spazio zero - Comune di Corte Franca

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spazio zero - Comune di Corte Franca
SPAZIO ZERO
Silvia Rivetti
Non chiusi occhio tutta notte; continuavo a pensare a quel profumo. Per quanto mi sforzassi, non
riuscivo a ricondurlo a niente di conosciuto. Ero certa di aver già assaporato quella fragranza, ma mi
era impossibile metterne a fuoco il luogo ed il momento.
Per ore vidi davanti a me le fluttuanti onde del mare, illuminate da un sole tiepido e morbido, che
accarezzava la mia pelle in un pomeriggio di tarda estate. Tuttavia una sensazione di bruciante
nervosismo mi diceva che quel profumo apparteneva a qualcuno o a qualcosa, che forse aveva a che
fare con il mare, ma solo in quanto legato a quel ricordo.
I passi del secondino echeggiarono in maniera distinta dinanzi alla mia cella ed ecco che un’altra
ondata floreale mi inebriò dolcemente, filtrando dalla minuscola fessura sotto la porta e riempiendo
l’aria con un vortice di ricordi estivi che mi avvolsero nuovamente.
In questi tre anni furono molte le reminiscenze del passato che mi rubarono momenti di sonno, però
mai come allora una sensazione così vivida della mia vita da persona libera mi aveva fatto
dimenticare di essere in prigione. Ogni piccola cosa poteva diventare un’ossessione in quel luogo,
dirigendo ogni azione o pensiero in quella sola direzione e filtrando ogni suggestione esterna in
modo che alimentasse quell’unico turbamento.
Era facile distrarsi quaggiù: potevo fissare per un giorno intero il punto in cui iniziava la crepa sulla
parete accanto al letto, senza più rendermi conto della sequenza delle ore. Il difficile era
distogliermi da questo genere di distrazioni che là fuori, nel mondo reale, non avrebbero significato
nulla.
La notte insonne aveva tuttavia illuminato qualcosa in me. Fu in quell’istante che decisi di iniziare a
scrivere. Avvertii un bisogno estremo ed improvviso di evadere, per lo meno con i sensi; l’idea di
allacciarmi ai ricordi e di trovare un modo per renderli concreti prese forma velocemente,
guidandomi come un automa verso la porta. Esattamente in corrispondenza dei cardini, avevo
nascosto un carboncino fortuitamente trovato sul pavimento della mensa qualche giorno prima.
Quando lo raccolsi non avevo ancora in mente cosa farne, ma ora avrei scritto anche sulle pareti pur
di dar sfogo a qualcosa che mi portasse fuori di qui, come aveva fatto il profumo, e perdere
meravigliosamente coscienza per pochi momenti, allontanandomi dalla realtà circostante.
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Vivere in poco spazio non era mai stato un problema per me: ero cresciuta dividendo la mia stanza
con un fratello ed una sorella più piccoli. Dovetti abituarmi a far posto dentro di me per esprimermi
e decorare il bianco delle pareti. L’importante erano le piccole cose che avevo imparato ad
apprezzare, nell’intimità dello spazio-zero; i sospiri del vento, la superficie fresca e liscia della
scrivania, ma soprattutto poter udire il pianoforte dell’inquilino del piano di sopra. Lo vidi solo una
volta, di sfuggita, mentre aiutavo sua madre con la spesa. Uno sguardo mi bastò per capire che quel
pianoforte era tutto per lui. Era stato così a lungo seduto nella tiepida luce dorata dei pomeriggi
d’estate ad accarezzarne i tasti, da poter riconoscere l’altezza di una nota prima ancora di pigiarli,
godendo del suono cristallino che sprigionava l’opera veloce e sensuale delle sue mani. Ascoltarlo
dalla mia camera sotto il pavimento era diventata una piacevole abitudine.
Un’altra delle poche cose che tenevo per me era un libro, del quale utilizzavo lo spazio tra una riga
e l’altra per scrivere, e che riponevo sempre nel mio cassetto. Il resto della camera non aveva
valore; ciò che mi rendeva libera erano gli oggetti che nel corso degli anni avevo riposto in quel
piccolo spazio. Erano per lo più giocattoli, regali, conchiglie, foto, ognuno con la sua storia. Piccoli
ricordi colorati di momenti infiniti, che potevano volar via da quel mondo e trascinarmi con loro
oltre le barriere di un confine tangibile.
I miei fratelli occupavano ogni spazio, ogni superficie con oggetti, poster, giochi, bambole, come
estensione della propria personalità e come annullamento di se stessi. Ogni volta che trovavano un
giocattolo o incollavano un ritaglio di giornale nella loro fortezza si svuotavano di una parte di sé,
alleggerendosi e non dovendone più portare il ricordo. Preferivano addobbare la propria prigione,
anziché fuggirvi.
Io invece lavoravo per immagini e per parole. Erano loro a svuotarmi mentre cercavo di renderle
leggibile tra una riga e l’altra di 1984, ma ogni volta che le rileggevo mi riempivano. Per un attimo
pensai che poco era cambiato fra la camera della mia infanzia e questa cella. Il problema era solo
trovare qualcosa da scrivere.
Mi accorsi che sotto la brandina era posizionata una tavola di legno chiaro, morbido.
La sfilai ed iniziai a riempirla, scrivendo in maniera convulsa e quasi microscopica, per risparmiare
lo spazio ed il carboncino. Pensai che se anche avessero controllato sotto il letto per assicurarsi che
non nascondessi nulla, nessuno avrebbe notato le scritte, tanto l’attenzione dei secondini era
saldamente focalizzata su oggetti appuntiti ed altro materiale funzionale ad una fuga, lavorando per
stereotipi. Probabilmente ero l’unica a pensare che i ricordi potessero aiutarmi a fuggire più di
quanto lo avrebbero fatto una torcia ed una corda di lenzuola annodate. Tuttavia il bisogno di
esprimermi in un modo cui ero abituata nella vita reale cominciava a farmi tremare le mani, così
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trasformai in energia creativa quell’irrequietezza, tuffandomi a capofitto in un momento passato ed
iniziando a riversare ciò che avevo provato in quel momento.
Alcuni ricordi erano un po’ come un vecchio libro, riletto, sfogliato e accarezzato mille volte, tanto
familiare quanto sbiadito e consumato. Eppure ogni volta che riaffioravano e venivano osservati da
mani sempre più vecchie e stanche, trovavano la forza di suscitare, invariate, le stesse emozioni.
In questo istante le pagine della memoria che parlano del mio viaggio a Londra risvegliano
in me ogni sensazione provata in quei pochi giorni. In qualche secondo mi ritrovo su quel
treno, che ricordo fin troppo bene, mentre anche ora riesco a sentire freddo. Torno ad
essere circondata dal rumore stridente dei binari, le luci gialle e desolanti del vagone alla
deriva, il vocìo di studenti e casalinghe inglesi che siedono tra stanchezza e tristezza,
ansiosi solo di giungere a casa.
E fuori il buio; uno sfondo nero e confuso, interrotto solo da qualche lume di abitazioni
lontane, mentre il fuoco che mi scava dentro si sparge con un turbine di parole e pensieri,
in una sequenza che sembrava l’unica plausibile in quel momento, data la mia cieca,
giovane ingenuità.
Un profondo senso di malinconia mi avvolge e mi stringe freddamente tutte le volte che
rileggo quei pensieri. Ma subito un profumo riempie il mio respiro, un profumo che mi è
familiare, accompagnato dalla sensazione di un abbraccio, di mani morbide ed infantili.
Credo di non essermi mai liberata del tutto di queste sensazioni; in qualche angolo
recondito persistono dentro di me, sovrapponendosi talvolta ad altri ricordi.
Sì…era questo ciò di cui avevo bisogno in questo momento. Volevo, dovevo tenere la mente lucida
ed allenata, ricordandomi di cosa c’era prima. A volte non riuscivo a distinguere il dormiveglia
dalla realtà; non mi rendevo conto se in una giornata avevo già pranzato, o cenato, o se era soltanto
il pasto del giorno precedente. Distinguere se qualcosa lo dicevo o lo avevo solo pensato spesso mi
metteva in difficoltà.
Le mura della cella avevano iniziato a restringere anche la mia mente e comprimere i miei
sentimenti, oltre che il mio fisico. Mi serviva la luce della quale mi ero sempre nutrita e che in
prigione era diventata più preziosa del cibo. Cominciai a rendermi conto che ciò che mi circondava
finiva per influenzare sempre più la mia scrittura, infettandola con l’oppressione di questo incubo
carcerario. Come in un sogno, l’espressione inconscia e violenta dei miei pensieri e delle
suggestioni esterne prendeva forma sul legno in maniera confusa e mescolata, lasciando che il
freddo, la paura, l’incapacità di reali sogni notturni e la stanchezza influenzassero il flusso puro dei
ricordi.
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Una fatica che mi portavo nelle ossa, che era sempre e incessantemente presente, mi impediva di
stabilire dei ritmi nelle mie giornate e di scandire veglia e mondo della fantasia. Scrivere mi stava
condannando, ma iniziò anche a darmi la libertà.
Cielo umido e luminoso. Ultimamente guardo spesso fuori dalla finestra… Lo sfondo là
fuori sembra incarnare il mio stato d’animo, permettendomi di riversarvi ciò che provo.
Mani fredde, ruvide…per un attimo mi illudo che sia l’autunno passato. Una morsa mi
stringe dentro, mi blocca il respiro; il desiderio di fuggire esplode in me, con la voglia di
camminare in silenzio sino a raggiungere una strada della quale non conosco la fine.
Gli stessi rumori di sempre mi riempiono la testa, congelando i miei pensieri. La corda che
delimita sogno e realtà si assottiglia sempre più, lasciando dilagare anche qualche ricordo
impolverato.
Ma il Natale e la sua neve sono sbiaditi ormai; un’estate senza motivo sta prendendo il
sopravvento, sciogliendo il passato.
Vertebre in subbuglio e gelida sensazione di magrezza. Un giorno senza tempo, quello di
oggi, ma che non vedo l’ora giunga al termine. Qualcuno ha impietosamente spento la
musica ad inizio settimana ed ora i giorni sono costretti a trascinarsi sul pavimento triste e
ruvido. Anche queste tende mi hanno annoiato, con i loro sussurri bui nelle notti estive.
Occhi selvaggi scavano in fondo alla mia immaginazione, fissando intensamente l’istante
in cui afferro una foglia con la delicatezza di un bambino e la passo dolcemente tra le dita.
Un brivido mi avvolge le costole. In lontananza vedo un corteo funebre al quale ho
partecipato, ma non riesco a scorgere volti che ero sicura mi fossero familiari.
Davvero era estate? E da cosa volevo fuggire? Volevo già andarmene, come ora da questa cella, o è
stato il pensiero imprigionato a prendere il sopravvento? Dovevo cercare qualcosa di più remoto, di
inattaccabile, che non avesse a che fare con le sensazioni provate qui. O forse mi sentivo già in
prigione prima ancora di finirci. Tornai indietro di 5 anni, sperando di riuscire a concentrarmi sui
ricordi più lucenti che avessi.
La prima volta che lo vidi fu in una mattina come le altre, mentre stavo andando a scuola.
Ricordo il sole di quella giornata: era l’alba e i suoi raggi rosati proiettavano le ombre dei
palazzi per le strade, lasciando gran parte della città in una serena oscurità. L’aria era così
frizzante che potevo sentire il fruscìo delle chiome degli alberi nonostante il traffico.
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In quell’atmosfera incantata, dimenticai la mia meta. Avevo la mente sgombra, senza
nessun pensiero a infastidirmi; trassi un respiro profondo e mi lasciai pervadere da una
tiepida sensazione di libertà.
Camminavo da sola in quel mattino dorato senza tempo, e appena arrivata alla stazione dei
treni mi sedetti sul gradino che percorre tutto il bordo della ringhiera accanto ai binari.
Presi dallo zaino Sulla Strada ed iniziai a leggere da dove ero rimasta. Non mancavano
molte pagine, però cercai di dominare la tentazione di finirlo tutto d’un fiato per tenerne
una parte da leggere anche il giorno seguente.
Sulla panchina di fronte si sedette lui, ed iniziò a guardami, anche se all’inizio non me ne
accorsi. Mentre feci scorrere le dita sulla pagina per voltarla, fermai la lettura e alzai gli
occhi. Per un secondo i nostri sguardi s’incontrarono e mentre riprendevo il filo del
racconto, sentii una voce calda che mi chiese: “Cosa stai leggendo?”
Osservai per un attimo questo ragazzo che sedeva a pochi passi da me e colsi una nota di
curiosità sul suo volto, come fosse un bambino.
Mostrai la copertina e dissi: “Kerouac, Sulla Strada”. Avevo appena riniziato a leggere
quando esclamò con entusiasmo: “Adoro quando il protagonista va al concerto Jazz, è la
parte migliore!”. Poi il suo sorriso iniziò a svanire: probabilmente si chiese se mi stesse
disturbando, ma non disse nulla.
A quanto pare per il giorno seguente mi rimanevano più pagine di quel che mi aspettassi;
così lo tolsi dall’imbarazzo e, chiudendo il libro, sorrisi e risposi: “Sì, è vero, ha
affascinato molto anche me”.
I suoi occhi parvero illuminarsi, si avvicinò e mi strinse la mano. Cominciò a raccontarmi
della sua passione per i libri e di dove era cresciuto. Condividemmo per un po’ le nostre
passioni e la nostra giovanile ed insaziabile voglia di scoprire, di viaggiare, di vivere.
Trovai molte più cose in comune con lui di quante ne avessi con i miei compagni di classe.
Quando il mio treno arrivò lo salutai e salii in fretta per poter trovare un posto libero nei
vagoni.
Fu una sensazione strana quella che mi portai addosso per tutto il giorno: ogni volta che
conoscevo qualcuno iniziava un viaggio dentro di me, che ripercorreva le mie certezze, il
mio passato, le mie aspettative.
Parlare con lui quella mattina fu come rincontrare qualcuno che non vedevo da tanto, nel
quale ritrovai una voce familiare e dei gesti che pian piano mi sembrava di riconoscere. Mi
trasmise un inspiegabile senso di fiducia: avvertivo la possibilità di parlare liberamente di
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tutto con lui, a volte senza pensare cosa dire, senza chiedermi cosa non dire. Sperai tanto di
incontrarlo di nuovo.
Camera mia. Sole. Il giorno dopo mi svegliai presto, ma rimasi ancora un po’ nel letto,
fissando le tende bianche in controluce. Senza accorgermene sorrisi…mi sentivo bene
dopo tanto tempo.
Riaffiorarono momenti di quando ero bambina, privi di un apparente appiglio con il
presente. Ricordai di quando avevo ricevuto in regalo una piccola lavagnetta e del gesso
bianco per disegnare. Non avevo mai scritto col gesso prima d’allora e mi accorsi che la
consistenza era completamente diversa da come me l’aspettavo. Uno dei miei cartoni
preferiti all’epoca era quello in cui il protagonista va da uno psichiatra perché non riesce a
dormire e questi ne disegna le ragioni su una lavagna, ma con la morbidezza delle dita
quando scrivono su un vetro appannato o nella sabbia. Tutta la magia che nella mia
immaginazione aveva avvolto questo gesto si sgretolò come il mio gessetto di fronte alla
concreta impossibilità di farlo scorrere con dolcezza, ma piuttosto di dover praticamente
incidere le parole sul riquadro nero.
Lasciai dilagare ancora un po’ del mio passato, nella pausa settimanale da un periodo
scolastico pesante e un po’ vuoto.
Era da così tanto che non ripensavo a lui, alla nostra storia d’amore. A volte mi capitava di
inciampare per caso in un ricordo che pensavo di aver dimenticato, riscoprendo qualcosa che
sembrava non appartenere a me. Cercai allora di imprimere alcune delle sensazioni e delle
immagini che riaffiorarono a partire da quel momento, distesa nel letto. Provai a focalizzarmi sul
mio aspetto, sulle caratteristiche del viso, che mi pareva così diverso mentre lo tastavo ora con mani
ruvide e straziate; i miei lunghi capelli, di un colore vivo, che adesso, imprigionati, non erano più
lunghi di una spanna. Insomma, tornai lentamente ad immergermi nella vita della persona reale e
libera che ero stata qualche anno fa, tentando di ricostruire il mondo circostante pezzo per pezzo e
trasportandolo nello spazio-zero della cella.
Rientrare a casa quando fuori c’è buio ed il vento infuria contro i vetri, mettersi davanti al
fuoco e sentire le mani che si scaldano poco a poco, mentre si inizia ad avvertire il
profumo delle feste natalizie; la pioggia che dal silenzio della notte inizia a battere
improvvisamente sulla finestra di camera mia; mettersi il maglione quando d’estate piove.
Il punto in cui il pavimento è caldo e si può sentire a piedi nudi; la prima volta che sono
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stata a teatro. La grande quercia nel cortile della scuola ed il modo in cui la maestra
scriveva il mio nome.
La scatola di latta con dentro i vecchi bottoni e quella con i miei risparmi; le lunghe
domeniche pomeriggio quando fuori c’era il sole, ma faceva ancora freddo. Le foglie
dorate della betulla ed il profumo di quei fiori viola. Il quadernetto di cuoio, la collezione
delle macchinine di legno; il rumore della libreria che scricchiolava senza preavviso
durante la notte e l’odore dei pastelli colorati.
Le decorazioni di Natale che sparivano nella nebbia della città; l’aquilone ricevuto per i
dieci anni ed il profumo di farina della pasta fatta in casa. Il profumo…io e lui in quel bar
nella piccola cittadina di provincia; l’odore del caffè appena fatto. Il sapore di salsedine ed
il molo in lontananza; la sensazione dei granelli di sabbia tra le dita; il suo respiro, l’odore
dei suoi capelli; la sciarpa di lana che gli aveva fatto la nonna, il profumo di
Il carboncino si frantumò. Ne era rimasto così poco che praticamente stavo scrivendo con le dita,
quando di colpo, con un suono secco e fragile, si distrusse, finendo in piccoli pezzettini che
ricoprirono le ultime parole. Ci ero andata così vicina…ma non riuscii a spingermi oltre: questa fu
la mia condanna.
Ero così furiosa che gettai tutto a terra, prendendomela con me stessa per quell’idea infantile che mi
aveva trascinato fin lì. Nascosi di fretta la tavola e mi gettai sul letto, cercando ancora una volta
disperatamente di dormire.
Ripensai a lungo a quei giorni di febbrile scrittura ed all’aiuto che tuttavia mi diedero per superare
l’inverno fra quelle poche mura scivolose.
E poi, verso la fine di una nuova estate, mancavano ormai solo un paio di giorni al mio rilascio, così
mi diedero la possibilità di ripristinare il mio aspetto, cercando di renderlo il più possibile simile a
quando ero entrata.
Non sapevo dire esattamente il perché, ma le ultime settimane mi parvero le più tremende, anche se
c’era così poco da affrontare ancora.
Mi tornò in mente d’improvviso l’asse di legno sotto il letto, che non avevo più tolto dal suo
nascondiglio da quando avevo smesso di scrivere ed avevo perfino dimenticato. Mi imposi allora di
rileggere ogni parola, sforzandomi di essere come la ragazza di quei ricordi, quella che era giunta lì
alcuni anni prima e che adesso era pronta a tornare.
Così ripercorsi ognuno dei momenti passati rievocati nella cella.
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Sulla scia di quell’ultima frase incompleta che chiudeva i miei giorni di scrittrice furtiva,
cominciarono a delinearsi davanti ai miei occhi i contorni di palazzi grigi e monumentali, qualche
goccia di pioggia, i miei capelli al vento. Poi delle note di chitarra, mentre camminavo per strada.
Londra.
Musicisti sull’altro lato del marciapiede, la brezza, le luci dei negozi e delle lanterne antiche ed il
dolce profumo di quella giornata leggera. Era lì, era questo, ne ero certa. La fragranza delle brioches
del lunedì mattina, il Tamigi, il sapore dell’erba appena bagnata, l’odore della crema solare ancora
in borsa ed il sale trai capelli; i campanelli delle biciclette, il profumo della sua sciarpa, la sua mano
nella mia.
Avevo finalmente trovato il ricordo tanto agognato.
Era il profumo della felicità, di lui con me nella capitale inglese, e non lo straziante viaggio di
ritorno in treno, distrutta e sola, che per primo avevo recuperato in quanto rimasto più vividamente
incastonato trai ricordi.
Fu quel profumo, quel breve istante di idillio a darmi le energie, la forza di continuare, l’insistenza a
tornare su quel ricordo e ad aggrapparmi ad esso per mantenermi viva in prigione.
Qualunque cosa fosse successa dopo quella giornata londinese non mi importava più ora; decisi che
sarei tornata da lui la settimana successiva, una volta libera. Non mi preoccupava come sarebbe
potuta andare dopo. Ciò che mi scorreva nelle vene in quel momento era la tenacia nel mantenere
quella decisione e lo spirito di quel momento, fosse stato anche solo per dirgli un grazie e nulla più.
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