62. Il Novecento (8)
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62. Il Novecento (8)
Blitz nell’arte figurativa 62. Il Novecento (8) Il Cubismo non fu un movimento omogeneo. Molti artisti ne furono attratti, lo praticarono, e numerosi lo abbandonarono per altre forme d’avanguardia. Indubbiamente vi furono scambi fra le varie esperienze artistiche e il Cubismo fu a volte determinante per certe sintesi. Il fenomeno cubista ha una matrice in Cézanne e un padre in Picasso. Fra i due la distanza è notevole: Cézanne era per un rispetto dell’immagine, di fronte al quale si poneva al massimo in una posizione d’eguaglianza. L’uomo e le cose avevano per lui la stessa dignità. Cézanne non si ergeva a giudice dei fatti: osservava, contemplava, s’immedesimava. Picasso è invece per la predominanza della figura umana che egli pone in veste di osservatore della realtà, un osservatore autorizzato a deformarla a suo piacimento, o suo malgrado. Il pittore spagnolo non è uno sprovveduto. Sa seguire bene le istanze culturali del momento che prevedono certezze e incertezze, dubbi e convinzioni, sicurezza ed esitazione. Sa anche bene, tuttavia, che la personalità dell’uomo è ai suoi tempi messa in prima fila grazie ai risultati pratici portati dalle continue rivoluzioni industriali. Il termine “Cubismo” nasce da un’iniziativa di Matisse che di fronte a un quadro di Braque disse che quei “piccoli cubi” non lo convincevano. Il critico Louis Vauxcelles definì le opere in questione “bizzarrie cubiste”. Ma al Cubismo, grazie a Braque e soprattutto grazie a Picasso, si avvicinarono parecchi intellettuali e artisti, fra cui Guillaume Apollinaire, Max Weber, i due fratelli Duchamp, Severini. Due le caratteristiche principali del fenomeno cubista: quella analitica, iniziale, cominciata nel 1909 e quella sintetica successiva al 1911. Le date sono solo un riferimento di massima. C’è un pre-cubismo, datato 1907, detto Cubismo semplice. Nella sostanza, siamo di fronte ad un primo evento artistico cubista fatto di scomposizione dell’immagine e ricomposizione secondo la logica del punto d’osservazione, per cui certi particolari saranno avvantaggiati. Questo vantaggio non è, ovviamente, solo visivo: la preoccupazione dell’artista è di avanzare ipotesi e tesi, secondo un programma ricostruttivo della figura dipendente solo dalle risorse intellettuali dell’uomo. La scomposizione, tuttavia, se accentuata avrebbe potuto portare all’Astrattismo, un movimento con cui il Cubismo non voleva avere niente a che fare. L’Astrattismo è infatti orientato sulla spiritualità, mentre il Cubismo è decisamente per la realtà. Tanto è vero che per meglio definirsi, passerà a disporre sulla tela elementi eterogenei, come il collage, sino a introdurre le lettere dell’alfabeto, al fine di chiarire la sua missione realistica. Si tratta di un realismo nuovo. Il Cubismo si affida al Divisionismo e al Simbolismo per aiutarsi nell’impresa. Vi aggiunge elementi esotici, dell’arte animistica africana, e di quella dell’Estremo Oriente, apprezzandone la finalità idolatrica che trasporta dal soprannaturale all’uomo: operazione ben diversa da quella astratta che, infatti, usa l’animismo esotico a fini spirituali maggiori. I “piccoli cubi” sono, poi, trasposizioni della mentalità matematica per cui ogni cosa ha un motore interno ordinato da regole precise, matematiche, appunto: vedi i frattali. Queste regole devono diventare, per il Cubismo, di pertinenza umana. Pablo Picasso (Ruiz Y Picasso, 1881-1973), nato a Malaga, in Spagna e morto a Mougins, in Francia (in Provenza) a novantuno anni, fu artista eclettico, attratto dalla bella pittura (amava Raffaello, El Greco, Toulouse-Lautrec), e interessato agli esperimenti delle avanguardie. Pittore, scultore, litografo, acquafortista, era dotato di un grande temperamento e di una vocazione all’opportunismo eccezionale. La fortuna gli arrivò sposando Ol’ga Chochlova, una importante ballerina della troupe di Djagilev, allora il maggior coreografo del mondo (e forse tuttora), che aprì a Picasso il bel mondo parigino degli anni Venti. Prima, Picasso aveva fatto la fame in una Parigi, da cui era giunto nel 1900, che non lo considerava. Lo spagnolo (con nonno materno italiano, Picasso è il cognome della madre) aveva studiato con il padre (pittore e insegnante), eccellendo nel disegno. Lasciò la pittura accademica folgorato dallo stile di Toulouse-Lautrec, innamorandosi del Simbolismo e dell’artigianato africano (animista in modo ripetitivo). La sintesi di tutto ciò fece nascere il Cubismo, che Picasso condivise con Braque (anzi, pare proprio che la mente pensante fosse di quest’ultimo), di cui il Nostro divenne grande amico (ma non per molto, Picasso preferiva la solitudine, al massimo accettava la compagnia di donne adoratrici). Il Cubismo lo portò molto lontano dal periodo blu (figurativo, malinconico) e da quello rosa (vitalissimo, erotico: era innamorato perso, ma non durò molto, di una bella ragazza, Fernande Olivier) facendolo approdare a composizioni intellettualmente molto complesse alle quali prestò il suo temperamento focoso più che la razionalità che l’avanguardia cubista esigeva. Nelle sue mani, il fenomeno è particolarmente vitale: Picasso trasmette una fisicità invadente e intrigante, esprimendosi in termini concreti e pratici quando avrebbe voluto farlo usando mediazioni poetiche (“Les demoiselles d’Avignon”, anno 1907, considerato il primo quadro cubista, lo dimostra; prima figura). Egli, come Braque, intendeva arrivare allo scopo attraverso un giro di considerazioni che chiamavano in causa riflessioni profonde e incisive. Nella realtà si ritrovò con opere prosaiche gonfie di retorica involontaria quanto inevitabile dato il trattamento delle operazioni: ovvero un trattamento piuttosto diretto sin quasi alla sbrigatività espressiva. Il suo Cubismo sintetico, ingolfato di altri materiali (collages, papier collè – fogli di giornale e altro …) è la dimostrazione di una fatica nel mantenere una certa coerenza che attesta quanto in fondo sia povero il discorso picassiano, fatto sì di sostantivi e pochi aggettivi, ma di sostantivi elementari, la cui suggestione è tutta nella pronuncia. Picasso alza la voce, sapendo di poterlo fare. Maschera la modestia comunicativa con sottolineature vistose. Solletica le coscienze con temi civili scontati, dilatandoli, caricandoli di patos (come fa specialmente con “Guernica” del 1936, seconda figura, opera forse concepita per altro e quindi dedicata al bombardamento nazista della città, con prontezza pilotata quasi certamente da Dora Maar, fotografa e sua amante). Sa anticipare certe aspettative e soddisfare esigenze interpretative e risolutive. Non manca certo di capacità manuale e neppure di fantasia. Sa essere essenziale, indovina come toccare i tasti giusti, sollecitare il carattere delle figure: è abile nel ritagliarsi il ruolo di demiurgo per eccellenza. Durante la seconda guerra mondiale, Picasso rimase a Parigi, tollerato dai tedeschi occupanti, purché non esponesse (cosa che si guardò bene di fare). Nel 1944 si unì a Françoise Gilot (fu l’unica a lasciarlo qualche tempo dopo), quindi, sino alla morte fu (tradimenti a parte) con Jacqueline Roque. Dopo la guerra, si diede a una pittura di tipo neoclassico, con “correzioni” surrealiste. Dipinse parecchio e realizzò numerose acqueforti. Non lasciò testamento. Parigi, Malaga, Barcellona gli hanno dedicato un museo. Picasso ha fatto la fortuna di galleristi e collezionisti. Le sue opere godono di quotazioni stratosferiche. L’ultima figura rappresenta “Testa di donna” sua scultura sistemata a suo tempo in un giardino di Halmstad, nella Svezia meridionale: un piccolo gioiello virtuosistico, di notevole effetto visivo e di spettacolare forza materiale. Indubbiamente più sensibile, più intellettuale è la personalità di Georges Braque (1882-1963), di Argenteuil (vicino a Parigi, dove morirà, luogo caro a molti impressionisti) che con Picasso e con Gris (ma specialmente con il primo) divise le prime esperienze cubiste. Braque aveva seguito corsi artistici serali, era stato ispirato da Matisse (che non lo amava), aveva iniziato a dipingere “fauve”. Nel 1907 aveva visto una retrospettiva su Cézanne ed era rimasto folgorato da quella pittura, assai più di Picasso. Con quest’ultimo fu amico dal 1909 al 1914: i due frequentavano i rispettivi studi, consultandosi, copiandosi, rivaleggiando. Nel 1914 Braque fu chiamato alle armi, combatté e fu ferito gravemente. Se la porterà con sé per tuta la vita quella menomazione morale (più che fisica, nel suo caso). Il pittore francese si rese conto molto preso che il cosiddetto Cubismo analitico lo stava portando fuori strada: obiettivo cubista era di mantenere contatti con l’oggetto, non di stravolgerlo secondo idee o sensibilità metafisiche. Con il Cubismo sintetico, ovvero con l’inserimento nell’opera di richiami concreti, Braque cercò di rimettere le cose a posto pur rischiando la banalizzazione. Di tutto ciò, forse più di Picasso – toccato dalla furia creativa, anche se a sua volta conscio dei limiti analitici (peraltro non di sua pertinenza) - egli si accorse al punto di scegliere, nell’ultima parte della sua vita, un ritorno al figurativo, pur riducendolo a espressioni schematiche, elementari. Il suo vecchio amore per l’animismo africano rispuntò e s’impose secondo spiritualità altrimenti emarginate, quasi soffocate, nel suo operare: qualcosa di etereo, d’irraggiungibile che l’artista sfiora, incredulo, con la mente e accetta nel suo animo. È un animo alla ricerca di una pacificazione che il periodo sperimentale teneva nascosto, nel nome di un esibizionismo virile, fisico, sentito come urgente, come giusto, e ripudiato a mano a mano che certe riflessioni, sollecitate dall’esperienza bellica, si facevano strada nella sua delicata sensibilità. Egli, infine, quasi ammette l’impossibilità di condizionare la natura. Braque non ha avuto la stessa attenzione di Picasso per la mitezza del suo carattere, per certo lirismo vissuto con sottile passionalità e per rispetto assoluto, cezanniano, verso cose, situazioni, persino verso invenzioni, mai veramente sovrapposte alla realtà esterna. Qui: “Chitarra e fruttiera”, anno 1909; “Testa di donna”, anno 1912 e “Uccelli” anno 1954 (serie durata diverso tempo, con spirito contemplativo e malinconico, volutamente giocoso). Juan Gris (Josè Victoriano Gonzales, 1887-1927), pittore spagnolo, seguì le orme di Picasso, avendolo conosciuto a Parigi nel 1906. Gris conobbe anche Matisse (al quale s’ispirerà nel colorismo), Modigliani, Braque, ma di Picasso divenne amico e in parte ne imitò il Cubismo. Il Nostro ebbe vita breve, solo quarant’anni, che visse intensamente, occupandosi continuamente delle forme e delle loro trame nascoste. L’impostazione di Gris, che quando era a Madrid si occupava di disegno industriale e arrotondava facendo vignette umoristiche, ha carattere scientifico, non intellettuale né prosaico. Egli studia la composizione – alla quale dà sempre un tocco classicheggiante – e si serve dei colori che fa molto brillanti. Gris era per le trame delle cose, immaginava di poter arrivare alla loro consistenza ultima, alle relative strutture portanti. Non ne aveva un’ossessione, ma era curioso e in certo qual modo ostinato. Non dava molto peso alle sue scoperte e questo lo rende particolarmente simpatico. Le sue opere sono spesso alleggerite da un certo distacco, da fine ironia, dal disincanto, pur se l’insistenza nella ricerca oggettiva non manca mai, quasi fosse un esercizio obbligato. Sicuramente fra i migliori cubisti, Gris ci ha lasciato immagini comunque aggraziate, educate, accattivanti. S’indovina, nella loro intimità, il riversarsi di una gentilezza d’animo non comune, di un’alta considerazione del loro esserci. Gris non scopre, cerca. Non impone, propone. Poco rilevante nel Cubismo analitico, è fra i più convincenti in quello sintetico, dove segue una propria coerenza, non facendosi prendere dalla novità. Qui vediamo un “Ritratto di Picasso” del 1912 e “Chitarra e clarinetto” del 1920. Chiara la differenza fra analisi (praticamente impossibile nel Cubismo, pena l’astrazione, la perdita dell’oggetto) e sintesi (strada maggiormente percorribile dal cubista, in quanto semplificatrice pur con pericolo di semplicismo: ecco, è un pericolo che Gris corre poco). Fernand Léger (1881-1955), francese della Normandia, fu a Parigi nel 1898 impegnato nel disegno architettonico e come ritoccatore di fotografie. Seguì corsi privati di pittura. Fu attratto dagli Impressionisti e dai Fauves. Poi da Cézanne, Braque e Picasso. Si dedicò al Cubismo analitico, esponendo nel 1911 le sue prime opere di tal genere: Léger vi si cimentò spezzando del tutto le figure per giungere a una specie di astrattismo, animato dal colore. Il suo dinamismo appare molto artificiale, quasi una provocazione. Partecipò alla prima guerra mondiale e fu intossicato dai gas a Verdun. Nel 1924 l’artista fu in Italia, dove ammirò in particolare i mosaici bizantini di Ravenna e Venezia. Tornato in Francia, realizzò un film (“Ballet mécaniques”), poi si diede agli arazzi, ai murali, ai mosaici e collaborò con il teatro come costumista e scenografo (fu attivo, in particolare, con Darius Milhaud). Durante la seconda guerra mondiale fu negli Stati Uniti. Al rientro in Francia, riprese intensamente la sua attività di pittore, realizzando cicli denominati “I costruttori”, “Il circo” e altri. Recuperò la figura tradizionale, mise nelle composizioni qualche richiamo surreale e sposò il simbolismo. Quest’ultimo, nel suo caso, ha una valenza ideale, di ricostruzione del mondo secondo istinto e fiducia. I suoi costruttori sono lavoratori alacri che eseguono meccanicamente, ma senza rendersi prigionieri dell’oggetto. La libertà non è tanto in essi quanto nell’ambiente che Léger dipinge come fondale di una fiaba. A differenza dei futuristi, il pittore francese non esalta l’energia, il dinamismo, bensì il metodo, la costanza. È come se stesse ricordando la sua esperienza a Verdun e volesse superarla attraverso un fare con razionalità piana e comune, senza prevaricazioni e senza voli pindarici. Il suo Cubismo, nelle opere tarde, trova appagamento nelle linee semplici e nella resa geometrica elementare, quasi sottolineando che l’umanità deve impegnarsi a ragion veduta, non sottostando a presunzioni. Qui abbiamo: “La colazione”, 1921 e “I costruttori”, anno 1950. Il fisico danese Niels Bohr, uno dei padri della teoria quantistica (prima rifiutata poi accettata da Einstein con tanto di scuse), teneva in ufficio un quadro di Jean Metzinger (1883-1956), pittore francese di Nantes. Il quadro, “Donna con cavallo” del 1911-12 (dunque Cubismo analitico), confortava le sue idee sull’imprevedibilità della materia, anche se Bohr e Planck in particolare parlavano di imprevedibilità, quindi di relatività, in senso provvisorio, non assoluto. Metzinger aveva avuto successo come puntinista, imitando Seurat e Cross, al quale aggiungeva elementi fauve e divisionisti. Riusciva a sopravvivere vendendo opere del genere. Nel 1908 passò al Cubismo e nel 1912 realizzò con Albert Gleizes un trattato (complicatissimo) su di esso. Fu tra i fondatori del movimento “Section d’or” (orfismo, esoterismo mistico), nome dovuto a Jacques Villon. Il movimento durò circa cinque anni. Confluirà, in parte, nel Surrealismo. Determinante per il nuovo successo di Metzinger fu il lavoro di Berthe Weill, un’abilissima gallerista che per prima riuscì a vendere i quadri di Picasso e che fece conoscere le personalità di Matisse, Derain, Modigliani, Utrillo. Il pittore divenne molto amico di Delaunay, ma si staccò dalla pittura di quest’ultimo per una geometria scrupolosa, nella quale l’occhio umano voleva avere il privilegio di decidere cosa guardare e magari perché. In effetti, il motivo dell’osservazione non esiste nell’opera di Metzinger se non per cenni dietro i quali si celano mille incertezze mascherate da una notevole padronanza della scena. Essendo il motivo delle sue decisioni praticamente sconosciuto, ne consegue una vaghezza compositiva puntellata da certa imposizione visiva, resa accettabile da un determinato equilibrio formale cui l’artista si aggrappa con nonchalance. Ma certo l’indeterminazione trionfa. La questione dell’equilibrio formale porterà Metzinger a riprendere contatti con il figurativo classico e a concludere la sua carriere con l’insegnamento ortodosso della pittura, come se il Cubismo fosse stato un peccato di gioventù. Metzinger non ammise mai questo peccato, piuttosto accettò l’esperienza cubista come formativa di un miglior impatto concettuale con la realtà. In apertura, “Donna con ventaglio” del 1913 e “La roulette”, 1926. In cosa non si è cimentato Francis Picabia (1879-1953), pittore e scrittore parigino (madre francese, padre cubano cancelliere all’ambasciata cubana)? S’innamorò della scuola di Barbizon, poi degli Impressionisti, del Cubismo, dell’Astrattismo, del Dadaismo, del Surrealismo, per ritornare, dopo il 1925 al figurativo, addirittura patinato, per quanto non dozzinale. Dal 1913 al 1915 fu a New York dove fece conoscere l’arte moderna attraverso ritratti meccanici, esponendo all’Armory Show di New York dove conobbe Alfred Stieglitz, importante fotografo e gallerista. Picabia fu molto amico di Duchamp, di Tristan Tzara (collaborando alla fondazione del dada) e più tardi di Gertrude Stein, l’eccentrica scrittrice e poetessa statunitense, allora in gran voga. Il Cubismo gli diede un certo senso di ordine, peraltro già ravvisabile nei suoi “meccanismi”, metafore di una robotizzazione che colpiva anche gli esseri umani. Certi grovigli rimandano a questioni sessuali risolte con congegni. È evidente qui una sana ironia che si muove in superficie con intenti maggiori, più profondi. Picabia non era una un analista scrupoloso, anzi rifuggiva dalle analisi complicate, preferendo a esse, istintivamente e intelligentemente, una denuncia semplice dello stato delle cose. In effetti, egli è un moralista distaccato, si sente inaffidabile come intellettuale, come guru. Prende l’arte come un esercizio liberatorio, inseguendo il fascino delle forme e delle combinazioni, percepite come aggettivi e sostantivi di un linguaggio criptico che lui tenta di tradurre in un discorso semplice, pur non contandoci troppo. migliore, tutto sommato, l’accenno, il simbolo, il sottinteso. Siamo sempre dalle parti dell’esoterismo – tanto amato dai Surrealisti, dagli Astrattisti e poco dai Cubisti – che Picabia, affidandosi alla propria sensibilità, prova a rendere più chiaro, per lo meno nell’impostazione. Su commissione, e poi per piacere, riprese a dipingere in modo figurativo classico per buona parte degli ultimi venticinque anni della sua vita. Concluse la carriera immergendosi in un astrattismo caratterizzato da un lirismo personalissimo, quasi una riflessione interiore metafisica. Ecco “Danza”, anno 1912; “Parata amorosa”, anno 1917; “Olga” anno 1930. La sua versatilità è prodigiosa, il suo colpo d’occhio eccezionale, come il suo talento. Picabia non mancava di virtuosismo, anzi ne profittava d’acchito. Non era tagliato per il dadaismo, sebbene l’avesse abbracciato con entusiasmo, e neppure per l’Astrattismo. Convince nel figurativo e crea dinamismo affascinante, benché caotico, dipingendo con stile cubista. Il suo Cubismo è molto personale, calligrafico, armonioso, aperto. È un discorso, mai una sentenza. Albert Gleisez (1881-1953), pittore parigino, era per un Cubismo analitico e destrutturato. L’analisi si ferma rigorosamente alla composizione segreta delle immagini, una composizione molto ben impostata da un punto di vista armonico e stilistico. Il pittore scrisse un libro con Metzinger sul Cubismo e fu fra i fondatori della “Section d’or” oltre che fra gli animatori di consorzi mistico-culturali (il più importante fu il “Gruppo de l’Abbaye” guidato dal poeta Georges Duhamel). Gleizes passò al Cubismo dopo la scoperta di Cézanne e ne concepì uno distante dai fondatori, Braque e Picasso. Il suo non ebbe sviluppo verso il mantenimento dell’identificazione dell’oggetto, tanto meno verso la ricostruzione dopo la destrutturazione. Non volle mai sentir parlare di Cubismo sintetico, pur avendo tentato qualche approccio. Nel 1914 decise che avrebbe dipinto solo cubista (non manterrà la promessa perché verso la fine della sua vita prese a dipingere temi sacri). Scampò la prima guerra mondiale grazie alla futura moglie che lo fece presto far riformare. Nella seconda, Gleizes rimase in Francia, sotto la dominazione nazista. Qui vediamo “Paesaggio”, anno 1912 e un’opera senza titolo del 1930. L’assuefazione all’indeterminatezza è evidente: si tratta di una scelta naturale alla quale Gleizes non oppose resistenza. Una certa mistica di carattere utopico sembra dettare le regole della composizione, cui viene dato il compito d essere efficace tramite linee eleganti, sperdute in un sogno di perfezione formale, come impianto di partenza e di arrivo della ribellione contro il mondo convenzionale, con i soliti messaggi criptici (spirituali) affidati a un colore che non è mai accecante. Gleizes vuole suggerire seguendo un’intuizione di tipo religioso che arricchisce con grumi di notazioni razionali a giustificazione del rapimento estatico. Con Gleizes, il poeta Paul Dermée (direttore) e con Le Corbusier, Amédée Ozenfant (1886-1966) fondò, nel 1919, la rivista “L’Esprit Nouveau” (primo numero l’anno dopo) sugli sbocchi potenziali dell’arte contemporanea. Ozenfant era di Saint Quentin, a nord della Francia, e non era nuovo a iniziative del genere. Veniva dal Puntinismo, si appassionò al Cubismo e nel 1915 aveva realizzato con Max Jacob e Apollinaire la rivista “L’Elan” cercando di correggere il movimento cubista, lanciato verso il sintetismo, per Ozenfant e compagni verso orpelli decorativi. A proposito scrisse anche dei saggi, fra cui “Oltre il Cubismo” testo consecutivo al manifesto inneggiante al “Purismo” al quale collaborò anche Le Courboiser. Ozenfant, dal 1931 al 1938, lavorò intorno a una grande composizione figurativa intitolata “Vita”, sempre con mentalità purista. Nel 1938 emigrò a New York e fondò una scuola di belle arti. Ebbe noie con il maccartismo e fu espulso dagli Stati Uniti nel 1955. Il suo Purismo era costituito da economia compositiva, sobrietà e significazione simbolica da porre come soggetto unico nelle opere proposte. L’impianto di Ozenfant è di tipo architettonico, quindi con rigide regole estetiche e logiche razionali. “La brocca bianca” del 1926 è l’esempio per eccellenza della sua espressività pittorica. Questa purezza dice come impostare la catarsi del rapporto fra realtà tradizionale e realtà nuova dominata, ragionevolmente, dalla personalità umana. Un purista, forse a sua insaputa, non dell’eleganza di Ozenfant, fu anche il pittore argentino Emilio Pettoruti (1892-1971), morto a Parigi, lontano dal regime di Buenos Aires. Lo dimostra questa “Testa di donna” del 1920, dove l’essenzialità è assolutamente dominante. Pettoruti aveva studiato privatamente, scontento delle lezioni accademiche e aveva esordito come caricaturista, cosa che gli fece guadagnare un viaggio in Italia (grazie al politico Rodolfo Serrat, caricaturato alla perfezione). Nel 1913 il pittore fu a Firenze, dove scoprì Giotto, Masaccio, il Beato Angelico. Tramite la rivista Lacerba entro in contatto con i futuristi, ma non ne fece parte. Nel 1917 fu a Roma ed entrò in contatto con De Chirico, Carrà, Soffici. Nel 1922 fu a Milano e frequentò Sironi. Nel 1924 tornò in Argentina, disgustato dal nascente regime fascista. In patria fu nominato direttore del museo di belle arti di La Plata, incarico che lasciò nel 1946 per l’ascesa di Peron al potere. Nel 1952 torna in Europa. Esporrà nel Vecchio Continente, con notevole successo, in molte città. Le sue opere si posizionano sulla ricerca della luce e dei suoi effetti. La conseguenza è spesso l’astrazione. Pettoruti non raggiunse più la purezza e la semplicità del Cubismo della sua giovinezza. Nelle opere relative, egli si concentra sullo spirito, sull’animus delle figure proposte, lavorando agli elementi emblematici di un’espressione, di un essere, con ipotesi e tesi sul progresso dell’immagine relativa. Con l’amico Amédée Ozenfant, Le Corbusier (Charles-Edouard Janneret-Gris, 18871965) elaborò una serie di teorie artistiche contro i nascenti orpelli del Cubismo. Tali teorie apparvero fra il 1920 e il 1925 nella rivista “L’Esprit Nouveau” (28 numeri), fondata dai due più Paul Dermée, poeta belga e Gleizes. Esse concepirono una promozione purista dell’espressione artistica, ripescando le regole classiche per applicarle al mondo moderno. Quest’ultimo andava valorizzato concretamente, secondo il terzetto, mentre il Cubismo lo faceva astrattamente e virava verso un’involuzione coperta dal decorativismo. L’analisi cubista, fatta in direzione di una nuova possibile realtà a direzione umana, rischiava di esaurirsi – secondo i redattori della rivista – in un sintetismo compiaciuto quanto fermo sui suoi primi passi. Non essendoci norme per cui sintetizzare, l’esercizio cubista diventava un fenomeno fine a se stesso, di nessuna utilità per il progresso della direzione umanistica della realtà. Probabilmente fu Ozenfant a porre il problema. La sua precisione cubista possedeva un carattere classicheggiante che sicuramente influì sulle coscienze dei suoi compagni di viaggio. Le Corbusier (il soprannome gli era stato dato dallo stesso Ozenfant, giocando sulla composizione che richiamava il corvo – tanto è vero che il Nostro prese a firmarsi “Le Corbu” – e sulla musicalità del soprannome stesso) ci vide l’occasione per ripensare l’operazione cubista a partire dalla scomposizione dell’immagine tradizionale. Essa consentiva, ovviamente, una ricostruzione nuova della figura. La novità stava nell’uso razionale della ricostruzione, inseguendo la massima semplicità e utilità, affidandosi a canoni di scambio equilibrato fra le parti. La classicità greca e romana aveva risolto problemi di tutti i generi, compresa l’estetica. Quest’ultima aveva anticamente una valenza trascendentale – un omaggio alla divinità – che nel ‘900 doveva essere trasformata in valenza più pratica a onore dell’abilità umana, sposando un’eleganza sobria, rispettosa e ossequente nei confronti della razionalità. Senza Ozenfant, Le Corbusier avrebbe, probabilmente, continuato nelle ricerche estetiche fra cui quelle relative alle opere gotiche. D’altro canto, il futuro grande architetto svizzero, naturalizzato francese, aveva esordito come incisore ornamentale di casse d’orologio, s’era interessato all’Art Nouveau (Floreale), finché aveva conosciuto Charles L’Eplattenier (un notevole architetto, decoratore, scultore e pittore) che l’aveva indirizzato verso lo studio di architettura: fu la sua strada. Le Corbusier viaggiò per tutta l’Europa, si fermò in Italia, ammirò Firenze, fu folgorato da Michelangelo. Visitò Vienna e studiò i grandi architetti in voga, Olbrich, Wagner, Hoffmann, che apprezzò e per certi versi criticò. Poi partì per Parigi. Qui, nel 1922, con il cugino Pierre Jeanneret aprì uno studio di architettura. Nel frattempo aveva letto molto, specialmente Nietzsche a Schurè (il grande esperto in religioni orientali), impossessandosi di una notevole cultura che, unita agli spazi aperti dall’avventura cubista, lo favorì nella formulazione di progetti architettonici originali. Le Corbusier fu un innovatore come architetto e urbanista (arrivò a progettare in ogni dettaglio una città di tre milioni di abitanti, con strade sopraelevate, un po’ alla maniera di Leonardo). Fu un convinto assertore dell’uso del calcestruzzo armato, perno del “Movimento moderno” (espressione sua). Parlò di Funzionalismo, di abitazioni a misura d’uomo (a questo scopo inventò il “Modulor” una sorta di uomo vitruviano, con scale dotate di misure antropometriche, alle quali ispirarsi nelle progettazioni). Nel 1951 realizzò la capitale indiana del Punjab, Chandigarh (la città d’argento). Operò in parecchie città del mondo. Realizzò per primo delle “unità d’abitazione” (dei falansteri moderni): la più vistosa a Marsiglia, inaugurata nel 1952 (vi lavorava dal 1947), come risposta ottimistica ai disastri, nelle città, della seconda guerra mondiale. Si calcolano, in nome di Le Corbusier, settantacinque costruzioni in dodici paesi, cinquanta progetti urbanistici, cinquantaquattro libri di architettura urbana e di design (il Nostro fu anche un apprezzatissimo designer di arredi urbani). Scaturigine principale di tutto questo è la possibilità psicologica decostruzionista del vecchio mondo favorita dal Cubismo. Le Corbusier non si preoccupò soltanto di abbattere gli orpelli borghesi, ma anche di dare anche una sistemazione dignitosa alla gente comune e ordine alla città. La sua mentalità si rivela appieno con la realizzazione de “Le Cabanon” dedicato alla moglie: un ambiente di m. 3,66x3,66x2,26 contenente tutto il necessario per le necessità fisiche di due persone. Fu costruita nel 1949 ad Ajaccio e portata poi a Roquebrune-CapMartin (in questa città morì) dove ora si trova. Decostruzione del vecchio e costruzione del nuovo, dunque, in Le Corbusier: ciò che il Cubismo pittorico non riuscì a fare. Qui vediamo la sua prima costruzione: la “Villa Fallet” del 1907,; la magnifica “Villa Jeanneret-Perret” del 1912; la Palazzina a Stoccarda del 1927, con i classici cinque punti di Le Corbusier rispettati (ben visibili i “pilotis” che isolano la costruzione dall’unità del terreno); una “Unità di abitazione” a Marsiglia dei primissimi anni ’50; il Palazzo di Giustizia di Chandigarh, stesso periodo. E “Le Cabanon” esterno e interno.