell’Università Cattolica di Milano, sotto la direzione scientifica di Vittorio
Cigoli e coordinato da Costanza Marzotto (2010).
107
alle loro difficoltà e a condividere con gli altri strategie e buone idee (Andreottola e Giavara,
2010).
Questi programmi mirano ad incoraggiare la formazione di un clima di gruppo che sia d’aiuto
per il singolo partecipante, facilitare l’identificazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni
collegati al divorzio per arrivare ad una maggiore fiducia in sé stessi, chiarire dubbi e sfatare
pregiudizi, raggiungendo così una visione più realistica del divorzio, attivare la capacità di problem solving, favorita dalla condivisione di informazioni e procedure ed ancora aumentare la
percezione positiva di sé e della famiglia.
Per raggiungere questi obiettivi vengono usate tecniche verbali, espressive e pratiche come la
discussione di gruppo con la guida di un adulto esperto, lo psicodramma, il disegno libero, la
lettura di storie e libri sul divorzio, varie attività artistiche e manuali, la visione di video, ecc.
3.4.2 ETÀ E NUMERO DEI PARTECIPANTI
Tutte le esperienze analizzate ci indicano che il gruppo – nel suo percorso di breve durata – è
eterogeneo per età e per genere, ovvero si ipotizza che la presenza di diversità relative alle
competenze soggettive e sociali serva ai partecipanti per confrontarsi con altri, con posizioni
differenti e apprendere dall’esperienza del diverso per incrementare il proprio sapere esistenziale. La distinzione opportuna è quella tra bambini e adolescenti in quanto le modalità di parola, gli strumenti e le tecniche idonei per l’espressione dei propri sentimenti – per parlare la
famiglia divisa – sono diversi e come abbiamo analizzato possono essere il disegno, la scrittura, la drammatizzazione, la redazione di testi quali storie o canzoni, il gioco o il gioco di ruolo,
etc.
Ovviamente per i bambini più piccoli si ritengono più idonei gruppi più ridotti (da 4 a 5 partecipanti, mentre per i più grandi si raggiunge il numero di 8/10 massimo) e gli incontri durano
in alcuni casi solo 45 minuti ma per un periodo di 12-16 settimane, in altri casi gli incontri durano una o due ore per 4 settimane, anche se la Scozia prolunga i tempi di lavoro in gruppo
per gli adolescenti fino a tre ore per parecchi mesi.
Citiamo ad esempio il famoso programma denominato Children of Divorce Intervention Program
( CODIP), un programma di intervento preventivo del disagio psicosociale in ambito scolastico
nato nel 1982, nell’area di Rochester, New York, ad opera di J.L. Pedro-Carrol, utilizzato in oltre
500 scuole in tutto il mondo. Nato originariamente per l’ambito scolastico, il modello è stato
adattato in altri contesti con successo come presso i centri di salute mentali e gli studi professionali privati, i servizi collegati ai tribunali, con popolazioni diverse in setting urbani, suburbani e rurali (Pedro-Carrol, 2005).
Nel 1998 questa autrice ha sviluppato uno specifico programma per genitori, collegato al tribunale e denominato “Assisitng Children trough Transition”, ACT – For the Children. Si tratta di un
intervento interdisciplinare, preventivo ed educativo, nato in collaborazione con il 7° distretto
giudiziario di New York. Il programma vuole fornire ai genitori la modalità per supportare i
propri figli nella transizione del divorzio e per raggiungere accordi con l’ex-partner avendo
come finalità ultima “la protezione dei figli dai tossici effetti del conflitto coniugale” e il mantenimento ed il rafforzamento della relazione tra entrambi i genitori ed i figli ( Pedro-Carrol et
all, 2001).
Dalle esperienze internazionali si riscontra una stretta connessione tra lavoro di gruppo con i
membri delle famiglie divise e la mediazione familiare, come emerge anche realtà italiana. Si
tratta infatti di una risorsa che per prima ha valorizzato l’empowerment della coppia genitoria-
108
le, ha cercato di incrementare il sapere esperienziale dei genitori e dei figli che vivono la transizione del divorzio con le relative riorganizzazioni necessarie a livello emotivo e pratico.
3.4.3 VOLONTARIETÀ DELL’ACCESSO E RITI STRUTTURALI
Rispetto a questa variabile dell’accesso alla risorsa denominata Gruppo di parola o gruppi
analoghi, ci risulta che nel mondo la maggior parte degli interventi è offerta da servizi sociali
pubblici, centri di igiene mentale, da alcuni tribunali provinciali, ma anche da numerosi organismi di terzo settore e che l’accesso sia prevalentemente spontaneo. L’esperienza americana
però ci segnala numerosi invii da parte del tribunale, fino all’obbligatorietà della partecipazione come avviene in 140 realtà censite nel 2000 negli Stati Uniti (O’Connor, 2004) posizione sulla quale è aperto un intenso dibattito critico.
Assai interessante ci sembra a questo proposito la proposta canadese di invitare i genitori a
partecipare ai così detti “seminari sulla co-genitorialità” di due ore ciascuno, finalizzati ad informare e sensibilizzarli sulla realtà della separazione dal punto di vista dei vari attori coinvolti. I temi affrontati in queste serate sono i bisogni e le reazioni dei figli, l’importanza della comunicazione tra i genitori dopo la separazione, le caratteristiche della famiglia ricostituita, etc.
Nella rassegna internazionale una riflessione particolare merita l’Australia che pur non differenziandosi nei cambiamenti familiari dal punto di vista statistico dagli altri paesi oltre oceano
quali gli USA e il Canada, presenta linee di politica familiare e progetti di intervento preventivo
e riparativo molto “forti”. Ogni anno circa un terzo dei matrimoni si scioglie e sono quasi
50.000 i bambini e ragazzi sotto i 18 anni che vivono l’esperienza della separazione e divorzio
dei loro genitori.
Anche qui come in Italia risultano troppo numerose e troppo prolungate le situazioni di “legame disperante” ovvero i casi di conflitto giudiziario protratto nel tempo dove è evidente il
rischio per la salute mentale dei figli e il benessere comunitario, di una crescita senza il sostegno di entrambe le figure genitoriali. Per modificare questo stato di cose in Australia da 1 luglio 2008 (Baghshaw et all., 2006), è obbligatorio tentare una mediazione prima di una separa41
zione o di un divorzio, avviare cioè un percorso di FDR, Family Dispute Resolution .
La ricerca di Andreottola e Giavara (2010) ci segnala in particolare nella zona di Melbourne,
l’organizzazione di terzo settore denominata Family Mediation Centre operativa dal 1985 che
offre oggi anche un percorso di gruppo per bambini della scuola primaria (Where is my daddy?)
e uno per gli adolescenti (Door to Door); l’intervento si propone di creare uno spazio affidabile
e di sostegno per bambini e ragazzi che sperimentano l’alta conflittualità o la violenza in famiglia.
Ancora una volta con la metodologia propria del gruppo di parola, in questi percorsi brevi i
partecipanti possono capire meglio ciò che sta loro accadendo intorno, accedere alle proprie
emozioni in merito e rinforzare il proprio bisogno di appartenenza al corpo familiare pur residente sotto due tetti; attraverso la discussione, il role-playing, la lettura di storie, la musica, le
attività artistiche, la lettera ai genitori, ecc. essi sono aiutati ad accrescere la fiducia e la speranza nei legami, ad incrementare l’autostima, a scoprire strategie nuove per affrontare le situazioni difficili con i genitori, i nuovi partner o i nuovi fratelli.
41
Assai opportunamente in Italia dal 2006, con la legge 54, si è introdotto l’”affidamento condiviso” per tutte le
separazioni coniugali con un cambiamento culturale evidente come appare nei dati statistici sopra esposti e si è
fatto esplicito riferimento alla mediazione familiare come risorsa extragiudiziale.
109
In Europa la sede privilegiata per offrire interventi gruppali in favore dei figli appartenenti a
famiglie divise, operativi dagli anni ‘80 del secolo scorso sono i Consultori familiari pubblici o
di privato sociale o i Centri di mediazione.
In Germania i programmi attuati sono in parte analoghi a quelli già sperimentati oltre oceano
con la particolare attenzione alla presenza di due conduttori di genere diverso. Anche qui le
ricerche riportano dati assai positivi (Michel, 1999; Dahmann, 1999).
Peculiarità dei paesi francofoni quali Belgio e Francia è il coinvolgimento anche dei nonni
nell’esperienza. Ad esempio l’Ecole des Parents et des Educateurs, Associazione senza fine di lucro, fondata a Parigi nel 1996 e presente in varie città francesi, offre tra i vari servizi, i Gruppi
di Parola per figli di separati ma anche per nonni che hanno un nipote che non riescono a vedere regolarmente e che necessitano di momenti di supporto reciproco nel dolore della separazione intergenerazionale.
In Svizzera, a Ginevra opera l’associazione no-profit “Office protestant de consultations conjugales et familiales”, istituzione semiprivata finanziata dalla chiesa protestante e dalla città di Ginevra. Anche qui l’accesso è spontaneo o mediato da una precedente presa in carico del counselor. Nel caso di gruppi con figli piccoli (6-12 anni) i riti preliminari sono ridotti al minimo e
prevedono un colloquio telefonico con i genitori e la compilazione di una scheda di iscrizione
firmata dai due genitori. In alcuni casi si convocano i genitori “candidati all’iscrizione” e si illustra collegialmente il lavoro in programma.
Per i gruppi di adolescenti invece vengono messi in atto riti di accesso in cui con ogni candidato viene valutato l’interesse personale a partecipare al percorso, a cui segue un incontro introduttivo e di presentazione in gruppo, in cui viene fornito un elenco delle tematiche che potrebbero essere trattate e che andranno a costruire il programma di ciascun incontro. È infatti
necessario costruire con i partecipanti l’identità del gruppo per cui nel caso di avvio di un
gruppo formato da adolescenti, è opportuno un passaggio rituale specifico in cui si sollecita
l’adesione personale, dato che la volontà dei genitori ad iscrivere i figli è necessaria ma non
sufficiente affinchè l’esperienza si avvii e possa poi essere positiva.
Le esperienze internazionali e nazionali esaminate indicano quasi sempre in modo esplicito la
funzione della supervisione della pratica e/o un lavoro d’equipe con altri professionisti, soprattutto per riflettere sulle situazioni multi-problematiche, al di là della separazione dei genitori.
3.4.4 DOVE E PER CHI
Emerge dall’analisi della letteratura un forte coinvolgimento sia degli enti pubblici che dei soggetti afferenti al terzo settore come promotori di questi programmi, sia di tipo informativo
educativo che di tipo terapeutico e informale, secondo la denominazione sopra esposta.
Ricordiamo il Programma Coping with life offerto dall’associazione no-profit Family Service che
opera a Toronto dal 1914 e da decenni propone interventi a sostegno delle famiglie che affrontano la separazione. Un esempio di buona pratica in cui un soggetto ben radicato nel territorio da tempo coglie un bisogno ed insieme ai soggetti interessati (professionisti e genitori)
offre uno specifico intervento di gruppo per bambini, affiancato anche da un lavoro clinico individuale, allo scopo di sostenere i figli nelle loro relazioni di appartenenza indispensabili per
la costruzione della mente e per un reale benessere relazionale. Sono da valorizzare gli approcci multipli, attivati, in contesti diversi, in una prospettiva di rete con offerte plurime gratuite o a pagamento proporzionali al reddito.
Per quanto riguarda la sede, i programmi sviluppati all’estero, a differenza di quanto avviene
in Italia, tendono ad essere offerti nelle scuole. La scuola è risultata essere efficace per la
110
promozione dei percorsi per i bambini, figli di genitori separati e viene vista come un contesto
idoneo e facilitante la partecipazione di un più largo numero di bambini.
In Europa i percorsi per i figli del divorzio si stanno espandendo come adjuncts ai servizi di
mediazione familiare condividendone la stessa filosofia di fondo, la fiducia nelle capacità di
problem solving nei soggetti coinvolti in problematiche relazionali.
Numerosi programmi hanno un approccio che prende in considerazione l’intero corpo familiare e che attribuisce – pur nella diversità del pensiero sottostante – un valore fondamentale
ai legami familiari per la crescita personale dei suoi membri, in particolare dei figli e per questo sembrano prefigurare un modello di benessere fondato sulla qualità delle relazioni fami42
liari primarie .
La promozione di queste risorse passa anche attraverso il web e numerose sono le organizzazioni che si fanno conoscere attraverso siti internet, luogo non sufficiente per aiutare i figli e le
famiglie ad affrontare la transizione del divorzio, ma che utilmente possono accedere a questa
risorsa tramite una informazione diffusa.
È da considerare però che i programmi per bambini sono solo una parte dei servizi di supporto alle famiglie che affrontano la separazione e il divorzio. Non sono certo una panacea, ma
richiedono un’interconnessione con altre risorse specialistiche e/o informali presenti sul territorio della comunità locale.
3.4.5 VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI
Ci soffermiamo infine sul processo di valutazione di questi percorsi gruppali a supporto dei
figli e dei genitori impegnati nella sfida del divorzio: ad oggi possiamo affermare che sono ancora poche le ricerche che oltre ad illustrare il modo di lavorare in questi gruppi, abbiano poi
anche approfondito gli aspetti di valutazione. È vero però che sia gli operatori che gli utenti
danno un parere molto positivo di questa esperienza, come apparirà nei casi da noi studiati,
ma gli interrogativi riguardano gli effetti a breve e a lungo termine di queste iniziative che nella prospettiva relazionale, sono finalizzate a rendere il soggetto portatore di un’esperienza difficile, maggiormente attrezzato a fronteggiarla e capace di non ripetere le azioni fonte del dolore. In sostanza, una valutazione di tali programmi è finalizzata a verificare come questa risorsa svolga una funzione preventiva e costruttiva del benessere del corpo sociale. Esiste già
un feedback dei primi genitori partecipanti ai programmi CODIP (775 al 2001) che hanno sottolineato al termine del percorso la loro volontà di tener fuori dal conflitto i figli, dimostrando
così di aver ben interiorizzato i contenuti trasmessi dal percorso. Un follow-up a 6 mesi e ad
un anno ha evidenziato una diminuzione del conflitto tra genitori su questioni legate ai figli,
un miglioramento delle relazioni genitori e figli e soprattutto un miglioramento del benessere
e dell’adattamento dei figli (Pedro-Carrol, Frazer, 2001).
Dal suo inizio sono stati condotti 8 studi incluso un follow-up sul progetto CODIP. Le due valutazioni del programma pilota con gruppi di controllo hanno riportato una diminuzione
dell’ansia e di atteggiamenti negativi su di sé e rispetto al divorzio. I genitori inoltre hanno segnalato nei figli un aumento di abilità e capacità di gestire efficacemente le preoccupazioni
collegate al divorzio (Pedro-Carroll, Cowen, 1985; Pedro-Carroll et all.,1986); una diminuzione
42
In questa direzione sarà però necessario prefigurare Gruppi di parola anche per figli di seconda generazione di
famiglie migranti che fanno l’esperienza della separazione dai nonni nel paese d’origine e che richiederanno alle
comunità di accoglienza di essere aiutati ad integrare le due culture senza doversi schierare con una contro l’altra o
escogitare soluzioni idealizzanti (Brambilla, Giuliani, Marzotto, 2010).
111
del senso di colpa, un miglioramento del comportamento in casa e del rendimento scolastico
e soprattutto un miglioramento rispetto alle loro competenze sociali.
Un follow-up a due anni documenta che i benefici sono duraturi e mette in evidenza che i figli
che hanno partecipato al progetto erano ancora meno ansiosi, erano più positivi, con maggiore fiducia in loro stessi e nelle loro famiglie, rispetto al gruppo di controllo (Pedro-Carroll, Sutton, 1999).
Altri esperimenti prevedono un follow-up con ogni famiglia con il conduttore del Gruppo di parola che al termine del percorso incontra di nuovo separatamente ciascun componente, per
esaminare gli obiettivi che ci si era prefissati, i progressi fatti ed eventualmente individuare altri futuri obiettivi, nella prospettiva che l’evento critico divorzio coniugale non è uguale per tutti, non è “normalizzabile”, malgrado la numerosità crescente dei casi, e richiede nei professionisti una flessibilità e una cura nel cogliere la domanda specifica presente in ogni persona, in
ogni gruppo familiare, al di là di banali obiettivi di adattamento individuale.
L’esperienza canadese fa emergere dalle ricerche una valutazione complessiva assai positiva
da parte degli utenti coinvolti e una riduzione globale dei problemi comportamentali e un miglioramento del rendimento scolastico dei figli: essi sono più capaci di risolvere i problemi della vita quotidiana e comunicano meglio con padre e madre. Questi per parte loro segnalano
una diminuzione dei problemi legati all’isolamento, all’aggressività, all’iperattività e alla depressione: i figli appaiono più calmi e fiduciosi, nonché più aperti (Mireault et all., 1991; Drapeau et all., 1993).
Riteniamo significativo citare anche l’esperienza denominata Rollercaster, un programma creato dall’organizzazione no profit Family First che opera da decenni ad Atlanta (Georgia). Il programma si basa sulla consulenza e sulla ricerca di Wallerstein (1980) che nel famoso testo
“Children of divorce: The psychological tasks of the child” ha individuato i 6 traguardi che il
bambino deve raggiungere a seguito della separazione per arrivare ad adattarsi alla nuova situazione: riconoscere la realtà della separazione e svilupparne una comprensione realistica,
sganciarsi dal conflitto genitoriale e ritornare al proprio progetto di vita, elaborare il dolore
per la separazione, riassorbire la collera ed il senso di colpa, accettare il permanere della separazione, ristabilire aspettative realistiche inerenti alle proprie relazioni affettive.
È un programma sviluppato nel 1995 per parlare direttamente ai bambini del divorzio con
l’obiettivo di aiutarli ad affrontare i cambiamenti connessi. L’intento è sempre quello di creare
uno spazio adeguato dove i bambini, attraverso il gioco e la discussione, possano comprendere e parlare dei propri sentimenti ed emozioni riguardo alla separazione, con una particolare
attenzione al senso di colpa; possano inoltre apprendere nuove strategie per affrontare i
cambiamenti e “imparare ad evitare di trovarsi coinvolti nel mezzo del conflitto genitoriale”.
Anche in questa sperimentazione emergono giudizi assai positivi dagli utenti: l’80/85% dei genitori segnala miglioramenti nei figli per quanto riguarda il livello generale di comunicazione,
la comunicazione sul tema del divorzio, la volontà di esprimere i propri sentimenti, il comportamento e l’autostima. Ciò che colpisce favorevolmente i genitori pare proprio essere la possibilità di uscire dalla vergogna e di poter affrontare con i figli un tema così scottante e faticoso
da gestire come quello della separazione della coppia.
In sintesi possiamo affermare che le ricerche si basano principalmente sull’utilizzo di reports
compilati dai partecipanti o prevedono l’utilizzo di scale somministrate a seguito
dell’intervento e numerosi sono i “disegni sperimentali classici” dove si effettua un confronto
con gruppi di controllo, relativamente a un insieme di indicatori come il livello di depressione,
di autostima, di rendimento scolastico del minore, etc (Mara-Drite, 2004).
112
Nei programmi proposti nei Paesi oltreoceano è evidente la differenza culturale rispetto ai nostri programmi. Infatti la cultura nord-americana è più pragmatica e incentrata
sull’apprendimento di strategie di controllo delle emozioni e di cambiamento dei comportamenti (Cigoli, 2008). Possiamo affermare comunque che anche se questi indicatori non ci forniscono dati su un cambiamento a livello delle rappresentazioni simboliche del dramma del
divorzio e sulle relative modifiche relazionali, come nella prospettiva di Scabini e Cigoli (2000,
43
2010), certamente sono dati assai incoraggianti .
Confortante in questa direzione è la recente ricerca condotta in California presso l’Università
di San Francisco (USA), che per la prima volta si è focalizzata sugli effetti del programma per i
genitori e ha preso in esame genitori e figli, sia prima che dopo la partecipazione al percorso.
Risulta che il programma ha portato benefici a entrambi: nei genitori è stata riscontrata una
diminuzione dell’intensità ed ampiezza del conflitto ed un miglioramento delle competenze
genitoriali; nei figli un abbassamento del livello d’ansia e un maggior benessere psicologico
(Cookston, 2009).
3.5. RICOGNIZIONE DELLE “BUONE PRATICHE”44
di Marta Bonadonna
Il lavoro di ricognizione delle buone pratiche relative al sostegno delle famiglie durante la separazione e il divorzio ha portato al reperimento di diverse realtà presenti sul territorio piemontese e lombardo. All’interno di questi servizi troviamo attività svolte per conto dell’autorità
giudiziaria (di cui non ci occuperemo in questo contesto) e attività alle quali le famiglie accedono spontaneamente.
Abbiamo rilevato la presenza diffusa sul territorio di strutture pubbliche, soprattutto in Piemonte e prevalentemente accreditate/convenzionate in Lombardia per il sostegno della famiglia durante le transizioni critiche e in particolare in occasione della separazione e del divorzio.
Questi servizi sono collocati in modo radicato e capillare nei territori, hanno una forte connessione con altri servizi, con organizzazioni di privato sociale o di volontariato e offrono al territorio numerose proposte a livello culturale (biblioteche e ludoteche) e di sostegno alle famiglie
sempre più in una prospettiva relazionale.
Gli interventi offerti al singolo, alla coppia o all’intero gruppo familiare in senso plurigenerazionale sono molteplici: consulenza alla coppia e al singolo, terapia individuale/di coppia/familiare, gruppi per genitori improntati all’auto-mutuo-aiuto tra persone che vivono la
stessa problematica.
Molto diffusa è la risorsa della Mediazione Familiare: anche grazie alla legge 54/2006 di riforma della procedura di divorzio, sempre più numerosi sono i professionisti di area psico-sociogiuridica che – appositamente formati – offrono un percorso di 6/10 incontri con i genitori divisi, per la redazione di accordi utili alla riorganizzazione della vita familiare dopo la separazione o il divorzio. Attualmente si riscontra però un incremento della conflittualità che rende
impossibile il percorso di Mediazione Familiare e richiede la creazione di servizi di aiuto al
mantenimento/ricostruzione/cura dei legami tra le generazioni e di contenimento della discordia. Dalla nostra ricognizione emerge infatti la presenza di servizi denominati spazio neu43
44
Come Osservatorio sui Gruppi di parola dell’Università Cattolica di Milano - Servizio di psicologia clinica per la
coppia e famiglia, stiamo mettendo a punto un progetto di ricerca focalizzato sugli effetti della partecipazione a
questi programmi nei figli che hanno la fortuna di venirne a conoscenza e sono iscritti con la firma congiunta dei
loro genitori - anche se separati.
La raccolta è stata curata da Francesca Maci.
113
tro, ovvero di luoghi protetti per gli incontri tra genitori e figli, tra nonni e nipoti con accesso
prescritto dal giudice e in alcuni casi spontaneo.
Possiamo a grandi linee distinguere dunque tra servizi riparativi del danno relazionale, servizi
preventivi del disagio connesso al verificarsi di eventi critici non prevedibili quali la separazione
e il divorzio e servizi di accompagnamento dei membri del corpo familiare in tutte quelle
situazioni in cui è richiesto il fronteggiamento di circostanze critiche, drammatiche se non
addirittura tragiche.
Quelle sopra ricordate sono risorse per la cura del singolo e delle relazioni tra generi e generazioni da collocare all’interno di queste diverse tipologie, mentre i Gruppi di parola possono
essere certamente annoverati tra i servizi di tipo preventivo della sofferenza dei figli per il
permanere della conflittualità tra genitori separati e l’impossibilità di avere accesso alle due
stirpi – come è stato illustrato nelle pagine precedenti.
In sintesi ci sembra di poter riscontrare un incremento dell’attenzione da parte delle comunità
nei confronti delle famiglie fragili al verificarsi della rottura del patto di coppia e le sue conseguenze sullo sviluppo e l’educazione dei minori. L’andamento delle politiche sociali per la famiglia in accordo con una meta riflessione sulla transizione del divorzio, dopo un periodo di
“normalizzazione” dell’evento che si contrapponeva a una “stigmatizzazione e patologizzazione” dei soggetti coinvolti, sembra orientato alla valorizzazione delle competenze relazionali
delle persone. In questa direzione di supporto e di valorizzazione degli attori coinvolti nella
45
crisi separativa, comincia a trovare spazio la proposta innovativa del Gruppo di parola . Questa cornice di sfondo ci spiega il motivo per cui sono ancora rare e molto recenti le sperimentazioni di questa risorsa anche se abbiamo riscontrato un forte interesse sia da parte degli enti locali che delle scuole, delle associazioni familiari e delle istituzioni di terzo settore. Come
sappiamo, la posta in gioco nei conflitti familiari non è solo una soluzione operativa pragmatica possibile, ma necessita del riconoscimento dell’altro e della sopravvivenza di un minimo di
fiducia reciproca sia familiare che sociale. Le azioni professionali per la gestione cooperativa
del conflitto quali ad esempio la conduzione di gruppi, la mediazione familiare, le indagini socio ambientali di tipo relazionale sono un’opportunità per la rigenerazione dei legami nelle
famiglie come nelle comunità affinché un evento critico non espropri i genitori delle loro responsabilità e non depauperizzi il capitale sociale.
Non abbiamo qui riportato una tabella riassuntiva di tutte le pratiche reperite, come è stato
fatto per le altre aree d’indagine, perché – come abbiamo già osservato – quasi ovunque ormai vengono offerti servizi di tipo riparativo e di accompagnamento (secondo la tipologia sopra
proposta). La
45
L’Osservatorio sui Gruppi di parola attivo presso il Servizio di Psicologia Clinica per la Coppia e la Famiglia
dell’Università Cattolica di Milano sta monitorando il nascere e l’evolversi di queste nuove realtà con attività di
aggiornamento, supervisione e ricerca.
114
Tabella 12 riporta solo gli altri tre servizi che propongono i Gruppi di parola, oltre ai due casi
studiati, Assago (Lombardia) e Bussoleno (Piemonte).
115
Tabella 12 – Buone Pratiche (Lombardia e Piemonte)
Scheda
n.
Sede
Ente
Progetto
1
Lombardia,
Palazzolo
sull’Oglio (BS)
Distretto 6 Monte
Orfano e Provincia di Brescia
Progetto Famiglia
Gruppo di parola
Piemonte,
Biella
ASL Biella e Consorzio Intercomunale I.R.I.S.
Ge.Co Gestione
dei Conflitti per
Genitori in situazione di separazione
Gruppi di parola, mediazione familiare, consulenze individuali, gruppi
di confronto tra genitori
Piemonte,
Vercelli
Comune di Vercelli in collaborazione con Associazione “Inter…mediando”
Centro Famiglie
“villa Cingoli” Attività di supporto
delle responsabilità familiari
Mediazione familiare,
gruppi di parola, gruppi
di “auto-mutuo-aiuto”
2
3
Tipologia
3.6. DUE STUDI DI CASO:
- “CENTRO DI SERVIZIO ALLA FAMIGLIA-ONLUS”-ASSAGO
- “P.E.G.A.S.O.”-BUSSOLENO
di Marta Bonadonna
Vedremo qui di seguito in modo approfondito due realtà in cui viene proposto il Gruppo di
parola. Nel primo caso, “Centro di Servizio alla Famiglia-Onlus” di Assago in provincia di Milano, questa risorsa viene offerta dal 2009, in un ambito di privato sociale accreditato e si affianca ad altri i interventi a supporto della famiglia in caso di separazione e divorzio.
Il secondo caso, il Servizio P.E.G.A.S.O. di Bussoleno in provincia di Torino, riguarda un servizio
pubblico consortile che ha potuto offrire una sola sperimentazione del Gruppo di parola.
Abbiamo scelto di analizzare in parallelo queste due realtà in quanto sono le prime sperimentazioni pilota avviate in Italia sul modello canadese. Proprio in questo inizio del 2011 stiamo
assistendo ad una implementazione di questa risorsa ancora poco conosciuta.
Il Gruppo di parola per figli di genitori separati è un servizio offerto dal 2007 nell’ambito del
progetto “Ugualmente Genitori” dell’Associazione “Centro di Servizio alla Famiglia – Onlus” di
Assago in provincia di Milano. Il progetto di durata biennale (2009-2011), è finanziato dal Piano
di Zona (ex L. 328/00) dei sei Comuni del Distretto 3 dell’Asl Milano 1: Corsico, Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio, Buccinasco, Assago e Cusago.
“Ugualmente Genitori” si rivolge a tutte le coppie coniugate o conviventi, con figli o senza che
stanno attraversando la separazione o il divorzio e ha un’ampia offerta di servizi, tutti completamente gratuiti:
1. i percorsi di Mediazione Familiare per coppie di genitori separati o in via di separazione,
con o senza figli;
2. il Gruppo di parola per figli di genitori separati di età 6-12 anni e di età 12-15 anni;
3. le serate aperte su tematiche relative alla separazione (cicli di due serate);
116
4. i gruppi di discussione (di scambio e di sostegno) per i singoli genitori separati e/o coppie.
Il progetto “Ugualmente genitori” è iniziato nel 2006 con un servizio di Mediazione Familiare
per un finanziamento a seguito di un bando biennale promosso dal piano di zona (Legge
328/00). Alla Mediazione Familiare, nel 2007 è stata aggiunta la risorsa dei Gruppi di parola, le
serate a tema e i gruppi di discussione. Nel periodo 2008-2009 il progetto “Ugualmente Geni46
tori” è stato realizzato usufruendo del sostegno della Provincia di Milano .
Il progetto si presenta molto articolato e completo per il sostegno della famiglia durante la separazione e il divorzio. Si presenta anche molto innovativo soprattutto per la proposta dei
Gruppi di parola che si affianca con una buona sinergia e sintonia agli altri interventi offerti. In
particolare, il fatto di organizzare gruppi di questa natura anche per figli di genitori separati
pre-adolescenti o adolescenti, rende il progetto assolutamente unico nel contesto in cui opera
in cui non sembrano esserci altre risorse così strutturate e utili per accompagnare il corpo familiare durante questa specifica riorganizzazione delle relazioni.
Inoltre, l’Associazione che ospita il progetto “Ugualmente Genitori” e ne permette la realizzazione all’interno dei suoi spazi, è una realtà fortemente radicata nel territorio dall’inizio degli
anni ‘70. Opera in una rete di relazioni e di scambi molto ricca e articolata anche con i comuni
limitrofi con cui ha potuto intessere relazioni fiduciarie rilevanti ed è particolarmente attenta
ai bisogni del territorio in vista di progettazioni sempre più mirate e innovative.
Il Servizio “P.E.G.A.S.O.” – Servizio di sostegno alla genitorialità con sede a Bussoleno in provincia di Torino ha proposto nel novembre 2008 la sperimentazione di un Gruppo di parola
per figli di genitori separati. La realizzazione del gruppo è stata l’esito di una progettazione ad
hoc nell’ambito di un progetto di stage all’interno del corso di laurea magistrale in Servizio Sociale di una professionista appositamente formata alla conduzione dei Gruppi di parola.
La proposta del lavoro innovativo del Gruppo di parola si inserisce in un contesto particolarmente attento alla famiglia e soprattutto al supporto di essa durante la separazione e il divorzio. Il Servizio “P.E.G.A.S.O.” – Percorsi per Essere Genitori Ancora Senza Ostilità, offre ai genitori residenti nei 37 Comuni del Consorzio intercomunale socio-assistenziale “Valle di Susa
(Con.I.S.A) la seguente proposta di servizi completamente gratuiti:

Mediazione Familiare per i genitori che intendano impostare e riorganizzare le relazioni
familiari in vista o in seguito alla separazione;

Spazio di Incontro per i genitori e i loro figli finalizzato al mantenimento o alla ricostruzione
del legame genitoriale;

Gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto per i genitori finalizzato alla condivisione delle esperienze e la
ricerca di soluzioni alle problematiche connesse con la separazione coniugale;

Terapia familiare rivolta a genitori in situazioni conflittuali.
46
Il servizio, visibile su tutti i siti internet del Comune, è operativo tre giornate la settimana e ha a disposizione una
segretaria appositamente formata per offrire informazioni necessarie sulla Mediazione Familiare e le altre proposte
del progetto, fornire chiarimenti e prendere appuntamenti. Sia la Mediazione Familiare che i Gruppi di parola sono
servizi ben avviati, mentre per le serate a tema e i gruppi di discussione non c’è stata ancora una richiesta tale da
permettere l’avviamento del servizio in maniera continuativa. Sono anch’esse proposte inserite nel progetto
“Ugualmente Genitori” dal 2007 per offrire un sostegno più completo alla continuità del ruolo genitoriale e sono
iniziative gruppali pensate in modo tale che nel confronto con altre persone che stanno vivendo situazioni analoghe
si possano trovare strategie per fronteggiare la riorganizzazione delle relazioni a seguito della separazione; tuttavia,
pur credendo nella grande utilità di questi altri servizi, a causa delle poche risorse economiche a disposizione, non
si è potuto fare il necessario lavoro di promozione capillare per la loro attivazione.
117
Il Servizio è nato con i fondi della legge 285/97 e prende avvio nel 1998. Nasce dall’esperienza
del servizio di mediazione familiare “Genitori Ancora” finanziato dalla Provincia e con sede a
Torino. L’idea iniziale è stata quella di offrire oltre alla mediazione familiare anche una gamma
maggiore di possibilità di consulenza per supportare la complessità delle problematiche e delle esigenze in cui si imbatte la famiglia “in crisi”. P.E.G.A.S.O. si propone come “uno spazio per le
nuove costellazioni familiari” attento alle problematiche specifiche della popolazione del territorio consortile e in contatto con le realtà importanti in cui interagiscono le famiglie (soprattutto le scuole).
Nella sede di P.E.G.A.S.O. dal 2010 sono stati attivati da parte del Consorzio Intercomunale Socio-assistenziale “Valle di Susa” due altri servizi rivolti alle famiglie del territorio: il “Centro Famiglia” e la “Casa dei Conflitti” in collaborazione con il Gruppo Abele. Il primo offre un sostegno alla famiglia con attività di counselling da parte di operatrici appositamente formate, il secondo è rivolto a tutte quelle situazioni di tensioni relazionali che richiedono la competenza
specifica di operatori formati alle tecniche di mediazione sociale e di gestione del conflitto. I 3
servizi si alternano nell’uso degli spazi a disposizione e si incontrano periodicamente con riunioni di équipe.
La sperimentazione del Gruppo di parola si è integrata molto bene con i diversi servizi a sostegno della separazione di P.E.G.A.S.O. e in particolare con l’attività del gruppo di AutoMutuo-Aiuto rivolto a genitori separati proposto negli anni 1999-2000. In quell’occasione il
servizio era rivolto ai genitori e i bambini erano invitati in modo informale a trascorrere del
tempo insieme mentre le madri si incontravano. Soprattutto nella persona della referente responsabile e coordinatrice del servizio c’è un’attenzione sempre vigile per i progetti innovativi
e ancora più completi per sostenere i figli di genitori separati e quindi l’interesse di proporre la
nuova modalità di lavoro dei Gruppi di parola, tuttavia la scarsità di fondi economici non permette ad oggi l’attivazione di questo servizio in modo continuativo.
3.6.1 METODOLOGIA

Caso di Assago:
Intervistato
Strumento
CA1 Responsabile dell’Associazione Centro di
Servizio alla Famiglia – Onlus di Assago e responsabile amministrativo del progetto “Ugualmente Genitori”
Scheda per il responsabile del Servizio
Traccia Intervista responsabile del Servizio
Rappresentazione grafica della rete
CA2 Coordinatrice del Servizio “Ugualmente Genitori” e operatore del Gruppo di parola
Griglia per Intervista soggetti operativi
CA3 Genitore
Traccia per intervista
CA4 Genitore
Traccia per intervista
CA5 Genitore
Traccia per intervista
CA6 Genitore
Traccia per intervista
47
47
L’intervista qualitativa telefonica verteva su: a) punti forza; b) punti di debolezza; c) lo consiglierebbe; d) quali
cambiamenti; e) chi ha coinvolto.
118
È stato consultato anche il materiale reperibile online sul sito dell’Associazione Centro di Servizio alla Famiglia-Onlus e il materiale fornito dal responsabile amministrativo del progetto
“Ugualmente Genitori”.

Caso di Bussoleno:
Intervistato
Strumento
CB1 Coordinatrice e referente responsabile del
servizio P.E.G.A.S.O. – Servizio di sostegno alla
genitorialità
Scheda per il responsabile del Servizio
Rappresentazione grafica della rete
CB2 Operatrice conduttrice del Gruppo di parola
Griglia per Intervista soggetti operativi
CB3 Genitore
Traccia per intervista
CB4 Genitore
Traccia per intervista
CB5 Genitore
Traccia per intervista
CB6 Genitore
Traccia per intervista
CB7 Genitore
Traccia per intervista
CB8 Genitore
Traccia per intervista
3.6.2 ANALISI PARALLELA DEI SERVIZI DI ASSAGO E BUSSOLENO
Il Gruppo di parola è uno strumento che utilizza il gruppo dei partecipanti come principale
strumento e risorsa per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Nel lavoro sono fondamentali i
contributi delle due conduttrici ad Assago, una a Bussoleno. I genitori sono anch’essi parte attiva nel lavoro del Gruppo di parola nella seconda metà del quarto incontro. Le dinamiche relazionali opportunamente condotte e gestite, sono “mezzi” fondamentali di questo lavoro.
Il Gruppo di parola è un percorso breve (si tratta di 4 incontri), molto
puntuale (CA2);
è uno
strumento efficace che si pone degli obiettivi che non sono mai irrealistici (CA2),
che riguardano i figli primariamente, ma anche i loro genitori. Offre infatti
ai ragazzi che stanno vivendo o hanno attraversato recentemente un’esperienza di separazione la possibilità di pensare, di parlare e di comunicare sull’evento… mi sembra
un’occasione per i ragazzi di elaborare utile, elaborare, rielaborare, condividere l’esperienza,
la fatica… forse in realtà non solo ai ragazzi, mi sembra che possa essere buona, perché
buona pratica, come occasione anche per i genitori tramite i figli, tramite i figli, i ragazzi di
reincontrarsi sul tema… perché non è una roba che passa che scivola che non tocca, ma un
qualcosa che comunque è un pezzo della storia sia dei genitori che dei figli (CA1).
Gli obiettivi del Gruppo di parola sono diversi,
…quelli di offrire uno spazio e un tempo per mettere parola sulla separazione e sulle vicende
familiari, sulla storia della famiglia; condividere con chi vive contestualmente la stessa diffi-
119
coltà, uscire dall’isolamento, raccogliere informazioni, fare domande e magari raccogliere risposte contrastanti.. evitare la stigmatizzazione e normalizzare l’accadimento (CB2).
La parola è lo strumento principale di questo lavoro che intende attivare un “circolo virtuoso”
nello scambio relazionale tra genitori e figli e l’avvio di un processo innovativo a seguito della
partecipazione al Gruppo.
… l’obiettivo del gruppo di parola è quello di dare la possibilità di riattivare la comunicazione
tra figli e genitori e spesso questo almeno in parte viene raggiunto, dare uno spazio, un tempo, un luogo ai figli di genitori separati, storicizzare la separazione per cui collocarla in un
momento specifico della vita e del tempo di questi individui, sono in genere obiettivi che si
raggiungono sempre con il gruppo di parola; quindi da questo punto di vista secondo me è
uno strumento nuovo che va a rispondere a dei bisogni specifici per i quali non ci sono strumenti così mirati (CA2).
Tramite la parola condivisa è possibile per i figli trovare un significato rispetto a quello che
sta succedendo in famiglia, il gruppo permette infatti
… la traduzione, io credo che il gruppo di parola permetta di tradurre quello che sta succedendo, di dare significato, di trovare una collocazione e come dire di… dove… poi dico anche
una criticità che ho notato… laddove si colloca nel momento opportuno aiuta la fase transitoria di passaggio come dire sostiene quello che invece potrebbe avere il volto del trauma,
permette ai bambini di dire con libertà quelli che sono i desideri che molto spesso non si
permettono di dire ai genitori, con le loro espressioni… cosa aveva detto Francesca? “io vorrei
che si ri.. non era risposarsi, era un termine straordinariamente simpatico, perché i suoi genitori erano una coppia di fatto, allora non aveva detto risposassero, si riconvivessero, un termine, permette di dire la paura, permette di dire i desideri, permette di sentirsi un gruppo
dove l’esperienza viene anche come dire… messa sotto tono, se la stanno vivendo gli altri non
è così strana (CB1).
Nel gruppo si sperimenta la libertà di parola senza stigmatizzazione in quanto si può essere
liberi di parlare
aveva espresso il suo parere incondizionatamente” CB8; …si.. l’ha vissuto come non un segreto da tenere, una cosa di cui non si può parlare, almeno con me e con la mamma ne parla
un po’ (CB5).
e, grazie al confronto e al supporto dei pari, si può essere meno soli sia pure nella sofferenza
e nel dolore,
proprio il fatto di trovarsi in gruppo, che Chiara sentisse che la sua situazione non era l’unica,
ma che altri bimbi passassero attraverso un periodo di riassestamento familiare e di modificazione, che si aprivano nuovi scenari e che si condividevano delle emozioni; per lei è stata
prevalentemente un’emozione di tristezza, altri riportavano dei grossi conflitti comunque di
tensioni genitoriali molto più forti però lei si è sentita comunque non sola a vivere
un’esperienza di separazione dei genitori di sentire che c’erano altri bimbi e che se ne poteva
parlare (CB4).
Ad Assago questa pratica è stata introdotta nella gamma delle offerte del progetto “Ugualmente Genitori” a partire dall’esperienza della Mediazione Familiare proprio per la vicinanza di
alcuni obiettivi e modalità di lavoro come è evidente nelle parole dell’operatrice del servizio e
coordinatrice del progetto.
120
La concretezza [credo che] sia fondamentale per questo tipo di lavoro come lo è per la mediazione familiare; non è un lavoro e lo diciamo sempre molto chiaramente non ha degli obiettivi terapeutici ma può avere effetti terapeutici, è un lavoro su un piano di concretezza attraverso strumenti di concretezza, attraverso la condivisione di uno spazio, la creazione di un
gruppo l’idea che si possono anche riallacciare, allacciare e riallacciare delle relazioni, si lavora su problematiche concrete e specifiche, si cercano soluzioni, strategie di adattamento, si
lavora sulle risorse che il gruppo mette a disposizione dei partecipanti per uscire dalle situazioni di empasse e difficoltà. E questo è molto in sintonia con lo spirito della mediazione che
può essere pensato anche quello come un lavoro di gruppo, in fondo il mediatore con la
coppia che incontra può essere pensato anche come un gruppo di lavoro che lavora sulla ricerca di soluzioni a problemi concreti e attraverso la ricerca di soluzioni a problemi concreti
si lavora su un piano più simbolico e trasformativo (CA2).
La proposta di una sperimentazione di un Gruppo di parola a P.E.G.A.S.O. è stata accolta subito molto favorevolmente,
con assoluto entusiasmo… (CB1).
dalla coordinatrice del servizio,
…un interlocutore attento… si è sempre chiesta che cosa si poteva fare per questi bambini…;
… ha preso l’iniziativa a “scatola chiusa”, si è convinta a fare il progetto (CB2),
che ha mostrato sia interesse per l’iniziativa che offerto supporto per la sua organizzazione,
…è sempre sta presente per il confronto anche se non era con me nella stanza del gruppo di
parola… (CB2), e alla fine degli incontri partecipando al colloquio di restituzione del lavoro ai
genitori.
Per quanto riguarda la metodologia, il Gruppo di parola consiste di un percorso breve di 4 incontri, della durata di 2 ore a distanza settimanale rivolto a figli di genitori separati; nella seconda ora del quarto incontro sono invitati a partecipare anche i genitori. È rivolto a figli di età
compresa tra i 6 e i 12 anni e ad Assago viene organizzato anche per ragazzi preadolescenti/adolescenti di età compresa tra i 13 e i 15 anni. Il gruppo prevede un massimo di
8 partecipanti ed è condotto dalle 2/1 professioniste appositamente formate alla conduzione
del Gruppo di parola che, nella realtà di Assago sono anche le Mediatrici Familiari del servizio.
In ogni gruppo possono partecipare al massimo due fratelli del medesimo nucleo familiare.
Durante gli incontri vengono proposti strumenti e attivazioni in modo da favorire l’espressione
di emozioni, sentimenti, dubbi e paure per ciò che stanno vivendo attraverso la parola, il disegno, la drammatizzazione, la scrittura; i partecipanti possono porre domande e avere informazioni e trovare strategie per la risoluzione dei loro problemi in una prospettiva di ricerca di
un senso nuovo e possibile all’interno del gruppo di coetanei e con l’aiuto di due adulti di fiducia. Il gruppo dei pari permette di uscire dall’isolamento e trovare una rete di sostegno e di
scambio per vivere al meglio la riorganizzazione della famiglia e i cambiamenti relativi alla separazione dei genitori come per esempio i passaggi da un genitore all’altro. Il gruppo è quindi
risorsa e fonte di scambio relazionale e di sostegno.
Perché tutto questo possa avvenire è fondamentale la firma di autorizzazione dei due genitori,
entrambi, alla partecipazione al Gruppo. I partecipanti infatti beneficiano dell’accordo che
madre e padre hanno sottoscritto, spesso uno dei pochi nella conflittualità in cui spesso vivono e questo li autorizza poi a parlare nel gruppo di sé e della relazione con entrambi i genitori.
121
Diciamo la verità il papà di Paolo non era… io gli avevo già proposto una terapia su Paolo…
anche se il problema siamo noi non è Paolo però avevo detto al papà che secondo me Paolo
faceva fatica e aveva bisogno che qualcuno lo vedesse e ci desse delle indicazioni a me e a lui
su come gestire le cose sarebbe stato opportuno. Il papà mi ha detto assolutamente di no e
quindi il gruppo di parola è stato una cosa su cui il papà ha detto sì perché aveva già detto
no sull’altra via e quindi non se l’è sentita di dire no anche su questo. Essendo andata così
questa esperienza [Paolo ha partecipato a solo 2 incontri], avendo avuto il rimando da X
[dalla conduttrice del gruppo] che forse era opportuno trovare uno spazio diverso individuale, allora poi ha lasciato che facessi, diciamo così… però mi sto interessando io e vado avanti
io… (CB6).
I partecipanti devono anche essere certi che ciò che viene detto non verrà utilizzato strumentalmente da chi ascolta e perciò le conduttrici devono assicurare la “confidenzialità” rispetto a
tutto ciò che viene detto durante il gruppo. Questa regola è condivisa da tutto il gruppo ed è
fondamentale per il suo svolgimento.
Considerando il “modello di valore” che ispira l’azione dell’Associazione “Centro di Servizio alla
Famiglia-Onlus”, va ricordato che si tratta di una struttura societaria che coinvolge 13 parrocchie e tra i servizi ha un Consultorio Familiare aggregato alla Federazione Lombarda dei Consultori Familiari (Felceaf). È presente nel territorio dagli inizi degli anni ‘70 e ha sempre mostrato un’attenzione particolare alla famiglia anche durante la difficile e dolorosa transizione della
separazione e del divorzio. Ha accolto molto favorevolmente l’idea di progettare un servizio di
Mediazione Familiare nel 2005 e da allora si è sempre coinvolta nell’organizzazione e nella
promozione di tutti i servizi che nel tempo hanno ampliato l’offerta del progetto “Ugualmente
Genitori”.
La dimensione del gruppo come risorsa fondamentale è molto presente nell’Associazione sia
per quanto riguarda la tipologia degli interventi proposti che per la realizzazione degli stessi.
Nel tempo infatti è stata creata e curata una fitta rete di scambio e di relazioni con i servizi e le
realtà del territorio.
Anche il Servizio P.E.G.A.S.O., fin da quando è nato nel 1998, ha sempre mostrato una grande
attenzione alle problematiche della famiglia relative sia alla separazione e al divorzio che alle
fragilità familiari in generale. Ecco perché, pur prendendo avvio dall’esperienza della mediazione familiare (la coordinatrice del servizio era mediatrice familiare per un servizio della provincia di Torino), non ha voluto concentrarsi solo ed esclusivamente alla presa di accordi durante la transizione della separazione e del divorzio, ma ha voluto fornire un’offerta molto più
ampia per sostenere la crisi familiare sia a livello di consulenza (servizi di counselling), che di
supporto specifico (luogo di incontro neutro, mediazione e gruppi di auto-mutuo-aiuto) che di
terapia familiare,
…con il servizio di mediazione di Torino ci eravamo già resi conto che la domanda che portavano le persone non era solo relativa alla separazione, ma molto spesso le persone portavano la fragilità e la crisi coniugale, quindi da subito questo servizio è nato con l’idea di rivolgersi alle famiglie in crisi. Questo è stato il supporto della provincia, la nostra esperienza fatta a Torino ci ha portato a dire di non nascere come servizio di mediazione familiare, ma
come servizio che contempla la possibilità anche della consulenza. Inizialmente eravamo
un’educatrice e formata come helper e 3 colleghe, una io laureata in scienze dell’educazione
e formata come mediatore familiare e 2 assistenti sociali formati in contesti diversi come
mediatori familiari. Da subito l’ente si è messo alla ricerca di qualcuno che fosse spendibile
nel contesto del sostegno terapeutico alla crisi familiare. Dopo un anno è venuta la dott.ssa
SS, psicologa e psicoterapeuta della famiglia (CB1).
122
3.6.3 VALUTAZIONE DELLA “BONTÀ” DELLA PRATICA
È possibile a questo punto formulare alcune considerazioni circa le dimensioni che rimandano
un giudizio positivo sulla pratica valutata, a partire dalla dimensione dell’efficienza nel contesto di Assago:
in termini quantitativi, si satura completamente la domanda che arriva al servizio, non c’è lista di attesa, persone che non possono usufruire di questo servizio; non è saturato il bisogno
del territorio assolutamente. Non sempre le persone che potrebbero usufruire di questa risorsa ne sono al corrente, informate, non sempre hanno la volontà di accederci. Probabilmente c’è una fascia abbastanza rilevante di persone che potrebbero usufruirne e non ne usufruiscono (CA1).
L’operatrice che ha condotto l’esperienza del Gruppo di parola a Bussoleno è un’assistente sociale che stava svolgendo per il servizio P.E.G.A.S.O. un’attività di stage. L’operatrice ha potuto
mettere a frutto la sua esperienza sia teorica in ambito della separazione e del divorzio che
pratica in quanto formata alla conduzione dei Gruppi di parola a seguito di un corso di Alta
formazione,
ho realizzato e seguito un progetto ad hoc all’interno di questo servizio, è stata un’esperienza
estemporanea all’interno della mia attività di stage nella laurea specialistica a Milano. Avevo
fatto la formazione con MMSS e avevo fatto la tesi di laurea sui gruppi di parola. L’esperienza
del gruppo di parola non c’era in Piemonte. Ho scelto questo servizio perché è innovativo e
perché è un servizio pubblico. Durante la triennale avevo fatto una tesi sulla mediazione familiare. Ero quindi una stagista e poi il mio ruolo all’interno del servizio è terminato. (CB2).
Il Gruppo è efficiente anche per la sua stessa natura: è breve, facile da proporre in quanto si
riferisce a una problematica ben individuabile, non patologica, ma specifica rispetto a una
transizione del ciclo di vita e
è un intervento che per sua natura si affianca in maniera produttiva ed utile ad altri interventi, per cui faccio un esempio un ragazzo seguito dal punto di vista psicologico dai servizi può
beneficiare di un breve percorso nel gruppo di parola e riprendere magari poi il suo lavoro
individuale di taglio psicologico con maggiore utilità, è un intervento facilmente proponibile
ai genitori perché non è troppo impegnativo è molto mirato, posso anche dire che ha un
buon ritorno perché le persone che vengono inviate tornano dai servizi invianti dicendo che è
stato un lavoro utile che ha fatto bene ai figli e ha fatto bene ai genitori, questo direi nella
quasi totalità o comunque nella grande maggioranza dei casi (CA2).
Inoltre, l’attenzione ai bisogni dei figli di genitori separati è convogliata nell’attuazione di un
intervento gruppale che permette di dare un’attenzione particolare a questa problematica e di
gestirla in maniera senza dubbio più efficiente rispetto a una presa in carico individuale o
“mediata” dai genitori all’interno dei percorsi di mediazione familiare.
Tanto lavoro di promozione e sensibilizzazione deve essere ancora fatto in modo che il Gruppo di parola possa diventare sempre più una risorsa specifica visibile e disponibile sul territorio sia lombardo che piemontese. Ad Assago l’efficienza è ulteriormente favorita dalla flessibilità nella rendicontazione per il finanziamento. Infatti
con il piano di zona è stata fatta una proposta di costi che è stata accettata e che prevede
che su un’ipotesi di fare 140 colloqui di mediazione, 4 gruppi di parola, 16 incontri di gruppo
per genitori separati, per adeguarsi meglio al bisogno, si è ideata una “flessibilizzazione” per
123
cui al posto di 8 incontri di mediazione familiare si può fare 1 gruppo di parola in più, o 8 incontri di gruppo in più (CA2).
La reperibilità del finanziamento è il nodo critico riportato più volte nelle interviste:
Il problema è la tenuta economica. Sei sul filo, le risorse sono al pelo per coprire i costi; non
c’è margine che permette operazioni di investimento, di ampliamento… ci sono delle linee di
finanziamento specifiche che non garantiscono continuità, il piano di zona deciderà… ha
talmente poche risorse che non so se potrà dire facciamo queste cose con le mie risorse che
sono ridotte rispetto a 2/3 anni fa. Stiamo cercando di interloquire con la provincia di Milano, c’è qualche pensiero aperto con l’asl, sono opzioni aperte da più anni che però ad oggi
non hanno dato nessun esito… (CA1).
Anche nel contesto piemontese la questione dei finanziamenti è centrale
Noi potremmo riproporlo con persone formate che vengono da noi e fanno questa cosa. La
questione molto semplice è che dovremmo trovare qualcuno che lo fa gratuitamente perché
in questo momento qua l’ente non sostituisce neanche le assistenti sociali che vanno in maternità. È un momento per gli enti di assoluta crisi. Se ci formiamo noi, poi lo facciamo… Magari mi telefonassero di nuovo e mi dicessero verrebbe una tirocinante a fare dei gruppi di
parola! (CB1).
Sembrerebbe però che data l’accoglienza positiva delle famiglie e i risultati ottenuti, si potrebbe immaginare la realizzazione anche con forme di sponsorizzazione diverse
… è una risorsa preziosa nei centri per le famiglie a fianco della mediazione familiare, forse
anche si potrebbe proporre nel privato… (CB2).
Ad Assago le domande sul futuro rimangono aperte e di difficile prefigurazione
Per il futuro è una questione molto delicata perché non solo il nostro servizio ma molti altri
sono sempre sottoposti all’incognita della possibilità di rinnovare la convenzione; c’è sempre
un problema assillante di ricerca fondi e di scelte politiche che vengono fatte rispetto al voler
potenziare alcuni servizi per le famiglie rispetto ad altri e questo è un elemento di grande
precarietà che influisce anche sulla qualità del lavoro perché purtroppo l’idea di lavorare con
prospettive temporali al massimo biennali influisce pesantemente sulla qualità del lavoro,
porta quantomeno non conoscenza e possibile sfiducia sulla durata del lavoro che si sta facendo, lavorare e poi sapere che tutto ogni due anni viene messo in discussione e possono
non esserci più fondi per proseguire in modo reale è una grossa ipoteca sul lavoro che si fa. È
una situazione di tutti i servizi che lavorano nel privato sociale e che sono convenzionati con
il pubblico, negli ultimi anni è così… (CA1).
In questa situazione di disagio viene percepito come fondamentale il contributo di supporto e
di sostegno del responsabile amministrativo del progetto e l’impegno e la perseveranza delle
operatrici coinvolte. Per la continuità del lavoro contribuiscono
…moltissimo il direttore del consultorio [nb. E responsabile amministrativo del progetto] e noi
operatrici perché in questi mandati biennali dal primo giorno del nuovo mandato bisogna
lavorare pensando al mandato successivo e quindi c’è da fare un’attività di promozione, di
conoscenza e cura dei tutte le varie relazioni con altri operatori del territorio, prevenire e
immaginare i bisogni, ri progettarsi continuamente sia per i contenuti - cosa che facciamo
noi operatrici - sia dal punto di vista amministrativo delle convenzioni, della realizzabilità è
un lavoro di promozione continua in vista, una brutta parola, ma realistica, della sopravvivenza! (CA1).
124
In generale, in entrambe le realtà si può parlare di una capitalizzazione di quanto acquisito per
la partecipazione al Gruppo se si dà voce soprattutto alle interviste dei genitori dei figli che
hanno partecipato ai gruppi. Anche a distanza di tempo infatti gli effetti positivi della partecipazione all’esperienza gruppale rimangono presenti. Da quel momento, dice una madre, abbiamo cominciato a parlarne (della separazione) e in particolare con uno dei figli,
è sembrato di superare una barriera… (CA3).
Lo stesso sembra valere per i genitori che a seguito della sia pur breve partecipazione al
Gruppo di parola, possono continuare a mettere parola sulla loro realtà tra di loro e anche insieme ai figli, anche a distanza di tempo,
… è stato un modo per continuare a parlarne e di ritornare sull’argomento, anche per noi
(CA3);
…sì, qualche cambiamento sì, la sera riuscivamo a parlarne, a chiacchierare … era molto più
tranquilla, la sera potevamo parlare di queste cose e ogni tanto quando aveva voglia tirava
fuori … ancora adesso spesso alla sera ne parliamo… (CB5);
… se ne può parlare della separazione, c’era un altro bimbo della sua classe che si è separato
per cui le veniva in mente Pegaso. Quando parliamo della mia amica XXX, della mia collega,
lei si ricorda di quel posto lì e quindi come dire è un luogo che ricorda. Abbiamo a casa la
cartellina con i suoi disegni, ci sono spunti bibliografici, se ne parla in generale delle famiglia
che sia adozione, affidamento, chiede (CB4).
La condivisione quindi sperimentata nei suoi benefici all’interno del gruppo è stata poi “capitalizzata” come metodo di relazione buono e ripetibile nel tempo.
Inoltre, per qualcuno nel gruppo e proprio grazie al confronto con il gruppo dei pari, si è potuta concretizzare maggiore consapevolezza rispetto alla definitività della separazione dei genitori e quindi la possibilità da quel momento in avanti di accettare una vita con nuovi confini
relazionali con la mamma e con il papà e a volte anche con i nuovi compagni. Così racconta
una mamma
Il fatto di essersi resa conto che ha i genitori separati e quindi che da lì in poi più specificatamente è iniziato il suo percorso di bimba di genitori separati, come per dire ok mamma e
papà non tornano più insieme, devo prenderla così e… se magari prima c’era qualche speranza di poterci rivedere ancora insieme, da lì in avanti ha capito che non c’è questa possibilità, però alla fine rimane sempre la mamma e rimane sempre il papà (CA5).
I Piemonte la capitalizzazione è stata favorita dal fatto che il Gruppo di parola è stato vissuto
dagli operatori in sintonia con l’esperienza di un gruppo di Auto-Mutuo-Aiuto per genitori separati fatta a P.E.G.A.S. O. nel 1999-2000 e non replicata.
un’esperienza minima, non su un gruppo di parola guidato, ma su un gruppo di parola spontaneo… antesignano dei Gruppi di parola (CB1),
La sperimentazione di un Gruppo di parola ha focalizzato l’attenzione sui bisogni dei figli di
separati e la loro necessità di un supporto specifico gruppale. Si sono potute evidenziare alcune analogie con il lavoro svolto in passato in cui mentre le madri si riunivano con 2 helper, i loro figli venivano intrattenuti con giochi, video cassette, cene e
i bambini definivano quegli incontri regolari, il gruppo si incontrava ogni 15 giorni, ogni 20
giorni e i bimbi casualmente erano un gruppo composito di bimbi che avevano tutti dai 4 ai 6
125
anni, era un gruppo misto di maschi e femmine e lo definivano così: il posto dove noi stiamo
insieme, ci divertiamo, chiacchieriamo mentre le nostre mamme parlano, anche dei nostri
papà. E però un po’ anche noi ne parliamo (CB1).
L’esperienza passata quindi, insieme alla sperimentazione positiva effettuata, ha permesso di
progettare altri interventi analoghi, e di auspicare una formazione alla conduzione dei Gruppi
di parola ahimè sempre subordinati alla disponibilità economica e alle scelte politiche.
Passando alla dimensione dell’efficacia, osserviamo che il lavoro proposto nel Gruppo di parola si pone tra gli obiettivi quello di promuovere le capacità presenti nelle persone di fare fronte alle situazioni problematiche e dolorose della separazione. I partecipanti, sia i figli che i genitori, sono considerati soggetti attivi di parola nelle relazioni familiari. Spesso però la separazione dei genitori rende passivi i figli che diventano frequentemente oggetti di parola nel conflitto degli adulti. Il confronto con il gruppo di pari, con i coetanei che stanno vivendo la medesima situazione, gli strumenti offerti dalle conduttrici, lo spazio apposito e garantito dalla confidenzialità, permettono di riacquisire un proprio spazio – di figli – all’interno delle trame relazionali della propria famiglia in modo da essere nuovamente attori partecipi.
Il dispositivo gruppale promuove l’attivazione dei bambini sia all’interno del gruppo di pari che
al ritorno nel loro contesto di vita familiare e coinvolge quindi la famiglia nel suo insieme,
… permette di parlare, di non fare finta che va tutto bene… e i risultati ci sono stati, per esempio la bambina che è tornata a casa dal gruppo ha chiesto alla mamma: “spiegami bene,
dimmi quando devo prendere lo zaino per andare dal papà e quando devo stare con te” Aveva bisogno di conoscere cosa succedeva nella settimana, voleva saperlo anche lei… si me lo
hanno raccontato i genitori durante l’incontro… (CB2).
I partecipanti sono guidati dal conduttore che propone delle attivazioni specifiche (disegni, collage, letture, la lettera finale, i bigliettini anonimi etc, strumenti che rimangono impressi e sono nominati dai genitori intervistati) e poi sono loro
… i protagonisti! sempre sono stati attivi nelle attività che abbiamo fatto. Poi l’autoefficacia si
vede nel tempo, nel medio termine.. Secondo me la presa in carico delle questioni è un indicatore di efficacia (CB2).
In particolare, grande attivazioni riguarda le ricerca e la messa in comune di strategie inedite e
creative per fronteggiare la fatica della quotidianità conflittuale:
e poi sono uscite anche le strategie! e i suggerimenti se li sono dati i bambini nel gruppo, un
bambino ha detto: “quando li senti urlare così tanto… e lo dicevano a un bambino che aveva
i genitori che vivevano ancora in casa insieme… e con una naturalezza veramente spiazzante… mettiti l’I-pod nelle orecchie così non li senti! poi la difficoltà di Francesca con gli zaini, un
bambino le ha detto: “prendili tutti e due!”… e poi hanno coniato il termine rimatrimoniamento, una loro parola che abbiamo scritto sul cartellone… il rimatrimoniamento di papà!
(CB2).
Autoefficacia e acquisizione di potere nella relazione sono così concetti
molto in sintonia con gli obiettivi (CA2)
sia in generale della Mediazione Familiare che del percorso del Gruppo di parola che nella
brevità di 4 incontri
restituisce competenza a genitori e figli rispetto alla loro possibilità di essere attori della loro
vita e situazione, simbolicamente il gruppo termina con questa comunicazione e questo
126
scambio tra figli e genitori che continua, si attiva durante l’ultimo incontro e che si suppone
che continui al di fuori della stanza del gruppo, questo è un obiettivo specifico perché c’è una
predisposizione, come in mediazione, a valorizzare le competenze delle famiglie per cui anche qui l’idea non è quella di dare, surrogarci a loro come esperti e operatori e rispondere alle domande e alle questioni che le persone aprono, ma proprio invece sottolineare di poter
trovare delle risposte all’interno di ogni sistema famiglia anche laddove c’è una situazione
difficile come quella della separazione o del conflitto. Quindi esattamente come nella mediazione - e da questo punto di vista mi pare molto importante che le figure professionali che
fanno questo tipo di intervento abbiano anche la competenza di mediatori familiari perché
l’obiettivo di lavorare sul potenziamento delle competenze delle persone che si rivolgono a
noi è molto consono a quello della mediazione familiare (CA2).
Par quanto riguarda il capitale sociale, la partecipazione al gruppo di pari arricchisce le reti relazionali dei partecipanti e dei loro genitori, e il percorso permette di riacquistare fiducia nelle
relazioni e nei legami in quanto si sperimentano relazioni buone con i componenti del gruppo
e con chi conduce il lavoro. Dalle parole dei genitori nelle interviste emerge l’importanza della
condivisione dell’esperienza, della scoperta che i figli hanno sperimentato grazie alla partecipazione, di non essere i soli e gli unici ad avere subito questa decisione che riguarda il mondo
degli adulti. Nel gruppo infatti si sperimenta quella libertà e quella solidarietà che è difficile
ancora oggi trovare nella vita di tutti i giorni soprattutto in un contesto in cui la separazione è
poco “parlata” se non addirittura stigmatizzata, soprattutto nella realtà piemontese presa in
considerazione. Dice una mamma:
…ha detto… ma allora non sono da sola, non sono un caso raro, quindi come se l’unione facesse la forza, siamo tutti sulla stessa barca, chi più chi meno… (CA5).
Anche i genitori valorizzano il beneficio dell’incontro con altre madri e padri nella medesima
situazione in quanto momento di grande rassicurazione in cui
ognuno ha detto la sua frase, lì era proprio un condividere, ognuno raccontava la sua, gli altri raccontavano la loro, dicevo beh sì hanno ragione, anche io… sono rimasta colpita anche
da frasi di altri, sicuramente condivisione sia per i ragazzi che per noi genitori (CA3).
Uno degli obiettivi del gruppo è la redazione di una Lettera finale da parte del gruppo dei
bambini che verrà letta nell’ultimo incontro al gruppo dei genitori ed è centrale all’interno del
Gruppo di parola e viene riconosciuta molto positivamente dai genitori
…sicuramente parole come condivisione con altri ragazzi perché questa è una cosa che secondo me… il fatto di mettere insieme una letterina, che ognuno dicesse la sua, questa cosa è
una cosa che secondo me è positiva, quindi la condivisione con altre persone con lo stesso
problema (CA3).
La Lettera ai genitori, e in generale lo scambio genitori e figli durante l’ultimo incontro concretizzano questo grande investimento relazionale che presuppone un’apertura fiduciaria e un
coinvolgimento molto forte:
direi di sì, intanto vedere che quasi tutti i bambini tranne uno sono arrivati alla fine del percorso… poi il semplice fatto di vedere insieme tutti i genitori all’ultimo incontro, metterli insieme e condividere questo momento… parlare di un tema che di solito separa!… insieme… si
percepiva l’ascolto attivo di tutti… e la disponibilità emotiva… il clima che si era creato…
(CB2).
Non si può ancora dire se tutto ciò abbia un impatto positivo sulla comunità e sulle relazioni
con la società.
127
A proposito del tema della progettazione e della realizzazione partecipata, il caso di Assago
fornisce diversi elementi significativi. L’Associazione Centro di Servizio alla Famiglia-Onlus ha
introdotto la risorsa dei Gruppi di parola nel 2007 all’interno del progetto “Ugualmente Genitori”. Quando il progetto è nato nel 2006, offriva solamente i percorsi di Mediazione Familiare.
La domanda a cui ha risposto il progetto era nata da un’analisi da parte dell’ufficio di piano
territoriale che chiedeva un servizio di secondo livello per la gestione di situazioni legate ad
alta conflittualità nelle famiglie. La richiesta iniziale non era quindi di un lavoro propriamente
48
di Mediazione Familiare . L’Associazione dopo aver vinto il bando, si è subito impegnata con il
tavolo tecnico dell’ufficio di piano in un lungo lavoro di ridefinizione degli obiettivi e di riprogettazione nel momento in cui stava faticosamente avviando il servizio sul territorio, ci sono
voluti due anni
serviti per esistere come servizio (CA2).
Oltre alla scarsa conoscenza della Mediazione Familiare in generale (per cui grande è stato
l’investimento nella sua promozione e sensibilizzazione capillare), è stato anche necessario ridefinire con gli invianti dei servizi territoriali a sostegno della famiglia le specificità di questa
pratica e insieme raccogliere i bisogni specifici che di volta in volta emergevano per implementare le offerte. Il lavoro è stato complesso,
noi abbiamo predisposto la mediazione familiare a seguito di una domanda un po’ confusa
che era stata espressa dal piano di zona ancora nel 2006 dove probabilmente avevano bisogno…, hanno fatto la domanda di mediazione familiare e poi ci siamo accorti che in realtà
cercavano degli interventi per famiglie conflittuali, ma sul conflitto più in fase acuta. Hanno
emesso un bando per un servizio di mediazione familiare, noi abbiamo fatto la nostra offerta
ed è stata vinta. C’è stata questa fase di sfasamento, avevano il desiderio di usufruire di patate, però hanno chiesto di avere carote, noi gli abbiamo offerto carote… abbiamo percepito
insieme che era una cosa diversa, volevano in realtà patate! I primi anni quindi di fatica di
avviare il servizio, di capire faticosamente il servizio è cresciuto nel territorio, della mediazione familiare non c’è conoscenza, cultura di questo tipo di servizio. Dopo diversi anni adesso
secondo me i servizi riescono a riconoscere la mediazione familiare come risorsa (CA1).
Con il crescere del bisogno effettivo di accompagnamento e di supporto per le famiglie, e grazie all’attenzione professionale specifica, soprattutto nella persona della coordinatrice del
progetto e del responsabile amministrativo, nel 2007 è stato introdotto anche il Gruppo di parola,
Dicevo i gruppi di parola questa buona prassi è nata dall’esperienza della mediazione familiare, cioè dopo… nel fare mediazione le mediatrici per la loro competenza e la loro esperienza hanno pensato utile avviare delle esperienze di gruppi di parola. Non nasce da uno studio
sul territorio, la mediazione familiare è nata in questo modo un po’ sbagliato i servizi hanno
espresso una domanda in modo inesatto, poi la mediazione risponde a un bisogno effettivo,
il fatto che continui a crescere significa che risponde un bisogno e il gruppo di parola è una
risorsa in più che risponde senz’altro a un bisogno ma non è stato fatto uno studio preliminare sul territorio (CA1).
Inoltre il progetto prevede un monitoraggio quali /quantitativo ogni 4 mesi sia con il tavolo
tecnico del piano di zona che ha sede nel comune di Corsico, che con ciascun servizio del terri48
Le Mediazione Familiare infatti ha come obiettivo quello di sostenere gli ex coniugi nella ricerca di accordi rispetto
alla riorganizzazione della vita familiare e continuare ad essere genitori a seguito della separazione con un percorso
relativamente breve (8-10 incontri) al di fuori dall’ambito legale e giudiziario.
128
torio almeno 2 volte all’anno. Gli operatori degli altri servizi territoriali a sostegno delle famiglie (compreso il Consultorio Familiare, un altro servizio dell’Associazione) sono i maggiori invianti e spesso con essi ci sono momenti di confronto e di scambio su situazioni specifiche di
famiglie prese in carico. Con loro nel tempo si sono consolidate relazioni di fiducia e di cooperazione, elementi fondamentali anche per gli esiti del lavoro.
La rete in cui si trova il Gruppo di parola, dal disegno fatto dal responsabile dell’Associazione,
comprende oltre ai servizi sociali (SS), il mondo della scuola (SC), i nonni, gli ambiti di aggregazione/educativi e quindi il tempo libero. Il lavoro del Gruppo di parola si relaziona in maniera
formale con diversi attori. Per formale si intende una relazione formalizzata/ufficiale continua
(linea continua) sia per il singolo Gruppo di parola che per il funzionamento del progetto “Ugualmente Genitori” in generale ed è con i figli, i genitori e i servizi sociali, il piano di zona sia
per gli aspetti amministrativi che per la continuità che permette agli interventi e poi anche le
13 parrocchie.
Rapporti informali del servizio (linea ondulata) sono gli ambiti aggregativi, scuole, nonni, l’ente
gestore (l’Associazione). Gli avvocati in modo sia informale che formale – talvolta invianti – e il
Consultorio con i suoi servizi e in particolare gli altri operatori.
Oltre quindi all’impegno nella progettazione, nella realizzazione e nel coordinamento del ser-
129
vizio sul territorio, l’Associazione ha dovuto per un breve periodo sobbarcarsi del costo del
servizio Nel periodo 2008-2009 il progetto “Ugualmente Genitori” è stato realizzato usufruendo del sostegno della Provincia di Milano (bando “progetti innovativi rivolti a nuclei familiari”)
ma esauriti i fondi nel 2009, per 4 mesi il progetto ha potuto continuare con le risorse messe a
disposizione dell’Associazione che contemporaneamente ha lavorato con i referenti politici
dell’equipe psicosociale dei 6 comuni coinvolti affinché i risultati raggiunti nel tempo potessero avere continuità . È stato fatto fortunatamente poi un nuovo stanziamento di fondi per i
due anni successivi che garantisce la realizzazione del progetto per gli anni 2009-2011.
L’Associazione continua a supportare questa pratica sia dal punto di vista della rendicontazione economica che della ricerca dei finanziamenti futuri per garantire che questa pratica gruppale a sostegno del corpo familiare possa continuare ad essere un servizio gratuito e di qualità.
Per quanto riguarda invece il contesto di Bussoleno, la pratica consolidata dal Servizio negli
anni in un’ottica di costante attenzione e sensibilità ai bisogni delle famiglie e del territorio ha
permesso di creare una solida rete di collaborazione nel territorio come si può anche vedere
dal disegno della rete effettuato dalla responsabile del servizio.
P.E.G.A.S.O. al centro, più in alto rispetto al Centro Famiglia (C.F.) perché ha più storia, e un po’
più sotto, la Casa dei Conflitti (C.C), servizi “appena nati”. Gli enti con cui si hanno maggiori relazioni e invii sono il Consorzio Intercomuncale Socio- Assistenziale, CON.I.S.A. “la grande
mamma di tutto… che ha creduto e ha voluto Pegaso” e di fianco l’ASL “ più piccolini e meno spessi
ma con potere…” con i servizi di psicologia dell’età evolutiva, psichiatria, la NPI, CSM servizio di
salute mentale. L’Asl è coinvolta come
ente finanziatore del servizio offerto
dalla psicologa e psicoterapeuta della
famiglia in P.E.G.A.S.O. ma anche in
momenti di confronto e di scambio in
equipe con gli altri operatori (assistenti sociali, educatori, psicologi).
C’è sempre un’attenzione particolare
al coinvolgimento della realtà territoriale – sensibilizzazione, raccolta dei
bisogni, invii – e della cittadinanza in
generale (soprattutto i plessi scolastici, le scuole grandi invianti, le facciamo
grandi”, gli ambulatori, medici, pediatri, vigili urbani…). Gli avvocati della
zona sono i relazione, ma distanti,
spesso “sono boicottanti”. Relazioni
formali (linea dritta) e più vicine sono
quelle con il T.O e T.M e i Giudici Tutelari.
Dal punto di vista del coinvolgimento
dei beneficiari all’interno del servizio,
possiamo affermare che sia a Bussoleno che ad Assago questo è molto
esplicito. I figli, soprattutto, insieme ai
genitori sono direttamente coinvolti nell’attuazione del lavoro di cui beneficiano mentre i genitori possono essere definiti clienti indiretti. Nel disegno della rete di Assago al centro dello
130
spazio c’è il Gruppo di parola, dove i figli sono rappresentati con i 4 cerchi (F) e i loro genitori
con gli 8 cerchi (G) risultano i destinatari di un
lavoro più leggero (CA1).
I contenuti su cui lavora il Gruppo di parola nascono dai bisogni e dalle domande dei partecipanti e delle loro famiglie che, con la loro esperienza e la loro storia, determinano
l’andamento del processo in un confronto continuo tramite la parola, il disegno, il gesto.
I genitori sono coinvolti in diversi momenti. Innanzitutto per partecipare al gruppo è necessaria la firma di autorizzazione di entrambi i genitori, primo fondamentale coinvolgimento come
illustrato precedentemente. Addirittura nel contesto di Assago, ormai da più di un anno, prima
dell’inizio del percorso i genitori che hanno iscritto i loro figli sono invitati a un breve momento
di presentazione del lavoro. In questa occasione i genitori possono porre eventuali domande
di chiarimento sul Gruppo di parola, conoscere le conduttrici del gruppo, conoscere altri genitori e condividere, per esempio, le strategie con cui “convincere” i figli a partecipare al gruppo
(cosa non sempre facile soprattutto per i ragazzi adolescenti) e i timori per la partecipazione a
un gruppo dalle connotazioni “psicologiche”. Inoltre, conoscere le conduttrici, i locali in cui i
propri figli lavoreranno, permette un “passaggio” di consegne graduale alle conduttrici e
l’inizio di uno spazio di condivisione e di parola che prenderà forma durante i successivi incontri.
Alla seconda ora del 4 incontro i genitori sono poi invitati nella stanza del gruppo di parola.
Sono in un primo momento spettatori della lettura della Lettera finale di tutto il gruppo dei
partecipanti al gruppo di tutti i genitori e poi attori in quanto possono anche loro scrivere un
messaggio anonimo in risposta a quanto hanno sentito. Perciò, è un momento importante in
quanto
anche per i genitori, l’occasione di riprendere delle questioni ancora aperte, non affrontate
con i figli…. e poi di discutere come coppia e di portare veramente in salvo il legame genitoriale…” , CB2).
Alla fine dei 4 incontri i genitori possono chiedere un colloquio in coppia di restituzione con
chi ha condotto il gruppo per un momento di scambio e di confronto sulla partecipazione del
proprio figlio/a al gruppo. Il coinvolgimento e l’attivazione dei beneficiari è quindi una caratteristica distintiva di questo lavoro.
Per quanto riguarda la valutazione, non c’è al momento una procedura sistematica degli esiti
dei Gruppi di parola effettuati ad Assago se non la rendicontazione periodica e un monitoraggio quantitativo del lavoro svolto (ogni 4 mesi con l’equipe psico sociale dell’ente erogatore,
l’ufficio di piano dei 6 comuni coinvolti) del numero di partecipanti che è sempre crescente (attualmente vengono proposti 4 Gruppi di parola all’anno).
In generale il lavoro del Gruppo di parola viene valutato positivamente, anche la sperimentazione a P.E.G.A.S.O. è stata valutata dai promotori e dalle famiglie coinvolte. Un criterio per la
valutazione, positiva, del lavoro è stato individuato nella partecipazione dei genitori sia
all’ultimo incontro del Gruppo che ai colloqui offerti al termine del gruppo. Nel Servizio offerto
ad Assago il lavoro del Gruppo di parola è riconosciuto come ottimo da parte di tutti gli attori
coinvolti (i partecipanti e i loro genitori, le operatrici, il responsabile del progetto, gli invianti
dei servizi sociali del territorio, l’équipe psico sociale dei 6 comuni coinvolti, etc). In particolare,
La soddisfazione è veder che il lavoro con i gruppi di parola è un lavoro che ha trovato un
grande apprezzamento da parte di tutti gli operatori sul territorio, su questo non ci sono stati
neanche fraintendimenti rispetto agli obiettivi e al significato di questo lavoro. È molto apprezzato e soprattutto utilizzato, non è tanto un problema di apprezzare quanto di poter ac-
131
cedere e utilizzare, non è una soddisfazione di tipo narcisistico, ma di poter vedere che c’è
un’utilità e utilizzo di questo strumento! (CA2).
La numerosità sempre in crescita degli invii, ora anche per passaparola, è riportabile anche
alla fiducia che nel tempo si è creata tra i colleghi dei servizi territoriali e soprattutto del Consultorio che permette di alimentare quello scambio reciproco indispensabile per la creazione
di una rete di lavoro solida e sempre più articolata. Con loro c’è poi un’attività meno strutturata di incontro promossa per garantire un servizio migliore agli utenti.
… c’è un’attività che invece è più basata sulle necessità dovute ai diversi svolgimenti dei casi,
quindi ci sono situazioni specifiche di famiglie seguite in mediazione familiare o nei gruppi di
parola dove occorre che ci sia un contatto coordinamento tra il servizio inviante e il nostro
servizio di mediazione familiare, quindi in quei casi ci sono degli incontri mirati ad hoc sulle
singole situazioni (CA2).
Il confronto continuo tra le operatrici permette di volta in volta di migliorare gli strumenti utilizzati in ciascun gruppo. In particolare, l’esperienza maturata ha portato alla creazione di percorsi specifici per figli pre-adolescenti e adolescenti e di fornire quindi un supporto ulteriore
alle relazioni della famiglia separata.
Veniamo all’ultima dimensione, rilevante nella valutazione della bontà della pratica: la qualità
etica dei fini.
Ad Assago il servizio dei gruppi di parola nasce come un’iniziativa tipica di un welfare plurale
in quanto risorsa per la popolazione residente nei 6 Comuni aggregati nel Piano di Zona, usufruisce come si è visto di finanziamenti sia pubblici che privati e coinvolge famiglie che pervengono al servizio su indicazione di operatori di servizi pubblici e di terzo settore (assistenti
sociali, psicologi, insegnanti, parroci, volontari ecc.). Nella realtà Piemontese è ancora prematuro poter fare una valutazione della qualità etica dei fini.
Nel lavoro del Gruppo di parola il benessere è sempre concepito in termini relazionali e mai
solamente individuali. Promuovere la parola e l’espressione dei sentimenti significa fare leva
su qualità relazionali importanti per il benessere e lo sviluppo della propria identità. Sostenere
i figli durante la difficile e dolorosa riorganizzazione della vita a seguito della separazione non
può prescindere da un sostegno, sia pur breve e meno diretto, anche a entrambi i genitori
che, come mostrato sopra, sono coinvolti in diversi momenti del percorso del Gruppo di parola,
… forse in realtà non solo ai ragazzi, mi sembra che possa essere buona, perché buona pratica, come occasione anche per i genitori tramite i figli, tramite i figli, i ragazzi di reincontrarsi
sul tema … perché non è una roba che passa che scivola che non tocca, ma un qualcosa che
comunque è un pezzo della storia sia dei genitori che dei figli (CA1).
Il benessere relazionale del corpo familiare nel suo insieme è al centro dell’attenzione, i figli
insieme ad entrambi i genitori, non è inteso come il superamento di una specifica “patologia”
legata alla separazione, ma come una possibilità di trasformare il legame tra i genitori, i figli e
le loro famiglie di origine in cui al centro sono le relazioni e gli scambi per convivere al meglio
con la riorganizzazione della quotidianità:
siamo partiti sicuramente da una situazione di curiosità, ma anche di ansia e di preoccupazione per questi bambini e per le loro famiglie…. Il punto di arrivo è stata la conclusione di
questo percorso che ha portato all’incontro con i genitori e quindi… a mettere insieme le parti e fare vedere cosa è stato fatto… abbiamo creato una situazione di risposta a un bisogno….
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in un contesto… XXX aveva già condotto gruppi di auto mutuo aiuto… è un interlocutore attento… si è sempre chiesta cosa si poteva fare per questi bambini, per i loro genitori… (CB2).
…è un intervento che è facilmente proponibile a una grande parte della popolazione, si rivolge in qualche modo a tutti i ragazzi, a tutti i figli di genitori separati, quindi tutti coloro che
sono coinvolti nella transizione alla separazione, non è necessariamente pensato per situazioni di disagio particolare o addirittura di patologia ma è un lavoro che per certi aspetti si
potrebbe definire per la normalità della separazione quindi per aiutare ad attraversare questo passaggio di vita che è un passaggio di vita ovviamente difficile e doloroso ma che fa parte dei passaggi di vista a cui oggi spesso i ragazzi sono esposti in qualche modo e quindi a da
questo punto di vista mi sembra si possa dire che questo strumento è uno strumento per la
normalità (CA2),
Nell’ambito del progetto “Ugualmente Genitori” il Gruppo di parola ha apportato sicuramente
un valore aggiunto all’offerta dei servizi già avviati e lo stesso si può affermare per P.E.G.A.S.O.
Ad oggi non ci sono strumenti di supporto di gruppo così mirati e articolati, soprattutto per i
figli adolescenti o pre-adolescenti di genitori separati
… non ci sono molte altre offerte nel territorio soprattutto per gli adolescenti per i quali stiamo attivando dei gruppi e ci sono molte poche forme di aiuto per loro, ma anche per i bambini i lavori gruppali di questo tipo di questo taglio sono scarsi… (CA2)
Inoltre il Gruppo di parola lavora con una buona sinergia con la pratica della Mediazione Familiare e in generale con tutte le proposte offerte dai Servizi presi in esame per il sostegno della
famiglia durante la separazione e il divorzio. Ad Assago il Gruppo di parola viene spesso proposto ai figli delle coppie impegnate nel percorso di Mediazione familiare e per la durata del
lavoro con i figli, gli incontri vengono sospesi. altre volte è proprio il Gruppo di parola che
permetter di dare avvio a un lavoro di presa di accordi in Mediazione in quanto il confronto
per il proprio figlio permette di riavviare la comunicazione tra i genitori.
Per motivi economici la “fertilità” di P.E.G.A.S.O. – che si esprime nelle offerte a supporto della
fragilità familiare (mediazione familiare, spazi di incontro, gruppi di auto-mutuo-aiuto, terapia
familiare), nel lavoro in équipe con altri servizi (il Centro Famiglia e la Casa dei Conflitti), nella
sensibilità ai nuovi bisogni emergenti – non riesce ad essere valorizzata appieno e la risorsa
del Gruppo di parola oggi non è stata ancora attivata. La sua bontà e la sua buona sinergia
con la pratica della mediazione familiare è stata comunque ben percepita da chi l’ha potuta
sperimentare:
è continuato in modo positivo il percorso che avevamo iniziato, perché io sono stata seguita
dai mediatori familiari, ho fatto mediazione familiare per quasi un anno e quindi cercando di
mettere in opera con le azioni con il gruppo di parola i possibili suggerimenti che mi sono
stati dati dallo psicologo ho… attraverso questi incontri, che comunque non ne ha fatti tanti
Pietro, ma ho visto che sono stati positivi per lui, anche attraverso i disegni, anche i commenti che mi riportava a casa e mi diceva sai anche quel bambino… per lui è stato positivo perché ha visto che comunque questi aspetti, queste situazioni possono fare parte della vita, di
un percorso normale di vita che non devono essere vissute come situazioni catastrofiche, ma
fanno parte del normale vivere, cioè se una coppia non funziona non è che non funziona
perché i bambini non sono più amati, cioè si modifica il rapporto a due, uomo donna ma
non genitori e figli, almeno dovrebbe essere così, quindi è proseguito il percorso che avevamo
iniziato e ha continuato sempre in modo positivo (CB3).
133
Per concludere, si può affermare che entrambi i casi esaminati ci fanno sostenere la bontà
della pratica sia in sé – in relazione con i bisogni specifici che riesce a soddisfare – sia per la sinergia creata con altre pratiche a supporto del corpo familiare durante la separazione e il divorzio.
3.7. LA “BUONA PRATICA” DALLA PARTE DI CHI LA VIVE: ANALISI CON T-LAB DELLE INTERVISTE
DEI DUE CASI STUDIATI
Il corpus raccolto nelle interviste al coordinatore responsabile del servizio P.E.G.A.S.O. di Bussoleno, Torino, al responsabile dell’Associazione Centro di Servizio alla Famiglia – Onlus di Assago, Milano e alle 2 operatrici che hanno condotto i Gruppi di Parola è stato analizzato in
maniera congiunta dato il piccolo numero di contributi raccolti (4) 49.
Le analisi svolte con il supporto del software T-Lab per il trattamento di testi vengono riporta50
te nelle Figure Figura 11 e Figura 12 che seguono .
Figura 11 – Co-occorrenze con il termine “Gruppo”
Per costruire la Figura 11. si è utilizzata l’analisi delle co-occorrenze che consente il calcolo delle associazioni di parole complessive con la parola Gruppo. Si associano alla parola delle forme
verbali che rimandano all’attività del gruppo come scegliere, permettere e considerare che fanno
riferimento alla potenzialità del Gruppo di parola di promuovere e sollecitare un’attivazione
49
50
Sono state raccolte le risposte alla domanda: “abbiamo scelto il gruppo di parola perché ci pare che possa essere
considerato una buona pratica. Perché secondo lei il Gruppo di parola può essere considerato tale...?”
Non vengono riportate ulteriori analisi in quanto data l’esiguità del materiale analizzato, non sono emersi risultati
significativi.
134
riflessiva dei partecipanti. La parola Gruppo è correlata anche ai termini servizio, intervento, lavoro che rimandano alla semantica del fare. È anche correlata la parola esperienza, ovvero un
momento e uno spazio in cui il soggetto è implicato in tutte le sue dimensioni interattive, relazionali e simboliche, ovvero porta tra i pari il suo mondo vitale e lo rielabora. Inoltre, la parola
Gruppo è connotata in maniera positiva dall’aggettivo utile che rimanda al risultato che si può
raggiungere con il lavoro di gruppo. I lemmi considerare e considerato rimandano alla nuova
posizione del figlio che viene preso in considerazione dagli adulti e che a sua volta può considerare dal nuovo punto di vista la sua condizione familiare. Il Gruppo infine è connesso in
modo significativo con figli, bambini e bimbo cioè i destinatari e gli attori principali del lavoro,
ma anche con genitore; emerge evidente la collocazione del minore all’interno dei una relazione generativa con il padre e la madre che a loro volta sono implicati in questa pratica.
Figura 12 – Mappa concettuale
Dall’accorpamento delle parole utilizzate nelle interviste, appare una mappa concettuale Figura 12 all’interno della quale sono individuabili delle polarità sugli assi cartesiani Nord-Sud che
rimandano ai destinatari dell’intervento (nord) e al promotore del servizio (sud).
Sugli assi cartesiani Est-Ovest possiamo individuare una semantica che rimanda alla dimensione manifesta del gruppo contrapposta ad un versante più soggettivo e interiore. Vengono
così a delinearsi 4 aree concettuali che possiamo così definire: l’area della motivazione – quadrante verde (il perché i genitori iscrivono i figli al gruppo e alla necessità di offrire interventi a
genitori e figli appartenenti a famiglie separate), l’area dell’ elaborazione attiva e partecipata –
quadrante rosso (condivisione di esperienze dei bambini attraverso la parola, e le emozioni),
l’area dell’assistenza – quadrante blu (l’istituzione che accoglie il dolore del singolo soggetto) e
infine l’area della tecnica- quadrante giallo (l’applicazione del costrutto gruppale in un determinato spazio con l’utilizzo della parola come strumento principale). Questa mappa concettuale rimanda alle 4 dimensioni fondamentali della risorsa analizzata: il bambino (rosso),
l’operatore (blu), il fine (verde) e il mezzo (giallo). L’intreccio tra queste 4 dimensioni è complesso e richiede una riflessione permanente e un confronto tra gli attori in gioco.
135
4. IMMIGRAZIONE E FRAGILITÀ FAMILIARE
di Cristina Giuliani
4.1. PREMESSA
di Cristina Giuliani e Paola Pavesi
La migrazione è un evento critico familiare e cruciale risulta il ruolo svolto dalla famiglia nella
cura rivolta ai suoi membri, in particolare quelli più deboli, i figli e le persone più anziane (Falicov, 1995; Scabini e Giuliani, 2004; Scabini, Rossi, 2008). La separazione dalla terra di origine e
l’incontro con la nuova realtà ridisegna l’equilibrio dei rapporti familiari sia sul versante intrache inter- generazionale, secondo percorsi che possono accentuare le spinte centripete e centrifughe della famiglia. Molteplici i livelli coinvolti: il legame con le famiglie d’origine e la comunità di origine, il legame tra i coniugi, i legami intergenerazionali (genitori-figli; nonni-nipoti),
quelli all’interno della fratria, i legami sociali e comunitari nel paese di elezione (Fuligni, 1998;
Gozzoli, Regalia, 2005). La letteratura internazionale da decenni esplora l’impatto della migrazione sui processi di riorganizzazione familiare, focalizzando in particolare le ricerche su alcune tematiche quali soprattutto il processo di acculturazione familiare e i rapporti con il mondo
esterno alla famiglia, la relazione tra genitori e figli adolescenti.
L’evento critico “migrazione” è a volte sovrapposto ad altri accadimenti del ciclo di vita familiare (quali ad esempio un matrimonio, la nascita di un figlio, una malattia improvvisa, eventi
traumatici come guerre, catastrofi naturali), amplificando ed esasperando sfide tipiche della
famiglia sul fronte coniugale, intergenerazionale e sociale.
Nel panorama degli studi che hanno per oggetto la famiglia immigrata sono individuabili specifiche aree di ricerca che hanno focalizzato alcune situazioni migratorie di particolare criticità,
in cui cioè il divario tra risorse disponibili e stress sperimentati pone la famiglia e i suoi membri in condizioni di rilevante fragilità (McCubbin, Thompson, Thompson, Fromer, 1998). In particolare, ci sembra di individuare specifici e aggiuntivi elementi di criticità sia in alcune condizioni che caratterizzano la fase pre-migratoria e il viaggio migratorio (migrazione per fuga e persecuzioni politiche; migrazione di un minore non accompagnato dalla famiglia; migrazione per
ricongiungimento familiare; immigrazione per motivi matrimoniali e formazione di una coppia
mista) sia in eventi imprevisti che intervengono nella fase post-migratoria (nascita di un figlio
disabile; separazione dal coniuge e monogenitorialità). Consideriamole analiticamente.

Migrazione per fuga e persecuzioni politiche
Grande attenzione la ricerca dedica ai percorsi migratori coatti dei rifugiati politici e dei richiedenti asilo, percorsi segnati da eventi traumatici nella fase pre-migratoria e nel viaggio di fuga
dai paesi di origine (Ager, 1999). La letteratura psico-sociale appare prevalentemente centrata
sull’analisi delle conseguenze psicologiche dei traumi sofferti dalle vittime (Post Traumatic
Stress Disorder), sulla gravità degli stress sperimentati prima e dopo la migrazione, sulle capacità adattive nel nuovo contesto. Per quanto riguarda il versante operativo, gli studi sono prevalentemente rivolti a evidenziare in ottica clinica alcuni aspetti specifici del lavoro psicoterapeutico rivolto alle persone vittime di trauma (Rousseau, Lacroix, Singh, Gauthier, Benoit,
2005). Tuttavia è possibile individuare progetti ed esperienze che si pongono in ottica preventiva, hanno l’obiettivo di sostenere il processo di integrazione e di acculturazione dei rifugiati
politici, valorizzano maggiormente le risorse individuali e comunitarie in ottica salutogenica
attraverso la realizzazione di percorsi di gruppo e la costituzione di gruppi di auto mutuo-aiuto
(Khamphakdy-Brown, Leslies, Nilsson, Russel, Klevens, 2006; Goodkind, 2005, 2006; Lopez,
136
Vargas, 2011) Queste esperienze realizzate in ambito nord-americano si caratterizzano per
una forte specificità etnico-culturale correlata alla provenienza geografica del target di riferimento, nonché per una forte centratura dei contenuti sul tema dell’acculturazione e
dell’apprendimento in ottica psico-educazionale.

Migrazione di un minore senza la famiglia
Una situazione traumatica e complessa è quella relativa ai minori stranieri non accompagnati,
fenomeno in continua evoluzione, articolato e mutevole. Esistono dati quantitativi (che verranno illustrati nel paragrafo successivo) che cercano di fotografare le caratteristiche del fenomeno e indagini qualitative che esplorano i progetti di accoglienza e protezione sociale di
questi soggetti. Un esempio è rappresentato dall’esperienza dell’“affido omoculturale”, termine controverso per indicare una forma di affidamento di un minore straniero ad una famiglia
affidataria della stessa nazionalità di provenienza (Chuang e Gielen, 2009; Fornari e Scivoletto,
2007).

La migrazione per ricongiungimento familiare
L’esperienza del ricongiungimento familiare in seguito a percorsi migratori “in serie” (a guida
maschile o femminile) rappresenta un’area di ricerca oggi molto ampia, soprattutto legata alla
crescente femminilizzazione dei flussi migratori. Una delle sfide più complesse riguarda la capacità dei familiari di prendersi cura dei legami con le persone assenti e delle fratture relazionali provocate dalla migrazione. I costi e le sofferenze dell’esperienza migratoria si concentrano sui soggetti più deboli dell’organizzazione familiare, su coloro che hanno meno risorse da
utilizzare nel processo di adattamento ai cambiamenti provocati dalla migrazione.
L’attenzione a percorsi migratori caratterizzati da lunghe separazioni tra i membri di una stes51
sa famiglia la famiglia transnazionale”, “la genitorialità a distanza” ) e all’esperienza successiva
del ricongiungimento è cresciuta in quest’ultimo decennio (Regalia, Lanz, Cassoni, 2008), sottolineando in particolare alcune criticità: un primo elemento di fragilità riguarda la fatica e la solitudine delle donne ricongiunte (mogli e madri) che, dopo un lungo periodo di separazione
dal marito, si trovano a vivere in un contesto percepito come estraneo, a volte totalmente prive di competenze e risorse che le aiutino nel processo di integrazione; un secondo aspetto indagato riguarda la condizione di particolare fragilità sperimentata dai minori che vivono lontani dai loro genitori e che spesso affrontano la migrazione per ricongiungimento familiare
nella fase pre-adolescenziale o adolescenziale. Come ben evidenziato da alcuni studiosi (Cassoni, 2007; Favaro, 2004), in questa esperienza dell’adolescente ricongiunto si articolano almeno tre livelli migratori: il migrare fisico dal paese d’origine al paese di accoglienza, il migrare
dalla famiglia allargata che ha fatto da contenitore alla prima separazione per raggiungere i
genitori o il genitore; e, infine, il migrare dal mondo dell’infanzia al mondo adulto, compito evolutivo della fase di vita che il ragazzo sta vivendo. In quest’ottica si muovono anche alcuni
recenti programmi di empowerment volti a sostenere i genitori immigrati, in particolare le
madri, nel nuovo contesto, sia nel periodo immediatamente successivo alla nascita dei figli
(Lopez, Vargas, 2011; Paris, 2008) sia nella fase adolescenziale (Coatsworth, Pantin, Szapocznik, 2002).
Ben poca attenzione la letteratura dedica all’impatto generato dal percorso migratorio al
femminile sulla dinamica coppia, e quindi alle difficoltà sperimentate a livello personale e familiare dai mariti ricongiunti (rovesciamento dei ruoli di genere, dipendenza, perdita di status,
51
Oggetto di crescente attenzione degli studi sociologici sono i modi in cui nelle cosiddette famiglie transnazionali
(famiglie i cui componenti sono ‘separati’ dai confini nazionali) le madri immigrate si sforzano di esercitare a
distanza il proprio ruolo genitoriale e filiale nei confronti dei membri più deboli ‘lasciati indietro’ (genitori anziani e
figli).
137
difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro) e alle conseguenze sul benessere della coppia.

Immigrazione per motivi matrimoniali e formazione di una coppia mista
Sebbene la coppia mista costituisca un prezioso “laboratorio culturale” nella società globalizzata, essa è anche una coppia più fragile, oggetto di attenzione esterna, più esposta al conflitto.
Nonostante la crescita quantitativa del fenomeno, la ricerca sul tema delle coppie miste è
ancora molto contenuta (Gozzoli, Regalia, 2005). Se si escludono alcuni studi anche datati sulle
ragioni e motivazioni per cui un soggetto è indotto a scegliere un partner straniero, molto
poco è stato indagato sul funzionamento di queste famiglie a livello coniugale,
intergenerazionale e sociale. Molteplici gli elementi di criticità che la coppia mista può
sperimentare a partire dalla sua costituzione: la vicinanza temporale di due eventi critici
(immigrazione e matrimonio, condizione a volte romanticamente definita “immigrazione per
amore”), la distanza culturale (linguistica, religiosa, valoriale…) che la coppia può vivere
(grande attenzione viene per esempio rivolta alle coppie islamo-cristiane), la nascita e
l’educazione dei figli che spesso pone la coppia di fronte a nodi critici irrisolti mai affrontati. Il
numero elevato di separazioni coniugali tra le coppie miste e il fenomeno della sottrazione
internazionale di minori sono segnali allarmanti della solitudine e dell’assenza di supporto che
caratterizza queste esperienze familiari.

Immigrazione e nascita di un figlio disabile
Immigrazione e nascita di un figlio disabile rappresentano due eventi che a volte in modo
imprevedibile possono cumularsi nella vita di una famiglia. In Italia (Giuliani, Bellomira,
Borghetto, 2010), come nel resto dell’Europa occidentale e in Nord America, è cresciuta la
necessità di approfondire questa tematica per far fronte ai molteplici interrogativi degli
operatori dei servizi educativi, sanitari e psicosociali. I fattori di rischio, peraltro già
ampiamente documentati dalla letteratura che si occupa di disabilità, sono i seguenti:
isolamento e debolezza del contenitore culturale originario, problemi economici,
problematiche di salute nei genitori, gravità dei problemi comportamentali dei figli, difficoltà
coniugali e mancanza di supporto nelle rete familiare allargata, scarsità di supporto sociale,
difficoltà di accesso al sistema dei servizi formali e di rapporto con essi, ridotta conoscenza dei
servizi psicologici (Hatton et al., 2000; Hatton, 2002).

Immigrazione e monogenitorialità
Esiste un problema di maggiore fragilità e precarietà economica quando si tratta di famiglie
immigrate monogenitoriali, situazioni in cui il legame coniugale appare logorato o spezzato. Il
binomio madri straniere sole-figli adolescenti configura una condizione di vulnerabilità sociale, esposta a diversi fattori di rischio: la caduta in povertà, il difficile adattamento al nuovo contesto, una carente supervisione educativa, la presenza di conflitti familiari, l’isolamento sociale
e la mancanza di supporto.
4.2.
DATI DI SFONDO52
di Paola Pavesi
52
Le fonti utilizzate per la stesura del paragrafo fanno riferimento alla seguente sitografia: Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr (www.unhcr.it); Save the Children (www.savethechildren.it); Associazione
nazionale dei Comuni italiani (www.anci.it); Caritas Italiana (www.caritasitaliana.it); ISTAT (www.istat.it); Ires,
(www.ires.piemonte.it; www.piemonteimmigrazione.it ).
138
I dati che verranno illustrati si riferiscono sia all’universo della presenza straniera (adulta e
giovanile) a livello regionale (Piemonte e Lombardia) sia alle tipologie di fragilità familiare sopradescritte: la migrazione coatta dei rifugiati politici e richiedenti asilo (dati a livello nazionale), la migrazione dei minori stranieri non accompagnati (dati a livello nazionale), le coppie miste (dati nazionali e regionali), la migrazione di un soggetto per motivi matrimoniali e la formazione di una coppia “mista”, i nuclei monogenitoriali (dati nazionali). Nonostante
l’attenzione crescente al tema della famiglia immigrata con un figlio disabile, non sono disponibili statistiche rispetto a questo fenomeno.
4.2.1 UNO SGUARDO COMPLESSIVO
Riferendosi ai dati demografici complessivi della popolazione in Lombardia e Piemonte, molteplici sono gli indicatori che segnalano le trasformazioni che hanno interessato sotto il profilo
strutturale, lo scenario evolutivo degli stranieri presenti in queste sue regioni.
La presenza straniera in Lombardia è caratterizzata da alcuni aspetti:

un aumento consistente del numero degli immigrati (dai 420mila immigrati provenienti dai
cosiddetti “paesi a forte pressione migratoria” indicati dalle stime all’1.1.2001, ai 1.170mila
valutati alla data dell’1.7.2009);

la modificazione delle aree di provenienza che ha portato gli immigrati dall’Est Europa ai
vertici dalla graduatoria delle presenze in Lombardia (415mila unità), seguiti dagli asiatici
(263mila unità), nordafricani (239mila presenze), africani (151mila unità) e latinoamericani
(102mila presenze).
Anche per quanto riguarda il Piemonte, gli indicatori disponibili (Istat, 2010; Ires, 2009) segnalano un panorama di stabilizzazione e di radicamento della presenza straniera. All’inizio del
2010 risiedevano in questa regione oltre 380.000 stranieri, con una concentrazione nella città
di Torino e nella sua provincia. Le comunità straniere più numerose all’1.1.2008, sono quella
romena (102.569 presenze), marocchina (53.46 unità) e albanese (138.547 unità).
In linea con i dati nazionali (che segnalavano all’1.1.2008 una presenza di 767.060 minori stranieri di cui oltre il 63,1% costituito da nuovi nati) (Istat, 2008), in entrambe le regioni considerate è in aumento il numero dei giovani immigrati o figli di immigrati (le seconde generazioni).
Sono infatti cresciuti negli ultimi dieci anni i permessi di soggiorno per ragioni familiari e di
conseguenza la presenza di minori stranieri (passata in Piemonte da 55.765 unità a 173.386
unità a inizio 2010). La presenza dei minori stranieri è legata anche all’incremento delle nascite
in famiglie straniere già presenti sul territorio. Emerge un quadro composito e disomogeneo
dell’immigrazione giovanile, caratterizzato da esperienze migratorie – personali e familiari –
differenti tra loro: minori giunti per ricongiungimento familiare, giovani entrati da soli o con le
famiglie come profughi, e infine minori stranieri non accompagnati.

I rifugiati politici
Per quanto riguarda il numero di rifugiati, l’Italia presenta cifre molto basse rispetto ad altri
paesi dell’Unione Europea, in termini sia assoluti che relativi53. La presenza dei rifugiati in Italia
ammonta a 47mila unità (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr 2009) 54.
Nel 2008 sono state presentate circa 31mila domande d’asilo e nel 2009 le domande risultano
essere 17mila, riduzione probabilmente legata alle politiche restrittive attuate nel Canale di
53
54
La Germania ospita circa 580mila rifugiati ed il Regno Unito circa 290mila, mentre i Paesi Bassi e la Francia ne
ospitano rispettivamente 80mila e i 160mila.
http://www.unhcr.it/news/dir/30/view/176/scheda-09-17600.html.
139
Sicilia da Italia e Libia, come denunciato dall’Unhcr. I principali paesi di origine dei richiedenti
asilo sono stati nel 2008: Nigeria, Somalia, Eritrea, Afghanistan e Costa d’avorio.
Una fonte ulteriore di dati è quella relativa alle attività dello SPRAR (Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati) per l’anno 2009, che indica 7.845 progetti di protezione attivati e
7.845 beneficiari (richiedenti e titolari di protezione internazionale), per la maggior parte (il
74%) uomo singolo di età compresa tra i 18 e i 40 anni e per il 26% nuclei familiari. Il 2009 è
anche caratterizzato da un cambiamento della nazionalità maggiormente rappresentata nel
Sistema di protezione: se nel 2008 Eritrea e Afghanistan detenevano il primato, nel 2009 si è
verificato un sostanziale aumento della presenza di beneficiari di nazionalità somala che registra il 5% in più rispetto al 2008.

Minori stranieri non accompagnati
55
I dati statistici ANCI relativi al 2005-2006 indicano che i minori stranieri non accompagnati segnalati in Italia negli ultimi sette anni sono stati oltre 50.000, con una media annuale di circa
7.700 minori.
Il Dossier redatto da Save the Children (2009) segnala 7.797 minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia nel 2008 e provenienti principalmente dal Marocco (15,2%), dall’Egitto
(13,75%), dall’Albania (12,4%), dalla Palestina (9,47%) e dall’Afghanistan (8,48%). La maggior
parte di questi minori (il 90,4%) è di sesso maschile ed ha un'età compresa tra i 16 (26,2%) ed i
17 anni (50,5%).
I minori migranti sono presenti e ricevono assistenza principalmente nelle grandi città italiane,
e negli ultimi tempi anche quelle di medie dimensioni hanno registrato un incremento nel
numero dei minori accolti. Le principali regioni di arrivo dei minori stranieri non accompagnati
sono state Sicilia (34,4%), Lombardia (14,3%), Emilia Romagna (8,5%) e Piemonte (8,2%).
I dati dello SPRAR segnalano, inoltre, che i minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo
accolti nel 2009 sono stati 320 nell’ambito degli specifici posti a loro riservati nei progetti della
rete. Per la maggior parte si tratta di maschi.
La Lombardia risulta la regione con il maggior numero di presenze segnalate (1.347), seguita
dal Lazio (913). Oltre il 74% dei minori stranieri intercettati è risultato sprovvisto di un permesso di soggiorno.

Coppie miste
Per quanto riguarda il fenomeno delle coppie miste, lo scenario appare in evoluzione e assai
complesso. Tra il 1997 e il 2007 le nozze civili o religiose tra stranieri e italiani sono triplicate,
arrivando a sfiorare quota 34mila all’anno (l’8,8% dei matrimoni nazionali, tanto che oggi in
Italia vivono circa 600mila coppie miste sposate (oltre un terzo del totale) e conviventi (Istat,
2007), presenti soprattutto nelle regioni settentrionali, con una presenza elevata in Lombardia
dove 15,8 su 100 matrimoni celebrati sono misti. Analoga la situazione in Piemonte dove 15,1
matrimoni su 100 celebrati riguardano unioni con almeno uno sposo straniero.
Il fenomeno dei matrimoni misti riguarda in larga misura coppie in cui uno dei due partner
proviene da un paese a forte pressione migratoria. Il 78,5% dei matrimoni misti è tra un italiano e una straniera (filippine, romene, peruviane, albanesi). Fra gli uomini, sono soprattutto gli
africani (senegalesi, tunisini, marocchini) a prendere in moglie un’italiana. Solo il 10% dei matrimoni misti avviene tra cristiani e musulmani.
55
Come evidenziato nel Dossier 2009 di Save the Children, la definizione di “minore straniero non accompagnato”
utilizzata ricomprende genericamente un gruppo più ampio di minori, tra i quali vi sono anche i minori richiedenti
asilo ed i minori vittime di tratta, siano essi cittadini di paesi dell’Unione Europea o extra-comunitari.
140
Un dato preoccupante riguarda la durata di questi matrimoni: almeno 8 matrimoni misti su 10
non resistono alle crisi (quelli celebrati tra connazionali si incrinano nella metà dei casi). Una
coppia con almeno un coniuge straniero dura mediamente 9 anni (7 anni a Milano) contro i 14
anni degli italiani. L’Istat riporta tra il 2001 e il 2006 un balzo del 42 % nel numero delle separazioni delle coppie miste.
Ulteriore peculiarità dei matrimoni misti è rappresentata dalla presenza di forti differenze di
età e di scolarità tra i coniugi. Per quanto riguarda l’età, il divario più evidente si registra nella
tipologia sposo italiano e sposa straniera: nella metà di queste coppie, infatti, lo sposo ha almeno dieci anni di più della sposa (nel caso di coppie formate da italiani questa proporzione è
solo del 15%). Considerando il livello di istruzione, le donne straniere che sposano un uomo
italiano hanno un titolo di studio superiore a quello del coniuge più spesso di quanto non accada nelle coppie di italiani.

Nuclei monogenitoriali
I nuclei monogenitoriali costituiscono una minoranza nell’universo delle famiglie immigrate
(circa il 4% dei casi). Rispetto al 2001, è aumentata solo di 0,3 punti percentuali la tipologia dei
genitori soli con figli.
4.3. RICOGNIZIONE DELLE “BUONE PRATICHE”
56
È stata compiuta una ricognizione puntuale degli interventi innovativi rivolti alle famiglie immigrate in condizioni di accentuata fragilità, che – ad un livello di prima istruttoria – presentavano alcuni caratteri predittivi della bontà della pratica.
Numerosi e articolati sono i progetti individuati nelle due regioni a testimonianza della vivacità
della riflessione e dell’impegno che in questi anni è stato condotto.
Il quadro che emerge nelle due regioni considerate consente di individuare percorsi comuni,
ma anche alcune specificità regionali.
Per quanto riguarda la Lombardia (Centri per le Famiglie.
Tabella 7), la maggior parte dei progetti censiti ha come target privilegiato la famiglia immigrata con adolescenti, soprattutto ricongiunti. Le attività realizzate riguardano i gruppi e le attività
laboratoriali rivolte agli adolescenti, i gruppi di sostegno alla genitorialità in preparazione o a
sostegno del ricongiungimento dei figli, i gruppi di auto mutuo-aiuto di genitori accomunati
dall’esperienza della migrazione e del ricongiungimento dei figli, gruppi di mutuo-aiuto composti da famiglie italiane e straniere. Raramente i progetti sono costruiti e modulati su specifiche realtà etniche di immigrazione, privilegiando un target ampio e indifferenziato dal punto
di vista del paese di provenienza delle famiglie. In alcuni casi le attività sono maggiormente
declinate sulla tipologia familiare rappresentata dal nucleo monogenitoriale (madre sola-figlio
adolescente).
Un secondo ambito di intervento riguarda le madri immigrate con figli piccoli: laboratori didattici e linguistici, gruppi di sostegno alla genitorialità, gruppi di auto mutuo aiuto sono le modalità presenti al fine di accompagnare e sostenere le famiglie e le donne in difficoltà, dalla gravidanza ai primi anni di vita dei figli.
Sul fronte del disagio minorile e familiare più manifesto (tra cui anche i minori stranieri non
accompagnati, minori Rom, rifugiati e asilanti), l’affido familiare (comunità di famiglie, comunità di famiglie di tipo interculturale, affido omoculturale, affido professionale) costituisce un in56
La ricognizione è stata effettuata da Paola Pavesi che ha redatto il capitolo.
141
teressante ambito in cui si sperimentano forme nuove di incontro e di supporto tra italiani e
immigrati.
Un ambito innovativo e ancora poco rappresentato rispetto allo specifico settore esaminato è
quello che utilizza lo strumento della mediazione: la mediazione transnazionale (tra genitori e
figli “lasciati nei paesi di origine”, tra genitore immigrato e caregiver sostitutivo geograficamente separati) e la mediazione di quartiere (condotta dalle donne immigrate – femmes relais) ne
costituiscono due esempi interessanti.
Molto raro ancora il lavoro con la coppia mista (consulenza e gruppi di auto-mutuo aiuto).
L’accoglienza residenziale e i progetti di protezione risultano essere la forma di aiuto prevalente
per richiedenti asilo e rifugiati politici.
Tabella 13 – Buone Pratiche (Lombardia)
Scheda
n.
Regione:
Lombardia
Ente
Progetto
Tipologia
Mediazione intergenerazionale
1
Milano
Aliante
2
Milano
Assofamiglia
Genitori in viaggio
Mediazione intergenerazionale
3
Busto Arsizio
Comune Busto Arsizio
Una famiglia per crescere
Affido – Reti di famiglie
4
Milano
Cadr
Consultorio interetnico
Mediazione familiare
ed interetnica; gruppi
5
Milano
CtàNuova
Cash-Cash
MSNA
6
Pavia
Comin
L’albero della macedonia
Affido interetnico
7
Milano
Comin
Cassiopea
Mediazione intergenerazionale
8
Milano
Comin
A casa di Amina
Affido
9
Milano
Crinali
Ricongiungimenti familiari: gioie e difficoltà
Mediazione intergenerazionale
10
Milano
Crinali
Centro di salute e ascolto per donne immigrate e bambini
Mediazione; gruppi
11
Milano
Crinali
Consultazione transculturale
Mediazione, gruppi
12
Lecco
Ctà di via
Gaggio
13
Milano
Farsi prossimo
Centri Accoglienza
14
Milano
F.P.
Casa delle famiglie
Mediazione; gruppi
15
Milano/Varese
F.P.
Accoglienza mamma-
Affido
Mediazione intergenerazionale; gruppi
Rifugiati; mediazioni
gruppi
142
bambino
16
Milano
F.P.
Centro Come
Mediazione; gruppi
17
Milano
F.P.
La casa di tutti i colori
Mediazione; gruppi
18
Milano
Franco Verga
Femmes relais
Mediazione di quartiere
19
Milano
Labilità
20
Varese/Milano
Le querce di
Mamre
21
Varese
22
Monza/Brianza
Novo Millenio
23
Milano
Qiqajon
24
Milano
SoleTerre
En tu casa
Mediazione transnazionale
25
Milano
TerreNuove
Servizio di etnopsichiatria
Mediazione
26
Milano
TerreNuove
Adolescenti Stranieri
Seconda Generazione
Mediazione intergenerazionale; gruppi
27
Milano
TerreNuove
Progetto Migranti
MSNA; mediazione
Mulino di Suardi
MSNA
Gruppi
Area rifugiati
Mediazione
Area mamma-bambino
Affido
Famiglie insieme
Mediazione ; gruppi
Affido
Coop.Sociale
28
Pavia
Famiglia Ottolini
Il panorama dei progetti individuati nel territorio piemontese (Tabella 8) evidenzia una forte
centratura sulle situazioni di grave marginalità e rischio, in cui le persone oggetto di sostegno
sono state vittime di violenze e gravi traumi: minori stranieri accompagnati (anche coinvolti
nel circuito penale), rifugiati politici e asilanti (compresi nuclei genitore-bambino), donne in situazione di grave marginalità (donne sole con e senza figli). Il tipo di interventi realizzati comprende l’accoglienza residenziale, la mediazione penale, la mediazione culturale, progetti educativi individualizzati, interventi di peer education, affido familiare e accoglienza dei rifugiati e
degli asilanti (sia singoli sia nuclei familiari) all’interno di reti di famiglie italiane e immigrate.
I progetti si contraddistinguono per una maggiore focalizzazione sulle componenti etnicheculturali delle persone immigrate, ad esempio donne e famiglie maghrebine.
Un’altra area importante di intervento riguarda il sostegno alla famiglia migrante con figli piccoli (anche disabili) attraverso la realizzazione di micro-nidi, gruppi di auto mutuo aiuto per
genitori, gruppi di sostegno alla genitorialità.
Infine un’area progettuale attiene alle problematiche del ricongiungimento familiare (in età
adolescenziale) e delle seconde generazioni attraverso la realizzazione di laboratori di cittadinanza e peer education per i giovani, gruppi di sostegno e di mutuo aiuto per i genitori. Più raro il lavoro con la coppia e la famiglia “mista”, in particolare cristiano-islamica (consulenza e
gruppi di auto-mutuo aiuto, mediazione scolastica).
143
Tabella 14 – Buone Pratiche (Piemonte)
Scheda
n.
1
2
Regione:
Piemonte
Ente
Torino
AlmaTerra
Torino
Compagnia
S.Paolo
Progetto
Tipologia
Mediazione/Gruppi
Nomis
Mediazione penale/intergenerazionale
MSNA
3
Torino
Centro Fanon
4
Torino
Gruppo Abele
Il filo d’erba
Affido (ctà di famiglie)
5
Torino
Gruppo Abele
Drop House
Donne con minori
6
Torino
Gruppo Abele
Genitori e figli
Mediazione; gruppi
Torino
Centro Peirone
Consultorio interetnico
Mediazione intergenerazionale/familiare/
7
Mediazione/gruppi
Interetnica
8
Rete interprovinciale
Coop.Orso
capofila
Piemonte non solo asilo
Affido/rifugiati
9
Torino
Progetto
Tenda
Famiglie insieme
Gruppi
10
Torino
Progetto
Tenda
Torino casa mia
Mediazione ; gruppi
11
Torino
Comune Torino
Rifugio Diffuso
Affido/rifugiati
12
Torino
Ufficio Minori
Stranieri
Una finestra sulla piazza
Mediazione intergenerazionale ; gruppi ; msna
13
Torino
Ufficio Minori
Stranieri
In&Out
Mediazione penale;
MSNA
14
Torino
Ufficio Minori
Stranieri
Educativa territoriale
Mediazione ; MSNA
15
Torino
MEIC/Il nostro pianeta
Torino La Mia Città
Mediazione ; Gruppi
Mediazione ; Gruppi
Gruppi; MSNA
16
Torino
Alouan
Centro interculturale, di
animazione e informazione per giovani migranti e nativi
17
Torino
ASAI
Associazione Animazione Interculturale
144
18
Torino
AMECE
Forum Famiglie
Gruppi; Ms; Msna
19
Torino
Associazione
Mamre
Centro Mamre
Mediazione; Gruppi
20
Cuneo
Centri famiglie
Famiglie
21
Ossola
Servizio Area Minori
Minori/famiglie
22
Ghemme
Minori _Convenzione Isa
Minori
4.4. GLI STUDI DI CASO
Alla luce del quadro presentato, si è scelto di approfondire il progetto piemontese “Torino la
mia città: percorsi di alfabetizzazione e cittadinanza per donne maghrebine” promosso
dall’associazione Meic (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) e il progetto lombardo
“L’albero della macedonia” della Cooperativa Comin, ritenuti particolarmente significativi
dell’area di intervento sulla fragilità familiare connessa alle dinamiche migratorie. Il progetto
piemontese è caratterizzato da alcuni elementi interessanti: la specificità etnico-culturale
dell’intervento, la centratura familiare e comunitaria degli obiettivi sottolineata dalla tematica
dei percorsi di cittadinanza per le donne immigrate, l’ampiezza dell’intervento quanto a numero di destinatari raggiunti e a replicabilità delle azioni di progetto. Particolarmente interessanti
risultano, inoltre, alcuni recenti sviluppi del progetto, quali in particolare il coinvolgimento attivo delle partecipanti nel ruolo di educatrici pari e il lavoro di mediazione transnazionale.
Il progetto lombardo, seppur in fase iniziale, rappresenta un’interessante e complessa esperienza di lavoro sul tema delle fragilità familiari (anche quelle connesse alla migrazione), della
comunità di famiglia e del dialogo interculturale. Esso nasce dall’iniziale collaborazione con
l’associazione torinese Diafa e risulta inserito nella ricca e prolungata storia di lavoro svolta sul
territorio dalla Cooperativa Comin.
4.5. “L’ALBERO DELLA MACEDONIA” – MONTICELLI PAVESE
di Paola Pavesi
All’origine del progetto di comunità familiare interetnica “L’albero della macedonia”, di recentissimo avvio, sembra esserci una storia molto lunga. Le radici affondano nell’attività da tempo
svolta dalla cooperativa Comin nell’ambito dei servizi rivolti a minori e famiglie in difficoltà e
strutturati secondo diverse modalità di risposta ai bisogni. Accanto alle comunità alloggio per
minori ispirate ad un modello di accoglienza residenziale attive dal 1975, vengono avviati dalla
Comin sul territorio milanese, a partire dagli anni ’80, interventi di assistenza domiciliare finalizzati a sostenere ad un tempo, nei contesti di vita quotidiana, il percorso di crescita dei minori e il processo di cambiamento dei loro familiari, attraverso accompagnamenti educativi integrati con la rete di servizi territoriali. La cooperativa ha quindi iniziato un lavoro sugli affidi familiari, attraverso un’opera di sensibilizzazione sul territorio mirata alla costituzione di reti di
famiglie aperte all’accoglienza, collegate tra loro e supportate da un operatore nella scelta di
aprirsi all’affido. Un progetto specifico – “A casa di Amina” – nasce con l’obiettivo di formare
una rete di famiglie straniere disponibili alla tipologia di affido inizialmente definito “omoculturale”, in risposta ai bisogni di accoglienza e confronto con la cultura d’origine dei minori
stranieri in difficoltà.
145
Questo progetto finisce col confluire in quello più ampio di “Affido accompagnato”, che prevede la disponibilità di famiglie italiane e straniere a diverse tipologie di affido.
Il tentativo di coniugare accoglienza familiare e competenze educative via via pensate in ottica
interculturale sembra realizzarsi progressivamente: progettualità separate come l’accoglienza
residenziale e l’affido familiare hanno trovato nel tempo punti di contatto da cui hanno avuto
origine le comunità familiari e i progetti di affido accompagnato, per arrivare alle esperienze di
famiglie in comunità con il supporto di strumenti educativi. Nel percorso verso “L’Albero della
macedonia” è possibile identificare un altro importante elemento di confronto, rappresentato
dall’esperienza dell’Associazione culturale Diafa Al Maghreb di Torino, che sperimentava forme di ospitalità di minori stranieri non accompagnati anche in situazioni di pendenze penali o
di grossa problematicità, caratterizzate da un approccio omoculturale.
Se l’origine del progetto è individuabile nella mission dell’associazione Diafa, l’eredità ideale
raccolta da Comin viene trasformata sulla base della propria storia, realtà e possibilità. Intorno
al target che rimane invariato – bambini, ragazzi, e anche minori non accompagnati – si
prospetta l’idea di creare una comunità per offrire accoglienza ai minori in una famiglia non
della stessa etnia o cultura, ma in un ambito culturale accogliente aperto alle diversità e che
potesse eventualmente salvaguardare una serie di punti di riferimento, ad esempio quello
religioso o quello linguistico, spesso molto importanti pei i minori e rassicuranti per le famiglie
di origine.
Nel processo di ridefinizione del progetto si inseriscono allora le collaborazioni con
l’Associazione Risvegli e con la Fondazione I Care, che fornirà alla comunità una sede, concedendo alla cooperativa un immobile in comodato trentennale.
In considerazione del dato etnico eclatante relativo al numero di minori stranieri non accompagnati di provenienza maghrebina, è prevalsa l’idea di una comunità composta da nuclei italiani e nord-africani. Le famiglie, selezionate ed accompagnate nel percorso dalla cooperativa
Comin, non si scelgono ma accettano di vivere in comunità condividendo la decisione di accogliere minori in difficoltà.
Nell’estate 2009, nella campagna pavese al confine con l’Emilia, sorge a Monticelli la comunità
familiare interetnica “L’albero della macedonia”, con l’obiettivo di offrire accoglienza a bambini
in situazione di disagio familiare, considerando l’elemento della multiculturalità e proponendo
una quotidianità familiare integrata da un servizio di comunità attraverso il supporto di educatori professionali.
Nella comunità convivono 4 famiglie affidatarie: due di origine italiana e due di origine marocchina; due presenti dall’estate 2009, le altre insediatesi nell’estate successiva.
In ogni famiglia un adulto è dedicato all’intervento educativo rivolto ai minori (originali e affidatari) e alla gestione della vita comunitaria, mentre l’altro lavora all’esterno. Attualmente i
bambini accolti in affido sono 4; a regime, è prevista la possibilità di accoglienza di 8 minori di
entrambi i generi.
All’interno della struttura, ogni nucleo familiare dispone di un proprio appartamento e condivide l’utilizzo di spazi comuni per attività strutturate o spontanee; altri spazi sono a disposizione del personale educativo che può trattenersi per partecipare ai diversi momenti di vita comunitaria. La presenza degli educatori garantisce un contributo di professionalità al lavoro
d’équipe, apportando specifiche competenze nell’osservazione del minore e della famiglia
d’origine, nella relazione con e tra di loro, nella definizione del progetto educativo individualizzato e globale e nel rapporto con i servizi territoriali di riferimento.
Sono previsti diversi ordini di verifica sul progetto. A livello operativo, l’équipe di comunità si
riunisce settimanalmente mentre a frequenza mensile ha luogo un incontro di supervisione
146
psicologica; è in fase di avvio l’istituzione di una riunione quindicinale tra le famiglie
accoglienti. All’interno della cooperativa, esiste un ambito di governo specifico del progetto
mentre i momenti di programmazione e verifica sui singoli casi contemplano il coinvolgimento
e la partecipazione dei soggetti esterni implicati (servizi sociali territoriali, ecc).
La regia del progetto, completamente assunta da Comin, è in stretta connessione con altri
servizi della cooperativa (le famiglie socie della cooperativa e dell’Associazione la Carovana, la
Comunità Il melograno di Zinasco, La nostra casetta etc.), ricerca e promuove la costante collaborazione delle realtà territoriali: il Comune e la Scuola elementare di Monticelli, la Scuola
media di Chignolo Po, la Scuola materna di Badia Pavese.
Figura 13 - Rappresentazione grafica della rete
Sostenuto dal Forum delle religioni di Milano, l’intervento ha suscitato notevole interesse tra i
principali rappresentanti del dialogo interreligioso, intervenuti anche nel momento
57
dell’inaugurazione ufficiale della comunità lo scorso 26 settembre .
Tra le caratteristiche di coesione sociale presenti nel progetto, l’aspetto interreligioso è stato
oltremodo amplificato, caratterizzando l’esperienza come laboratorio di incontro e dialogo tra
religioni diverse. Il progetto è indubbiamente basato su forti interazioni culturali ed etniche
che non si esauriscono tuttavia alla sfera religiosa, essendo fondate sulla convivenza a tempo
pieno di famiglie interculturali impegnate nell’attività di accoglienza e in continuo e costruttivo
dialogo all’interno e all’esterno della comunità.
57
Il vescovo della diocesi di Pavia; il responsabile della Casa della Cultura Islamica di via Padova a Milano; un
rappresentante della Confraternita dei Sufi Jerrahi Halveti; due membri della comunità dei Frati Minori di piazza
Sant’Angelo in Milano; un sacerdote collaboratore dell’arcivescovo di Milano e responsabile del Servizio per
l’Ecumenismo e il Dialogo della diocesi di Milano; il pastore della Chiesa Evangelica Valdese di Milano.
147
A ciò si aggiungano altri elementi di indiscussa novità. Intanto il superamento di una visione
“omoculturale” verso una multiculturale, concretamente rappresentata dalla molteplicità e
complessità del confronto tra le parti in gioco: figure educative con competenze professionali,
figure familiari con competenze genitoriali, approcci educativi diversi, bambini di provenienze
e origini diverse, culture diverse, religioni diverse, lingue diverse in un territorio diverso.
La dimensione interculturale come modello quotidiano di relazione tra persone e il confronto
con positive esperienze di integrazione, esempio di cittadinanza attiva da parte di cittadini
stranieri, suggerisce possibili vie verso la costruzione di una attenta comunità sociale. In questo senso, il contesto territoriale sta rivelando le sue potenzialità, soprattutto in termini di vicinanza e reciprocità. Se la piccola realtà di paese facilita la costruzione di legami, accresce gli
spazi di autonomia dei minori, modifica la qualità di vita delle famiglie, la comunità di famiglie
a sua volta, da portatrice di complessità, può trasformarsi in stimolo e risorsa per il territorio
con l’apertura dei propri spazi, l’offerta di momenti multietnici, di occasioni ludiche e ricreative
per i bambini, di incontri formativi per i genitori di Monticelli gestiti dal personale educativo
interno e la progettazione di nuovi interventi (es. Tempo per le famiglie) con il coinvolgimento
del territorio.
Nella consapevolezza che nessun progetto possa essere indistintamente replicato, gli elementi
caratterizzanti “L’albero della Macedonia”, ovvero la centralità delle famiglie nel modello di accoglienza, l’apporto di competenze educative e la dimensione multiculturale, sembrano senza
dubbio condizioni esportabili e valorizzabili in altri contesti.
Gli aspetti innovativi dell’intervento, innestati su consuetudini operative consolidate e di affermata efficacia, rappresentano pertanto gli indicatori di progetto a buona pratica relazionale
che il presente studio di caso intende indagare.
4.5.1 METODOLOGIA
Sono state realizzate interviste alla Coordinatrice del progetto (CP1), ad una mamma affidataria italiana (CP2) e ad una mamma affidataria straniera (CP3) delle famiglie residenti all’Albero
della Macedonia.
Intervistato
Strumento
Scheda per responsabile ente capofila;
Coordinatrice del progetto
Rappresentazione grafica della rete;
Intervista al Responsabile del servizio
Una mamma di famiglia affidataria italiana
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Una mamma di famiglia affidataria straniera
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Le interviste programmate agli educatori del servizio e alle famiglie naturali dei minori in affido non hanno potuto essere effettuate per contingenti ed impreviste difficoltà insorte
all’interno della comunità, sottoposta dal suo avvio ad una continua esposizione mediatica.
58
Tra le ulteriori fonti consultate si segnalano inoltre: il sito internet della Cooperativa Comin ,
con articoli, approfondimenti, rassegna stampa e video interviste dedicati all’esperienza; il sito
58
www.coopcomin.it
148
59
60
del Forum delle religioni di Milano ; il sito degli enti territoriali e istituzionali di riferimento ; il
piano di zona del Distretto Sanitario di Corteolona 2009-2011 e il piano di zona di Albuzzano.
4.5.2 ANALISI DEL SERVIZIO
Il progetto affronta le problematiche connesse alla fragilità familiare e delle reti sociali, in particolare alle situazioni generate dalla migrazione. Il progetto risponde al bisogno specifico di
accoglienza di minori in difficoltà allontanati temporaneamente dalle famiglie naturali, facendo proprie due ulteriori finalità: quella di costruire una comunità di famiglie caratterizzata da
legami di vicinanza e dialogo che sia in grado di aiutare l’esperienza dell’affido; quella di promuovere e sostenere l’incontro con la diversità nelle sue espressioni (di provenienza geografica, di cultura, di religione, di storia, di lingua…) in una società ormai globale.
Questa visione articolata di bisogno traspare con sottolineature diverse in tutte le interviste
effettuate. Per la Responsabile di progetto la necessità non è tanto quella di rispondere a
un grosso bisogno di accoglienza di minori in comunità quanto di sperimentare
un’accoglienza in cui il dato più importante sia un dato culturale, offrire degli spazi di animazione, di confronto, di presenza sul territorio, di … stimolo da un punto di vista della realtà di
paese. In quest’ottica il progetto è la realizzazione di un laboratorio in cui le diversità, tutte le
diversità, tra adulti e bambini, italiani e stranieri, educatori hanno uno spazio di dialogo
sempre e questo è l’elemento più importante nella situazione in cui siamo adesso.
Anche per le due mamme affidatarie intervistate – una italiana e una marocchina – molteplici
sono le sottolineature. Per entrambe le mamme centrale è l’idea di un’esperienza di affido che
consenta a tutti gli attori di confrontarsi e crescere nelle diversità, ampliando il concetto di affido omoculturale:
L’obiettivo che ci diamo come servizio è quello … legato all’affido, quindi riuscire ad ospitare,
come famiglia affidataria, dei bambini, anche di etnie diverse, quindi … si dice tanto l’affido
omoculturale: è una bruttissima parola, omoculturale… però uno degli scopi di questa comunità è anche quello di riuscire ad ospitare bambini di culture simili a quella della cultura
di appartenenza dei genitori affidatari. In realtà un valore aggiunto è anche quello di avere,
di poter ospitare bambini di culture diverse o religioni diverse e/o religioni diverse, come è in
questo caso, con l’ausilio della famiglia di cultura e religione diversa che è affianco a noi.
Fondamentale per la mamma italiana è anche una finalità sociale allargata, intesa come valorizzazione dell’incontro con lo straniero di cui in genere si tende stereotipatamente a percepire solo le negatività,
per dar dimostrazione invece che sia possibile… conoscere l’altro, cioè frequentare l’altro,
convivere con l’altro, magari anche valorizzando lo straniero come risorsa, magari anche sostenendo dei bambini in affido, magari anche trasmettendo dei valori positivi ai propri figli e
quindi fornendogli delle possibilità di convivenza un po’ diverse, che loro si potranno giocare
nel loro futuro, per sopravvivere in questa situazione …in cui lo straniero, l’immigrato, non
viene mai valorizzato per quello che fa e per le sue potenzialità, ma viene sempre descritto
come portatore di problemi, ladro di lavoro…
59
60
www.forumreligionimilano.org
www.provincia.milano.it/affari_sociali/, www.regione.lombardia.it, www.famiglia.regione.lombardia.it.
149
Per la mamma marocchina questa finalità più ampia del progetto viene messa a fuoco
successivamente attraverso il confronto con l’altra famiglia affidataria e per il forte interesse
mediatico suscitato dall’avvio della comunità:
Io pensavo solo all’affido, non ho mai pensato alla convivenza, questa cosa tra musulmani,
cristiani, stranieri, italiani ... dopo ho capito che qui l’affido è un puntino piccolo, sono altre le
cose, siamo qui per altre cose. Mi sento come quei topini sui quali fanno gli esperimenti. Una
cavia, si. In francese li chiamiamo anche cobaye.
Centrale per la realizzazione di questo progetto è la famiglia con le sue innegabili risorse (sebbene ben poco sostenute dalle istituzioni) e ciò è ben chiaro alle famiglie affidatarie:
… la famiglia è veramente un’entità centrale, per tutta una serie di vicende che ruotano
all’interno della società. La famiglia va sostenuta, non si può pensare di caricarla ancora, in
un contesto qual è il nostro, storico, politico, economico, di crisi, convincendola delle sue potenzialità, ma lasciandola completamente da sola. … Uno dei motivi per cui abbiamo scelto
una dimensione comunitaria, un’organizzazione quale quella della Comin, un progetto di
questa portata … è proprio quello della fatica della famiglia di sostenere un affido, la solitudine nella quale la famiglia si trova.
L’altra componente del progetto è la presenza degli educatori: questo elemento è centrale dal
punto di vista della cooperativa che ha così trasferito lo specifico del servizio di comunità in un
contesto familiare allargato:
possibilità di un’accoglienza con un servizio di comunità, e quindi con educatori … che hanno
tutta una serie di competenze nel rapporto con i minori, che garantiscono lo svolgimento di
un progetto educativo individuale, … garantire questo servizio però con contemporaneamente la possibilità di una vita in famiglia per i bambini… quindi il fatto che questi ragazzi abbiano a disposizione delle figure educative e vivano di fatto in una comunità che però è una
comunità di famiglia,
riconoscendone al tempo stesso la complessità:
la complessità delle figure presenti, il fatto che ci sia un confronto costante tra figure educative con una competenza professionale, figure familiari con una competenza genitoriale,
bambini provenienti dalle famiglie di origine e bambini ... i bambini delle famiglie accoglienti.
Le mamme affidatarie sottolineano la risorsa rappresentata dagli educatori:
la possibilità di usufruire per me, ma di riflesso anche per i miei figli, di tutte le competenze
educative del nostro educatore e della nostra responsabile di progetto, per poter risolvere …
le criticità legate alla loro crescita, al loro trasferimento qua e alla relazione con i loro compagni … insomma tutte quelle criticità che normalmente una famiglia vive da sola, nel suo
appartamento a Milano,
così come le risorse scoperte e attivate sul territorio dopo la “migrazione dalla città” (scuola,
istituzioni locali, rete di vicinato):
Un’altra cosa che è veramente interessante, nella quale speravamo però non poteva essere
così scontato, è proprio quella della relazione con le persone sul territorio, in quanto stranieri in un territorio, per noi italiani, stranieri in un territorio a 60 chilometri da casa, per noi
immigrati in fondo alla provincia di Pavia, non mi sarei aspettata un’accoglienza così.
150
4.5.3 VALUTAZIONE DELLA “BONTÀ” DELLA PRATICA
Passiamo all’analisi degli aspetti attraverso i quali è possibile considerare tale servizio una
“buona pratica”.
Per quanto riguarda l’efficienza della buona pratica, il progetto appare sostenibile nel tempo,
a fronte del forte investimento iniziale realizzato con l’ausilio di fondi esterni (ristrutturazione,
avvio) e dei contributi di Comin. Allo stato odierno rimane evidentemente legato alle risorse
provenienti dall’attività lavorativa esterna delle singole famiglie affidatarie (attualmente 4), al
meccanismo delle rette dei Comuni (esposto a fattori anche imprevisti e congiunturali), ad eventuali sforzi aggiuntivi di Comin, già economicamente provata, alle potenzialità di lavoro che
la comunità riuscirà e potrà sviluppare al proprio interno (Tempo per le famiglie...). C’è una palese incongruenza tra lo sforzo e le risorse inizialmente investite e le possibilità attuali del progetto a regime.
Indubbiamente il progetto capitalizza l’esperienza perché, a livello organizzativo più ampio, si
colloca in un percorso consolidato e strutturato di interventi sul tema avviati da Comin; a livello più particolare, le famiglie intervistate sembrano in grado di significare l’esperienza ed eventualmente reinvestirla con altre modalità.
Le famiglie si configurano come indiscusse protagoniste dell’intervento, sia come erogatrici di
azioni dirette ad adulti e bambini:
Il mio ruolo è anche quello di provare ad essere utile alle mamme, un sostegno. … Fino adesso è questo il mio ruolo: c’è per tutti. A casa mia faccio sicuramente la mamma, faccio la moglie, sostegno al marito…; sostegno al figlio, che a un certo punto vede che l’affido è una cosa
difficile, dividere la mamma, i genitori soprattutto,
che come beneficiarie di una serie di opportunità legate all’esperienza, espresse in sintesi:
conoscere altre cose, senza andare fuori per impararle. Stando qui, abbiamo imparato tante
cose.
Anche la condivisione del progetto da parte della coppia coniugale produce trasformazioni e
cambiamento in un’ottica di condivisione costruttiva:
La soddisfazione maggiore ... quando mio marito, eravamo a Milano, diceva: Beh, io vado
con te lì, è come un regalo che ti faccio – l’idea era mia – Io non voglio, non ho tempo, voglio
fare altre cose … E invece, senza parlare di questa cosa, lui è coinvolto proprio! Al massimo!
Si vede la sua presenza con i bambini in affido … La prima mia soddisfazione è di vedere mio
marito coinvolto, veramente … lui veramente è dentro.
Il coinvolgimento dei figli naturali, nonostante le difficoltà, è poi percepito come fecondo di
positive ricadute:
… tutti i nostri figli, naturali, originali, … sono molto ben inseriti in questo discorso, hanno
delle grosse difficoltà, però sono molto ben inseriti e quindi spesso ci si confronta anche con
loro e a volte loro sono più avanti di noi su certe cose … in fatto di previsioni, in fatto di soluzioni, in fatto di criticità.
D’altra parte:
se il progetto coinvolge tutti, come è, perché questa è la nostra vita, ci sono dei vantaggi per i
nostri figli naturali, originali … come quello di avere una mamma a casa … oppure quello di
151
poter ragionare sulla costruzione di valori nei quali io credo, che posso trasmettere ai miei figli, che potrebbero essere fondanti per la loro vita futura….
Le famiglie naturali restano al momento sullo sfondo per motivi contingenti, anche se nella
rappresentazione della finalità del progetto sono ben presenti nella mente dei suoi attori (operatori e famiglie):
… in questo momento c’è un’interruzione di rapporti tra bambini e famiglia d’origine ma nella normalità potrebbero esserci visite monitorate in comunità, anche visite non monitorate
gestite direttamente dalle famiglie affidatarie. Possono esserci visite in spazio neutro del territorio ... anche rientri presso la famiglia di origine.
In questa fase di interruzione dei contatti, le famiglie affidatarie scelgono comunque di accompagnare i minori nel percorso di preparazione al re-incontro con i genitori naturali:
… poteva farlo anche l’educatrice, potevano farlo loro, ma ci è sembrato più giusto così, essere presenti noi sia all’andata che al ritorno. Perché poi nell’andata ci sono tante domande,
tante riflessioni, si chiacchiera; il ritorno è tutto silenzio. Poi noi sfruttiamo quella giornata
per andare fuori con loro, solo con loro….
La risorsa territoriale, con le sue reti formali ed informali, è continuamente sollecitata e stimolata ad aprirsi e a recepire gli input caratterizzanti il progetto:
Io [madre affidataria straniera] mi ricordo il primo incontro col sindaco e il sindaco di Monticelli, quando siamo andati a incontrarlo, per un’ora e mezzo, eravamo in tre, e lui parlava
con la famiglia C. ignorando la mia presenza. Al che il B. [uno dei padri affidatari italiano] gli
fa: Guardi che può parlare anche con la signora, lei capisce. E lì è venuto fuori il discorso dello straniero, si capisce che lo straniero non è altro che fonte di problemi, di bisogni, e non di
ricchezza. Quindi era più difficile, ma subito dopo le cose son cambiate: era più facile entrare
in Comune, parlare tranquillamente. Ti fanno sentire … sì, abbiamo bisogno, magari in presenza di altre famiglie che hanno problemi di lingua posso fare da mediatrice, è cambiata un
po’ la visione. Non dico che è cambiata la visione sull’immigrato, sullo straniero, però si sono
mosse delle cose. Sono andata a Corteolona, dovevo incontrare una psicologa, e la prima cosa che mi hanno chiesto: Ha bisogno dell’assistente sociale? Ho detto: cavolo, ragazzi, no! Devo salutare! Prima saluto, e poi vi dico: no, dell’assistente sociale non ho bisogno! Ho bisogno
più della psicologa, ho problemi. Invece, loro sono rimasti! Questa figura dello straniero,
quello che ha bisogno, anzi: che ha sempre bisogno, è un fastidio … Lo straniero se non
prende, non dà.
Il processo di interlocuzione e conoscenza avviato permette di ri-conoscere e valorizzare le
opportunità offerte dal contesto:
Un altro elemento che all’inizio non abbiamo calcolato ma adesso è diventato molto importante è il luogo che da una parte è deprivante e presenta delle limitazioni … Di fatto adesso si
stanno scoprendo le potenzialità … diciamo che la dimensione di campagna sta diventando
importante … Un’altra dimensione molto importante … anche questa un po’ costruita in divenire, che non è stata una consapevolezza da subito, è la dimensione del rapporto con il territorio, la possibilità di essere davvero una risorsa per il territorio e non solo una realtà portatrice di complessità ...
e di immaginare i rapporti comunità-territorio in prospettiva e in termini di reciprocità: Ad
esempio a Monticelli c’è l’esigenza e la possibilità di creare tutta una rete di contatti e di lavoro sul territorio a partire dalla comunità … mi piacerebbe che nel corso di qualche anno si
152
crei nel territorio un gruppo di famiglie accoglienti che fa capo alla comunità dell’Albero della
macedonia, che possano nascere altre esperienze di accoglienza di minori da parte di famiglie di Monticelli che trovano nella comunità di Monticelli un sostegno, un appoggio … piuttosto le famiglie stesse e noi abbiamo pensato a molti progetti da realizzare come il Tempo per
le famiglie (con bambini da 0-3 anni) … e da qui l’idea di proporre e realizzare qualcosa che
si coinvolga al territorio.
L’obiettivo è dichiarato:
Un altro dei nostri obiettivi è quello di inserirsi nel territorio, cioè di non essere un’esperienza
isola-felice, dove si fanno tante belle cose, all’interno della quale chi vuole viene e vediamo un
po’ … L’intenzione è proprio quella di aprirsi al territorio e avere uno scambio e un confronto
vero. Perché se no, non ha senso.
Il capitale sociale di tutti gli attori coinvolti nel progetto, nessuno escluso, risulta incrementato
dall’esperienza che, nelle parole della coordinatrice, arriva ad identificare le sue risorse:
Principalmente le persone, le famiglie che lo abitano soprattutto, le persone che ci lavorano,
le persone del territorio, perfino i bambini accolti e qualche volta le loro famiglie con i suoi
beneficiari.
La vicinanza e il sostegno tra famiglie permane la fonte principale di ricchezza:
…sicuramente se avessi fatto questo progetto a casa mia, da sola, con la mia famiglia, sarebbe saltato subito. Perché questi bambini hanno molti problemi … E mi aiuta molto il sostegno
della famiglia, delle 4 famiglie, delle altre famiglie, perché io esco tutta nervosa, poi incontro
le [altre mamme affidatarie]: Cosa c’è? … si esce come un pallone e poi si parla, si discute,
magari si torna a casa con un’aria fresca, con atteggiamenti nuovi, delicati, vediamo com’è,
discutiamo. E questo facilita …
e apre anche su elementi di inaspettato interesse:
Risultati inattesi sono proprio quelli del rendersi conto che questo progetto ha delle sfaccettature molteplici. In realtà noi c’eravamo concentrati sull’aspetto dell’intercultura e dell’affido.
Poi in realtà già dall’anno scorso ci siamo resi conto che l’aspetto interreligioso … è stato valutato in maniera molto importante ... C’è stato il contatto con i rappresentanti religiosi di altre religioni, che sono poi venuti a trovarci ma sono anche intervenuti alla festa di inaugurazione e abbiamo fatto diverse esperienze in questo campo. Quindi questa è stata una delle
scoperte che abbiamo fatto; certo, ce lo si poteva immaginare però non avremmo mai immaginato che prendesse un posto così importante all’interno del progetto. E non avrei mai
immaginato che mi avrebbe fatto così piacere approfondire questi temi, confrontarmi così
tanto con gli altri membri della comunità.
L’attività di confronto caratterizza trasversalmente tutti i livelli del progetto, a partire dal confronto continuo e ad oltranza tra famiglie:
… non mancano occasioni di incontrarci, di parlare, noi stiamo lì a parlare tutto il giorno c’è
sempre questo momento del caffè giornaliero, che inizia dalla partenza degli ultimi bambini
dell’asilo e finisce quasi al ritorno di quelli della prima! E si parla. Noi siamo in continuo parlare, parlare di tutto: dell’educazione, di tante cose, si imparano tante cose
sino a quello strutturalmente richiesto dalla complessità del modello:
153
Elemento di forza ... che dà valore a questo progetto, è la complessità delle figure presenti, il
fatto che ci sia un confronto costante tra figure educative … figure genitoriali, i bambini delle
famiglie accoglienti e i bambini provenienti dai servizi sociali … il fatto che ci sia un incontro
di culture diverse, di approcci educativi diversi sia perché si incontrano figure professionale e
figure genitoriali, sia perché si incontrano provenienze diverse, religioni diverse sia perché ci
sono spazi e contesti che offrono possibilità di vivere situazioni molto diverse ….
Anche la genesi del servizio è connotata dal confronto tra esperienze e impostazioni diverse
che, raccolte e rielaborate, trovano il punto di sintesi nella progettazione di una comunità familiare interetnica, della quale la cooperativa Comin assume la piena titolarità, riproponendo
nella sua gestione il lavoro di rete partecipato che la contraddistingue.
In quest’ottica, gli strumenti di verifica e programmazione di cui si è dotato il progetto (incontri
di équipe, supervisione, programmazione operativa, riunioni sui casi interne ed esterne) sono
considerati fondamentali dall’intero gruppo di lavoro, che riconosce l’utilità di un dispositivo
tecnico di monitoraggio complementare e sovra-ordinato al piano di riflessione e scambio informale:
Il momento dell’équipe è un momento fondante perché, presi dalla quotidianità, è necessario
fermarsi un attimo … Purtroppo in questo momento devo dire che un incontro di équipe settimanale è troppo poco … Abbiamo un’équipe settimanale e una supervisione mensile. Stiamo avviando un processo di incontro tra le famiglie una volta ogni 15 giorni … sono momenti
molto interessanti però si fa un po’ fatica. Tante cose restano all’informale … alla merenda
del pomeriggio … Ecco, un altro momento che è stato fissato è quello della merenda del pomeriggio; anche quello non si riesce a fare sempre, però quando si riesce ci si trova tutti qua,
bambini, educatrice, genitori ….
Lo stesso concetto ritorna nelle parole di un’altra mamma:
Il lavoro di équipe, qua, per me è una cosa fondamentale, perché sei lì, uno espone tutti i
suoi problemi, sicuramente non è che avremo subito delle risposte, però … son punti accolti.
Io son sempre quella che butta: ragazzi, SOS! Ho bisogno del vostro aiuto! .
D’altro canto non manca la capacità di lettura critica e di rielaborazione dei dati esperienziali:
Noi abbiamo colto alcune carenze e debolezze strada facendo,
sia a livello ideale:
Il primo obiettivo l’ho raggiunto perché sono qua ... un primo obiettivo raggiunto è questo: la
mia presenza qua. Altri obiettivi … non direi che sono arrivata, sono ancora in cammino che
concreto: Sicuramente le necessità pratiche qui sono legate al discorso sostegno psicologico,
educativo, perché, in realtà, il progetto è nato con una sua configurazione, ma il numero di
persone, i professionisti che ruotano intorno a questo progetto sono un numero molto limitato, con un numero di ore molto limitato perché le risorse sono molto, molto limitate. In realtà, non è detto che più professionisti ci siano, più ore ci siano, migliore sia il risultato; però
probabilmente, anche solo con un piccolo incremento si riuscirebbe ad ottenere … ad avere
un po’ più di sostegno come famiglie.
Il coinvolgimento dei beneficiari nell’attuazione del progetto, quindi delle famiglie affidatarie
nella totalità dei suoi componenti, sembra allora imprescindibile dalle sue caratteristiche, come emerge dalle consapevoli osservazioni dei protagonisti:
154
Se sono soddisfatta? completamente no, perché il progetto, da come era stato presentato, da
come era stato pensato, è completamente diverso … La cosa che mi soddisfa è che in questo
interregno tra l’immaginario e la realtà si è riusciti a lavorare molto anche con la cooperativa
per realizzare delle cose a favore delle famiglie, per il beneficio delle famiglie”.
Il rischio potrebbe piuttosto sembrare quello di uno sbilanciamento, nell’economia generale
del progetto, verso l’elemento motivazionale e partecipativo dei protagonisti rispetto
all’investimento e al sostegno garantiti nel tempo da enti ed istituzioni:
Io son fiduciosa nel fatto che, lavorando ancora tanto, impegnandosi ancora tanto, si riesca
veramente a dare un messaggio di possibilità! Ecco, io la vedo così. Possibilità di una vita
semplice ma costruttiva, perché alla fine, spesso, tanti progetti ci sono, tante belle idee ci sono, tante possibilità ci sono, ma non sembra mai possibile coglierle o realizzarle. E noi abbiamo questa frase che diciamo spessissimo …: perché no? Ci son tante cose che, solo perché
tu ci devi lavorare, solo perché tu devi lasciare il tuo quotidiano, solo perché tu devi far fatica, solo perché pensi di non avere tempo, perché pensi che non ci riuscirai? … sì, puoi pensarle tutte queste cose, però perché invece non le vuoi cogliere, girando il discorso come facevamo prima: non le differenze ma i punti di incontro? Non le difficoltà, ma le possibilità!
Non c’è dubbio che famiglie affidatarie e cooperativa siano costantemente impegnate in un
lavoro attivo di promozione del welfare sussidiario plurale, principalmente finalizzato a garantire il benessere relazionale dei diretti beneficiari, quindi dei bambini in affido e delle famiglie
d’origine, attraverso la costruzione di significative esperienze relazionali tra la rete di famiglie
accoglienti, servizi e territorio di riferimento.
Il progetto si configura inoltre come esempio di cittadinanza attiva da parte di famiglie straniere già protagoniste di percorsi di integrazione positivamente condotti e perciò stesso in grado
di introdurre un valore aggiunto all’impostazione interculturale dell’affido. In questo senso
l’esperienza dell’Albero della Macedonia arricchisce l’offerta dei servizi esistenti, introducendo
come ambito emergente di lavoro l’attenzione alla diversità di cultura, storia, religione e sociale, che diventa trattabile in uno schema di intervento che coniughi accoglienza familiare, competenze educative e approccio multiculturale. Alcuni risultati sembrano raggiungibili:
Sicuramente i nostri bambini sono riusciti a sperimentare quella dimensione familiare che
non avevano mai visto. I nostri, piccoli o medi che siano, non conoscevano la dimensione familiare, non conoscevano il quotidiano … il valore aggiunto dell’affido familiare è proprio
quello di far vivere la quotidianità ai bambini e quindi far vivere una quotidianità che loro
non hanno mai visto, proponendogli dei modelli alternativi a quelli che loro hanno avuto:
quindi una famiglia inaccudente e una comunità educativa che di relazione familiare ha poco o niente.
Dal suo avvio, il progetto continua a suscitare un forte interesse esterno, pur nella sopravvalutazione di alcuni suoi aspetti – quello religioso principalmente –:
C’è tutta una parte di promozione in quella che è la nostra attività, di relazione con i giornalisti, di presenza a seminari, convegni, corsi di formazione, cioè veramente le attività sono tante, sono molto intense e a mantenere accese le motivazioni dei protagonisti: Se continua come ... se parlo di me, c’è sempre questa grande voglia di fare, di andare avanti, di imparare,
di dare, di fare, disfare … [risata] … Lo vedo positivo, vedo l’atteggiamento delle altre famiglie
che sono appena arrivate, questa grande voglia di condividere le cose, di parlare, di affrontare tutti i problemi con precauzione … sì, lo vedo bene se continua così, con questa energia,
con queste idee
155
a dispetto di un realistico disincanto che trova spazio nella riflessione sulle fatiche di una
mamma intervistata:
…fatica della famiglia di sostenere un affido, la solitudine nella quale la famiglia si trova. Noi,
io e mio marito, facciamo parte di una rete di affido di Milano e sono anni che assistiamo a
queste fatiche, fatiche ed impotenza e mancanza di ascolto da parte delle istituzioni, dei servizi, e quindi anche investimento di risorse senza arrivare ad un risultato efficace, che è la cosa peggiore. Se vi è possibile, sottolineate questo pensiero.
4.5.4 LA “BUONA PRATICA” DALLA PARTE DI CHI LA VIVE: ANALISI DELLE INTERVISTE CON T-LAB
Per l’approfondimento dello studio della buona pratica “L’albero della macedonia” si è utilizzato il software T-LAB per il trattamento di testi. Per la descrizione dettagliata dello strumento si
rimanda al capitolo del report complessivo, in cui è illustrato.
L’analisi statistica del linguaggio, utilizzato dai responsabili e dagli operatori del progetto durante le interviste, ha evidenziato alcune parole chiave ricorrenti nei testi: da questa preliminare analisi descrittiva dei lemmi più frequentemente utilizzati per costruire la rappresentazione di buona pratica emerge la focalizzazione sui destinatari e le loro caratteristiche tra cui
la diversità culturale (bambino/minore, straniero, diverso), sui protagonisti del progetto (mamma, famiglia, marito), sul tipo di processo di aiuto immaginato (accoglienza, affidare, educativo).
Tra i lemmi ricorrenti, ne sono stati ulteriormente approfonditi alcuni (e cioè “famiglia” e “progetto”) attraverso l’analisi delle co-occorrenze che ha consentito di cogliere le correlazioni semantiche intorno all’uso di tali termini. In queste analisi si è proceduto aggregando le verbalizzazioni dei responsabili e degli operatori.
Figura 14 – Associazioni con il termine “famiglia” nelle risposte dei responsabili e
degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
156
La Figura 14 mostra le co-occorrenze relative al lemma famiglia e il campo semantico che emerge dagli intervistati. Una prima connessione semantica (accoglienza, educativo, progetto,
possibilità) richiama alcuni obiettivi principali del progetto, i suoi destinatari principali (bambino, minore), la dimensione di vita reale e quotidiana in cui si colloca l’esperienza (Milano, vita,
vivere, lavoro, realtà, fatto). Nella mappa concettuale risaltano altri due lemmi (marito e diverso)
anche se appaiono più distanti dal centro, segnalando una loro più debole associazione con il
lemma ‘famiglia’ rispetto alle altre parole presenti. Al tempo stesso la loro presenza, mostra la
dimensione familiare implicata nel progetto (con la sottolineatura di ruoli maschili e femminili)
e il tema della “diversità culturale” che pone famiglia e comunità di fronte a nuove sfide.
Figura 15 – Associazioni con il termine “progetto” nelle risposte dei responsabili
e degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
Molti dei termini associati alla parola famiglia sono presenti anche nella mappa semantica della parola progetto (Figura 15): i protagonisti dell’esperienza (famiglia, minore, bambino, io, comunità, comune, educativo, diverso), gli obiettivi (accoglienza, offrire, possibilità). Emerge anche
più chiaramente il tema della fatica personale, del sacrificio e della sfida non sempre facile da
affrontare (io, sopportare).
4.6. “TORINO LA MIA CITTÀ” – TORINO
di Cristina Giuliani
Il progetto “Torino la mia città: percorsi di alfabetizzazione e cittadinanza per donne maghrebine” si rivolge attraverso le donne alle famiglie di origine nordafricana residenti sul territorio
torinese, con l’obiettivo di sostenere il ruolo dell’intero nucleo immigrato nel percorso di integrazione, favorendone i legami sociali nella rete dei connazionali e nei confronti del contesto
ospitante e dei suoi servizi. Interlocutore privilegiato del progetto sono donne di origine maghrebina, immigrate per ricongiungimento familiare insieme ai figli. Esse sono anche i soggetti
più deboli all’interno di questi nuclei che hanno sperimentato una migrazione seriale, caratte157
rizzata da partenze diluite e distanti nel tempo, accompagnata da una progettualità non sempre condivisa. Esse sono frequentemente isolate all’interno della famiglia nel ruolo di cura dei
figli e restano più a lungo dei mariti senza possibilità di apprendere la nuova lingua, strumento fondamentale in ogni processo di integrazione.
Prive della rete di solidarietà familiare attiva nel paese di origine, giovani o giovanissime, sperimentano un isolamento sfavorevole a prospettive relazionali, di apertura sul contesto e lavorative. In quanto madri, si trovano poi a dover giocare il ruolo di prime mediatrici culturali nei
confronti dei figli, attraverso i rapporti con la scuola e le varie agenzie educative del territorio.
L’esperienza ha inizio nel 2000 nella zona di porta Palazzo e raccoglie l’utenza di tre circoscrizioni contigue (V, VI, VII), mentre dal 2008 si estende ad altre due (III e IX), sviluppandosi quindi
su tre zone della città: Barriera di Milano e Porta Palazzo, Borgo San Paolo, Nizza Lingotto.
Attualmente il progetto si distribuisce nelle circoscrizioni a maggior esposizione migratoria,
dove la concentrazione di famiglie maghrebine è molto alta ed occorre favorirne il costruttivo
inserimento nel tessuto sociale.
Il progetto “Torino la mia città” si rivolge quindi ad una specifica tipologia di famiglia, cercando
di coinvolgere le donne con strategie e modalità consone (orari, luoghi, metodi, contenuti),
perché possano sperimentare modalità di aggregazione e socializzazione emancipatorie e intraprendere un proficuo percorso di cittadinanza attraverso la conoscenza della città e dei
suoi servizi, e l’acquisizione di competenze per una corretta interlocuzione con le istituzioni.
Le attività proposte all’interno del progetto si strutturano a partire da corsi di alfabetizzazione
linguistica, rivolti alle donne in orari compatibili con l’organizzazione familiare (mattina o primo pomeriggio), con la presenza di una mediatrice culturale arabofona e possibilità di accudimento dei figli in età pre-scolare da parte di baby sitter maghrebine.
I corsi di lingua italiana, gratuiti, durano da ottobre a maggio (circa 120 ore annuali) e sono organizzati su livelli progressivi; si concludono con il rilascio alle partecipanti di un attestato di
frequenza durante la festa etnica di fine anno, occasione di incontro conviviale aperto alle famiglie.
I gruppi di lavoro, numericamente contenuti per favorire partecipazione, conversazione e
scambio di esperienze tra donne, sono condotti da un’insegnante esperta nell’insegnamento
dell’italiano L2 e formata sui temi dell’intercultura, affiancata da un’assistente o da una tirocinante. Nel corso degli anni, sono stati elaborati da parte delle insegnanti appositi strumenti
didattici calibrati sul target di progetto.
All’attività di alfabetizzazione si collega un percorso di conoscenza della città e dei suoi servizi,
che prevede incontri con esperte dei servizi socio-sanitari (pediatra, ginecologa), esperte di
ordinamento scolastico (insegnanti, pedagogista), giuriste esperte di migrazione e legislazione
familiare italiana e straniera, oltre a un articolato programma di visite alla città (monumenti,
musei, biblioteche civiche).
Alle donne che abbiano acquisito adeguate competenze linguistiche sono poi rivolti i Laboratori di cittadinanza attiva, con lo scopo di fornire conoscenze più approfondite sul contesto italiano a partire da contenuti tematici di generale interesse quali scuola, famiglia, educazione.
Sui temi trattati vengono redatti dei Diari di bordo che raccolgono i contributi sviluppati durante gli incontri e, tradotti a stampa, diventano patrimonio delle partecipanti a testimonianza
del lavoro svolto.
A tutte le attività descritte partecipa una mediatrice linguistico culturale e l’offerta formativa
viene consapevolmente proposta e declinata interamente al femminile.
158
Parallelamente agli interventi formativi, vengono svolte azioni di disseminazione di informazioni nei luoghi di vita delle donne (quartieri, ospedali, negozi, moschea, scuole, mercati, giardini pubblici...) attraverso il metodo dell’educazione pari e la collaborazione con “figure ponte”,
ovvero donne maghrebine formate per favorire il collegamento tra famiglie immigrate e servizi, e svolgere funzione di “ponte” tra cultura d’origine e cultura del paese d’accoglienza.
L’obiettivo è quello di entrare in contatto non solo con le donne intercettate nei servizi, raggiungendole nei luoghi di aggregazione spontanea ed informale e coinvolgendole in un dialogo tra pari.
Durante l’anno sono stati altresì proposti momenti di formazione e mediazione transnazionale
in materia di promozione femminile e diritto di famiglia, grazie all’intervento di operatrici sociali originarie e professionalmente attive nei principali bacini di provenienza delle utenti (Casablanca e Kouribga, Marocco).
Il gruppo di progetto (insegnanti, formatrici, mediatrici, volontarie) è sottoposto a continua
manutenzione, attraverso percorsi formativi sui temi dell’insegnamento L2 e dell’intercultura
in connessione col Centro Interculturale della Città di Torino o cicli di formazione mirata tenuti
dai partner di progetto.
È prevista una supervisione mensile per il monitoraggio e la verifica dell’andamento dei corsi e
delle attività, condotta dalla responsabile di progetto e con la partecipazione di consulenti esterni su specifiche problematiche. Due volte l’anno la verifica viene estesa alle donne utenti,
per valutare l’efficacia delle iniziative e dei metodi utilizzati e accogliere suggerimenti sulle
strategie di intervento.
Per la realizzazione dei corsi, il progetto si avvale degli spazi oratoriali di due parrocchie cittadine, della sede di una circoscrizione, delle strutture e dei servizi messi a disposizione dal Sistema Bibliotecario Urbano, grazie al quale intere famiglie maghrebine, tramite le mamme,
vengono in contatto con il servizio culturale di base delle biblioteche civiche.
La titolarità del progetto è attribuita all’associazione Meic (Movimento Ecclesiale di Impegno
Culturale), ente capofila in stretta collaborazione con l’associazione Il Nostro Pianeta e con la
Cooperativa Sociale Progetto Tenda. La prima (Il Nostro Pianeta) si occupa di formazione
all’intercultura, di famiglie ricongiunte con uno specifico sulle seconde generazioni. La seconda (Coop. Sociale progetto Tenda) che gestisce in partenariato il progetto simile “Torino casa
mia” .
La partnership è altresì composta dal Comune di Torino, dal Sistema Bibliotecario Urbano e
dalle Circoscrizioni interessate. Finanziariamente il progetto è sostenuto dalla Regione Piemonte, dalla Provincia di Torino, dalle Fondazioni Compagnia di San Paolo e CRT (Cassa Risparmio Torino) e dall’Associazione ComeNoi Onlus.
Le donne iscritte alle attività dell’anno 2009-2010 sono state 199 e per la prima volta 60 di loro
hanno potuto iscriversi contemporaneamente ad un Centro Territoriale Permanente per
l’ottenimento della licenza media, grazie ad una accordo intercorso sull’integrazione della preparazione didattica delle allieve impossibilitate alla costante frequenza dei corsi territoriali.
Le iscrizioni ai corsi 2010-2011 hanno registrato circa 300 adesioni, determinando l’apertura di
una lista d’attesa.
Lo studio di caso è volto a verificare se il progetto “Torino la mia città” possa essere considerato buona pratica da un punto di vista relazionale, ovvero se le attività da esso intraprese siano
produttrici di benessere (relazionale ma non solo) e se favoriscano l’empowerment delle utenti a cui è rivolto.
159
Gli elementi che sembrano caratterizzare l’esperienza come significativa rispetto al focus di
osservazione partono dalla rilevanza attribuita al ruolo svolto nei processi migratori dalle
donne, come mogli e come madri, all’interno della famiglia. L’idea di intervenire su un componente intrinsecamente fragile, ma strategicamente centrale nei processi di integrazione delle
famiglie migranti ha suggerito quindi l’opportunità di adattare l’azione ai destinatari del servizio con specificità settoriale. Ciò avrebbe consentito al progetto di mantenersi ricettivo nei
confronti delle istanze dei beneficiari sia rispetto alle necessità concrete (tempi, luoghi, metodi) che rispetto al bisogno di conservare i legami con la cultura d’appartenenza.
L’apprendimento della lingua italiana è stato quindi pensato ed inserito in un più ampio percorso di educazione alla cittadinanza, all’interno del quale il ruolo attivo giocato tra connazionali (utenti, mediatrici culturali, educatrici pari, operatrici transnazionali) ha trovato progressiva amplificazione e favorito, oltre al passaggio di competenze ed informazioni, la sperimentazione di rapporti interpersonali corretti, leali e continuativi, esempio di vicinanza e buon comportamento sociale.
Figura 16 - Rappresentazione grafica della rete
4.6.1 METODOLOGIA
Sono state effettuate 6 interviste rivolte alla Responsabile dell’ente capofila Meic (RT1), alle responsabili dei due principali enti partner – Ass. Nostro Pianeta e Coop. Progetto Tenda – (RT2),
alla mediatrice linguistico culturale (RT3), a due educatrici pari (RT4),infine ad una insegnante
esperta di italiano L2 (RT5).
160
Intervistato
Strumento
Scheda per responsabile ente capofila
Responsabile Meic
Rappresentazione grafica della rete
Intervista alla responsabile ente capofila
Responsabile Il Nostro Pianeta
Intervista al
partnership
responsabile
degli
enti
in
Responsabile Progetto Tenda
Intervista al
partnership
responsabile
degli
enti
in
Mediatrice Culturale
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Educatrice pari
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Educatrice pari
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Insegnante L2
Intervista ai soggetti operativi del progetto
Sono state consultate diverse fonti:

il sito del progetto (www.ilnostropianeta.it) e degli enti partner (www.progettotenda.net)
che risultano molto ricchi di documenti di tipo progettuale (diari di bordo, materiali didattici e formativi) e divulgativo (rassegne stampa, articoli);

i siti degli enti locali in cui si fa riferimento al progetto (www.regionepiemonte.it;
www.piemonteimmigrazione.it; www.provincia.torino.it);

i documenti e il materiale cartaceo consegnato dalle responsabili (locandine, volantini,
promozione, materiale didattico, relazioni sul progetto).
Elemento significativo e utile ai fini della presente ricerca è stata la partecipazione alla
giornata di presentazione del progetto avvenuta il giorno 27 ottobre 2010 alla presenza di tutti
i partner responsabili, gli operatori coinvolti (mediatrici, insegnanti, volontari, educatrici
pari...), le donne maghrebine con i figli, a cui ha fatto seguito un momento informale di festa e
di scambio.
4.6.2 ANALISI DEL SERVIZIO
Il progetto risponde alle seguenti problematiche vissute dalle famiglie di origine araba (in prevalenza marocchina) residenti in Piemonte in seguito ad un percorso migratorio familiare a
guida maschile: isolamento e difficoltà di integrazione socio-culturale delle madri immigrate e
delle loro famiglie, fragilità del ruolo genitoriale (materno e paterno), vulnerabilità personale e
sociale delle donne legata alla debolezza delle competenze (linguistiche, scolastico-formative,
economiche, sociali), problematiche legate alla dinamica del ricongiungimento familiare e disagio delle seconde generazioni (in età infantile e adolescenziale), difficoltà di coinvolgimento
delle figure maschili (padri e adolescenti maschi).
Il progetto è organizzato intorno a una partnership operativa di 3 enti (di cui due storicamente
molto legati - Meic e l’associazione culturale Il Nostro Pianeta - e un terzo aggiuntosi successivamente, la Cooperativa sociale Progetto Tenda), da una partnership istituzionale composta
dal Comune di Torino (Assessorato alle Attività e ai Servizi Educativi), dalla Provincia di Torino,
e da alcuni altri enti finanziatori (Fondazione San Paolo e CRT; ComeNOi).
161
Forti risultano i legami e le sinergie tra i tre partner principali del progetto
queste tre associazioni nel tempo sono sempre più collegate (RT1),
uniti da una relazione fiduciaria di lunga durata per quanto concerne in particolare le responsabili di Meic e Il Nostro Pianeta
lavoriamo insieme da vent’anni, collaboriamo a un livello molto informale”; “le idee che partorisce Meic sono sempre idee che nascono da un colloquio profondo, informale, con Il Nostro Pianeta. Dopodiché con Progetto Tenda si lavora a un livello magari di coinvolgimento
formale più ampio, ma meno informale (RT1).
Al tempo stesso viene salvaguardata e sottolineata la specificità e l’autonomia di ciascuno dei
tre partner rispetto all’azione progettuale, ai contenuti, agli spazi decisionali e alle metodologie di lavoro
ognuno si ritaglia ovviamente il suo ambito di intervento autonomo, condividendo le finalità
e coprogettando almeno in parte il progetto… ognuno è il leader della sua parte di progetto...
si mettono in comune le progettazioni poi ognuno è responsabile del proprio aspetto (RT2).
Per esempio Il Nostro Pianeta garantisce il collegamento con le seconde generazioni,
l’orientamento scolastico, gruppi di genitori e adolescenti, sostegno alla genitorialità, la formazione degli operatori; Progetto Tenda aggiunge azioni sulla peer education delle donne,
lavoro di connessione con altri progetti tipo “Famiglie insieme” per sostegno alla genitorialità
0-3 anni nelle famiglie italiane e straniere).
Il progetto risulta, inoltre, molto radicato sul territorio, a livello della rete delle biblioteche civiche che offrono spazi e risorse professionali
Le biblioteche sono entrate come partnership…la collaborazione con le biblioteche continua
ad essere un fiore all’occhiello, nel senso che le biblioteche da un lato sono molto contente di
avere un progetto di questo tipo, e chiaramente il progetto ha una risonanza più ampia
(RT1),
delle circoscrizioni, delle parrocchie, delle associazioni di volontariato (ComeNoiOnlus)
le collaborazioni con i luoghi dove avvengono queste cose sono collaborazioni formali, nelle
quali però senza una rete informale di fiducia reciproca, di condivisione delle finalità, poi alla
fine non si riesce a fare niente (RT1).
Nel racconto fatto dalle responsabili degli enti la rete appare anche più ricca e articolata di
quella rappresentata in Figura 1, coinvolgendo ad esempio il paese di origine delle donne (rete
transnazionale con alcune operatrici sociali che lavorano nelle aree rurali di provenienza delle
famiglie), altre realtà territoriali (ad esempio le suore di Porta Palazzo che fanno educativa di
strada e laboratori pratici) che via via vengono utilizzate e coinvolte in alcune parti di progetto.
Per meglio definire l’obiettivo dell’intervento, è utile soffermarsi sulle caratteristiche del target
a cui esso è rivolto, così come viene descritto nelle interviste, a partire dall’inizio del progetto
fino ai cambiamenti più recenti. Target dell’intervento sono le famiglie immigrate di origine
magrebina (soprattutto marocchina, ma anche algerine, tunisine, egiziane), in particolare le
mogli/madri ricongiunte ai mariti immigrati in Italia
Direi per la maggior parte ricongiunte, cioè sono qui perché i mariti le hanno …cioè tutte le
sposate sono ricongiunte già da parecchi anni… i figli, in parte sono nati in Marocco, in parte
162
sono nati in Italia … per la maggior parte non lavorano… Diciamo che il nostro progetto è mirato a questa tipologia di famiglia.. quindi confluiscono a noi quelle donne che non hanno
spazio altrove, insomma (RT2).
Si tratta quindi di donne che presentano alcuni specifici elementi di fragilità ben individuati nel
corso delle interviste: donne arabe, provenienti dall’area rurale di Kourigba in Marocco (a cui
recentemente si è aggiunto come bacino di arrivo anche l’area di Casablanca e alcune aree rurali e desertiche dell’Egitto), in gran parte analfabete, sposate giovanissime a uomini molto più
anziani, con figli ancora piccoli da accudire (questo almeno all’inizio del progetto), ricongiunte
al marito immigrato già da diversi anni. In Italia si trovano a vivere in una situazione di grande
isolamento e solitudine sia in casa sia fuori casa
qual è l’ambito delle persone più sfortunate, a livello di immigrazione?... E fra le donne, quali
sono le più isolate? Le donne maghrebine. Per che motivo? Culturale, impegni familiari, non
lavorano, e quindi sono a casa, e quindi abbiamo organizzato il progetto sull’utenza, sul bisogno (RT2).
Le donne a cui è rivolto il progetto non lavorano e sono molto dipendenti nelle relazioni con
l’esterno dal marito. L’isolamento riguarda anche la rete etnica di appartenenza, descritta come poco supportiva e solidale al proprio interno (le donne/ le famiglie non si aiutano tra di loro e hanno relazioni molto superficiali) ma anche come fonte di controllo sociale
creiamo queste attività, proprio per creare questo senso di solidarietà, di confidenza, di apertura, e ci rendiamo conto che in realtà su questi aspetti culturali, proprio tra di loro, c’è questo aspetto di controllo sociale che impedisce loro … hanno paura dei pettegolezzi, …questo
succede anche tra gli uomini … il controllo è reciproco. Nella cultura islamica è tremendo
(RT2);
è importante sottolineare che la cosa che noi notiamo con grande dispiacere è che sono pochissimo solidali tra di loro, non si aiutano, neanche tra parenti. Ognuno vive nel suo nucleo
familiare e non fa uscire niente. Questo fa parte però della loro cultura, perché all’esterno
deve apparire tutto bello, tutto buono, che funziona tutto perfettamente, perché temono moltissimo l’invidia, il malocchio, queste cose qui … Questa è una barriera difficile da superare…perché si tratta proprio di scalzare una cosa che hanno profondamente radicata (RT3).
Viene al contempo evidenziata la fatica del coinvolgimento di tutto il gruppo familiare nel progetto, in particolare degli uomini, sia adulti (i mariti) sia adolescenti (i figli maschi)
I mariti non esistono … Non illudetevi, non verranno mai, ma neanche alle feste … vengono
ad accompagnarle alla iscrizione, osservano, controllano… e non li vediamo più. E anche il
racconto che le donne fanno dei loro mariti è sempre un racconto stereotipato, cioè è difficilissimo creare quello spazio di confidenza tale per cui la donna abbia il coraggio di dire in
gruppo; si arriva sempre troppo tardi alla relazione con il padre; noi arriviamo alla relazione
con il padre quando ha picchiato la moglie, la moglie ci ha rinunciato, è già una relazione
persa; i mariti assolutamente, no. È una cosa che abbiamo provato tante volte.. la nostra
mediatrice dice che i mariti non sono interessati a questa cosa. Non so, francamente non saprei dire se loro neanche lo dicono al marito, se i mariti effettivamente … però sono proprio
due mondi separati (RT1).
Rispetto al target, vengono individuati alcuni recenti elementi di cambiamento che richiederanno un adattamento del progetto. Tali cambiamenti sono legati alle zone di provenienza
(Casablanca, Egitto) e a livelli di scolarità più elevata dei soggetti immigrati, alla presenza di
163
nuclei in cui la donna è meno isolata e più disposta a interagire con l’ambiente in modo autonomo e competente.
Si studia, vediamo le criticità, cosa si può migliorare in questo progetto, cosa si può rinnovare, che bisogni hanno queste donne di oggi, a che punto siamo arrivati. C’è sempre rinnovamento del progetto, perché ieri avevano bisogno di aprirsi, di uscire di casa, ma adesso sono
fuori: ce ne sono tante fuori, ma cosa hanno bisogno? Perché adesso lavorano, hanno voglia
di imparare, di essere autonome, per i bisogni dei bambini … perché anche il marito è diverso da quello di ieri, la mentalità è diversa, hanno iniziato a far uscire queste donne (RT2).
Un altro cambiamento riguarda la crescente disoccupazione dei mariti marocchini in Italia, che
pone il nucleo familiare di fronte a sfide nuove (il rientro del nucleo nel paese di origine, la ricerca del lavoro da parte delle donne marocchine):
i mariti accompagnano le donne per l’iscrizione, e chiedono anche se c’è l’asilo per i bambini,
e questo non è mai stato … quest’anno è stato così: ha iniziato il marito a interessarsi per far
studiare sua moglie. E ultimamente ho visto un’associazione che viene per la consulenza di
lavoro, e vengono le donne e dicono: Mio marito non lavora più; io devo risvoltarmi le maniche! La crisi del lavoro sta cambiando tutto ..ultimamente vedo tante donne che vengono a
chiedere il lavoro…. E lavorano loro, questa non è mai stata la nostra cultura, che la moglie
lavorasse (RT3).
Il progetto realizzato dal 1999 è in realtà stato preceduto da una serie di azioni promosse dalla
responsabile del Meic relative sia alla formazione interculturale degli insegnanti (in particolare
sul tema del dialogo interreligioso) sia al sostegno delle coppie miste islamo-cristiane.
L’attenzione ad uno specifico mondo culturale (religioso, linguistico,) rimane quindi una costante di interesse e di lavoro che si ritrova anche nelle attività attuali del progetto rivolte a
sostenere i percorsi di ricongiungimento familiare e di integrazione sociale delle donne maghrebine immigrate. Gli interventi attuali sono modulati in base alle caratteristiche delle singole donne.
L’intervento, sostenuto da un impegno di progettazione partecipata che si dispiega a vari livelli
(tra i tre enti partner, tra questi e le realtà territoriali coinvolte, tra operatori italiani e le donne
immigrate, tra operatori italiani e operatori marocchini operanti in Marocco), privilegia alcune
scelte di metodo, e cioè: il graduale coinvolgimento delle donne immigrate nella realizzazione
e verifica degli interventi, la presenza e valorizzazione del ruolo delle “educatrici pari”, la formazione degli operatori in ottica interculturale, la mediazione transazionale, la valorizzazione
del ‘gruppo’ come strumento di lavoro. Il coinvolgimento delle donne avviene attraverso incontri di monitoraggio e di valutazione/cambiamento del progetto (come la proposta di introdurre spazi di città nel progetto in cui le donne diventano protagoniste di trasmissione di
competenze, organizzando e tenendo corsi sui dialetti arabi, sulle tradizioni culturali rivolti agli
operatori/volontari degli enti partner). Un’altra forma di coinvolgimento perseguita è relativa
al ruolo delle educatrici pari, ossia donne maghrebine che hanno fatto dei percorsi all’interno
del progetto e formazioni specifiche e arrivano a ricoprire un ruolo attivo volto a individuare
all’interno della comunità altre donne-madri da coinvolgere nei progetti.
In ottica transnazionale, ad una riflessione sul progetto e sulle sue nuove potenzialità hanno
contribuito recentemente due operatrici sociali che lavorano con le donne analfabete delle
zone rurali di Khouribga (area da cui proviene la maggior parte delle donne coinvolte nel progetto) invitate in Italia a partecipare a una serie di incontri con le donne immigrate
abbiamo chiesto loro di andare nei vari gruppi a parlare, compreso questo laboratorio dove
loro hanno parlato di educazione. Loro sono due donne moderne, non velate..., e si sono
164
stupite tantissimo che tutte le nostre siano quasi tutte velate: in Marocco non è così! Quindi il
Marocco sta camminando, queste arrivano qui e sono ferme, se non addirittura tornano indietro, e questo loro shock ha fatto si che i loro discorsi fossero: dai, ragazze, datevi una
mossa! Ci hanno aiutato ad individuare le leader fra di loro, in base alle loro intuizioni, e ci
hanno dato questi suggerimenti per i laboratori … Sono rimaste comunque molto colpite dal
lavoro che noi facciamo e ci hanno confermato, ci hanno dato soddisfazione da quel lato. E
questo gemellaggio continuerà di sicuro (RT2).
A tutti i livelli è presente un’attenzione e valorizzazione del “gruppo” (gruppo di operatori, di
donne immigrate, di educatrici pari..) e del lavoro di gruppo come strumento e contesto principale di lavoro
La principale risorsa è il gruppo di lavoro .. il gruppo di lavoro appassionato, formato, che ha
voglia di continuare a formarsi, molto legato, molto fiduciario (RT4)
Centrale nel progetto è l’attenzione alla relazione con l’altro, in primis con le donne immigrate
a cui gli interventi sono rivolti, ma anche la relazione tra enti e operatori. La relazione è descritta come fiduciaria, informale, condivisa ma anche attenta alla reciprocità dello scambio:
voglio che continui a restare un progetto dove il rapporto umano sia la prima cosa che bisogna creare, coltivare e salvaguardare. E questo richiede tutto un imprinting dato alle persone
che ci lavorano dentro, che ha bisogno di essere continuamente ricreato, tutelato, seguito …
perché altrimenti, se io pago solamente delle insegnanti bravissime a insegnar l’italiano ma
incapaci di creare rapporti di amicizia con le mie donne e incapaci di dirmi che cosa salta
fuori, non mi servono proprio a niente. Quindi, su questo io punto tantissimo e voglio che resti questa cosa qui, perché se no casca tutto. E questo è uno dei motivi che fa si che questo
progetto, di anno in anno, aumenti; che si crei questa rete, che è una rete appunto molto informale, di fiducia reciproca (RT1).
Qui si inserisce anche il tema del dialogo interculturale e interreligioso e una concezione dinamica delle culture intese come spazi di scambio e di negoziazione quotidiana
il corso di alfabetizzazione coinvolge le donne a livello relazionale e quindi la scusa
dell’insegnare l’italiano è poi il motivo, così, che innesta il processo appunto di creare relazione con le donne, cercare di entrare un po’ più in intimità, avere uno scambio e aiutarle un
po’ a venire fuori dall’isolamento;
passare da una fase in cui loro (le donne) sono solo utenti, fruitrici di un servizio, a essere di
più protagoniste. Per cui, quest’anno.. pensiamo di attivare una serie di laboratori in cui sono
loro che saranno protagoniste e passeranno delle informazioni a noi;
è una reciprocità priva di diffidenze, di pregiudizi, di rapporto tra le italiane ad esempio, che
frequentano il nostro centro per bambini e genitori, e le signore marocchine (RT5).
Il lavoro di sostegno e di emancipazione delle donne immigrate è accompagnato da
un’attenzione all’intero nucleo familiare, alla coppia coniugale-genitoriale e alle sue dinamiche,
nella consapevolezza della difficoltà di coinvolgimento dei mariti. Anima il progetto una prospettiva sociale a lungo termine, non centrata sul qui e ora
La progettualità sociale deve avere un obiettivo chiaro che è la visione di una città in sviluppo
e la visione di una società coesa, se no lo sviluppo non c’è. E cosa può fare coesione oggi? Coesione oggi la fai nella misura in cui hai sensibilizzato., nella misura in cui hai la gente che si
165
parla nelle lingue veicolari comprensibili… Poi tu devi dar fiducia alle donne, nel momento in
cui le prendi in carico, le segui (RT2).
4.6.3 VALUTAZIONE DELLA “BONTÀ” DELLA PRATICA
Dopo una ricognizione delle caratteristiche principali dell’intervento studiato, è possibile valutare con più precisione i caratteri che lo rendono una “buona pratica”.
Il progetto ha raggiunto da quando attivo un numero significativo di donne immigrate (circa
200 nel corso dell’ultimo anno di progetto) ed è capace di mantenere relazioni con esse nel
lungo periodo, coinvolgendo attivamente i destinatari e, in alcuni casi, la loro partecipazione
attiva alle iniziative. Il progetto rivela una buona congruità tra mezzi e obiettivi sia perché coordina e non disperde risorse sul territorio (esiste una collaborazione proficua con il territorio
e i suoi luoghi, una copertura territoriale coordinata e organizzata al fine di evitare dispendio
di risorse) sia perché attiva il coinvolgimento dei destinatari in modo numericamente rilevante
e la loro partecipazione attiva al progetto.
Pur non mancando una seria preoccupazione sulle pesanti difficoltà economiche attuali, il
progetto appare sostenibile nel tempo: è basato su fondi annuali (con programmazione triennale) già rinnovati da 7 anni, è finanziato da partnership esterne (Fondazioni, associazione) e
può attingere e utilizzare risorse pubbliche disponibili (personale delle biblioteche, insegnanti).
La riflessione sulla sostenibilità del progetto è in corso anche per quanto attiene alla possibilità di capitalizzare l’esperienza acquisita in questi anni e legata ad alcune figure carismatiche,
ma al momento non è ancora in grado di funzionare senza le persone che l’hanno avviato (in
termini di carisma, competenze..), anche se da un punto di vista metodologico le prassi appaiono ben consolidate e tali da essere assunte e interpretate. È stato compiuto uno sforzo di
proceduralizzazione e sistematizzazione delle prassi di lavoro
… è proceduralizzato; per ognuna delle fasi, degli step, ci abbiamo fatto cultura sopra… A me
va benissimo, lo spirito è che venga copiato, copiamolo però con intelligenza. In questi anni
noi siamo partiti da una zona, ne abbiamo aggiunta un’altra … poi una quarta, andiamo a
coprire 10 circoscrizioni, non mettiamoci fianco a fianco, perché non ha davvero senso, è uno
spreco di denaro pubblico (RT2).
Il progetto promuove l’empowerment dei destinatari a vari livelli:

incrementa le capacità delle famiglie di fronteggiare le difficoltà dell’integrazione familiare
e sociale in seguito al ricongiungimento, focalizzando una parte degli interventi su temi
quali il percorso migratorio familiare, l’esperienza del ricongiungimento, la relazione educativa genitori-figli, l’adolescenza dei figli, il confronto tra paese d’origine e nuovo contesto di
vita, al rapporto con i Servizi;

incrementa le conoscenze e le competenze delle donne (anche grazie all’attivazione recente di una rete transnazionale di operatori sociali che vengono dai luoghi di origine degli
immigrati:
“permette alle donne di qua di credere che anche il Marocco non è più come una volta (RT4);

riconosce e incrementa il ruolo familiare e sociale delle donne immigrate;

coinvolge le donne come protagoniste del progetto nel ruolo di “educatrici pari” rendendole figure ponte tra l’universo d’origine e nuovo contesto di vita
166
cerchiamo di sensibilizzare, ma questo non lo fanno le italiane, si aiuta le donne marocchine
a farlo loro stesse, cioè il concetto dell’educazione pari…, questa creazione delle figure ponte
vuole dire esser capaci di leggere la realtà da cui provengono, aiutarle a ri-decodificare la realtà in cui si sono ormai ben inserite, riuscendo a leggere i due passati e riuscendo ad andare
verso le donne che incontrano, forti delle due letture, perché non è automatico che uno solo
perché proviene da un paese capisca da dove proviene, cioè, c’è tutto un percorso da …ha significato aggiungere pezzi di metodologia e anche di obiettivi (RT2)

incrementa il capitale sociale degli enti coinvolti in partnership e del welfare sussidiario.
Viene nelle interviste evidenziata una cura costante negli anni della condivisione
dell’esperienza tra enti partner
È stato passo dopo passo, ma mai tenere per se l’acquisizione, ma sempre il ributtarlo anche
sull’altro partner, in modo tale che se ne facesse cosa, nel senso che il gruppo di lavoro è un
gruppo misto, e allora questi stimoli permettono, magari sull’anno successivo, di rilanciare
delle cose. Questo mi sembra importante”; “questo lavoro di dare-avere, di disseminazione
interna di risultati, di metodi, ha fatto si che ci si sia resi conto che il lavoro di prossimità è un
lavoro che funziona molto bene su tematiche più complesse (RT2);

l’impatto sul territorio è un impatto valutato come positivo,
perché la circolazione delle persone rende le persone più visibili, le rende meno estranee e
contribuisce a stemperare un po’ di pregiudizi… sicuramente il fatto di vivacizzare alcuni luoghi che sono frequentati in larga misura anche da italiani può aver favorito la volontà di annusarsi reciprocamente un po’ di più. Direi fondamentalmente questo. Ci sono poi ovviamente a seconda proprio del tessuto urbanistico delle varie zone, zone che hanno un’identità che
mantengono comunque, anche per il tessuto urbanistico, un’identità maggiore, e zone che
sono molto più frammentate (RT2)
Stavamo parlando dell’amore che si crea tra le insegnanti e le persone; hanno un metodo,
non so spiegarlo bene, comunque è un metodo molto efficace, è un metodo più che socievole:
diventiamo come una famiglia, una famiglia dentro la società, una famiglia grande più la
famiglia piccola che ciascuno di noi ha (RT5)
La modalità partecipativa coinvolge sia il livello di vertice della partnership che i livelli operativi
(collaborazione tra équipe, tra operatori del territorio). Le donne immigrate sono fortemente
coinvolte a livello operativo (nel ruolo di educatrici pari), anche se la formazione all’educazione
tra pari coinvolge un numero più contenuto di soggetti (attualmente le educatrici pari attive
sono 4 e vi è un altro gruppo in formazione). L’intervento di mediazione transnazionale realizzato da due operatrici sociali provenienti dal Marocco sembra andare nella stessa direzione di
stimolare la partecipazione e un ruolo più attivo e responsabile delle donne immigrate al progetto per renderlo sostenibile nel tempo
Penso che il gruppo degli insegnanti e delle mediatrici, ormai, un bel pezzo di percorso verso
l’autonomia l’abbia fatto. La presenza [della responsabile di Meic] è una presenza di cui quel
gruppo ha ancora bisogno; ma dato che siamo vecchie sicuramente dovranno esserci delle
nuove leve. Anche se, essendo proceduralizzato, gli step son tutti chiari, però c’è un anima
nella faccia ….Sicuramente dover individuare le nuove forze che possano entrare, apre una
riflessione [sul coinvolgimento delle pari]… dà loro forza aver bisogno di loro, questo dà loro
tutto un protagonismo che è un elemento importante (RT5)
Esiste una valutazione interna e informale del progetto, un monitoraggio condiviso delle prassi e dei bisogni; manca un processo di valutazione più formale
167
noi facciamo una valutazione interna che è pressoché costante, informale,… poi ci sentiamo
incessantemente. Una valutazione e poi anche un’autovalutazione di ciascuno rispetto al
progetto. Vale un po’ quello che ci dicevamo prima: la valutazione è fatta dal fatto che essendo in 3, ci sono sempre almeno 2 sguardi esterni sempre sull’attività del terzo. Questo incrocio è sistematico. Ci piacerebbe tanto un monitoraggio esterno….
In sintesi, il progetto è adeguato nel garantire il coinvolgimento di una partnership effettiva tra
soggetti pubblici e del terzo settore.
Il benessere relazionale della donna nel suo ruolo di cittadina e in quello familiare di quanto
moglie/madre è centrale. La relazione è strumento principe dell’intervento.
Introduce un valore aggiunto: lo strumento iniziale fondamentale della lingua (il corso di lingue) diviene opportunità di lavoro più ampia e articolata con le donne e le famiglie.
Introduce una consapevolezza di lavoro matura nel tempo e specificatamente rivolta a uno
specifico culturale e religioso e geografico.
4.6.4 LA “BUONA PRATICA” DALLA PARTE DI CHI LA VIVE: ANALISI DELLE INTERVISTE CON T-LAB
Per l’approfondimento dello studio della buona pratica “Torino la mia città” si è utilizzato il software T-LAB per il trattamento di testi. Per la descrizione dettagliata dello strumento si rimanda al capitolo del report complessivo, in cui è illustrato.
Le interviste somministrate ai responsabili e agli operatori coinvolti nel progetto hanno evidenziato alcune parole ricorrenti nei testi la cui analisi consente alcune riflessioni preliminari:
le parole più ricorrenti si riferiscono sia ai protagonisti del progetto e alla loro specificità (donna, persone, cultura, diverso, analfabeta, maghrebina, famiglia, marito) sia al tipo di azione/processo di aiuto immaginato (imparare, iniziare, insegnante, insegnare, formazione, corso,
libro, lavoro, lavorare, capacità).
Tra i lemmi ricorrenti, ne sono stati ulteriormente approfonditi alcuni (e cioè quelli di “famiglia”
e “progetto”) attraverso l’analisi delle co-occorrenze che ha consentito di cogliere le correlazioni
semantiche intorno all’uso di tali termini. In queste analisi si è proceduto aggregando le verbalizzazioni dei responsabili e degli operatori.
168
Figura 2 – Associazioni con il termine “famiglia” nelle risposte dei responsabili e
degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
La figura 2 mostra le co-occorrenze relative al lemma “famiglia” e il campo semantico che emerge dagli intervistati. Una prima connessione semantica (relazione, relazionale, verso, capire,
servizi) richiama la centralità della qualità della relazione come dimensione fondamentale di
lavoro che vede strettamente implicati famiglia e Servizi. Accanto a ciò, risaltano sia alcuni obiettivi principali del progetto (capacità, riuscire, libretto, scheda, pratica) che vanno nella direzione di sostenere l’empowerment dei partecipanti (in particolare le donne) sia alcune caratteristiche dei destinatari principali (bisogno, analfabeta, magrebina).
169
Figura 3 – Associazioni con il termine “progetto” nelle risposte dei responsabili e
degli operatori alla domanda sulla Buona Pratica
Molti dei termini associati alla parola famiglia sono presenti anche nella mappa semantica della parola ‘progetto’ (Figura 3) in cui è possibile riconoscere il riferimento ai protagonisti
dell’esperienza e alle loro caratteristiche (donna, maghrebina, casa, cultura), agli obiettivi di
emancipazione/empowerment femminile (lavorare, insegnare, capacità), alle strategie implicate
(gruppo).
170
5. NUOVE STRADE PER L’ASSOCIAZIONISMO FAMILIARE
a cura di Elisabetta Carrà
La pluralizzazione del welfare e l’attuazione del principio di sussidiarietà non può essere completa se non viene realizzata una piena valorizzazione della soggettività delle famiglie. Come
sta diventando sempre più evidente, la possibilità che le famiglie esprimano tale soggettività
risulta decisamente più elevata laddove si mettono in rete, si auto-organizzano in reti a gradi
diversi di formalizzazione, per rispondere in modo flessibile e personalizzato ai propri bisogni
o per far sentire in modo più deciso ed efficace la propria voce nella programmazione delle
politiche pubbliche. Così l’associazionismo familiare emerge come un soggetto sempre più rilevante sullo scenario societario. Risulta in questo senso particolarmente interessante indagare quale ruolo rivesta quando il bisogno familiare a cui rispondere si manifesta come potenzialmente o effettivamente molto rischioso per la stessa coesione della famiglia. I tre ambiti
studiati hanno chiaramente mostrato come far leva sulla famiglia come risorsa si può rilevare
una strategia molto efficace per ricostruire “legami”, per riannodare un tessuto relazionale sfilacciato, per restituire fiducia e stimolare alla cooperazione reciproca. In altre parole, per rigenerare il capitale sociale.
La specificità dell’associazionismo familiare risiede – com’è noto – nel combinare una pluralità
di dimensioni, dando luogo ad un fenomeno unico, anche se molto sfaccettato (Carrà, 2009).
Infatti, esiste un range piuttosto ampio di tipologie che in qualche modo si richiamano ad una
matrice familiare. Si potrebbe dire che, a partire da un nucleo centrale in cui troviamo reti di
famiglie che hanno in comune un problema e lo affrontano attraverso strategie di automutuo-aiuto, si collocano nell’universo dell’associazionismo familiare anche organizzazioni i
cui sono solo individui e non famiglie, ma che hanno nella loro mission uno specifico interesse
per la promozione della famiglia, oppure reti di famiglie che non si strutturano come gruppi di
self-help, ma indirizzano verso altri la propria azione, e via dicendo. In ogni caso, quello che
oggi è evidente è la notevole proliferazione di associazioni familiari, che danno vita ad esperienze molto innovative, a partire dalla convinzione che rafforzare la relazione familiare, anche
quando ciò appare del tutto improbabile, sia la strada migliore.
Per quantificare il fenomeno dell’associazionismo familiare in Italia possiamo basarci solo su
dati parziali, ma che danno l’idea della diffusione capillare di forme diversificate di legami tra
le famiglie. In particolare, a dimostrare l’estensione della presenza delle associazioni familiari
in Italia è l’esistenza e lo sviluppo Forum delle associazioni familiari. Quest’ultimo è
un’associazione di associazioni familiari sorto ufficialmente quindici anni fa (nel 1993) e trasformatosi in associazione sociale nel 1999. Ha avuto all’inizio l’obiettivo di valorizzare la natura comune di tante e diversificate esperienze che si definivano come associazioni familiari.
Successivamente si è posto come interlocutore delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, nel rivendicare i diritti delle famiglie, potendo contare su una maggiore autorevolezza rispetto alle singole associazioni. Nell’ultimo Statuto che il Forum si è dato, si definisce “associazione di associazioni”, aspirando ad una funzione reticolare di livello più elevato rispetto a
quella iniziale di semplice coordinamento, che tuttavia non ha assunto ancora confini ben definiti. Si tratta in realtà di un’associazione di terzo livello, che lega organismi che sono già associazioni di associazioni, rilevanti a livello nazionale, e che ha un’organizzazione molto composita. Da una parte il Forum mantiene la struttura originaria di “coordinamento” di un certo numero di associazioni di rilevanza nazionale (50) che si riconoscono nelle sue istanze, dall’altra
parte ha via via assunto una struttura piramidale, o meglio, a cerchi concentrici attraverso la
quale arriva localmente a mettere in rete, attraverso centri di collegamento periferici (20 comitati regionali e 39 provinciali), circa 400 associazioni, che a propria volta possono essere legate
171
ad altre reti associative di livello superiore e quindi afferire attraverso altra via al Forum nazionale. Tale complessa struttura organizzativa mette in evidenza la capillare e multiforme
presenza dell’associazionismo familiare sul territorio italiano. In realtà, non è sufficiente guardare al “Forum delle associazioni familiari” per quantificare il fenomeno dell’associazionismo
familiare in Italia: infatti, in questo modo contiamo “solo” poco meno di mezzo migliaio di organismi. Che si tratti di un dato molto riduttivo lo si desume immediatamente, considerando
che il registro lombardo delle associazioni di solidarietà familiare annoverava al 31 dicembre
2009 ben 698 unità. Un’altra fonte informativa è costituita da una ricerca svolta dalla scrivente
nel 2005 nel territorio della bassa padovana e del veronese, in Veneto, che ha portato alla luce
124 tra gruppi di famiglie e vere proprie associazioni familiari. Dal 2008, inoltre, anche il comune di Roma ha istituito un registro delle associazioni familiari a cui si sono iscritte 88 organizzazioni.
È noto che la Lombardia, attraverso la l.r. 23/99, ha dato un notevole impulso alla costituzione
di organizzazioni di terzo settore con matrice familiare (Carrà, 2003), ma resta il fatto che la
tendenza delle famiglie a mettersi in rete per rispondere meglio ai propri bisogni sta diventando una “malattia” molto contagiosa e, laddove, da parte delle istituzione pubbliche viene
messa in atto una chiara azione promozionale, laddove viene accesa la miccia, attraverso finanziamenti alle famiglie che decidono di auto-organizzarsi per risolvere i piccoli o grandi
problemi quotidiani, il fenomeno assume in poco tempo proporzioni notevoli. A dire che le
famiglie ci sono, anche se i dati sulle separazioni e i divorzi, sui provvedimenti di allontanamento dei minori, quindi i segnali di indebolimento e frammentazione sono in continua crescita. “Sempre più soli… sempre più insieme” titolava un volume del 1995, scritto da Giovanna
Rossi, direttore scientifico della presente ricerca: era una delle prime voci che si sollevava a dire che, mentre la famiglia sembra destinata ad estinguersi, rinasce dalle sue ceneri, come
un’araba fenice, dando vita ad un trend paradossale e sempre più paradossale, di disfacimento e generatività, di legami che si spezzano, mentre reti si annodano.
È dunque molto difficile selezionare un ambito di approfondimento, tanto è esteso e variegato
il fenomeno, anche se è molto interessante monitorarne l’evoluzione, perché una fotografia
dell’associazionismo familiare è anche una fotografia dei bisogni attuali delle famiglie. Le ultime ricerche suggeriscono che le aree di intervento sono molto numerose e variegate, con una
netta prevalenza solo per l’advocacy, intesa come difesa dei diritti. Più diffuse sono le attività a
carattere formativo o ricreativo, sia per adulti che per minori. Ma al di là di ogni altra considerazione più analitica, è rilevante la netta preponderanza di ambiti relativi alla cosiddetta “normalità”, ovvero ai bisogni che le famiglie incontrano nell’affrontare le fatiche quotidiane e legati soprattutto alle transizioni cruciali del ciclo di vita familiare. Tra l’altro, a conferma di questo
dato, le indagini rilevano che le famiglie coinvolte in queste esperienze sono prevalentemente
quelle con bambini piccoli e adolescenti/giovani, che cioè attraversano periodi sì critici, ma
non “patologici”. D’altro canto, non si può dimenticare che un’altro rilevante campo d’azione è
quello relativo alla presenza di un membro disabile, che ha tradizionalmente costituito una
forte spinta delle famiglie in questa situazione a cercare di condividere il problema. Così come
l’adozione e l’affido sono scelte che implicano di affrontare problematiche che in modo quasi
naturale chiedono aggregazione. A parte queste esperienze molto consolidate, il tratto che caratterizza in modo sempre più specifico l’associazionismo familiare è quello di non si limitarsi
ad affiancare la famiglia nei momenti più critici, nelle situazioni di emergenza, ma ad accompagnarle nella quotidianità.
A partire da questo quadro, si è scelto di raccontare l’esperienza di alcune associazioni familiari che mostrano con evidenza i vantaggi che derivano dal far leva sulla risorsa-famiglia per affrontare in modo innovativo problemi a cui con molta difficoltà si riesce oggi a dare una rispo-
172
sta di tipo “familiare”. Gli ambiti d’intervento sono attinenti ad alcune delle aree oggetto
d’indagine nel presente report.
Sono state prese in considerazione:

le Associazioni “Mamme Separate” di Como e “Papà separati” di Milano;

due comunità familiari che accolgono minori allontanati dalla propria famiglia, “Radici e Ali”
di Fino Mornasco (Co) e “Il condominio solidale” di Bruzzano.
Per ciascuna associazione è stato intervistato il responsabile e i testi delle interviste sono stati
sottoposti all’analisi del contenuto carta e penna illustrata nel capitolo metodologico di questo
report. Si tratta dunque di un piccolo approfondimento, che ha la funzione, nell’ambito
dell’articolato progetto di ricerca qui presentato, di mettere a fuoco in modo particolare, quelle esperienze in cui si crea un legame forte tra famiglie e da tale legame scaturisce la risposta
a problemi che attraverso la famiglia riescono ad essere risolti in modo veramente efficace.
5.1. LE ASSOCIAZIONI FAMILIARI DI GENITORI SEPARATI
Le famiglie sempre più frequentemente s’imbattono in una circostanza che ormai non può essere più considerata un evento eccezionale, come risulta anche dai dati presentati negli studi
di caso sui Gruppi di parola. Si tratta della separazione connessa alla genitorialità: l’essere genitori separati ha spinto un numero rilevante di persone, sia madri che padri, a dar vita ad esperienze associative che a pieno titolo possono avanzare il diritto di essere inscritte nell’alveo
dell’associazionismo familiare.
Nel panorama delle realtà che si occupano della tematica della separazione presentano una
significativa rilevanza per storia e attività le Associazioni dei Papà separati che, oltre a garantire un supporto alle persone separate, riservano una particolare attenzione alla tutela dei figli
minori e alla difesa dei loro diritti. È su questa associazione che è caduta la nostra scelta, soprattutto perché traspare in modo evidente, anche dalla stessa presentazione nel sito
internet,
[…] È di fondamentale importanza quindi che nella separazione non ci siano genitori di serie
A e di serie B, ma si sviluppi un rapporto di collaborazione e di dialogo fra i genitori separati
in funzione dell’interesse dei figli, poiché lo sviluppo di un clima di rapporto pacato è essenziale per la loro serenità.
Sulla base di questi principi – che sono definiti nello Statuto – l’Associazione, si è costituita a
Milano e a Napoli e si è diffusa in tutta Italia in un momento particolarmente importante per
la storia del costume e del diritto di famiglia nella nostra nazione, un momento di trasformazione
segnato
dall'approvazione
della
legge
sull'affido
condiviso(54/06).[…]
(http://lnx.papaseparati.org/psitalia/chi-siamo.html)
una forte intenzionalità pro-familiare, che si tiene lontana dai toni rivendicativi e aggressivi di
altre esperienze, ben rappresentate dalle immagini tratte dal sito dell’analoga – ma nel contempo molto differente – Associazione dei Padri separati (www.padriseparati.it). In questo caso, sarebbe piuttosto forzato
173
http://www.padriseparati.it/sett/aa18.html
La prima esperienza nasce a Rimini, successivamente a Napoli e poi a Milano fino ad assistere
a un importante diffusione sul territorio nazionale (Torino, Vercelli, Novara, Roma, Bari, Catania…) dove troviamo circa una trentina di associazioni che si sono successivamente costituite
in un’associazione nazionale (ANPS) e dotate di un portale (www.papaseparati.org). Nel 1998
nasce a Milano l’associazione Famiglie separate cristiane per valorizzare la dimensione spirituale della separazione e per poter continuare a manifestare la propria appartenenza alla
Chiesa nonostante la condizione di separati.
In questo scenario, è inoltre significativa l’opera svolta dall’associazione Madri separate, nata
nel 1999 a Como, ma impegnata a livello nazionale, che in un’ottica di stretta collaborazione
con le associazioni dei padri separati, si è fatta portavoce delle istanze delle mamme a partire,
anche in questo caso, dai bisogni dei figli.
Vediamo attraverso l’analisi di due interviste ai fondatori delle Associazioni Papà separati e
Mamme separate le caratteristiche salienti di queste esperienze piuttosto recenti.
5.1.1 L’ASSOCIAZIONE PAPÀ SEPARATI
di Francesca Maci
L’associazione Papà Separati nasce a Milano da un gruppo di persone che si erano appena separate e che per affrontare questo evento hanno deciso di mettersi insieme per sostenersi vicendevolmente e poi aprirsi all’aiuto di coloro che vivevano la medesima esperienza [1]. È
un’associazione è laica e la sua finalità prima è la tutela dei figli nella separazione attraverso la
promozione di una buona genitorialità che si sostanzia nella bi-genitorialità [6]. Vuole proteggere il legame genitore-figlio; dove non si riesce a tutelare la co-genitorialità è importante provare almeno a tutelare la bi-genitorialità [1] [6].
174
L’associazione si chiama “Associazione per i papà separati, per la tutela dei diritti dei figli nella separazione”. Diritti vuol dire che, anche se separati, i genitori devono continuare a fare i
genitori.
Ha diverse sedi sul territorio milanese che offrono supporto ai separati in varie forme. Viene
svolta un’attività di prima accoglienza, sostegno, anche telefonico, gruppi di auto mutuo aiuto,
consulenze legali, psicologiche. Le attività sono offerte da persone separate con esperienza e
non da professionisti. I gruppi di auto/mutuo aiuto si incontrano regolarmente il lunedì di ogni
settimana. I numeri dei partecipanti variano dalle 3 alle 20 persone e sono facilitati da due
persone separate [2].
Non sono previste attività particolari per i ragazzi e non ci sono gruppi di parola.
L’associazione sta pensando a progetti per il sostegno di nonni e figli in qualità di soggetti
coinvolti nella separazione [7].
Non hanno attività di mediazione familiare. Credono nella proposta di Retrouvaille che consiste in un percorso offerto a coniugi in crisi per tentare di trovare una strada per continuare il
loro cammino coniugale. È una proposta di confronto in gruppo offerta da persone che ha loro volta hanno vissuto un’esperienza di crisi [2]. Accanto a queste attività più specifiche
l’Associazione svolge attività di advocacy per il riconoscimento dei diritti dei separati e informativa attraverso seminari e convegni [2].
Posso fare un elenco delle attività: momento di accoglienza, nelle varie sedi, che avviene anche all’interno di incontri di auto-mutuo aiuto; telefono SOS (4/5 persone); portare avanti delle proposte di legge (cita ad es. il garantire che anche a scuola i genitori abbiano gli stessi diritti); l’accordo di separazione, una sorta di canovaccio; una casa a Rho, con 15 posti di letto
per padri che hanno figli minorenni[vedi box], si separano e vengono sbattuti fuori di casa e
non sanno dove andare a dormire, dormono in macchina; manifestazioni; convegni. Non c’è
un vero e proprio intervento tipo: nei confronti degli utenti viene data disponibilità 24/24h, se
hanno bisogno di notte possono contattarci anche di notte.
I separati nell’Associazione possono trovare appartenenza: la parola chiave è “ascolto”, accoglienza del’altro nei tempi e nei modi ritenuti più opportuni [3].
L’associazione Papà Separati è composta da cinque/sei volontari, da due persone fisse e dal
Consiglio direttivo; al suo interno non c’è una gerarchia rigida ma spirito di collaborazione.
Ognuno svolge un’attività definita per il buon funzionamento dell’Associazione [1].
Sono in atto collaborazioni con altre associazioni dello stesso tipo che nascono da questa esperienza, ma sono autonome al loro interno. Sono circa una sessantina (Napoli, Torino, Genova…). Esiste una fattiva collaborazione con l’Associazione mamme separate e con
l’associazione Famiglie Separate Cristiane, nata nel 1998 per rispondere alle esigenze spirituali
dei separati credenti [4]. Uno degli obiettivi perseguiti in particolare da quest’ultima Associazione è sensibilizzare l’opinione pubblica e la Chiesa circa i costi sociali della separazione [5].
Queste associazioni che si occupano del tema della separazione sono riunite in
un’associazione di associazioni che si chiama Adiantum [vedi box].
È in essere una collaborazione con Enti pubblici come i Comuni e le Province. Con i servizi sociali non c’è una collaborazione organica, ma al bisogno inviano all’associazione Papà Separati.
Per quanto riguarda la relazione con l’esterno c’è un legame anche con i quartieri dove le diverse sedi dell’associazione sono dislocate. È stato fatto un tentativo di collaborazione con la
scuola, che potrebbe per esempio essere una buona realtà per i gruppi di parola dei ragazzi,
che però non è andato buon fine. Sono aperte anche delle collaborazioni con alcune Fondazioni per il finanziamento di progetti. L’Associazione collabora con il Forum delle associazioni
175
familiari, più con quello nazionale che con quello regionale. I rapporti dell’Associazione con
l’esterno si distinguono in contatti a livello di conoscenza e in collaborazioni vere e proprie [4].
Bisogna distinguere tra “lavorare in rete” e “essere in rete”. Quando sono in rete cerco di conoscere un po’ tutte le realtà che ci sono, per cui allarghi le tue conoscenze, cooperative, altri
gruppi di auto-mutuo aiuto. Penso che conoscersi sia importante e significhi “essere in rete”.
Recuperare informazioni che, al bisogno, si possono dare. Diamo indicazioni… Si è in rete e,
all’occorrenza, si fa rete.
L’aspetto dei legami con altre realtà viene ritenuto importante perché le persone separata
hanno la necessità di uscire dall’isolamento [6].
La casa dei papà separati
Il progetto, che si pone la finalità di rispondere all’emergenza abitativa in cui si trovano molti
padri separati, è frutto della collaborazione fra la Provincia di Milano, l’associazione Papà Separati e l’ordine degli Oblati Missionari.
Presso la struttura del Collegio Padri Oblati Missionari di Rho sono a disposizione di padri separati 15 camere il cui costo giornaliero è in parte coperta dalla Provincia di Milano. Accanto a
questa prima temporanea risposta viene offerto un supporto alla genitorialità e laddove necessario, un accompagnamento al lavoro.
(www.provincia.milano.it/sociale; www.famiglieseparatecristiane.it)
Aree tematiche
[1] L’Associazione nasce dall’auto/mutuo aiuto
[2] L’Associazione offre sostegni e appartenenza
[3] Le parole chiave: accoglienza e ascolto
[4] Le relazioni all’esterno:essere e fare rete
[5] I costi sociali della separazione: informare e sensibilizzare
[6] Tutelare i legami e la bi-genitorialità
[7] I progetti in cantiere
Analisi delle co-correnze
[1] [6] L'associazione nasce da un movimento spontaneo di auto/mutuo aiuto e si pone come
obiettivo quello di tutelare i diritti dei figli nelle situazioni di separazione, tra cui in primis l'accesso ad entrambe le figure genitoriali che devono essere accompagnate ad esercitare una bi-genitorialità.
176
Grafico e sintesi
Le relazioni
all’esterno:essere
e fare rete [4]
L’Associazione nasce
dall’auto/mutuo aiuto
[1]
Parole chiave: ascolto e accoglienza [6]
I progetti in cantiere [7]
L’Associazione offre sostegni e appartenenza [4]
I costi sociali della separazione: informare e sensibilizzare [5]
Obiettivo: tutela dei
diritti dei figli, bigenitorialità [6]
L’Associazione nasce da un movimento di auto/mutuo aiuto tra persone separate desiderose
di sostenersi reciprocamente. Questa esperienza si apre all’esterno e l’aiuto viene rivolto ad
altri separati che necessitano di un supporto [1]. L’obiettivo perseguito dall’Associazione, oltre
al sostegno alle persone separate, è di tutelare i diritti dei figli nella separazione ed in particolare la bi-genitorialità [6]. L’Associazione si anima attorno alle parole chiave: ascolto e accoglienza delle persone separate [3]. Al suo interno vengono svolte diverse attività di sostegno
rivolte ai separati per aiutarli ad affrontare le difficoltà legate alla separazione;
nell’associazione si può trovare appartenenza [2]. Sono in cantiere nuovi progetti rivolti ai figli
e ai nonni direttamente coinvolti nelle separazioni [7]. Tra le priorità emerge la necessità di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni circa i costi sociali della separazione
[5]. L’associazione interagisce con l’esterno, con altre associazioni di separati, con gli enti locali
distinguendo la percezione di sentirsi in rete dall’effettiva possibilità di lavorare “facendo” rete
[4].
5.1.2 L’ASSOCIAZIONE MAMME SEPARATE
di Francesca Maci
L’associazione Mamme separate nata nel 1999 trae origine dalla personale esperienza di separazione dell’intervistata, presidentessa dell’Associazione [4].
L’esperienza della separazione determina, infatti, cambiamenti importanti che creano disagio
nella gestione familiare a vari livelli: economico, lavorativo, organizzativo e della cura dei figli.
Ci si sente soli con molti impegni da gestire e con il peso della fatica del “doversela cavare”
senza poter contare su nessuno, anche in quei momenti in cui si ha la sensazione di non
farcela [1].
Ad un certo punto, quando si inizia a realizzare che è difficile affrontare questa situazione da
soli, la condivisione dei propri problemi con altre persone per tentare di costruire un percorso
177
di aiuto che favorisca un maggior benessere personale e per i propri figli, è la risposta che si
cerca alle difficoltà [2].
Io mi sono mossa su vari livelli come se la mia separazione avesse provocato in me una bottiglia di olio che si rompe che quindi l’olio si fluidifica dove tu non puoi neanche contenere
[…] effettivamente io non sono stata ferma
Nel caso dell’intervistata, la sofferenza dei suoi figli è stato il motore che ha dato avvio questa
impresa significativa. La presa di coscienza del fatto che la separazione avesse influito sulla
sua capacità di prendersi cura dei suoi figli l’ha spinta a chiedere aiuto.
Una persona separata cattolica, inoltre, trova difficoltà anche rispetto al rapporto con la Chiesa e alla partecipazione alla vita della Parrocchia [3].
Ho cominciato a percepire la mia prima inefficienza, la mia prima debolezza come persona
praticamente al contesto oratoriano della Chiesa […] il fatto che io avessi dovuto cominciare
a dire non siamo più in due ma sono sola e che non potevo più continuare a partecipare a
fare le stesse cose quindi già questa è stata la mia privazione… di quello che eravamo abituati a fare in coppia.
Per i separati cristiani è importante avere un supporto da parte della Chiesa e degli altri fedeli
nell’affrontare la loro difficile esperienza [1][3] [4]. Il gruppo di preghiera organizzato in parrocchia a sostegno dei fedeli separati, nel quale si riunivano alcuni separati, ma anche altre
persone che non avevano avuto tale esperienza, ha rappresentato un supporto che però non
si è rivelato sufficiente, perché dallo scambio emergeva che tutti i partecipanti non avevano la
stesso problema [2] [3] [4].
E quindi abbiamo cominciato a organizzare un incontro una volta la mese in un contesto di
parrocchia […]Era chiaro che l’esperienza che la diocesi voleva mettere in campo non era
quella dell’assistenza psicologica, legale, di ricreazione di separati […] Quindi andare ad affrontare diciamo così questa esperienza attraverso la lettura del vangelo ci stava un pochino
stretta a noi.
Questa sensazione di insoddisfazione ha fatto emergere il bisogno di conoscere altre mamme
con le stesse difficoltà e di incontrarsi regolarmente per confrontarsi in uno spazio diverso da
quello del gruppo di preghiera dove i bisogni esposti erano i più disparati [2] [3] [4]. Il gruppo
di preghiera è stata, comunque, un’occasione d’incontro. Nel corso di uno di questi incontri,
per esempio, la presidentessa dell’Associazione ha incontrato il fondatore dell’associazione
Papà Separati [6].
Dagli incontri periodici e regolari, durati circa quattro cinque mesi, fra queste mamme è nata
l’Associazione [4][1][2].
L’Associazione è nata proprio in maniera spontanea fatta da queste nove mamme che ci
siamo incontrate per quattro cinque mesi dove avevamo cominciato a fare un elenco di tutte
le “sfigate” che avevamo affrontato […] allora praticamente io sono diventata il punto di riferimento di tutte queste problematiche.
La spinta è arrivata dalla necessità di questo gruppo di donne di dotarsi di un carattere formale per essere riconosciuto come realtà operante e avere delle risposte concrete dagli enti
pubblici – come per esempio dalla Provincia – alle proprie istanze doveva avere un carattere
formale.
178
Siamo andate da questo Assessore che ci ha detto “sì va beh ho capito i vostri problemi ma
voi siete costituite in associazione?”. Noi non sapevamo neanche cosa fosse un’associazione.
Allora noi siamo andate al successivo incontro con queste mamme e abbiamo detto “sì va
beh allora cosa facciamo visto che vogliamo reclamare i nostri diritti costituiamoci in associazione”.
L’Associazione con la sua nascita si è posta la finalità di trovare una risposta a quelle difficoltà
emerse dal confronto fra il gruppo di mamme [4].
L’associazione delle Mamme Separate fin dall’inizio ha instaurato un’importante collaborazione con quella già esistente dei Padri Separati [6]. I presidenti delle due Associazioni si sono incontrati molte volte per confrontarsi e hanno delineato una strategia comune: dove c’era uno
c’era anche l’altro [6] [2] [4]. Il concetto che si voleva affermare era quello che padri e madri
deponessero le armi per tutelare i figli per assumersi la reciproca responsabilità di una bigenitorialità nonostante il venire meno della dimensione di coppia [8].
Avevo visto che le richieste dei padri erano l’altra metà delle richieste della madre.
L’Associazione si è fatta conoscere sul giornale e tramite un volantino molto semplice. Sono
arrivate molte persone separate a chiedere supporto. Il prete della nuova parrocchia, del
quartiere dove l’intervistata e i figli si erano trasferiti in seguito alla separazione, ha dato la disponibilità di spazi perché i gruppi si potessero incontrare [5].
Nel tempo i gruppi hanno avuto un’evoluzione: da esperienza spontanea è diventata maggiormente consapevole. La presidente ha deciso di fare un corso di facilitatrice perché si sentiva la responsabilità morale delle persone che vi partecipavano e dell’aiuto a loro offerto [5].
Dopo l’esperienza dei gruppi di auto mutuo aiuto si è sentita l’esigenza di ampliare le attività
dell’Associazione [7]. Sono nati gli sportelli di ascolto in spazi gratuiti avvalendosi della collaborazione di professionisti volontari con l’obiettivo di rispondere ai bisogni delle persone separate senza eccessivi esborsi economici. L’Associazione, che a sede a Como, ha tre centri dove
operano avvocati, psicologi, mediatori per offrire supporto e accompagnamento ai separati
nel loro percorso e nel rapporto con i servizi pubblici. Collaborano con altre associazioni e lavorano per un cambiamento culturale che contrasti la deresponsabilizzazione dei padri e delle
madri nella separazione i sfavore dei figli [4].
Siamo andate alla ricerca di spazi gratuiti per promuovere un modello operativo che mi ero
inventata per sottrarre business perché tutti eravamo portatori di lunghe parcelle per separazioni e divorzi..abbiamo arredato una sede operativa e inserito nei giornali la ricerca di avvocati volenterosi, psicologi, poi mediatori, tutti portavano un sapere esperienziale che andava verso il nostro progetto: aiutare i genitori a riscoprire il loro ruolo per il bene dei figli oppure essere punto di riferimento e fare da tramite tra disagio famiglia e istituzioni (Servizi Sociali, Tribunali,..).
L’Associazione lavora anche nell’ambito della prevenzione per sostenere le coppie nelle crisi
matrimoniali ed evitare le separazioni. A tal proposito cita l’esperienza cattolica Retrouvaille
[vedi box], a cui l’associazione indirizza coppie disponibili ad affrontare la crisi matrimoniale,
per tentare di affrontare le difficoltà relazionali presenti o per chiudere il loro rapporto in un
clima sereno [6].
Quando una coppia è in crisi è possibile aiutarla, ma bisogna lavorare in rete in quanto da soli
non si può fare nulla. Inoltre, l’Associazione svolge attività di advocacy nei confronti delle istituzioni pubbliche e della Chiesa perché vengano tenuti in considerazione i diritti dei separati,
perché ci sia posto per loro e non si sentano isolati.
179
In particolare l’Associazione, nella persona della presidente, è impegnata in attività di formazione rivolta ai laici impegnati nella comunità pastorale e ai sacerdoti, affinché i separati non
siano giudicati, ma accolti nella loro sofferenza [5].
L’Associazione ha una trama fitta di relazioni [6] collabora con i servizi del territorio, fa parte
del Forum regionale delle associazioni familiari, è iscritta al registro delle associazioni di solidarietà familiare della regione Lombardia, fa parte dell’associazione di associazioni di separati
Adiantum [vedi box] interessata a occuparsi della tutela dei diritti dei minori figli di separati. Ha
un rapporto di collaborazione con la Parrocchia, con le associazioni del territorio, come l’Ama
e l’associazione Cometa e con altre realtà.
Il partenariato è di vitale importanza, bisogna creare la rete perché lavoriamo quotidianamente assieme. […] Siamo iscritti all’associazione delle pari opportunità, abbiamo partecipato alla conferenza nazionale sulla famiglia, partecipo alla commissione infanzia per valorizzare la sofferenza di figlie genitori
L’Associazione offre attività strutturate alle persone che stanno affrontando una separazione
o stanno vivendo una crisi matrimoniale [7]. L’accoglienza delle persone avviene attraverso
uno sportello di ascolto per una prima conoscenza della situazione. Nel caso in cui la problematica esposta presenti una reale attinenza con i temi della separazione e del divorzio, aspetti
specifici di cui l’Associazione si vuole occupare, viene fissato, come scelta metodologica, un
primo colloquio con l’intervistata. La finalità prima i questo colloquio è quella di comprendere
se c’è uno spazio di recupero all’interno della coppia; la separazione e il successivo percorso
da intraprendere vengono presi in considerazione solo successivamente
L’Associazione fa molti progetti concreti con le scuole, con genitori per aiutare i figli, per sostenere padri e madri nella loro relazione con i figli, sia insieme come coppia genitoriale sia
singolarmente per evitare di trascurare i bambini e ragazzi dal punto di vista educativo e affettivo e di farli diventare alleati o dell’uno o dell’altro [7].
[…] Io ho lavorato su molti progetti di dispersione scolastica o sui disagi dei figli di genitori
separati, non per ghettizzare loro ma per responsabilizzare i genitori…collaboriamo con le
scuole, nelle scuole superiori abbiamo costruito un sito partendo anche dai diritti
dell’infanzia e da lì far ragionare “diritti per chi e di chi?”[…]Un altro progetto finanziato dalla
L.R. 23/99 “Genitori non si nasce ma si diventa”: il padre e la madre devono essere in prima
linea sui bisogni dei figli, formare i genitori, cosa bisogna fare quando i genitori si separano,
ci deve essere un’equa distribuzione dei beni di uno e dell’altro, abbiamo aiutato con i nostri
volontari ad arredare la casa di padre separati a misura di bambino, insegnare ai papà a
cucinare, come congelare.[…] Ultimo progetto “Ricomincio da me rispecchiandomi in te” […]
lavorare sui sentimenti..anche aiutati dai nostri psicologi o avvocati, lavorare sui sentimenti e
i bisogni degli adulti che non è per forza l’esigenza di avere un partner ma ragionare per esempio sulla sessualità […] indirizzare la corretta comunicazione “cosa dire ai figli, come dirlo” […]
Dal punto di vista dell’Associazione i gruppi di parola sono un supporto molto utile perché il
bambino ha uno spazio in cui comunicare come sta e cosa prova. In passato hanno avuto un
gruppo di figli di genitori separati che ora gestisce il consultorio di Como.
La buona pratica nella separazione è quella di garantire la bi-genitorialità che entrambi i genitori rispondano della responsabilità della separazione e si impegnino nella cura dei propri figli
[8].
Salvaguardiamo il principio della responsabilità condivisa. Educare in due si educa meglio.
180
Retrouvaille, dal francese ritrovarsi, è un servizio esperienziale di orientamento cattolico offerto a coppie sposate o conviventi con figli che soffrono gravi problemi di relazione, che sono
in procinto di separarsi o già separate o divorziate, intenzionate a ricostruire la loro relazione
lavorando insieme per far fronte alla crisi del loro matrimonio.
Il programma proposto è costituito da un weekend in diverse regioni ed un post-weekend, che
prevede incontri in gruppo una volata alla settimana per circa 3 mesi.
Il weekend di Retrouvaille, nei quali le coppie animatrici mettono a disposizione la loro esperienza di vita, aiuta a scoprire come il processo di ascolto, perdono, e dialogo siano strumenti
efficaci nella riconciliazione tra i coniugi e nella costruzione di un rapporto di coppia stabile e
duraturo.
Retrouvaille aspira a diventare un servizio della chiesa locale ampliando e consolidando la collaborazione le Diocesi. (www.retrouvaille.it)
Associazione Adiantum
ADIANTUM è un’Associazione di associazioni a cui aderiscono realtà che operano nel campo
del sostegno alle persone separate. Nasce per perseguire la finalità di sensibilizzare la collettività alla tutela dei bambini contro ogni forma di privazione nel rispetto delle più elementari
forme di garanzia costituzionale, quali il diritto ad avere una famiglia, due genitori, una casa,
una istruzione, la tutela della salute. L’Associazione si occupa in particolar modo della tematica
della separazione promuovendo la cultura della responsabilità genitoriale partecipata per favorire il legame dei figli con entrambi i genitori. Realizza la sua attività attraverso iniziative culturali ed editoriali (convegni, giornate gratuite di formazione ai genitori, centri di ascolto, opuscoli, libretti, pieghevoli divulgativi, spot televisivi e radiofonici) e di pressione (class action,
comunicatio stampa, articoli). (www.adiantum.it)
Aree tematiche
[1] Le difficoltà derivanti dalla separazione
[2] Cambio di prospettiva: dalle difficoltà al cambiamento
[3] I separati cristiani e la Chiesa
[4] Affrontare insieme le difficoltà: l’Associazione
[5] Dall’auto-mutuo aiuto spontaneo a quello più consapevole
[6] La rete: l’importanza della partnership
[7] Il sostegno dell’associazione alle persone separate
[8] Genitori insieme per tutelare i figli
Analisi delle co-correnze
Dall’intervista emergono alcune associazioni possibili tra le aree individuate che consentono di
soffermarsi su aspetti particolarmente significativi del discorso dell’intervistata dal quale emerge una certa processualità relazionale, intesa come concatenarsi di eventi e relazioni fra le
persone.
Le co-correnze rilevate sono:
181
[1] [3] [4] [2] [3] [4] [4][1][2] L’evento separazione è fonte di molte difficoltà dovute allo smembramento della famiglia. Nel caso delle famiglie cristiane le difficoltà sono acuite anche
dal fatto di non poter più testimoniare la propria cristianità e di rivendicare un posto
nella chiesa e un accompagnamento in questo momento di difficoltà anche se si è venuti meno al sacramento del matrimonio. Tali difficoltà fanno sentire l’esigenza di mettersi
in relazione con altre persone che vivono la stessa situazione per confrontarsi e trovare
una comune soluzione. Dalla condivisione emerge una forza collettiva per cambiare la
situazione in cui il desiderio individuale di modificare la propria situazione trova accoglienza.
[6] [2] [4] L’associazione Mamme Separate, nata proprio dalla volontà di alcune mamme di
migliorare le condizioni di vita dei separati e dei figli dei separati, ha tessuto un legame
particolarmente forte con l’Associazione dei padri separati, nata in precedenza, con il
comune obiettivo di stemperare i conflitti tra padri e madri separati attraverso una fattiva collaborazione tra le due associazioni
Grafico e sintesi
I separati cristiani e la Chiesa [2]
Le difficoltà derivanti
dalla separazione[1]
Cambio di prospettiva:
dalle difficoltà al cambiamento [3]
Dall’auto-mutuo
aiuto spontaneo
a quello più consapevole [5]
Il sostegno
dell’associazione alle
persone separate[7]
Genitori insieme per
tutelare i figli [8]
Affrontare insieme le
difficoltà:
l’Associazione [4]
La rete: l’importanza
della partnership [6]
182
La separazione irrompe nella vita familiare come un evento che sconvolge gli equilibri. La gestione familiare pesa sulle spalle di un solo genitore, in genere la donna, che si ritrova a dover
affrontare grandi fatiche su diversi fronti (relazionali, economiche, lavorative) [1]. Quando la
persona separata è cristiana le difficoltà si acuiscono perché l’attuale situazione contrasta con
i principi della Chiesa nella quale, però, al contempo si può trovare sostegno [2]. Quando ci si
rende conto che la propria vita sta “andando a rotoli” e che il benessere dei figli risente fortemente di questa situazione può scattare una molla che funge da motore di cambiamento [3].
Determinante nel processo di cambiamento è condividere la propria esperienza con altre persone che vivono la stessa condizione per sostenersi reciprocamente [5]. L’auto mutuo aiuto
favorisce movimenti di cittadinanza attiva in cui le azioni di supporto alle persone separate e
ai loro famiglie si potenziano [4]. Il sostegno alle persone separate riesce ad assumere una
portata tanto più significativa quanto più è il frutto dell’agire sinergico di diverse realtà interessate al benessere della famiglia [6]. L’associazione delle Mamme Separate oltre a offrire sostegno (relazionale, psicologico, legale…) nel corso della separazione propone anche percorsi
per affrontare le crisi matrimoniali [7]. Finalità prima perseguita dall’Associazione è quella di
tutelare i diritti dei figli e favorire la bi-genitorialità di padri e madri anche se separati [8].
5.1.3 IN SINTESI
Abbiamo detto in esordio che le Associazioni prese in considerazione a pieno titolo possono
essere fatte rientrare nell’alveo dell’associazionismo familiare. Infatti, l’analisi delle interviste
ha messo ben in evidenza l’intenzione di mantenere, promuovere e rafforzare la relazione genitoriale, pur nella separazione dei genitori, puntando anche a una riduzione della conflittualità della coppia, è chiaramente un modo di sostenere la relazione familiare che non viene meno con la frattura del nucleo. La nascita di numerose associazioni di genitori separati ed anche
di reti di secondo livello è indicativo del fatto che la generatività della famiglia non si arresta di
fronte alla separazione, ma la rende prosociale anche oltre tale evento critico, spingendola ad
intessere reti comunque (Scabini, Rossi, a cura di, 2002) (Eugenia Scabini, Giovanna Rossi (a
cura di) (2002), La famiglia prosociale, Vita&Pensiero, Milano).
Di fronte alla disgregazione relazionale generata dall’evento separazione la risposta che viene
oggi sempre più diffusamente cercata dalle persone che si imbattono in questa esperienza,
disorientante ed estremamente faticosa, è quella di trovare contesti relazionali in cui instaurare legami con altri che vivono la stessa situazione per far fronte alle difficoltà emergenti insieme.
Sono gli stessi separati, raggiunta la consapevolezza che l’isolamento relazionale rischia di aggravare il loro stato di malessere, ad attivarsi in un percorso di capitalizzazione della loro esperienza e del sapere acquisito in favore di altre persone. Diverse, infatti, sono le esperienze
in cui gruppi di persone separate si fanno promotori della creazione di luoghi e spazi che favoriscano l’incontro, la condivisione e il sostegno reciproco. Come abbiamo visto c’è una sorta di
spinta naturale verso l’auto mutuo aiuto, all’origine delle esperienze studiate.
La finalità prima perseguita dalle associazioni dei genitori separati è quella di promuovere la
bi-genitorialità per far sì che padri e madri possano restare tali anche in seguito alla rottura
del loro rapporto di coppia, mantenendo una relazione significativa e responsabile con i propri figli. L’azione associativa è orientata a evitare che i padri siano “separati dai propri figli”, per
poter continuare a svolgere un ruolo paterno pieno che contribuisca in maniera qualitativa alla loro educazione e che le madri siano lasciate sole nel far fronte al ruolo genitoriale senza
poter contare sul sostegno dell’ex-coniuge.
183
In concreto queste realtà offrono assistenza ai separati che si trovano in difficoltà a riorganizzare la loro vita emotiva e quotidiana sconvolta da questo evento critico. In particolare vengono messi a disposizione gruppi di auto mutuo aiuto per favorire processi di sostegno e crescita (empowerment) reciproci, attività di consulenza psicologica, legale e sociale e percorsi di
mediazione familiare. Alcune associazioni hanno linee telefoniche attive ventiquattro ore su
ventiquattro e realizzano, in partnership con altri soggetti pubblici e privati, progetti specifici
per il sostegno alla genitorialità e per far fronte alle difficoltà derivanti dalla separazione (casa,
lavoro…), come ad esempio la neo-nata Casa dei papà separati.
Un’attenzione particolare viene anche dedicata alla prevenzione della separazione offrendo
61
accoglienza e accompagnamento alle coppie in crisi e indirizzandole verso percorsi di riconciliazione o di separazioni non conflittuali in cui prevalga l’attenzione al benessere dei figli.
Le attività delle associazioni vengono svolte in prevalenza da separati e professionisti volontari. Le associazioni svolgono, inoltre, un’intensa attività di advocacy per sensibilizzare
l’opinione pubblica ai disagi sociali derivanti dalla separazione e alla tutela dei diritti dei separati e dei loro figli. Importante, per esempio, è stata la collaborazione dell’associazione Papà
Separati e Mamme separate nella definizione ed emanazione della legge sull’affido condiviso
(L. 54/2006).
Questa significativa azione di advocacy e di tutela del benessere dei minori è diventata finalità
62
prima di Adiantum , Associazione Di Associazioni Nazionali per la TUtela dei Minori, a cui aderiscono principalmente le associazioni dei padri separati. Si tratta di un cartello di 11 associa63
zioni tra le più importanti e storiche (tra le quali ANPS, Crescere Insieme e Mamme Separate), che mira a unificare l’attività nazionale delle strutture di papà e mamme separate, al fine
di poter sollecitare una più efficace azione parlamentare verso la tutela della Bi-genitorialità,
nonché ad “educare” i genitori separati ad assumere comportamenti che tendano ad eliminare, in presenza di figli, la conflittualità.
Risulta, dunque, più che evidente come organizzazioni di questo tipo incarnino, paradossalmente, in modo decisamente “familiare” la loro natura associativa: ricordando la classificazione più recente dell’associazionismo familiare (Carrà, 2009), potremmo dire che le esperienze
studiate rientrano nell’area più “hard”, essendo basate sul mutuo-aiuto, avendo come obiettivo la promozione della bi-genitorialità (quindi un rafforzamento della relazione familiare, pur
deprivata), ed essendo proiettate verso l’esterno, con una forte valorizzazione del partenariato
e un orientamento a fare reti di secondo livello.
5.2. LE COMUNITÀ FAMILIARI
In un solco che, in Italia, non ha subito interruzioni da Nomadelfia (1948) ad oggi, ci sono le
comunità familiari (Omacini 2003; Volpi, 2002), che hanno la peculiarità di porre in modo esplicito la famiglia al centro delle relazioni comunitarie di cui si fanno attive promotrici.
Vecchie e nuove forme di legami comunitari che includono relazioni tra famiglie, tra coppie,
tra singoli, connessi da una rete di relazioni (scelte) strutturali e simboliche. Una tessitura che
consente di scoprire nessi e legami particolarmente significativi per le persone e che inventa e
re-inventa risposte concrete ai problemi della vita quotidiana, attraverso logiche regolative in
61
62
63
Si fa qui riferimento all’esperienza Retrouvaille approfondita nel box 2.
Per un approfondimento dell’attività svolta dall’Associazione si rimanda al box
È un’associazione nazionale fondata nel 1993, con sedi in ogni parte d'Italia, costituita da persone sposate e non,
con figli e senza interessate a tutelare il diritto del minore di mantenere rapporti continuativi e significativi con
entrambi i genitori, ancorché separati (www.crescere-insieme.org).
184
cui prevale il valore d’uso su quello dello scambio, in cui si ricerca un equilibrio, a volte difficile,
ma spesso innovativo, tra razionalità strumentale ed espressiva, in cui la cultura circolante è
permeata da un relazionarsi in maniera solidale all’interno e all’esterno, la cui mission ha a fare, da un lato, con la produzione di un bene comune che è visto prima di tutto nella famiglia
stessa e poi nell’accoglienza di altri (bambini o adulti) che si trovano in condizioni di particolare difficoltà (Bramanti, 2009, p.16).
La scelta di alcune famiglie di intraprendere un percorso comune di condivisione, più che essere un antidoto alla disgregazione familiare, rappresenta una via per tenere salda e far lievitare la capacità della famiglia di essere accogliente e accudente nei confronti dei propri membri, in primis, e di altre persone che si trovano a vivere una situazione di fragilità. Tale scelta di
sperimentare luoghi di condivisione testimonia la volontà di alcune famiglie di contrastare le
tendenze individualistiche pesatamente diffuse nella nostra società attraverso una risposta
fortemente solidaristica e ispirata dall’etica della cura (Williams, 2004).
In questo scenario la comunità familiare diventa, a partire dal progetto originario di ogni singola famiglia, luogo reale di cura dei valori, dei progetti delle pratiche concrete di vita quotidiana
(Bramanti, 2007).
Un quadro particolarmente significativo della realtà delle comunità familiari è stato delineato
dalla ricerca64 effettuata dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia che ne delinea le
caratteristiche specifiche.
Uno degli aspetti peculiari di queste forme neo-comunitarie, definite da un forte senso di solidarietà nelle relazioni interne tra i membri e nei confronti della comunità di appartenenza, è
quella che è stata definita “l’eccedenza generata e generativa del sociale” (Rossi, Bramanti,
2007): relazioni familiari pienamente solidaristiche generano un surplus che le spinge ad aprirsi all’accoglienza per “investire” questo surplus. Tale “eccedenza” sembra essere quel valore aggiunto che permette alle famiglie della comunità di vivere più appieno e con meno difficoltà il loro essere famiglia e di aprirsi a forme di solidarietà esterna.
La nascita di una comunità familiare, nell’analisi proposta da Bramanti (2007), può essere ricondotta a un processo di scelte e azioni messe in campo dalla coppia dei coniugi:
1) identificazione di un interesse valore da parte dei coniugi nella relazione di coppia;
2) sviluppo di un progetto concreto su base familiare condiviso con altre famiglie;
3) creazione di adeguate pratiche di vita familiare.
Il progetto individuale della coppia di coniugi si perfeziona nella possibilità di realizzare
un’ideale, una vocazione che lievitando nel contesto sociale della comunità familiare trova la
possibilità di concretizzarsi, rendendo la famiglia un bene fruibile anche da altri soggetti.
Da una ricerca pubblicata di recente (Bramanti, 2009) e condotta sull’intero territorio nazionale è possibile ricavare alcuni elementi distintivi che concorrono a definire le comunità familiari
e a distinguerle da esperienze di accoglienza familiare realizzate da famiglie non associate, o
da esperienze di accoglienza non su base strettamente familiare. Gli elementi sono i seguenti:
Livello strutturale: (presenza di un doppio legame, familiare e comunitario):

64
realtà costituite da famiglie normo-costituite (coppie regolarmente sposate con o senza
figli propri, con o senza altri membri aggiunti) e non da operatori professionisti;
La ricerca è stata realizzata fra il 2005 e il 2006 nell’ambito di un più ampio progetto focalizzato sul tema della
Generatività nella famiglia e nella comunità come cura del legame tra le generazioni, svolta con il contributo della
Conferenza Episcopale Italiana.
185

appartenenza delle famiglie a gruppi ed associazioni familiari, con diversi gradi di formalizzazione e di diffusione sul territorio;

presenza di particolari forme di regolazione interna (suddivisione dei compiti, criteri che
governano la presa di decisione) e di rapporto con l’esterno, in particolare con il mercato
(economia di auto-sussistenza, riduzione al minimo dell’uso del denaro attraverso il potenziamento di forme di scambio);

“condivisione”, tra le famiglie della comunità, di spazi abitativi (cohousing), strumenti, tempi
di vita quotidiana.
Livello culturale (referenziale): (tradizione, innovazione e mediazione):

scelta di autodefinirsi “comunità familiare”;

riferimento esplicito ad una cultura familiare pensata come alternativa ai modelli di famiglia “modali”;

presenza di una particolare forma di socialità che si fonda sulla relazione di prossimità;

apertura dei confini familiari nella forma dell’accoglienza di altri (minori/adulti);

condivisione di valori comuni che diventano impegnative regole di vita (Bramanti, 2009,
p.42).
Al di là di alcuni tratti fortemente caratterizzanti, tuttavia, quando si parla di comunità familiari
in realtà si fa riferimento a un universo variegato, entro il quale possono essere individuate
diverse tipologie65. Fra quelle basate sulla prossimità abitativa 66, troviamo le comunità di tipo
“radicale” caratterizzate da un alto livello di coesione sociale e da una forte adesione a regole
di vita comunitaria (gestione comune del denaro, momenti di incontro…), le comunità di vita
dove è presente un elevato grado di libertà personale e familiare nell’adesione alla proposta
comunitaria e le comunità etiche centrate sulla dimensione valoriale piuttosto che sugli aspetti
di condivisione concreta quotidiana.
L’orientamento valoriale dell’azione solidaristica che accomuna le diverse tipologie può essere
riassunto nei seguenti elementi:

sono orientate alla collettività, al bene comune che ritengono prioritario;

sono mosse da un agire affettivo che tiene conto della specificità delle persone , della loro
storia e delle emozioni che esse suscitano;

sono mosse da un’accettazione dell’altro per quello che è, ma impegnandosi contemporaneamente nel promuovere un processo di cambiamento, adottando una prospettiva di tipo
educativo;

ricercano una fattiva collaborazione con i servizi sociali e operatori socio-educativi per connettere il proprio sapere basato sull’esperienza a quello professionale.
65
66
La sopracitata ricerca, identifica sei diverse tipologie di comunità familiari, incrociandone gli elementi costitutivi:
- la struttura comunitaria delle famiglie, costruita mettendo in relazione la dimensione strutturale del convivenza
(convivono/non convivono) con quella di senso della condivisione (cosa e quanto condividono) misurata attraverso
un indice di condivisione tra famiglie (di elementi materiali quali denaro, spazi abitativi, tempo libero, momenti
espressivi, valori di riferimento);
- la funzione che tendono a svolgere le relazioni comunitarie;
- la dimensione generativa (capitale sociale).
Citando alcuni esempi fra i più noti e rilevanti che hanno partecipato alla ricerca, tra le comunità radicali possiamo
annoverare Nomadelfia, Maranà-tha, Comune agricola Lunella e Cometa, tra le comunità di vita troviamo
l’Associazione Comunità Famiglia (ACF), il Centro nuovo modello di sviluppo, Il filo d’erba, la Comunità Murialdo, tra
le comunità etiche rientrano l’Associazione Fraternità e la Comunità Tenda di Abrahm.
186
5.2.1 L’ASSOCIAZIONE RADICI E ALI
di Francesca Maci
Radici e Ali nasce nel 2003, da un cammino incominciato nel 1998 da alcune famiglie che appartenevano all’associazione Querce di Mamre (AQM), gruppo di preghiera fra famiglie, che
sentivano la necessità di condividere un percorso di vicinanza e riflessione per aprirsi
all’esterno [1]. Trae origine dal desiderio di creare un luogo di prossimità familiare, basato sulla convivenza abitativa, per sviluppare forme di prossimità e solidarietà [1]. Nella dimensione
della condivisione, elemento essenziale dell’esperienza, le famiglie desiderano realizzare,
mantenendone l’integrità, il proprio progetto familiare originario [1] [5].
Qui alla base di questa scelta per quanto mi riguarda come famiglia ma penso anche per gli
altri è che questa scelta non doveva in nessun modo modificare il progetto iniziale di ogni
singola famiglia. Ogni singola famiglia è nata per essere una famiglia, per fare un cammino,
questo progetto non lo deve in nessun modo annullare ma anzi lo deve potenziare.
La struttura di Radici e Ali, nella quale vivono sei famiglie, prevede un appartamento per ogni
nucleo familiare, spazi per la vita comunitaria e appartamenti per realizzare progetti di accoglienza sociale [2]. Attraverso i bilocali si realizza la finalità dell’accoglienza perché qui vengono
inserite persone fragili, segnalate dai servizi sociali, con la necessità di essere accompagnate
in un percorso verso l’autonomia che ha una durata massima di tre anni [2]. Viene definito un
progetto che si sforza di offrire una risposta all’interno di una relazione a quelle persone che
presentano proprio fragilità di tipo relazionale [8][2].
Questo che manca a tutte queste persone come comune denominatore ma non ce ne è uno
che non è così è la relazione vera..è la relazione vera, capisci. E se Radici e Ali diventa una
possibilità di relazione; non è che diventa un sostituto della famiglia, ma diventa un posto
dove sei stato accettato, guidato ma non giudicato. Se riusciamo già solo a fare questa cosa
qua possiamo io posso camminare già alto da terra.
Gli attori che collaborano alla realizzazione di questi progetti di accoglienza sono i servizi sociali con le risorse che possono mettere in campo (assistente sociale, psicologo, educatori) e le
famiglie dell’associazione che si impegnano a seguire quotidianamente nel loro percorso gli
ospiti accolti [2] [6]. L’inserimento degli ospiti è mediato dalla presenza dei servizi sociali e non
avviene mai in un rapporto diretto con l’Associazione per una tutela delle famiglie [2] [6].
Uno dei bilocali presenti viene lasciato libero per le esigenze delle famiglie dell’Associazione o
per particolari necessità di altre famiglie.
Un’altra forma di accoglienza prevista, lasciata alla libera scelta di ogni singola famiglia, è
l’affido familiare [2]. La famiglia affidataria all’interno dell’Associazione trova un supporto concreto e quotidiano offerto dalle altre famiglie; ciò rende questa esperienza meno faticosa perché si evita il rischio della solitudine a cui spesso vanno incontro i normali progetti di affido.
La dimensione della famiglia allargata, oltre ad essere un valore per gli ospiti accolti che trovano un sostegno per sé e per i propri figli [8], rappresenta una grande opportunità per le
stesse famiglie di Radici e Ali che nella reciproca convivenza trovano aiuto nelle “cose del quotidiano” e nell’educazione dei figli [1].
Un altro aspetto maturato con il tempo è l’apertura al territorio [6]. L’Associazione è diventata
un punto di riferimento e ritrovo per altre famiglie che vivono a Fino Mornasco. Alcune di loro
si sono avvicinate con la richiesta di avere uno spazio educativo per i propri figli. Da questa esigenza sono nati i centri estivi realizzati in collaborazione con l’oratorio e con il comune e al-
187
cune proposte di laboratori teatrali, musicali per i ragazzi e corsi di formazione per i genitori,
realizzati in collaborazione con la parrocchia [2].
Su questo aspetto si inserisce il rapporto con le altre famiglie che vivono a Fino Mornasco [6].
Alcune si sentono vicine a questa esperienza e danno degli aiuti concreti altre, invece, esprimono ammirazione, ma si limitano ad utilizzare le opportunità e i servizi che l’Associazione offre senza impegnarsi direttamente [6] [1].
[…]Non so cosa pensino le altre famiglie di noi, ho l’impressione che il nostro essere le faccia
sentire un po’ meglio. […] Alcune famiglie si sentono, ci sono vicine, ci aiutano, altre finite le
attività spariscono [...] ogni famiglia ha il suo valore, non perché vengono qui.
Gli inserimenti all’interno dell’Associazione avvengono sulla base di un percorso prestabilito
[2]. L’équipe servizio, composta da un membro dell’Associazione e da due persone di AQM,
con la quale è rimasta in essere una relazione significativa, valutano le richieste pervenute dai
servizi sociali territoriali sulla base di un protocollo che stabilisce, in maniera flessibile, i requisiti per l’accesso [3]. Dopo una prima cernita vengono presi i contatti con i servizi sociali proponenti per un incontro di approfondimento volto a chiarire meglio le caratteristiche della situazione che sembra avere i requisiti per essere accolta. Le ipotesi di inserimento vengono discusse all’interno dell’assemblea, momento di incontro settimanale fra le famiglie
dell’Associazione. Accettata la proposta e individuata la famiglia tutor [4], che accompagnerà
l’ospite nel suo percorso, viene avviato un progetto sulla base di un contratto nel quale vengono inseriti soggetti coinvolti, obiettivi, azioni previste, risorse necessarie e momenti di verifica [2].
La famiglia tutor, in sostanza, è la referente del progetto all’interno dell’associazione e ha un
rapporto diretto con l’ospite rispetto alla realizzazione del percorso di autonomia e al suo monitoraggio che varia a seconda della necessità [4]. Le altre famiglie supportano l’ospite e la famiglia tutor nelle esigenze che via via emergono in corso d’opera nella realizzazione del progetto. La famiglia tutor non funge da famiglia affidataria, ma assume un ruolo di mediazione
fra il progetto, di cui è responsabile l’intera Associazione, e l’ospite [4]. I rapporti con i servizi
sociali, fatte salve le esigenze quotidiane, sono gestite dall’équipe servizio [3] e dell’andamento
del percorso viene discusso nel corso dell’Assemblea [2].
In questo momento all’interno dell’Associazione è in essere una riflessione rispetto alla struttura fino a qui adottata per gli inserimenti degli ospiti e la valutazione dei progetti. Si avverte
la necessità di far coincidere l’èquipe servizio con l’Assemblea delle famiglie per poter discutere e confrontarsi tutti insieme sulle accoglienze che di fatto hanno un riflesso significativo sulla
vita familiare e comunitaria [2]. Le famiglie hanno inoltre deciso di avvalersi di una supervisione periodica per poter riflettere, a partire da un punto di vista esterno, sulle dinamiche relative alla loro vita insieme, per farsi accompagnare in un’esperienza di convivenza maggiormente consapevole [2].
La convivenza all’interno dell’Associazione ha delle implicazione anche dal punto di vista economico [2]. A differenza di altre esperienze di condivisone familiare, Radici e Ali non ha ricevuto finanziamenti esterni per costruire la struttura. Sono state le famiglie ad assumersi
l’impegno economico necessario. Ciascuna si è accollata il pagamento del mutuo relativamente alla sua abitazione e fa da garante per il pagamento dei bilocali e delle parti comuni, anche
se nessuna di loro sarà effettivamente proprietaria degli immobili poiché sono intestati
all’Associazione. Ciascuno famiglia al suo interno mantiene una gestione economica autonoma ed è presente una forma di solidarietà nel gestire le spese dell’immobile nel rispetto delle
possibilità economiche di ciascun nucleo familiare [2].
188
Rispetto alla motivazione di aderire a questo progetto, la coppia intervistata ha trovato la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni familiari già orientate all’apertura verso le altre famiglie attraverso una piena partecipazione alla vita parrocchiale, i corsi per fidanzati… È stato il
naturale esito, accaduto un po’ per caso, di un cammino intrapreso fin dall’inizio della loro vita
matrimoniale [5].
Lui mi fa ma veramente si è appena ritirata una famiglia, effettivamente abbiamo un appartamento in più. Vi interessa? Ma quasi quasi… poi noi ne abbiamo parlato ma non è che ci
abbiamo messo molto ci siamo subito trovati d’accordo perché ci sembrava che ci completasse, completasse il nostro percorso, il nostro progetto. Sai cos’è noi abbiamo avuto molte
esperienze noi veniamo dal movimento dei focolari, abbiamo avuto esperienze di affido e
quando abbiamo avuto l’opportunità […] Radici e Ali è una scelta di stomaco di pancia, nel
senso che […] eri sereno. Questa penso sia la cosa che abbiamo ricevuto tanto, cioè un senso,
un senso proprio di… che completa […]Si questa era la strada che ci aspettava e in qualche
modo quando è passato il nostro treno abbiamo avuto il coraggio di salire. […] si è aperta
una vita nuova.
Per i figli, soprattutto per le più grandi, trasferirsi a Fino Mornasco ha rappresentato un cambiamento inizialmente difficile da affrontare, ma che poi si è evoluto positivamente [5]. I figli,
anche se non lo dichiarano apertamente, sono orgogliosi di questa scelta fatta dai genitori e
sono ben inseriti nel contesto dell’Associazione e territoriale [5]. Per i figli più piccoli, in particolare, è stato fin da subito più facile perché hanno trovato altri bambini della loro età e un
grande giardino nel quale giocare.
Per quanto riguarda il rapporto con altre realtà [6], Radici e Ali fa parte del Coordinamento
delle comunità e ha rapporti con comunità educative territorialmente vicine e con esperienze
simili alla loro (ACF, Sichem, Le Vigne) per avere un reciproco confronto. C’è un rapporto particolare poi con la parrocchia sia come Associazione sia come famiglia. Accanto a ciò c’è il rapporto con gli enti locali che propongono persone per progetti di accoglienza e in particolare
con il comune di Fino Mornasco [6]. Questi contatti non sono sempre lineari sia per un discorso economico, perché diventa difficile quantificare e far riconoscere il valore degli interventi
messi in campo dall’Associazione [6] [7] sia per le difficoltà a instaurare un rapporto di collaborazione che vada al di là del bisogno del momento [6].
L’esperienza di Radici e Ali viene raccontata dalla famiglia intervistata come una scelta coraggiosa, ma non eccezionale [5] a cui altre famiglie potrebbero facilmente accostarsi.
L’essere famiglia nelle cose minimali di tutti i giorni, in un certo modo è un’opportunità per
tutti e penso che associazioni come Radici e ali, non parlo solo di Radici e ali, in modi diversi
dimostrano che questo è possibile, possano essere un riferimento più che positivo perché
comunque tu non c’è bisogno di essere degli eroi del volontariato per fare una cosa del
genere.
Sì, è un’esperienza a misura di famiglia ma è comunque una scelta coraggiosa come tante
scelte coraggiose che le famiglie fanno tutti i giorni […]
Le aree tematiche
[1] La mission: creare occasioni di prossimità familiare
[2] Un progetto per l’accoglienza
[3] L’èquipe di servizio: valutare e abbinare
[4] La famiglia tutor: mediazione tra ospite e Associazione
189
[5] Convivenza e mantenimento dell’integrità del nucleo
[6] I rapporti con l’esterno: punto di riferimento per le famiglie e per i Servizi
[7] Difficile quantificare la solidarietà
[8] L’ospitalità: una risposta a bisogni relazionali
Analisi delle co-occorrenze
[1] [5] La mission dell’Associazione si concilia con la scelta di ciascuna famiglia di realizzare le
proprie aspirazioni solidaristiche, preservando la propria integrità famigliare;
[2] [6] I progetti di accoglienza prevedono il coinvolgimento dei servizi sociali a tutela
dell’ospite e delle famiglie dell’Associazione
[6] [1] L’esperienza dell’Associazione è un punto di riferimento le famiglie del territorio che ne
hanno una diversa concezione e vi si relazionano in maniera differente
[6] [7] È difficile nel rapporto con l’esterno, in particolare con i servizi sociali, promuovere il valore delle attività realizzate
[8] [2] Le attività di Radici e Ali promuovono possibilità di relazione di cui le persone sono carenti
Grafico e sintesi
I rapporti con
l’esterno: punto
di riferimento
per le famiglie e
per i Servizi [6]
Difficile
quantificare la
solidarietà [7]
La mission:
creare occasioni
di prossimità
familiare [1]
Convivenza e
mantenimento
dell’integrità del
nucleo [5]
Un progetto per
l’accoglienza [2]
L’ospitalità: una
risposta a
bisogni
relazionali [8]
L’èquipe di
servizio: valutare
e abbinare [3]
La famiglia tutor:
mediazione tra
ospite e
Associazione [4]
190
L’Associazione nasce nel 1998 con lo scopo di creare occasioni di prossimità famigliare [1], obiettivo concretizzatosi nella scelta di queste famiglie di intraprendere un progetto di convivenza comune, preservando contemporaneamente la propria integrità di nucleo [5]. Le varie
attività vengono gestite dall’associazione e il progetto di accoglienza [2] viene coordinato
dall’èquipe di servizio [3] che provvede a valutare le richieste di inserimento e a procedere con
l’abbinamento alla famiglia tutor [4] che non funge da famiglia affidataria, ma da mediazione
tra ospite e associazione. L’associazione è un punto di riferimento per le famiglie del territorio
ed è in relazione in particolare la Parrocchia e i vari Servizi [6], il rapporto coi quali non risulta
sempre facile in quanto spesso ci si ritrova a dover quantificare prestazioni relazionali ad alto
contenuto solidaristico [7]. I progetti di accoglienza, infatti, mirano a soddisfare bisogni di relazione, vicinanza e solidarietà tipici del quotidiano a cui spesso le persone da sole faticano a
trovare risposta [8].
5.2.2 L’ASSOCIAZIONE MONDI IN FAMIGLIA E CONDOMINIO SOLIDALE
di Francesca Maci
L’esperienza a cui si dà voce nell’intervista tiene insieme l’appartenenza a due realtà associative differenti e ben rappresenta come a volte la dimensione dell’associazionismo familiare sia
generativa di esperienze sempre più significative dal punto di vista della solidarietà familiare
nei confronti di famiglie fragili da parte di famiglie con un buon livello di benessere.
Mondi in Famiglia è un’associazione familiare nata nel 1994 a Cormano da rapporti spontanei
tra un gruppo di famiglie amiche che condividevano una particolare sensibilità e interesse rispetto ai temi della solidarietà e dell’accoglienza [1]. In questa comunanza d’intenti si radica
l’idea di creare un’associazione per dare supporto alle famiglie affidatarie e per creare sul territorio occasioni di aggregazione, di vicinanza e ricreative rivolte a bambini e genitori [1][2].
Da qui l’idea di creare un’associazione che desse da un lato supporto alle famiglie che facevano affidi (all’epoca 3) e dall’altra creare eventi per stimolare la vicinanza famigliare, creare
una rete attorno alle famiglie
Il supporto alle famiglie affidatarie da parte dell’Associazione consiste in un gruppo mensile di
confronto sostenuto da una psicologa che oltre a fare attività di supervisione rappresenta un
sostegno per gli affidatari nei momenti di urgenza [2].
Oltre a ciò l’Associazione propone attività ludiche e ricreative rivolte a bambini e famiglie, vacanze periodiche aperte anche alle famiglie d’origine e realizza affidi a tempo parziale [2].
Il nome Mondi in Famiglia vuole, da un lato, valorizzare le molte sfaccettature che il familiare
può assumere e, dall’altro, promuovere espressioni di solidarietà rispettose dei tempi e dei
modi propri della famiglia.
Le vicende di Mondi in Famiglia e del Condominio solidale di Bruzzano si intrecciano perché
l’intervistata si trasferisce con la sua famiglia a vivere in questa realtà in seguito al fallimento,
per ragioni burocratiche, del progetto dell’Associazione di avviare un’esperienza simile sul territorio di Cormano [3].
Volevamo creare un Condominio solidale a Cormano, avevamo fatto un progetto con Servizi
sociali in cui famiglie che coabitassero vicino fossero di supporto a una comunità per i minori
[…]quando tutto era pronto il Comune ci assegnava una porzione di spazio molto piccola nel-
191
la quale potevano vivere solo tre famiglie (noi immaginavamo 4 o 5), siamo stati un po’ a dibattere ma poi non c’erano margini perché il resto della superficie edificabile l’avrebbero destinata ad alloggi per le casse pubbliche, siamo arrivati ad un imbuto.
Il trasferimento dell’intervistata e della sua famiglia presso il Condominio, da ormai quattro
anni, ha creato un legame significativo fra le due esperienza. Spesso, per esempio, il gruppo
delle famiglie affidatarie si incontra al Condominio.
Siamo qui (Bruzzano) da quattro anni e da persone che non ci siamo scelte è nata una storia
bella che ci dà soddisfazione, è nato scambio tra le due realtà, ci si è mischiati ci conosciamo
tutti.
Nel Condominio ci sono due appartamenti a disposizione per l’accoglienza di persone fragili
inviate dai servizi sociali o altri enti che promuovano percorsi all’autonomia. Si fanno laboratori musicali e teatrali per bambini, il doposcuola per bambini delle scuole elementari. È stato
avviato un gruppo di condivisione laico per famiglie che desiderano crescere in un confronto
comune. A breve partirà il progetto di un ostello rivolto a turisti, a familiari dei pazienti ricoverati negli ospedali limitrofi e soprattutto a studenti che a fronte di un affitto agevolato dovranno impegnarsi nelle attività del Condominio. Ciascuna delle famiglie che vive qui, poi, é
impegnata nel sostegno ai progetti di autonomia delle persone coinvolte e nelle iniziative rivolte all’esterno [4]. Rispetto a tali percorsi si avverte un momento di stallo perché le grosse
difficoltà a trovare un lavoro fanno sì che le accoglienze non siano temporanee, ma si trascinino nel tempo perché diventa difficile costruire le condizioni per una reale autonomia. Il Condominio solidale aderisce ad ACF che basa la sua idea di fondo su tre regole principali: convivenza e condivisione tra famiglie, accoglienza e cassa comune. Le attività del Condominio solidale sono realizzare sulla base di queste coordinate [5]. La condivisione fra le famiglie si tocca
con mano nell’aiuto reciproco e prevede dei momenti periodici di incontro per confrontarsi e
discutere dei progetti attivi o da realizzare.
Le famiglie possono inoltre, come nel caso dell’intervistata, aprirsi all’esperienza dell’affido
familiare. È una libera scelta di ogni nucleo familiare supportata nel concreto dalle altre famiglie [4] [6].
Quando uno ha in mente di fare un’accoglienza ne parla subito in comunità ma poi rimane
sovrana la scelta della famiglia e tutti si attivano per dare una mano su questa scelta, non è
decisione comune ma vicinanza alla scelta
Per quanto riguarda la gestione economica ogni famiglia versa il proprio stipendio su un conto
corrente comune e mensilmente indica su un assegno in bianco la cifra che le è necessaria per
il suo sostentamento. Le entrate rimanenti vengono utilizzate per finanziare le spese e le attività comunitarie [5].
Il Condominio si presenta come una realtà fortemente relazionale [5] [6] che agisce all’interno
nel rapporto tra le famiglie, all’esterno nei legami con altri soggetti e nei confronti delle famiglie che hanno bisogno di essere sostenute. Da questa vicinanza scaturisce un’opportunità di
benessere per le persone che a vario titolo incrociano il loro percorso con quello del Condominio [6].
Vicinanza calda, essere riconosciuto, aspettato, chiamato per nome, è un modo concreto per
contrastare anonimato e far sentire le persone vicine, c’è uno stile di Condominio molto naturale, se sei incasinato è scontato che qualcuno ti possa aiutare non per obbligo o dovere[…]
Il far circolare la comunicazione tra le persone perché l’assenza limita le azioni di tutti, una
relativa semplicità nelle azioni e nei modi di esprimersi, finalità grandi ma da tradursi in cose
192
a portata delle persone, ritornare ad un’idea di legittimo benessere che ognuno di noi ha voglia di perseguire[…] cerco sempre aiuto e la rete si allarga, gli universi si contaminano.
Il Condominio è una realtà aperta all’esterno [2]. È un punto di riferimento per le famiglie del
quartiere che offrono una mano; ha rapporti con la parrocchia, le scuole, con i consultori e
con altre associazioni che perseguono finalità simili alle loro. Il rapporto con il comune viene
descritto come faticoso [7], sia nel caso dell’Associazione che del Condominio, perché non si
basa su una relazione di fiducia autentica, ma le famiglie vengono interpellate al bisogno.
Manca la costruzione di un pensiero comune, di un investimento più ampio sul benessere di
minori e famiglie che vada al di là delle necessità del momento [7]. I progetti di sostegno alle
persone in difficoltà per poter avere gambe per camminare necessitano di una stretta collaborazione tra le famiglie e i servizi altrimenti non producono risultati [6] [7].
Non abbiamo supporto dai servizi sociali del Comune, a parole lo abbiamo, conoscono il nostro operare, ma a ogni azione sui minori non corrisponde un’azione sugli adulti e questo
vanifica l’operato e non è solo per l’assistente sociale o la psicologa ma è mancanza di qualcosa più in alto… di un investimento che si riduce a teniamo accuditi i bambini. […] Non ci va
di procedere senza servizi ma procedere così non ha senso…è buttare via un’esperienza e le
famiglie che abbiamo seguito continuano ad avere i bisogni cha abbiamo rilevato […] Noi
facciamo le famiglie amiche ma a volte ci rendiamo conto che ci sia bisogno di professionalità sulla carta c’è fiducia […] ma poi manca..
Aree tematiche emerse dall’intervista
[1] L’Associazione nasce da un gruppo di famiglie amiche
[2] Le due finalità dell’Associazione: supporto agli affidi e vicinanza al territorio
[3] Dal progetto fallito alla scelta di vivere nel Condominio Solidale
[4] Il Condominio e le attività sul territorio
[5] Condivisione totale
[6] Il benessere scaturisce dalla vicinanza
[7] Difficoltà nel lavoro con i servizi sociali
Analisi delle co-correnze
[4] [6] Le relazioni interne al Condominio si connotano per prossimità e vicinanza che sostengono le scelte di accoglienza di ciascun nucleo;
[2] [7] Le relazioni esterne al Condominio spesso risultano difficoltose in particolare viene segnalata la mancata fattiva collaborazione con i Servizi di cui il Condominio riconosce
l’importanza;
[6] [7] Si fa riferimento ad una specifica situazione di solitudine e malessere di una mamma
che riceve dalle famiglie stesse supporto e vicinanza ma che necessiterebbe di aiuti professionali. La mancanza di collaborazione da parte dei servizi sociali viene vissuta dalle
famiglie del Condominio come mancanza di fiducia.
193
Grafico e sintesi
L’Associazione nasce da un gruppo di
famiglie amiche [1]
Le due finalità
dell’Associazione: supporto
agli affidi e vicinanza al
territorio [2]
Difficoltà nel
lavoro con i
servizi sociali [7]
Dal progetto fallito alla scelta di vivere
nel Condominio Solidale [3]
Il benessere scaturisce
dalla vicinanza [6]
Il Condominio
e le attività sul
territorio [4]
Condivisione
totale [5]
L’associazione Mondi in Famiglia nasce da un gruppo di famiglie amiche [1] accomunate da
una reciproca sensibilità e spinta solidale decidono di vivere insieme attorno a due finalità: il
supporto agli affidi e la presenza attiva sul territorio [2]. Il progetto ideato e non realizzato di
dar vita ad un Condominio solidale a Cormano conduce l’intervistata e la sua famiglia alla scelta di vivere in quello di Bruzzano già avviato da tempo [3]. La vita del Condominio prevede una
completa condivisione economica [5] e diverse attività (accoglienza di persone fragili e di minori in affido, doposcuola, vacanze, proposte animative e laboratoriali per bambini e famiglie…) [4] che prendono vita grazie ad una serie di relazioni presenti sia all’interno che
all’esterno. L’idea di fondo che ispira la vita delle famiglie nel Condominio è quella che da queste relazioni capaci di prossimità quotidiana scaturisca benessere [6]. Le relazioni con
l’esterno non sempre risultano semplici, in particolare viene evidenziata la scarsa collaborazione con i Servizi Sociali che interpellano le Associazioni sul bisogno senza avviare un pensiero maggiormente organico orientato ad una progettazione di lungo periodo [7].
5.2.3 IN SINTESI
Le esperienze studiate documentano che le comunità familiari rappresentano la possibilità
concreta di dar vita a un modo diverso di fare famiglia e di realizzare forme di accoglienza di
minori e adulti che in una condizione di isolamento sarebbero più complesse e faticose da gestire: nessuna delle due comunità osservate è nata con un semplice intento di vita comune,
ma con la volontà di condivisione per essere accoglienti nei confronti di altri.
Appare con evidenza l’esistenza di una sorta di triplo legame: in primo luogo il vincolo familiare, in secondo luogo l’appartenenza alla comunità; il rapporto tra queste due relazioni
assume configurazioni differenti nelle diverse realtà, a seconda del prevalere dell’uno nei con-
194
fronti dell’altro, pur restando fermo che la dimensione comunitaria è parte stessa dell’essere
famiglia: i confini istituzionali e tradizionali vengono ampliati. Il terzo legame sempre presente
è l’interscambio con il territorio e in particolare con le famiglie che lo abitano, per le quali
le comunità familiari diventano un importante punto di riferimento: non si tratta solo
dell’accoglienza di soggetti in situazione di difficoltà, ma anche di servizi rivolti alle famiglie
(doposcuola, vacanze, centri estivi, laboratori ricreativi...).
Un intreccio così complesso di livelli relazionali dà vita una grande ricchezza dei legami e degli
scambi reciproci di supporto tra le famiglie. Anche l’organizzazione della vita quotidiana e degli spazi rimanda costantemente a quest’intreccio: ogni famiglia ha uno spazio abitativo proprio all’interno della comunità e ritmi di vita personali, ma esistono spazi, tempi e strutture
per la vita insieme, per favorire un buon livello di condivisione e coesione dal quale scaturiscano sostegno emotivo, psicologico e materiale reciproco, per ospitare attività che coinvolgano anche utenti esterni. I minori accolti in una comunità familiare non vivono solo
un’esperienza di vita familiare, ma di legami sociali buoni e generativi, che non diventano sostitutivi della famiglia d’origine, ma una sorta di suo ampliamento.
In questo senso, è sicuramente significativo e utile il passo compiuto dalla Regione Lombardia
che ha saputo riconoscere la particolarità di questa forma accoglienza, valorizzandola e inserendola quale tipologia specifica nella rete di offerta per l’accoglienza residenziale dei minori e
ponendo chiare distinzioni dalle altre tipologie comunitarie (le comunità educative, gli alloggi
per l’autonomia) attraverso una denominazione precisa che stabilisce che solo le comunità
dove ci sia una coppia siano familiari. In particolare, per comunità familiare, la Regione Lombardia intende una struttura con finalità educative e sociali gestita da una famiglia presso la
propria abitazione che può ospitare fino a 6 minori. Può svolgere anche funzioni di pronto intervento o essere destinata esclusivamente a tipologie omogenee di utenza (es. comunità familiare di pronto intervento, mamma-bambino ecc.). La famiglia è responsabile educativa dei
67
minori accolti, ma è prevista la presenza di un operatore di supporto alla famiglia stessa .
Come è emerso in una recente ricerca sulle strutture di accoglienza residenziale per minori in
Lombardia (Bramanti, Carrà, a cura di, in press), il fatto di includervi le comunità familiari implica una forzatura, perché difficilmente una famiglia può essere considerata una struttura e
le difficoltà di valutare sulla base degli stessi criteri e di applicare le stesse regole a comunità
educative e familiari è risultato molto evidente.
L’accoglienza di minori in una comunità familiare ha un preciso significato culturale (Rossi,
2006). La comunità familiare si rapporta con il territorio attraverso le due dimensioni che la
caratterizzano e che costituiscono la sua identità: la dimensione servizio, che prevale nei rapporti con le istituzioni (i servizi sociali invianti il minore, in primo luogo, la scuola, ecc.), caratterizzata dall’accoglienza dei minori e da tutto ciò che attiene agli obiettivi educativi, che vengono concordati con i servizi sociali e le strategie che la comunità familiare mette in atto per realizzarli; e la dimensione famiglia, quella che prevale nei rapporti con il vicinato, con le agenzie
del tempo libero, e in tutte le relazioni informali di cui è composta la vita quotidiana della comunità familiare. Come affermano gli stessi intervistati, le comunità generano “un benessere
che scaturisce dalla vicinanza”, in “risposta a bisogni relazionali”. La dimensione del servizio
e quella della famiglia sono ovviamente inseparabili, anche se a seconda delle situazioni una
può prevalere sull’altra, ed è dalla loro contemporanea presenza e integrazione che la comunità familiare si distingue sia dalle comunità educative, sia dalle famiglie affidatarie.
Ciò detto, tuttavia, l’analisi delle due esperienze dal punto di vista dell’idea di una tutela del
minore che ricomprenda anche le sue relazioni familiari (che è il carattere chiave di un buona
67
Deliberazione giunta regionale n. VII/20943/2005; Deliberazione giunta regionale n. VII/20762/2005).
195
pratica in questo campo) resta, nel caso delle comunità familiari un auspicio, che – in certo
senso – depotenzia la “familiarità” dell’intervento, che è familiare verso l’interno, ma non riesce ad esserlo pienamente anche verso le famiglie dei minori accolti, non tanto per un deficit
della comunità familiare, ma una carenza – come è emerso della sopra citata indagine sulle
strutture di accoglienza residenziale per minori in Lombardia – della rete di attori che ruotano
attorno al bisogno delle famiglie fragili e dei minori che da esse vengono allontanati. Proprio il
fatto che si tratti di famiglie rende in molti casi più complessi i rapporti tra la comunità e la
famiglia d’origine che si sente sostituta in modo maggiore che dagli operatori professionisti di
una comunità educativa. Tuttavia, come emerge chiaramente dalle interviste, proprio la natura aperta delle famiglie della comunità. le rende forse proprio un terre fertile dove sperimentare nuove forme di relazionalità con le famiglie fragili, che prevengano l’allontanamento.
196
6.PER CONCLUDERE
68
di Elisabetta Carrà
6.1.1 LE CARATTERISTICHE DEI SERVIZI STUDIATI
Come è stato rilevato nella prima ricerca qui presentata, “Dalla tutela del minore alla promozione delle relazioni familiari”, le difficoltà delle famiglie che portano all’allontanamento dei figli dai genitori e dal proprio nucleo di convivenza sono un problema sociale molto rilevante,
che incide più di altri fattori, quali un handicap, la tossicodipendenza, l’alcolismo, nel portare
ad una sistemazione out-of-home dei minori.
Possiamo dare nomi diversi a questa fragilità familiare, identificarla come multi problematicità, che può avere varie gradazioni, dal grigio (la cosiddetta “zona grigia” di cui si occupa il progetto di Torino) al nero più cupo; leggerla come conflittualità della coppia genitoriale che porta
alla separazione o al divorzio; interpretarla come inadeguatezza genitoriale legata ad una migrazione difficile oppure come isolamento sociale, in particolare della componente femminile,
legato alle difficoltà d’integrazione dei migranti.
Il tratto comune di queste diverse forme di fragilità è che un intervento non mirato a supportare la famiglia nella sua interezza o un intervento tardivo, quando la problematicità diventa
veramente grave, ha come risultato che la fragilità si trasformi in rottura e ciò determini come
prima conseguenza un allontanamento del minore dai genitori.
I problemi a cui rispondono le esperienze qui studiate si situano proprio sul confine tra fragilità e rottura, appena prima o appena dopo per rafforzare o ricostruire legami familiari.
Il
probl
ema
cui
l’inter
vento
rispo
nde
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Gruppo
di parola
Fragilità di
alcune famiglie
con minori
considerate
multiproblematiche e
seguite dai
servizi sociali
comunali di
tutela minori
Fragilità di
famiglie con
minori con
problematiche
che non
richiedono
ancora interventi
codificati, e non
sono così gravi
da richiederli: la
cosiddetta “zona
grigia”
La separazione
dei genitori, la
riorganizzazione
della vita
familiare a
seguito della
separazione
Comunità
familiare
interreligiosa
Fragilità familiare
e delle reti
sociali, in
particolare
riferita alle
situazioni
generate dalla
migrazione
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Isolamento e
difficoltà di
integrazione
socio-culturale
delle madri
immigrate di
origine
marocchina e
delle loro
famiglie
Tutte le esperienze qui studiate rispondono a problematiche inerenti la fragilità delle famiglie,
puntando in modo più o meno diretto (a seconda delle situazioni) a rafforzare le relazioni familiari. I primi due casi, Multifamily Therapy e Affido di famiglia, rappresentano esempi rarissimi in cui in modo diretto si interviene “con” le famiglie, coinvolgendole e promuovendone le
competenze “naturali”; fra i due, l’esperienza torinese ha in più il fatto di “utilizzare” come
“strumento” una famiglia, anziché operatori professionisti; nel terzo caso (che raggruppa le
68
Il capitolo è stato redatto avvalendosi delle sintesi predisposte dai diversi estensori dei casi.
197
69
due esperienze di Gruppi di parola, di Assago e Bussoleno ) ciò che si punta a risolvere o prevenire non è tanto la rottura, la separazione della coppia, quanto la rottura del legame “bigenitoriale” con i figli e ciò è possibile anche perché il servizio qui studiato è strettamente collegato alla pratica della mediazione familiare, meno innovativa (perché ormai piuttosto diffusa), ma non per questo meno importante: è il circolo virtuoso tra questi due servizi che può
rafforzare, pur nei limiti consentiti dallo stato di separazione, la relazione familiare; nel caso
della comunità familiare interreligiosa, la famiglia e il codice di condivisione comunitaria portato all’estremo diventano lo strumento per ripristinare il tessuto relazionale dei minori accolti, mentre le famiglie d’origine restano invece ancora sullo sfondo; nei percorsi di cittadinanza
attivati a Torino, invece, il fulcro per arrivare alla famiglia è stato individuato nella figura femminile, che spesso, dopo il ricongiungimento, resta ai margini e il suo isolamento rende decisamente più complessa l’integrazione familiare: al contrario, l’inserimento competente della
madre in un tessuto sociale ricco può trascinare con sé l’intera famiglia.
A
Mezzi
utilizzati
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Gruppo
di parola
Contratto con la
definizione degli
obiettivi per le
singole situazioni, a firma di tutti
i soggetti partecipanti, genitori
compresi
Famiglie solidali
che prendono in
affidamento non
solo il minore,
ma l’intero nucleo familiare in
difficoltà.
Il gruppo dei partecipanti al
Gruppo di parola
(figli e genitori); 1
o 2 conduttori
con formazione
ad hoc.
Le associazioni e
le loro reti.
Sullo sfondo, la
mediazione familiare.
Attività con il
gruppo di famiglie
Comunità
familiare
interreligiosa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Affido di minori
in difficoltà caratterizzato da 3 elementi: presenza di una comunità di famiglie,
presenza di supporto educativo,
approccio multiculturale. Famiglie affidatarie,
personale educativo
Corsi di prima
alfabetizzazione;
Preparazione delle donne
all’esame di licenza media;
Percorsi di cittadinanza;
Visite guidate
nella città;
Laboratori pratici
di cucito, cucina;
Formazione di
donne maghrebine al ruolo di
educatrici pari
Formazione e aggiornamento di
tutti gli operatori
Obiettivo trasversale a tutte le esperienze è l’empowerment delle competenze relazionali, per
migliorare in particolare le relazioni familiari.
69
Trattandosi di una metodologia identica e non essendo attualmente in essere il Gruppo di Bussoleno, in questo
capitolo i due casi verranno considerati congiuntamente come “Gruppi di parola”.
198
G
obiettivo
dell’
intervento
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Gruppo
di parola
Comunità
familiare
interreligiosa
Valutare le potenzialità di recupero del ruolo
genitoriale delle
famiglie partecipanti e sostenerle in questo percorso.
Sostenere e aiutare il minore e il
suo nucleo familiare, rendendo le
famiglie d’origine
consapevoli, capaci e autonome
nel risolvere i
propri bisogni.
Offrire uno spazio e un tempo
per parlare della
separazione e
delle vicende familiari insieme a
chi vive contestualmente la
stessa difficoltà
Sostenere la crescita all’interno di
una famiglia di
minori (italiani e
stranieri) allontanati dai genitori
naturali, salvaguardandone le
origini.
Uscire
dall’isolamento
Sostenere e
strutturare una
comunità familiare in grado di elaborare e trattare differenze di
ogni tipo
Promuovere processi di empowerment e di auto-mutuo aiuto
tra le famiglie.
Superare
l’isolamento delle
famiglie multiproblematiche.
Evitare la stigmatizzazione “Normalizzare”
l’accadimento.
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Sostenere i percorsi di ricongiungimento familiare e di integrazione sociale
delle donne maghrebine immigrate con figli di
diversa età
All’origine di tutti i servizi studiati c’è un percorso che ha portato più soggetti del territorio a
leggere un bisogno e a individuare soluzioni innovative: in alcuni casi la partecipatività del
processo è più evidente e formalizzata. Nel caso di Varese (Multifamily Therapy) e in quello di
Assago (Gruppo di parola) c’è a monte una condivisione dell’analisi del problema che ha portato una pluralità di soggetti a “importare” nel proprio servizio una metodologia fortemente relazionale e che prevede poi una partecipazione attiva degli utenti, ma si tratta di interventi codificati, per attuare i quali serve una formazione specifica. L’Affido di famiglia e la Comunità
familiare interreligiosa non hanno bisogno di competenze specifiche, ma solo di famiglie disponibili a inserirsi nel progetto e a partecipare attivamente al percorso. I percorsi di cittadinanza torinesi invece sono il frutto di una progettazione partecipata e di partnership pubblico/terzo settore che tende ad allargare la partecipazione attraverso le “educatrici pari”.
199
Multifamily
Therapy
I
regole
metodi
Integrazione
degli interventi
clinici con quelli
sociali.
Network-meeting
tra famiglie e
operatori.
Day unit.
Incontri
individuali con i
singoli nuclei
familiari al
domicilio
Gruppo di automutuo aiuto delle
famiglie (solo
adulti) al termine
del ciclo intensivo
Affido
di famiglia
Abbinamento
delle due
famiglie ad
opera sia delle
Associazioni sia
dei Servizi
Sociali.
Monitoraggio
dell’intervento
attraverso un
gruppo tecnico a
livello centrale.
Partecipazione
attiva di tutti gli
attori alla
definizione del
progetto.
Gruppo
di parola
4 incontri di 2
ore ciascuno, al
quarto incontro i
genitori sono
invitati a
partecipare alla
seconda ora. È
richiesta
l’autorizzazione
scritta dei
genitori alla
partecipazione
del figlio e viene
offerto un
colloquio tra i
genitori di un
singolo bambino
e il conduttore.
Comunità
familiare
interreligiosa
Progettazione
partecipata con il
coinvolgimento
della rete delle
famiglie italiane
e straniere
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Progettazione
partecipata a
diversi livelli
Graduale
coinvolgimento
delle donne
immigrate
Educatrici pari
Formazione
interculturale
degli operatori
Mediazione
transazionale
Gruppo come
strumento di
lavoro.
Per quanto riguarda il modello di valore sottostante, si potrebbe sintetizzare con un unico
concetto il filo rosso che unisce le 5 esperienze: sussidiarietà, che si realizza attraverso la strategia dell’empowerment e facendo leva sul “potere” terapeutico delle relazioni familiari.
Multifamily
Therapy
L
Reciprocità
modell
o di
valore
Empowerment
Autodetermina
zione
Auto-mutuo
aiuto
Valorizzazione
delle relazioni
familiari come
risorsa
Affido
di famiglia
La famiglia non è
più vista come
elemento solo
negativo da cui il
minore deve
essere
allontanato, ma
diventa una
risorsa.
La solidarietà tra
le famiglie è un
risorsa da
valorizzare.
Gruppo
di parola
Assago
Valorizzazione
del legame di
appartenenza dei
figli alle due stirpi
familiari.
Valorizzazione
delle competenze
relazionali della
coppia
genitoriale e tra
le generazioni.
Comunità
familiare
interreligiosa
Preferibilità della
comunità di
famiglie
affidatarie alla
comunità
educativa.
Intercultura
come impegno e
capacità di
dialogo.
La famiglia
straniera come
risorsa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Cura del legame
con l’altro.
Valore del
dialogo
interculturale e
interreligioso
Lavorare con le
donne per
sostenere le
famiglie
Visione a lungo
temine sul tema
della coesione
sociale
Promuove la
crescita e
l’autonomia
femminile
200
6.1.2 “BUONE” PRATICHE?
Il primo criterio preso in considerazione in tutti gli studi caso è stato l’efficienza, individuata
nella congruità tra mezzi e fini, nella sostenibilità nel tempo e nella capacità di capitalizzare
quanto appreso. Rispetto ai tre indicatori, tranne l’esperienza del Gruppo di parola di Bussoleno, che non è stata replicata dopo la sperimentazione a costo zero, tutti i servizi risultano altamente efficienti, con un personale adeguato, spese coperte in quanto inseriti nella programmazione sociale del territorio e integrate attraverso finanziamenti di fondazioni. Al di là
della copertura finanziaria, si tratta di interventi generalmente poco dispendiosi , soprattutto
a fronte dei costi economici che i servizi pubblici dovrebbero sostenere nel caso che le situazioni si deteriorassero: inviare un minore in una comunità educativa è molto costoso così come sostenere una psicoterapia o non agevolare l’integrazione degli stranieri.
A
Efficie
nza
C’è una
congrui
tà tra
mezzi e
fini?
Multifamily
Therapy
Affido di famiglia
5 nuclei
familiari/16
persone – 3
operatori
25 nuclei familiari
(ad oggi 150) /75
persone – 4
operatori
€ 20.000
€ 5.000
Per ora
investimento
economico con
previsione di
risparmio per
l’Ente.
Le risorse
impiegate sono
adeguate.
Chiaro risparmi
economico
preventivo.
L’intervento ha un
investimento
idoneo
Il
progett
oè
sosteni
bile nel
tempo?
È legato al
Fa parte della rete
finanziamento
di offerta del
comune di Torino
dell’Ambito
distrettuale e a
confinanziamenti
da bandi di
Fondazioni
Gruppo di parola
29 ragazzi – 4 GDP
€ 990/GDP – 2
operatori
Le risorse sono
adeguate a
rispondere alle
richieste
Comunità
familiare
interreligiosa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
4 fratelli – 2
famiglie accoglienti
(2 in arrivo)
199 donne – 30
operatori
Risparmio
economico e
adeguatezza delle
risorse
La copertura
economica è
adeguata e la
partecipazione
elevata
La sostenibilità è da
verificare (rette dei
comuni e
integrazione di
Comin)
Sì, basato su fondi
annuali, già
rinnovati da 7 anni
La domanda viene
saturata, ma non il
bisogno. Il
risparmio
economico e
sociale non è stato
ancora oggetto di
indagine.
È legato alla
collocazione
all’interno del Piano
di Zona e ad altri
finanziamenti.
€ 40.000
Può attingere a
risorse pubbliche
disponibili
(personale delle
biblioteche,
insegnanti)
È finanziato da
partnership esterne
(fondazioni,
associazione)
È in
grado
di
capitali
zzare
È stata realizzata
una formazione al
fine di
promuoverne la
diffusione e la
Finora l’ha
capitalizzata e
esportata in altri
territori
Legato alla
presenza di
operatori con
formazione
Il legame con la
cooperativa Comin
garantisce una
capitalizzazione
Legato alle persone
che l’hanno avviata,
anche se, da un
punto di vista
metodologico, le
201
specifica
l’esperie cultura di
intervento.
nza
acquisit
a o la
disperd
e?
dell’esperienza
prassi appaiono
ben consolidate
Dal punto di vista dell’efficacia, alcuni indicatori consentono di affermare che c’è un chiaro rafforzamento delle capacità dei soggetti interessati dai progetti: per i primi tre servizi, si tratta
sicuramente di un empowerment delle famiglie destinatarie e una rigenerazione del loro capitale sociale, e ciò viene costantemente monitorato attraverso specifici strumenti dagli stessi
erogatori del servizio. Per quanto riguarda la comunità familiare, si rileva un notevole arricchimento del capitale sociale delle famiglie accoglienti, della comunità e del territorio, anche
se – come osservano gli stessi intervistati – manca un pieno coinvolgimento delle famiglie
d’origine. A questo proposito va detto che, tra le famiglie che hanno partecipato da “utenti” al
progetto di Affido di famiglia, ci sono anche nuclei stranieri, ad indicare una direzione che le
stesse comunità familiari interculturali potrebbero intraprendere. L’empowerment delle donne
maghrebine è indubbiamente stato raggiunto, dal momento che alcune di esse vengono progressivamente coinvolte come educatrici pari; diverso è tuttavia valutare l’incremento del capitale sociale delle loro famiglie, che si può desumere solo in via indiretta.
G
Efficacia
Promuove
l’empower
ment dei
destinatari?
Incrementa
il capitale
sociale
primario,
comunitario e generalizzato
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Gruppo
di parola
L’intero progetto si
fonda sul principio
che le famiglie,
anche se in difficoltà, abbiano le
risorse per poter
far fronte ai loro
bisogni e riacquisire il proprio ruolo
genitoriale.
Il rispetto delle potenzialità della famiglia in difficoltà
rafforza la loro autostima e crea legami tra famiglie
che perdurano nel
tempo.
I partecipanti riacquistano empowerment rispetto
alla comunicazione e allo scambio
nel proprio nucleo
familiare e con altre famiglie che
condividono
un’esperienza analoga .
Il lavoro in gruppo
delle famiglie
permette di riscoprire capacità personali.
L’esperienza del
Gruppo di Auto-
Il progetto genera
consapevolezza
nei vari attori: tra
le famiglie solidali
e quelle affidate si
creano legami di
solidarietà, che
Le reti relazionali
si arricchiscono (il
gruppo dei pari
per i bambini e il
gruppo dei genitori dei bambini), il
percorso permette
Comunità
familiare
interreligiosa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Il progetto promuove il benessere dei bambini in
affido e, con più
fatica, delle famiglie naturali.
Il progetto incrementa le capacità
d’ integrazione
familiare e sociale;
Il progetto promuove
l’empowerment
delle famiglie affidatarie attraverso
la convivenza tra
famiglie il personale educativo.
incrementa le
competenze delle
donne
potenzia il loro
ruolo familiare e
sociale
coinvolge le donne
come educatrici
pari
Il progetto promuovere il dialogo
interculturale e
interreligioso sul
territorio.
È in progetto un
passaggio di responsabilità del
progetto alle donne immigrate
La vicinanza tra
famiglie e il reciproco sostegno, il
supporto educativo esterno incrementano il capitale sociale di tutti
Incrementa il capitale sociale delle
famiglie immigrate, degli enti coinvolti in
partnership.
202
Mutuo Aiuto permette alle famiglie
di promuovere nel
tempo sempre
maggiori capacità
relazionali fra loro
e a livello comunitario.
Il benessere delle
famiglie si ripercuote a livello comunitario grazie
ad un maggiore
benessere dei figli
nei loro contesti di
vita (scuola, luoghi
di socializzazione,
…)
favoriscono il benessere reciproco;
sotto la guida delle
associazioni, nascono processi auto-organizzativi,
con incontri tra le
famiglie solidali,
con il riconoscimento di una propria competenza
come gruppi di
famiglie, e la valorizzazione della
disponibilità al
servizio; anche le
relazioni che si
creano tra le varie
associazioni insegnano alle stesse a
fare rete.
di riacquistare fiducia nelle relazioni e nei legami
in quanto si sperimentano relazioni buone con i
componenti del
gruppo e con i due
conduttori.
gli attori coinvolti
nel progetto (i figli
in affido, i figli naturali, la coppia
affidataria, il territorio e le sue istituzioni), principalmente dal
p.d.v. della fiducia
e della reciprocità.
La dimensione della relazionalità con i relativi indicatori è – come risulta da quanto osservato
finora – trasversale e accentuata: potremmo da ciò dedurre che è possibile realizzare un intervento pienamente relazionale, laddove lo stile partecipativo c’è fin dall’inizio ed esso garantisce anche la continuità del servizio, tant’è vero che il Gruppo di parola di Bussoleno, realizzato nell’ambito di uno stage, e non nato da una volontà degli operatori del territorio, ha trovato
molti consensi, ma non ha potuto proseguire, perché esterno alla progettazione sociale. È
dunque estremamente importante che all’origine di una buona pratica ci sia una volontà condivisa, anche da parte dei soggetti pubblici che hanno il compito di integrare l’intervento nella
pianificazione territoriale.
203
I
Relazionalità
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Comunità
familiare
interreligiosa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Progetto sostenuto dagli operatori
del Centro in cui il
servizio è inserito
e da altri soggetti
del territorio.
La modalità partecipativa ha caratterizzato la fase
preliminare della
progettazione (associazione Diafa Al
Maghreb, Risvegli,
Fondazione I care).
Ora la regia è interamente di Comin
che per tradizione
e storia compie un
lavoro di rete partecipato.
La modalità partecipativa coinvolge
sia il livello di vertice della
partnership che i
livelli operativi
(collaborazione tra
équipe, tra operatori del territorio)
Gruppo
di parola
Il servizio è
stato progettato/
realizzato
in modo
partecipato
fin dalla
definizione
del bisogno/ problema a cui
risponde?
Il progetto nasce
dalla condivisione
della lettura del
bisogno tra un ente pubblico e una
cooperativa sociale.
Il servizio ha visto
una gestione in
partnership fin
dalla sua progettazione.
Coinvolge i
beneficiari
nell’attuazi
one?
Le famiglie sono
soggetti partner a
tutti gli effetti nella
realizzazione del
Centro. Sono coinvolte e partecipe
in tutti i processi
decisionali e operativi
dell’esperienza.
Le famiglie affidate sono coinvolte
attivamente in
quanto la famiglia
solidale non si sostituisce ad esse
nei loro compiti
genitoriali, bensì le
accompagna.
La metodologia di
conduzione del
GDP è basata sul
coinvolgimento
attivo dei bambini
Minori in affido e
famiglie affidatarie
sono coinvolte e
protagoniste del
progetto.
Le donne sono
fortemente coinvolte a livello operativo (educatrici
alla pari), più difficoltoso ad altri livelli per varie ragioni
Realizza la
valutazione
degli interventi ed è
in grado di
utilizzare
riflessivamente i risultati?
Durante lo svolgimento del progetto vi sono incontri
di rete per valutare l’andamento ed
eventualmente
individuare nuovi
obiettivi.
Il progetto è monitorato dal suo sviluppo alla sua
conclusione. A livello partecipato
viene effettuata
una valutazione ex
ante, per un corretto abbinamento
La valutazione fidelle famiglie; una
nale è condivisa
valutazione in
tra tutti i soggetti
itinere, relativamembri della rete.
mente al percorso
La valutazione fi- degli abbinamenti
nale del progetto e alla coerenza
ha dato diversi in- degli obiettivi; una
put per la ripropo- valutazione ex
sizione della sepost, anche questa
conda annualità. condivisa, per la
verifica del reale
raggiungimento
degli obiettivi fissati.
La riflessione sulla
pratica è costante:
prima, durante e
dopo il Gruppo di
parola. I risultati
ottenuti hanno nel
tempo permesso
di adeguare gli
strumenti operativi e le modalità di
lavoro.
Sono condotte
riunioni periodiche di équipe sia
presso la comunità di famiglie sia
all’interno della
cooperativa
(gruppo esecutivo
di progetto e progetti educativi sui
singoli casi con
l’eventuale collaborazione di servizi esterni).
Sono condotte valutazioni periodiche ed è presente
un monitoraggio
costante
sull’andamento
del fenomeno e
dei bisogni volto a
garantire
l’adeguatezza delle
risposte.
La rete dei soggetti coinvolti in tutte
Le famiglie parte- le fasi comprende
cipano al tavolo di anche diversi parprogettazione con tner territoriali:
gli operatori.
fondazioni, servizi
sociali, associazioni.
204
Per concludere questa panoramica sulle “qualità” della pratiche analizzate, possiamo sicuramente considerarle come sintomo che c’è un’area degli interventi in campo sociale, ancora
poco visibile e diffusa, che si sta chiaramente orientando verso un welfare sussidiario, attraverso la creazione di partnership tra pubblico e terzo settore e la valorizzazione delle famiglie
che si rivelano risorse estremamente efficaci per prevenire e affrontare problematiche molto
rilevanti.
L
Comunità
familiare
interreligiosa
Percorsi
di cittadinanza
per maghrebine
Il servizio Gruppo
di parola è offerto
da un’Associazione
senza scopo di lucro attiva da tempo sul territorio,
accreditata e convenzionata con i
comuni afferenti al
piano di zona.
L’affido di minori
ad una comunità
familiare interetnica è nel segno di
una sussidiarietà
orizzontale. Esiste
– nonostante ciò –
la preoccupazione
per un inadeguato
sostegno istituzionale.
Il progetto è adeguato in quanto è
basato su una
partnership effettiva tra soggetti
pubblici e del terzo settore
La finalità del GDP,
basato sulla relazione tra i bambini, è la promozione del loro benessere nelle relazioni
con i genitori.
Il benessere dei
minori in affido,
delle famiglie che
ruotano intorno a
loro e della comunità territoriale è
centrale.
Il benessere della
donna nel suo
ruolo di cittadina e
in quello familiare
in quanto moglie/madre è centrale
Difficile tuttavia è
il coinvolgimento
delle famiglie
d’origine.
La relazione è
strumento principe dell’intervento
Pluralizza e arricchisce l’offerta dei
servizi, dal momento in cui mette a
tema la diversità di
cultura, di storia,
religione, sociale
come fruttuosa area di lavoro e di
scambio
Lo strumento iniziale del corso di
lingue, di per sé
non innovativo,
diviene opportunità di lavoro più
ampia e articolata
con le donne e le
famiglie.
Qualità
etica dei
fini
Multifamily
Therapy
Affido
di famiglia
Gruppo
di parola
Il servizio è
adeguato
ad implementare il
welfare
sussidiario
plurale?
Pubblico e privato
sociale sono partner di una stessa
rete in una posizione di sussidiarietà orizzontale
nella definizione
degli interventi a
sostegno delle
famiglie del territorio.
Il coinvolgimento
della comunità sociale, delle associazioni, delle parrocchie, dei volontari e delle famiglie fa sì che nella
comunità si aprano delle azioni
di sviluppo, di miglioramento e di
inclusione sociale.
La sussidiarietà
orizzontale in questo modo si traduce in azioni concrete di
partnership.
È finalizzato al raggiungimento di un
benessere
di tipo relazionale?
Destinatari del
servizio non sono
singoli soggetti ma
persone appartenenti a nuclei familiari che condividono situazioni
di difficoltà: relazioni sono i destinatari, attraverso
relazioni si promuove il loro benessere.
L’intervento non è
sul solo minore,
ma sull’interno
nucleo familiare di
cui è preservata
l’integrità.
Il Centro è
un’esperienza innovativa sia nel
contesto territoriale preso in esame,
sia nel più ampio
contesto nazionale
delle modalità di
risposta e sostegno alle famiglie
Il servizio arricchisce in modo concreto la risposta al
bisogno del sostegno ai minori e alle loro famiglie, in
quanto va ad affiancarsi agli altri
percorsi di affido,
facendosi carico
Introduce
un valore
aggiunto
(pluralizza)
nell’offerta
dei servizi?
Il gruppo di parola
risponde ad un
bisogno che fino
ad ora non aveva
trovato altra risposta, se attraverso interventi
terapeutici.
205
considerate multi- dell’intera famiglia.
problematiche.
Se a ciò aggiungiamo quanto emerso dall’approfondimento sull’associazionismo familiare, si
potrebbe dire che a fronte di una fragilità familiare crescente emerge paradossalmente una
robustezza della famiglia tradizionale: la salda e chiara funzione di mediazione tra generi e
generazioni che essa riesce ad esprimere la trasforma in una risorsa oggi insostituibile per
contrastare l’indebolimento delle famiglie: famiglie che salvano famiglie.
206
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