62. Il Novecento (8)

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62. Il Novecento (8)
Blitz nell’arte figurativa
62. Il Novecento (8)
Il Cubismo non fu un movimento omogeneo. Molti artisti ne furono attratti, lo praticarono, e
numerosi lo abbandonarono per altre forme d’avanguardia. Indubbiamente vi furono scambi fra le
varie esperienze artistiche e il Cubismo fu a volte determinante per certe sintesi. Il fenomeno
cubista ha una matrice in Cézanne e un padre in Picasso. Fra i due la distanza è notevole: Cézanne
era per un rispetto dell’immagine, di fronte al quale si poneva al massimo in una posizione
d’eguaglianza. L’uomo e le cose avevano per lui la stessa dignità. Cézanne non si ergeva a giudice
dei fatti: osservava, contemplava, s’immedesimava. Picasso è invece per la predominanza della
figura umana che egli pone in veste di osservatore della realtà, un osservatore autorizzato a
deformarla a suo piacimento, o suo malgrado. Il pittore spagnolo non è uno sprovveduto. Sa
seguire bene le istanze culturali del momento che prevedono certezze e incertezze, dubbi e
convinzioni, sicurezza ed esitazione. Sa anche bene, tuttavia, che la personalità dell’uomo è ai suoi
tempi messa in prima fila grazie ai risultati pratici portati dalle continue rivoluzioni industriali.
Il termine “Cubismo” nasce da un’iniziativa di Matisse che di fronte a un quadro di Braque disse
che quei “piccoli cubi” non lo convincevano. Il critico Louis Vauxcelles definì le opere in questione
“bizzarrie cubiste”. Ma al Cubismo, grazie a Braque e soprattutto grazie a Picasso, si avvicinarono
parecchi intellettuali e artisti, fra cui Guillaume Apollinaire, Max Weber, i due fratelli Duchamp,
Severini. Due le caratteristiche principali del fenomeno cubista: quella analitica, iniziale,
cominciata nel 1909 e quella sintetica successiva al 1911. Le date sono solo un riferimento di
massima. C’è un pre-cubismo, datato 1907, detto Cubismo semplice. Nella sostanza, siamo di
fronte ad un primo evento artistico cubista fatto di scomposizione dell’immagine e ricomposizione
secondo la logica del punto d’osservazione, per cui certi particolari saranno avvantaggiati. Questo
vantaggio non è, ovviamente, solo visivo: la preoccupazione dell’artista è di avanzare ipotesi e tesi,
secondo un programma ricostruttivo della figura dipendente solo dalle risorse intellettuali
dell’uomo. La scomposizione, tuttavia, se accentuata avrebbe potuto portare all’Astrattismo, un
movimento con cui il Cubismo non voleva avere niente a che fare. L’Astrattismo è infatti orientato
sulla spiritualità, mentre il Cubismo è decisamente per la realtà. Tanto è vero che per meglio
definirsi, passerà a disporre sulla tela elementi eterogenei, come il collage, sino a introdurre le
lettere dell’alfabeto, al fine di chiarire la sua missione realistica. Si tratta di un realismo nuovo. Il
Cubismo si affida al Divisionismo e al Simbolismo per aiutarsi nell’impresa. Vi aggiunge elementi
esotici, dell’arte animistica africana, e di quella dell’Estremo Oriente, apprezzandone la finalità
idolatrica che trasporta dal soprannaturale all’uomo: operazione ben diversa da quella astratta
che, infatti, usa l’animismo esotico a fini spirituali maggiori. I “piccoli cubi” sono, poi, trasposizioni
della mentalità matematica per cui ogni cosa ha un motore interno ordinato da regole precise,
matematiche, appunto: vedi i frattali. Queste regole devono diventare, per il Cubismo, di
pertinenza umana.
Pablo Picasso (Ruiz Y Picasso, 1881-1973), nato a Malaga, in Spagna e morto a Mougins, in
Francia (in Provenza) a novantuno anni, fu artista eclettico, attratto dalla bella pittura (amava
Raffaello, El Greco, Toulouse-Lautrec), e interessato agli esperimenti delle avanguardie. Pittore,
scultore, litografo, acquafortista, era dotato di un grande temperamento e di una vocazione
all’opportunismo eccezionale. La fortuna gli arrivò sposando Ol’ga Chochlova, una importante
ballerina della troupe di Djagilev, allora il maggior coreografo del mondo (e forse tuttora), che aprì
a Picasso il bel mondo parigino degli anni Venti. Prima, Picasso aveva fatto la fame in una Parigi,
da cui era giunto nel 1900, che non lo considerava. Lo spagnolo (con nonno materno italiano,
Picasso è il cognome della madre) aveva studiato con il padre (pittore e insegnante), eccellendo nel
disegno. Lasciò la pittura accademica folgorato dallo stile di Toulouse-Lautrec, innamorandosi del
Simbolismo e dell’artigianato africano (animista in modo ripetitivo). La sintesi di tutto ciò fece
nascere il Cubismo, che Picasso condivise con Braque (anzi, pare proprio che la mente pensante
fosse di quest’ultimo), di cui il Nostro divenne grande amico (ma non per
molto, Picasso preferiva la solitudine, al massimo accettava la compagnia di
donne adoratrici). Il Cubismo lo portò molto lontano dal periodo blu
(figurativo, malinconico) e da quello rosa (vitalissimo, erotico: era
innamorato perso, ma non durò molto, di una bella ragazza, Fernande
Olivier) facendolo approdare a composizioni intellettualmente molto
complesse alle quali prestò il suo temperamento focoso più che la razionalità
che l’avanguardia cubista esigeva. Nelle sue mani, il fenomeno è
particolarmente vitale: Picasso trasmette una fisicità invadente e
intrigante, esprimendosi in termini concreti e pratici quando
avrebbe voluto farlo usando mediazioni poetiche (“Les demoiselles
d’Avignon”, anno 1907, considerato il primo quadro cubista, lo
dimostra; prima figura). Egli, come Braque, intendeva arrivare allo
scopo attraverso un giro di considerazioni che chiamavano in causa riflessioni profonde e incisive.
Nella realtà si ritrovò con opere prosaiche gonfie di retorica involontaria quanto inevitabile dato il
trattamento delle operazioni: ovvero un trattamento piuttosto diretto sin quasi alla sbrigatività
espressiva. Il suo Cubismo sintetico, ingolfato di altri materiali (collages, papier collè – fogli di
giornale e altro …) è la dimostrazione di una fatica nel mantenere una certa
coerenza che attesta quanto in fondo sia povero il discorso picassiano, fatto sì
di sostantivi e pochi aggettivi, ma di sostantivi elementari, la cui suggestione è
tutta nella pronuncia.
Picasso alza la voce, sapendo di poterlo fare. Maschera la modestia
comunicativa con sottolineature vistose. Solletica le coscienze con temi civili
scontati, dilatandoli, caricandoli di patos (come fa specialmente con “Guernica”
del 1936, seconda figura, opera forse concepita per altro e quindi dedicata al
bombardamento nazista della città, con prontezza pilotata quasi certamente
da Dora Maar, fotografa e sua amante). Sa anticipare certe aspettative e soddisfare esigenze
interpretative e risolutive. Non manca certo di capacità manuale e neppure di fantasia. Sa essere
essenziale, indovina come toccare i tasti giusti, sollecitare il carattere delle figure: è abile nel
ritagliarsi il ruolo di demiurgo per eccellenza.
Durante la seconda guerra mondiale, Picasso rimase a Parigi, tollerato dai tedeschi occupanti,
purché non esponesse (cosa che si guardò bene di fare). Nel 1944 si unì a Françoise Gilot (fu l’unica
a lasciarlo qualche tempo dopo), quindi, sino alla morte fu (tradimenti a parte) con Jacqueline
Roque. Dopo la guerra, si diede a una pittura di tipo neoclassico, con “correzioni” surrealiste.
Dipinse parecchio e realizzò numerose acqueforti. Non lasciò testamento. Parigi, Malaga,
Barcellona gli hanno dedicato un museo. Picasso ha fatto la fortuna di galleristi e collezionisti. Le
sue opere godono di quotazioni stratosferiche. L’ultima figura rappresenta “Testa di donna” sua
scultura sistemata a suo tempo in un giardino di Halmstad, nella Svezia meridionale: un piccolo
gioiello virtuosistico, di notevole effetto visivo e di spettacolare forza materiale.
Indubbiamente più sensibile, più intellettuale è la personalità di Georges Braque
(1882-1963), di Argenteuil (vicino a Parigi, dove morirà, luogo caro a molti
impressionisti) che con Picasso e con Gris (ma specialmente con il primo) divise le
prime esperienze cubiste. Braque aveva seguito corsi artistici serali, era stato
ispirato da Matisse (che non lo amava), aveva iniziato a dipingere “fauve”. Nel
1907 aveva visto una retrospettiva su Cézanne ed era rimasto folgorato da
quella pittura, assai più di Picasso. Con quest’ultimo fu amico dal 1909 al 1914: i
due frequentavano i rispettivi studi, consultandosi, copiandosi, rivaleggiando. Nel 1914 Braque fu
chiamato alle armi, combatté e fu ferito gravemente. Se la porterà con sé per tuta la vita quella
menomazione morale (più che fisica, nel suo caso). Il pittore francese si rese conto molto preso che
il cosiddetto Cubismo analitico lo stava portando fuori strada: obiettivo cubista
era di mantenere contatti con l’oggetto, non di stravolgerlo secondo idee o
sensibilità metafisiche. Con il Cubismo sintetico, ovvero con l’inserimento
nell’opera di richiami concreti, Braque cercò di rimettere le cose a posto pur
rischiando la banalizzazione. Di tutto ciò, forse più di Picasso – toccato dalla furia
creativa, anche se a sua volta conscio dei limiti analitici (peraltro non di sua
pertinenza) - egli si accorse al punto di scegliere, nell’ultima parte della sua vita,
un ritorno al figurativo, pur riducendolo a espressioni schematiche, elementari. Il
suo vecchio amore per l’animismo africano rispuntò e s’impose secondo spiritualità
altrimenti emarginate, quasi soffocate, nel suo operare: qualcosa di etereo,
d’irraggiungibile che l’artista sfiora, incredulo, con la mente e accetta nel suo
animo. È un animo alla ricerca di una pacificazione che il periodo sperimentale
teneva nascosto, nel nome di un esibizionismo virile, fisico, sentito come urgente,
come giusto, e ripudiato a mano a mano che certe riflessioni, sollecitate
dall’esperienza bellica, si facevano strada nella sua delicata sensibilità. Egli, infine, quasi ammette
l’impossibilità di condizionare la natura. Braque non ha avuto la stessa attenzione di Picasso per la
mitezza del suo carattere, per certo lirismo vissuto con sottile passionalità e per rispetto assoluto,
cezanniano, verso cose, situazioni, persino verso invenzioni, mai veramente sovrapposte alla realtà
esterna. Qui: “Chitarra e fruttiera”, anno 1909; “Testa di donna”, anno 1912 e “Uccelli” anno 1954
(serie durata diverso tempo, con spirito contemplativo e malinconico, volutamente giocoso).
Juan Gris (Josè Victoriano Gonzales, 1887-1927), pittore spagnolo, seguì le orme di
Picasso, avendolo conosciuto a Parigi nel 1906. Gris conobbe anche Matisse (al
quale s’ispirerà nel colorismo), Modigliani, Braque, ma di Picasso divenne amico e
in parte ne imitò il Cubismo. Il Nostro ebbe vita breve, solo quarant’anni, che visse
intensamente, occupandosi continuamente delle forme e delle loro trame nascoste.
L’impostazione di Gris, che quando era a Madrid si occupava di disegno industriale
e arrotondava facendo vignette umoristiche, ha carattere scientifico, non
intellettuale né prosaico. Egli studia la composizione – alla quale dà sempre
un tocco classicheggiante – e si serve dei colori che fa molto brillanti. Gris
era per le trame delle cose, immaginava di poter arrivare alla loro
consistenza ultima, alle relative strutture portanti. Non ne aveva
un’ossessione, ma era curioso e in certo qual modo ostinato. Non dava molto
peso alle sue scoperte e questo lo rende particolarmente simpatico. Le sue
opere sono spesso alleggerite da un certo distacco, da fine ironia, dal disincanto, pur se l’insistenza
nella ricerca oggettiva non manca mai, quasi fosse un esercizio obbligato. Sicuramente fra i
migliori cubisti, Gris ci ha lasciato immagini comunque aggraziate, educate, accattivanti.
S’indovina, nella loro intimità, il riversarsi di una gentilezza d’animo non comune, di un’alta
considerazione del loro esserci. Gris non scopre, cerca. Non impone, propone. Poco rilevante nel
Cubismo analitico, è fra i più convincenti in quello sintetico, dove segue una propria coerenza, non
facendosi prendere dalla novità. Qui vediamo un “Ritratto di Picasso” del 1912 e “Chitarra e
clarinetto” del 1920. Chiara la differenza fra analisi (praticamente impossibile nel Cubismo, pena
l’astrazione, la perdita dell’oggetto) e sintesi (strada maggiormente percorribile dal cubista, in
quanto semplificatrice pur con pericolo di semplicismo: ecco, è un pericolo che Gris corre poco).
Fernand Léger (1881-1955), francese della Normandia, fu a
Parigi nel 1898 impegnato nel disegno architettonico e come
ritoccatore di fotografie. Seguì corsi privati di pittura. Fu
attratto dagli Impressionisti e dai Fauves. Poi da Cézanne,
Braque e Picasso. Si dedicò al Cubismo analitico, esponendo
nel 1911 le sue prime opere di tal genere: Léger vi si cimentò spezzando del tutto le figure per
giungere a una specie di astrattismo, animato dal colore. Il suo dinamismo appare molto artificiale,
quasi una provocazione. Partecipò alla prima guerra mondiale e fu intossicato dai gas a Verdun.
Nel 1924 l’artista fu in Italia, dove ammirò in particolare i mosaici bizantini di Ravenna e Venezia.
Tornato in Francia, realizzò un film (“Ballet mécaniques”), poi si diede agli arazzi, ai murali, ai
mosaici e collaborò con il teatro come costumista e scenografo (fu attivo, in particolare, con Darius
Milhaud). Durante la seconda guerra mondiale fu negli Stati Uniti. Al rientro in Francia, riprese
intensamente la sua attività di pittore, realizzando cicli denominati “I costruttori”, “Il circo” e altri.
Recuperò la figura tradizionale, mise nelle composizioni qualche richiamo surreale e sposò il
simbolismo. Quest’ultimo, nel suo caso, ha una valenza ideale, di ricostruzione del mondo secondo
istinto e fiducia. I suoi costruttori sono lavoratori alacri che eseguono meccanicamente, ma senza
rendersi prigionieri dell’oggetto. La libertà non è tanto in essi quanto nell’ambiente che Léger
dipinge come fondale di una fiaba. A differenza dei futuristi, il pittore francese non esalta l’energia,
il dinamismo, bensì il metodo, la costanza. È come se stesse ricordando la sua esperienza a Verdun
e volesse superarla attraverso un fare con razionalità piana e comune, senza prevaricazioni e senza
voli pindarici. Il suo Cubismo, nelle opere tarde, trova appagamento nelle linee semplici e nella resa
geometrica elementare, quasi sottolineando che l’umanità deve impegnarsi a ragion veduta, non
sottostando a presunzioni. Qui abbiamo: “La colazione”, 1921 e “I costruttori”, anno 1950.
Il fisico danese Niels Bohr, uno dei padri della teoria
quantistica (prima rifiutata poi accettata da Einstein
con tanto di scuse), teneva in ufficio un quadro di Jean
Metzinger (1883-1956), pittore francese di Nantes. Il
quadro, “Donna con cavallo” del 1911-12 (dunque
Cubismo analitico), confortava le sue idee
sull’imprevedibilità della materia, anche se Bohr e
Planck in particolare parlavano di imprevedibilità, quindi di relatività, in senso provvisorio, non
assoluto. Metzinger aveva avuto successo come puntinista, imitando Seurat e Cross, al quale
aggiungeva elementi fauve e divisionisti. Riusciva a sopravvivere vendendo opere del genere. Nel
1908 passò al Cubismo e nel 1912 realizzò con Albert Gleizes un trattato (complicatissimo) su di
esso. Fu tra i fondatori del movimento “Section d’or” (orfismo, esoterismo mistico), nome dovuto a
Jacques Villon. Il movimento durò circa cinque anni. Confluirà, in parte, nel Surrealismo.
Determinante per il nuovo successo di Metzinger fu il lavoro di Berthe Weill, un’abilissima gallerista
che per prima riuscì a vendere i quadri di Picasso e che fece conoscere le personalità di Matisse,
Derain, Modigliani, Utrillo. Il pittore divenne molto amico di Delaunay, ma si staccò dalla pittura di
quest’ultimo per una geometria scrupolosa, nella quale l’occhio umano voleva avere il privilegio di
decidere cosa guardare e magari perché. In effetti, il motivo dell’osservazione non esiste nell’opera
di Metzinger se non per cenni dietro i quali si celano mille incertezze mascherate da una notevole
padronanza della scena. Essendo il motivo delle sue decisioni praticamente sconosciuto, ne
consegue una vaghezza compositiva puntellata da certa imposizione visiva, resa accettabile da un
determinato equilibrio formale cui l’artista si aggrappa con nonchalance. Ma certo
l’indeterminazione trionfa. La questione dell’equilibrio formale porterà Metzinger a riprendere
contatti con il figurativo classico e a concludere la sua carriere con l’insegnamento ortodosso della
pittura, come se il Cubismo fosse stato un peccato di gioventù. Metzinger non ammise mai questo
peccato, piuttosto accettò l’esperienza cubista come formativa di un miglior impatto concettuale
con la realtà. In apertura, “Donna con ventaglio” del 1913 e “La roulette”, 1926.
In cosa non si è cimentato Francis Picabia (1879-1953), pittore e scrittore
parigino (madre francese, padre cubano cancelliere all’ambasciata cubana)?
S’innamorò della scuola di Barbizon, poi degli Impressionisti, del Cubismo,
dell’Astrattismo, del Dadaismo, del Surrealismo, per ritornare, dopo il 1925 al
figurativo, addirittura patinato, per quanto non dozzinale. Dal 1913 al 1915 fu a
New York dove fece conoscere l’arte moderna attraverso ritratti meccanici,
esponendo all’Armory Show di New York dove conobbe Alfred Stieglitz, importante fotografo e
gallerista. Picabia fu molto amico di Duchamp, di Tristan Tzara (collaborando alla fondazione del
dada) e più tardi di Gertrude Stein, l’eccentrica scrittrice e poetessa statunitense, allora in gran
voga. Il Cubismo gli diede un certo senso di ordine, peraltro già ravvisabile nei suoi
“meccanismi”, metafore di una robotizzazione che colpiva anche gli esseri umani.
Certi grovigli rimandano a questioni sessuali risolte con congegni. È evidente qui
una sana ironia che si muove in superficie con intenti maggiori, più profondi.
Picabia non era una un analista scrupoloso, anzi rifuggiva dalle analisi complicate,
preferendo a esse, istintivamente e intelligentemente, una denuncia semplice
dello stato delle cose. In effetti, egli è un moralista distaccato, si sente inaffidabile
come intellettuale, come guru. Prende l’arte come un esercizio liberatorio,
inseguendo il fascino delle forme e delle combinazioni, percepite come aggettivi e sostantivi di un
linguaggio criptico che lui tenta di tradurre in un discorso semplice, pur non contandoci troppo.
migliore, tutto sommato, l’accenno, il simbolo, il sottinteso. Siamo sempre dalle parti
dell’esoterismo – tanto amato dai Surrealisti, dagli Astrattisti e poco dai Cubisti –
che Picabia, affidandosi alla propria sensibilità, prova a rendere più chiaro, per lo
meno nell’impostazione. Su commissione, e poi per piacere, riprese a dipingere in
modo figurativo classico per buona parte degli ultimi venticinque anni della sua
vita. Concluse la carriera immergendosi in un astrattismo caratterizzato da un
lirismo personalissimo, quasi una riflessione interiore metafisica. Ecco “Danza”,
anno 1912; “Parata amorosa”, anno 1917; “Olga” anno 1930. La sua versatilità è
prodigiosa, il suo colpo d’occhio eccezionale, come il suo talento. Picabia non mancava di
virtuosismo, anzi ne profittava d’acchito. Non era tagliato per il dadaismo, sebbene l’avesse
abbracciato con entusiasmo, e neppure per l’Astrattismo. Convince nel figurativo e crea dinamismo
affascinante, benché caotico, dipingendo con stile cubista. Il suo Cubismo è molto personale,
calligrafico, armonioso, aperto. È un discorso, mai una sentenza.
Albert Gleisez (1881-1953), pittore parigino, era per un Cubismo analitico e
destrutturato. L’analisi si ferma rigorosamente alla composizione segreta
delle immagini, una composizione molto ben impostata da un punto di vista
armonico e stilistico. Il pittore scrisse un libro con Metzinger sul Cubismo e fu
fra i fondatori della “Section d’or” oltre che fra gli
animatori di consorzi mistico-culturali (il più importante fu
il “Gruppo de l’Abbaye” guidato dal poeta Georges Duhamel). Gleizes passò al
Cubismo dopo la scoperta di Cézanne e ne concepì uno distante dai fondatori,
Braque e Picasso. Il suo non ebbe sviluppo verso il mantenimento
dell’identificazione dell’oggetto, tanto meno verso la ricostruzione dopo la
destrutturazione. Non volle mai sentir parlare di Cubismo sintetico, pur avendo
tentato qualche approccio. Nel 1914 decise che avrebbe dipinto solo cubista (non manterrà la
promessa perché verso la fine della sua vita prese a dipingere temi sacri). Scampò la prima guerra
mondiale grazie alla futura moglie che lo fece presto far riformare. Nella seconda, Gleizes rimase in
Francia, sotto la dominazione nazista. Qui vediamo “Paesaggio”, anno 1912 e un’opera senza
titolo del 1930. L’assuefazione all’indeterminatezza è evidente: si tratta di una scelta naturale alla
quale Gleizes non oppose resistenza. Una certa mistica di carattere utopico sembra dettare le
regole della composizione, cui viene dato il compito d essere efficace tramite linee eleganti,
sperdute in un sogno di perfezione formale, come impianto di partenza e di arrivo della ribellione
contro il mondo convenzionale, con i soliti messaggi criptici (spirituali) affidati a un colore che non
è mai accecante. Gleizes vuole suggerire seguendo un’intuizione di tipo religioso che arricchisce con
grumi di notazioni razionali a giustificazione del rapimento estatico.
Con Gleizes, il poeta Paul Dermée (direttore) e con Le Corbusier, Amédée
Ozenfant (1886-1966) fondò, nel 1919, la rivista “L’Esprit Nouveau” (primo
numero l’anno dopo) sugli sbocchi potenziali dell’arte contemporanea.
Ozenfant era di Saint Quentin, a nord della Francia, e non era nuovo a
iniziative del genere. Veniva dal Puntinismo, si appassionò al Cubismo e nel
1915 aveva realizzato con Max Jacob e Apollinaire la rivista “L’Elan”
cercando di correggere il movimento cubista, lanciato verso il sintetismo, per Ozenfant e compagni
verso orpelli decorativi. A proposito scrisse anche dei saggi, fra cui “Oltre il Cubismo” testo
consecutivo al manifesto inneggiante al “Purismo” al quale collaborò anche Le Courboiser.
Ozenfant, dal 1931 al 1938, lavorò intorno a una grande composizione figurativa intitolata “Vita”,
sempre con mentalità purista. Nel 1938 emigrò a New York e fondò una scuola di belle arti. Ebbe
noie con il maccartismo e fu espulso dagli Stati Uniti nel 1955. Il suo Purismo era costituito da
economia compositiva, sobrietà e significazione simbolica da porre come soggetto unico nelle
opere proposte. L’impianto di Ozenfant è di tipo architettonico, quindi con rigide regole estetiche e
logiche razionali. “La brocca bianca” del 1926 è l’esempio per eccellenza della sua espressività
pittorica. Questa purezza dice come impostare la catarsi del rapporto fra realtà tradizionale e
realtà nuova dominata, ragionevolmente, dalla personalità umana.
Un purista, forse a sua insaputa, non dell’eleganza di Ozenfant, fu anche il pittore
argentino Emilio Pettoruti (1892-1971), morto a Parigi, lontano dal regime di Buenos
Aires. Lo dimostra questa “Testa di donna” del 1920, dove l’essenzialità è
assolutamente dominante. Pettoruti aveva studiato privatamente, scontento delle
lezioni accademiche e aveva esordito come caricaturista, cosa che gli fece
guadagnare un viaggio in Italia (grazie al politico Rodolfo Serrat, caricaturato alla
perfezione). Nel 1913 il pittore fu a Firenze, dove scoprì Giotto, Masaccio, il Beato
Angelico. Tramite la rivista Lacerba entro in contatto con i futuristi, ma non ne fece parte. Nel 1917
fu a Roma ed entrò in contatto con De Chirico, Carrà, Soffici. Nel 1922 fu a Milano e frequentò
Sironi. Nel 1924 tornò in Argentina, disgustato dal nascente regime fascista. In patria fu nominato
direttore del museo di belle arti di La Plata, incarico che lasciò nel 1946 per l’ascesa di Peron al
potere. Nel 1952 torna in Europa. Esporrà nel Vecchio Continente, con notevole successo, in molte
città. Le sue opere si posizionano sulla ricerca della luce e dei suoi effetti. La conseguenza è spesso
l’astrazione. Pettoruti non raggiunse più la purezza e la semplicità del Cubismo della sua
giovinezza. Nelle opere relative, egli si concentra sullo spirito, sull’animus delle figure proposte,
lavorando agli elementi emblematici di un’espressione, di un essere, con ipotesi e tesi sul progresso
dell’immagine relativa.
Con l’amico Amédée Ozenfant, Le Corbusier (Charles-Edouard Janneret-Gris, 18871965) elaborò una serie di teorie artistiche contro i nascenti orpelli del Cubismo.
Tali teorie apparvero fra il 1920 e il 1925 nella rivista “L’Esprit Nouveau” (28
numeri), fondata dai due più Paul Dermée, poeta belga e Gleizes. Esse concepirono
una promozione purista dell’espressione artistica, ripescando le regole classiche
per applicarle al mondo moderno. Quest’ultimo andava valorizzato
concretamente, secondo il terzetto, mentre il Cubismo lo faceva astrattamente e
virava verso un’involuzione coperta dal decorativismo. L’analisi cubista, fatta in direzione di una
nuova possibile realtà a direzione umana, rischiava di esaurirsi – secondo i redattori della rivista –
in un sintetismo compiaciuto quanto fermo sui suoi primi passi. Non
essendoci norme per cui sintetizzare, l’esercizio cubista diventava un
fenomeno fine a se stesso, di nessuna utilità per il progresso della direzione
umanistica della realtà. Probabilmente fu Ozenfant a porre il problema. La
sua precisione cubista possedeva un carattere classicheggiante che
sicuramente influì sulle coscienze dei suoi compagni di viaggio. Le Corbusier
(il soprannome gli era stato dato dallo stesso Ozenfant, giocando sulla
composizione che richiamava il corvo – tanto è vero che il Nostro prese a
firmarsi “Le Corbu” – e sulla musicalità del soprannome stesso) ci vide
l’occasione per ripensare l’operazione cubista a partire dalla scomposizione
dell’immagine tradizionale. Essa consentiva, ovviamente, una ricostruzione
nuova della figura. La novità stava nell’uso razionale della ricostruzione, inseguendo la massima
semplicità e utilità, affidandosi a canoni di scambio equilibrato fra le parti. La
classicità greca e romana aveva risolto problemi di tutti i generi, compresa
l’estetica. Quest’ultima aveva anticamente una valenza trascendentale – un
omaggio alla divinità – che nel ‘900 doveva essere trasformata in valenza più
pratica a onore dell’abilità umana, sposando un’eleganza sobria, rispettosa e
ossequente nei confronti della razionalità. Senza Ozenfant, Le Corbusier avrebbe,
probabilmente, continuato nelle ricerche estetiche fra cui
quelle relative alle opere gotiche. D’altro canto, il futuro grande architetto
svizzero, naturalizzato francese, aveva esordito come incisore ornamentale
di casse d’orologio, s’era interessato all’Art Nouveau (Floreale), finché aveva
conosciuto Charles L’Eplattenier (un notevole architetto, decoratore, scultore
e pittore) che l’aveva indirizzato verso lo studio di architettura: fu la sua
strada. Le Corbusier viaggiò per tutta l’Europa, si fermò in Italia, ammirò Firenze, fu folgorato da
Michelangelo. Visitò Vienna e studiò i grandi architetti in voga, Olbrich, Wagner, Hoffmann, che
apprezzò e per certi versi criticò. Poi partì per Parigi. Qui, nel 1922, con il cugino Pierre Jeanneret
aprì uno studio di architettura. Nel frattempo aveva letto molto, specialmente Nietzsche a Schurè
(il grande esperto in religioni orientali), impossessandosi di una notevole cultura che, unita agli
spazi aperti dall’avventura cubista, lo favorì nella formulazione di progetti architettonici originali.
Le Corbusier fu un innovatore come architetto e urbanista (arrivò a progettare in ogni dettaglio
una città di tre milioni di abitanti, con strade sopraelevate, un po’ alla maniera di Leonardo). Fu un
convinto assertore dell’uso del calcestruzzo armato, perno del “Movimento moderno” (espressione
sua). Parlò di Funzionalismo, di abitazioni a misura d’uomo (a questo scopo inventò il “Modulor”
una sorta di uomo vitruviano, con scale dotate di misure antropometriche, alle quali ispirarsi nelle
progettazioni). Nel 1951 realizzò la capitale indiana del Punjab, Chandigarh (la città d’argento).
Operò in parecchie città del mondo. Realizzò per primo delle “unità d’abitazione” (dei falansteri
moderni): la più vistosa a Marsiglia, inaugurata nel 1952 (vi lavorava dal 1947), come risposta
ottimistica ai disastri, nelle città, della seconda guerra mondiale. Si calcolano, in nome di Le
Corbusier, settantacinque costruzioni in dodici paesi, cinquanta progetti
urbanistici, cinquantaquattro libri di architettura urbana e di design (il Nostro
fu anche un apprezzatissimo designer di arredi urbani). Scaturigine principale
di tutto questo è la possibilità psicologica decostruzionista del vecchio mondo
favorita dal Cubismo. Le Corbusier non si preoccupò soltanto di abbattere gli
orpelli borghesi, ma anche di dare anche una sistemazione dignitosa alla
gente comune e ordine alla città. La sua mentalità si rivela appieno con la
realizzazione de “Le Cabanon” dedicato alla moglie: un ambiente di m.
3,66x3,66x2,26 contenente tutto il necessario per le necessità fisiche di due
persone. Fu costruita nel 1949 ad Ajaccio e portata poi a Roquebrune-CapMartin (in questa città morì) dove ora si trova. Decostruzione del vecchio e
costruzione del nuovo, dunque, in Le Corbusier: ciò che il Cubismo pittorico non riuscì a fare. Qui
vediamo la sua prima costruzione: la “Villa Fallet” del 1907,; la magnifica “Villa Jeanneret-Perret”
del 1912; la Palazzina a Stoccarda del 1927, con i classici cinque punti di Le Corbusier rispettati
(ben visibili i “pilotis” che isolano la costruzione dall’unità del terreno); una “Unità di abitazione” a
Marsiglia dei primissimi anni ’50; il Palazzo di Giustizia di Chandigarh, stesso periodo. E “Le
Cabanon” esterno e interno.