Il ruolo delle mostre etnografiche in Italia nella organizzazione del

Transcript

Il ruolo delle mostre etnografiche in Italia nella organizzazione del
Il ruolo delle mostre etnografiche in Italia
nella organizzazione del consenso. 1936-1940
Questa nota è nata da una più ampia riflessione sulle origini della museogratìa
« etnografica » in Italia, effettuata in occasione del censimento dei musei rurali
dell’Emilia-Romagna da parte dell’Istituto regionale per i beni culturali.
Scopo del lavoro è indicare alcuni elementi di riflessione per ricerche future su
etnografia e folclore, folclore, propaganda e organizzazioni del consenso. Il pe­
riodo fascista, affrontato criticamente dalla ricerca storica moderna, infatti pre­
senta contraddizioni interne non ancora esaminate compiutamente. Assistiamo,
a partire dalla seconda metà degli anni trenta, nel clima euforico e trionfalistico
dell’impresa etiopica, ad un notevole incremento dell’attività in campo etnogra­
fico. Il regime aveva impresso alla vita nazionale una energica svolta nel 1932
con l’iscrizione forzata al partito, un provvedimento corrispondente ad una ca­
pillare riorganizzazione del regime reazionario di massa. In questo processo un
ruolo fondamentale fu svolto dall’Opera nazionale dopolavoro che, costituita
nel 1925, divenne dagli anni seguenti la crisi del 1929, una vera organizzazione
di massa in grado di raggiungere quegli strati sociali non inseriti nella vita del
partito, attraverso una vasta gamma di iniziative che andavano dall’assistenza
al tempo libero.
Come scrive Ernesto Ragionieri « l’efficacia del dopolavoro consistette nel coin­
volgere nell’organizzazione del regime fascista le masse più spoliticizzate e disor­
ganizzate della popolazione italiana, senza porle apertamente di fronte al problema
dell’adesione politica al regime, e ciò potè essere fatto con tanto maggior suc­
cesso in quanto, nell’Italia liberale non era esistita alcuna organizzazione di
questo tipo su scala nazionale » 1. In particolare, oltre le varie attività sportive,
teatrali e ludiche l’Ond si dedicò, attraverso una organizzazione in grado di
interessare anche i centri minori, alla « riesumazione di alcuni aspetti del folclore
popolare » 2. Nel bollettino mensile dell’Ond, possiamo infatti leggere:
L’Ond ha incluso il folklore nel suo programma educativo, ben sapendo che da esso
si possono trarre dei grandissimi benefici, per l'educazione delle masse. I principali
comma del programma folkloristico dell’Ond sono: a) mostre regionali di costumi e
arti popolari; b) riproduzione, per mezzo della cinematografia di costumi e di scene di
vita popolare; c) raccolta di canti e leggende per mezzo di dischi grammofonici; d) con-
1
ernesto ragionieri ,
t. Ili, p. 2228.
1
Ibid., p. 2227.
La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, Torino, 1976, voi. IV,
98
Massimo Tozzi Fontana
corsi per saggi critici sul folklore e leggende; e) organizzazione delle feste tradizionali
più significative 3.
Tre anni dopo, traendo origine dalla Società di etnografia italiana, si costituiva
a Firenze il Comitato nazionale italiano per le tradizioni popolari4 il cui statuto
integra, precisando dal punto di vista scientifico, il programma delPOnd:
1) È costituito in Firenze presso il Centro di alti studi (Ente fascista di cultura), il
Comitato nazionale per le tradizioni popolari. 2) Scopi: a) promuovere, sviluppare e
coordinare gli studi folkloristici in Italia con particolare riguardo alle singole regioni, in
ognuna di esse costituendo almeno un centro di studio (enti, biblioteche, discoteche,
musei) per avviare e agevolare la raccolta del materiale folkloristico, da farsi con unità
di criteri e di metodi, il più possibilmente scientifici; b) organizzare congressi nazionali
e internazionali; c) pubblicare un bollettino da trasformarsi quanto prima in rivista;
d) procedere a una raccolta sistematica e a una pubblicazione organica delle tradizioni
popolari nonché degli usi giuridici italiani; c) costituire una biblioteca e una discoteca
nazionali5.
Le fonti principali da cui è possibile trarre informazioni sulla frequenza e l’im­
portanza di tale attività sono le due riviste « Lares » 6 e « Folklore italiano » 7 il
cui titolo nel 1936, a causa dell’avversione autarchica verso gli «stranierismi»
si trasforma in « Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari
italiane ». La fisionomia delle due riviste è abbastanza simile, anche se in « Lares »
predomina un carattere di ufficialità che durante il periodo fascista si va accen­
tuando. In « Folklore italiano » possiamo distinguere una parte in cui figurano
i lavori di carattere critico, una seconda parte in cui compaiono quelli di carattere
descrittivo e infine una parte in cui si trovano le rassegne bibliografiche e le
notizie riguardanti il movimento degli studi e delle istituzioni folcloristiche in
Italia e all’estero 8.
L’aspetto che qui interessa segnalare è quello delle numerosissime mostre che
ebbero luogo in Italia negli anni 1936-1940, desumibile principalmente dalla
rivista «Lares», che riporta di ogni mostra dettagliati resoconti, e una ampia
documentazione fotografica.
Per comprendere alcuni aspetti del clima naturale in cui gli studi etnografici
poterono svilupparsi nella seconda metà degli anni trenta è abbastanza illumi­
nante il discorso pronunciato da Emilio Bodrero presidente della Commissione
internazionale per le arti popolari, al IV congresso di studi romani tenuto a Roma
nell’ottobre 1935: Per la fondazione di un Museo delle arti popolari in Roma:
« Dobbiamo distinguere il valore politico della Regione dal suo valore spirituale,
e ammettere che il primo deve scomparire per dare luogo ad un valore unica­
mente storico ed estetico » 9.
3
« Bollettino mensile Opera nazionale dopolavoro », novembre-dicembre 1927, n. 1.
*
D’ora in avanti Cnitp; divenuto nel 1932 Comitato nazionale italiano per le arti popolari
(Cniap).
5
In « Lares », 1930, p. 8.
6
II primo numero di « Lares » era apparso a Roma nel 1912, come emanazione del 1° con­
gresso della società di etnografia italiana, di cui sarebbe stato il bollettino. In questa sua prima
fase la rivista visse fino al 1915, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, sotto la direzione di
Lamberto Loria; riprese poi nel 1930 come organo del Cnitp, con la direzione di Paolo Toschi per
terminare le pubblicazioni nel 1943, riprendendole successivamente nel 1949 ancora sotto la di­
rezione di Toschi.
7
« Folklore italiano » nacque a Napoli nel 1925 e continuò le pubblicazioni dopo il cam­
biamento del titolo fino al 1941; riprese le pubblicazioni dal 1946 al 1959 col titolo « Folklore:
rivista trimestrale di tradizioni popolari », fu sempre diretto da Raffaele Corso.
8
Su un terreno più essenzialmente letterario è la rivista « Pallante » (studi di filologia e
folklore diretta da P. S. Leicht, F. Neri, L. Suttina, di cui uscirono dieci fascicoli dal 1929 al 1932.
’
In « Lares », 1936, pp. 5-12.
Il ruolo delle mostre etnografiche
99
E, più avanti, parlando dell’attività della Commissione internazionale per le arti
popolari da lui presieduta: « [...] ho cercato perciò di far lavorare il Comitato
soprattutto nel senso di osservare, riassumere, esaminare, raccogliere i dati relativi
alle sopravvivenze e alle applicazioni pratiche delle arti popolari, e ciò per ragioni
prevalentemente sociali, per vedere cioè se attraverso le arti popolari si possa
creare un lavoro casalingo da dare ai disoccupati».
Infine Bodrero delinea quella che sarà la definitiva organizzazione, frutto della
collaborazione tra Ond, Cniap e le altre due istituzioni che in qualche modo
avevano avuto in precedenza a che fare con le arti popolari, cioè l’Ente turistico
e l’artigianato: «[...] in ogni capoluogo di provincia si costituisca un sottoco­
mitato, composto di tre persone che lavorano veramente, e che sono il fiduciario
locale delI’Ond, il direttore del museo locale (perché in moltissimi dei musei
locali si conservano oggetti di arte popolare) e, in aggiunta ad essi un artista,
un esperto, una persona insomma che nel luogo sia conosciuta come un cultore
di questa materia, qualunque sia il ramo a cui egli si dedica ».
Di questa impostazione programmatica possiamo sottolineare alcuni elementi si­
gnificativi: 1) La difesa del centralismo contro il particolarismo della regione,
di cui viene preso in considerazione solo l’aspetto « spirituale » (chiaro monito
agli intellettuali e agli studiosi a tenere ben separati i loro studi dalla politica).
2) La possibilità di far coincidere la riscoperta e valorizzazione dell’artigianato
popolare con una parziale soluzione del problema della disoccupazione. 3) L’at­
tenzione rivolta alla scientificità di tutta l’operazione mediante una struttura di
base formata di unità locali « che lavorino veramente ».
Altri elementi molto importanti per la comprensione del valore attribuito al fol­
clore durante il regime si possono trarre dall’intervento di L. Sorrenti al III con­
gresso di arti e tradizioni popolari tenuto a Trento nel settembre 1934, e riassunto
da G. Crocioni:
Di grande rilievo sono da ritenere molte osservazioni del Sorrento [...] in breve sul­
l’unità fondam entale di ogni ram o del folclore, nella sua genesi, nel suo fondo, nella
sua linea di svolgimento, come derivazione dell’unità che R om a dette alle varie genti
d’Italia, creando la personalità italiana, e la storia culturale, linguistica, religiosa del
popolo italiano, conferm ata e continuata dalla chiesa di Rom a. In grazia di vedute così
nazionali, e quindi im portanti, lo studio delle nostre tradizioni, favorito dall’Ond e dal
Cniap viene elevato e nobilitato, non meno, e forse più che lo studio di altre m aterie,
più soggette all’arbitrio dei singoli, e perciò meno essenziali e meno n azio n a li101.
La concezione del folclore come disciplina unitaria, eredità del Pitrè, criticata
debolmente dallo stesso Crocioni, trova dunque un terreno fertile nel clima
culturale di questi anni; del resto attacchi a tale concezione, o per lo meno
divergenze, erano state espresse in passato, da punti di vista molto differenti, da
personalità come Giorgio Pasquali, Benedetto Croce e Antonio Gramsciu.
Le mostre organizzate in Italia ebbero, nel quadro voluto da Bodrero, un carattere
per lo più provinciale o interprovinciale. La prima mostra provinciale di arte
popolare si tenne a Siracusa nel maggio 1936; seguì in settembre quella valdo­
stana ad Aosta, quella interprovinciale di arti popolari siciliane nell’ottobre-novembre a Catania.
10
G. crocioni, recensione a A tti del III congresso di arti e tradizioni popolari, in « L ares »,
1936, p. 208.
11
Giorgio pa sq u a li , Pagine stravaganti, F irenze, 1968, pp. 276-280; Antonio gram sci, L ette­
ratura e vita nazionale , T orino, 1950, pp. 215-221.
100
Massimo Tozzi Fontana
Denominatore comune di queste esposizioni è il criterio realistico dell’espressione:
i costumi venivano indossati dal personale delle mostre o da manichini e si
faceva largo uso delle ricostruzioni ambientali. Ciò che interessa è 1’« arte po­
polare», nei suoi aspetti più caratteristici, spesso a scapito della rappresentazione
di una realtà quotidiana che probabilmente avrebbe evocato nei visitatori immagini
di miseria che si volevano invece occultare. È però notevole il lavoro scientifico
effettuato in occasione di quasi tutte le esposizioni, in particolare di quella in­
terprovinciale siciliana, la cui organizzazione si uniformò al regolamento dira­
mato nel settembre 1936 corredato da una « scheda di notifica » nella quale
si dovevano elencare gli oggetti raccolti, con indicazione delle loro dimensioni,
del loro nome dialettale, della materia di cui erano fatti, del luogo di provenienza,
del nome dell’artefice e infine di quello del proprietario.
Il lavoro delle sezioni comunali dell’Ond fu di dimensioni considerevoli; furono
escogitati tutti i mezzi per la raccolta degli oggetti. Il sistema più largamente
usato fu quello dei sopraluoghi e dell’esplorazione diretta.
Circa tredici anni prima Antonio Gramsci aveva espresso nelle sue Osservazioni
sul folclore considerazioni che possono essere valide anche per l’attività dell’Ond
e del Cniap:
Si può dire che il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento « pitto­
resco » (in realtà finora è stato raccolto solo materiale da erudizione e la scienza
del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione
e la classificazione di tale materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principi
empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell’erudizione, né
con ciò si misconosce l’importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del
folclore) 1213.
In occasione di una mostra così imponente come quella interprovinciale di Ca­
tania si ripropose il problema metodologico affrontato per la prima volta nel
1911 durante il I congresso di etnografia italiana a proposito del costituendo
museo di etnografia: « ordinamento per province e per categorie di oggetti? » n.
Anche qui la soluzione fu, almeno nelle intenzioni, di compromesso: fu cioè
seguito principalmente un criterio di divisione in categorie, tenendo però pre­
senti le aree geografiche di provenienza per potere seguire l’origine e il percorso
degli oggetti.
Il 1937 fu un anno caratterizzato da un gran numero di mostre di arti popolari,
il cui moltiplicarsi dimostra la gara apertasi tra i vari comitati provinciali nell’organizzare anche per un breve tempo e con modesti intenti scientifici, mani­
festazioni destinate a rischiarare, per un certo periodo, il grigiore della vita
borghese provinciale; « erano attivi infatti nell’ambito locale tutta una serie di
quadri dotati di un certo prestigio sociale, avvocati e maestri elementari in modo
particolare, talvolta non iscritti al Pnf addirittura provenienti da vecchi partiti
antifascisti (e popolari ed ex socialisti riformisti). In una società ormai contrassegnata dall’immobilità dei rapporti sociali, l’apporto di questi quadri diveniva
decisivo per fare accettare l’assetto sociale esistente e per presentarlo come un
naturale portato dalla storia » 14.
Cosenza, Cagliari, Bologna, Chieti, Cassino, l’Aquila, Verona, Belluno, Ravenna
ospitarono le mostre il cui successo fu altissimo secondo i resoconti di « Lares ».
12
A. GRAMSCI, op. d t., p. 218.
13 Nel 1911 F. Baldasseroni aveva sollevato il dilemma: «ordinamento per regioni o per
categorie di oggetti? ». Vedi « Lares », p. 39.
14
E. ragionieri, La storia politica e sociale, cit., p. 2229.
Il ruolo delle mostre etnografiche
101
Questi bilanci mettono di solito in luce l’aspetto patriottico di tali iniziative, il
valore morale e intellettuale dell’arte popolare, espressione della sanità del popolo
italiano, e affermano ingenuamente la possibilità di ripristinare antichi lavori
artigiani per arginare il fenomeno della disoccupazione.
Questo aspetto, ribadito in più occasioni dai dirigenti dell’Ond e dallo stesso
ministro Bottai nel 1939, non mancò di suscitare opposizioni: significativa mi
pare l’insofferenza espressa, anche se in maniera velata ed episodica da R. Corso,
direttore della menzionata rivista «Folklore italiano», verso la subordinazione
dell’etnografia a fini turistici e commerciali, o comunque non strettamente scien­
tifici, cui il regime voleva condurla. Naturalmente la scienza del folclore auspicata
da Corso è quella così ben definita da Gramsci nelle sue Osservazioni, cioè una
scienza «separata», «al di sopra» degli interessi economici e politici.
Più interessante ancora mi pare la posizione di Emma Bona, segretaria nazio­
nale del Cniap. In un bilancio delle mostre tenute nel 1937 da lei tracciato su
« Lares » appare la commossa constatazione dell’umile sapienza del popolano
che, tutto confuso e rosso in viso, fornisce ai « professoroni » preziosi ragguagli
e informazioni di vita e di lavoro; in un passo giunge a intravedere l’importanza
delle fonti orali nel lavoro dello storico: « in una parola l’episodio e la vicenda
storica, non sempre conosciuta o scritta che vive nella tradizione orale, negli
strati profondi della memoria popolare » 15.
D’altronde anche il ruolo dell’archeologia, cioè dello studio della cultura ma­
teriale, è visto dalla segretaria del Cniap in una luce piuttosto «moderna»: c’è
infatti la coscienza che anche l’oggetto più umile racchiude nelle sue forme
memorie di storie mai scritte e inconoscibili attraverso canali più consueti. La
Bona, allora di ritorno da una visita al Wolkskunde Museum di Berlino, scrive:
« [...] il viaggio all’estero mi è stato costruttivo sì, ma in senso inverso, in quanto
mi ha mostrato quale strada non si doveva tenere sia nell’organizzazione di un
museo come di una mostra di arti popolari, vale a dire a evitare ogni fredda
e sistematica classificazione di oggetti, cercando invece di suscitare l’intima poesia
facendoli rivivere nell’uso per cui furono costruiti » 16.
Il problema di « fare rivivere » gli oggetti esposti nel museo è molto attuale; la
preoccupazione espressa dalla dirigente fascista apre la via ad alcune conside­
razioni sulla compattezza e monoliticità del regime di fronte ai problemi della
cultura: se da una parte si avverte l’esigenza di andare al di là di una lettura
superficiale dell’oggetto, si vuole tuttavia fissare un preciso limite alla profondità
di tale lettura: « l’intima poesia » minimizza, sancendone l’innocuità, una cultura
destinata a restare in tutti i casi dominata e subalterna.
Il 26 maggio si apre a Milano nel Palazzo dell’arte la Mostra delle arti popolari
lombarde che registrò una vastissima affluenza di pubblico: decine di migliaia
di presenze in cinquanta giorni. Sul frontone della mostra era stata riprodotta
in grandissimi caratteri la sentenza di Mussolini: « Il popolo che non rispetta
le tradizioni del passato, rinunzia a una parte di vita». Nel nazionalismo esaspe­
rato del regime si intendeva rispondere così ad ogni obiezione circa il culto delle
tradizioni regionali e locali: non un recupero delle culture regionali, ma soltanto
degli aspetti più superficiali e innocui del folclore.
Non va trascurato l’importante significato politico che vanno assumendo parec­
chie mostre in questi anni: le rivendicazioni italiane sulla Dalmazia, l’Albania
15
16
Le mostre di arti popolari n ell anno X I, in « Lares », 1937, p. 395.
Ibid., p. 334.
em m a bona ,
102
Massimo Tozzi Fontana
e la Corsica dovevano trovare giustificazione prima di tutto sotto il profilo cul­
turale, storico ed etnico. Dal 1937 in poi si organizzano mostre a Fiume, Zara,
Pola nella prospettiva di dimostrare « l’italianità » della Dalmazia; in Puglia,
il problema dell’« italianità » dell’Albania fu il tema centrale delle esposizioni
di Bari, Lecce e Foggia.
Nel settembre 1938 ebbe luogo la prima Mostra provinciale di arte popolare a
Ravenna; nello stesso mese venne inaugurata a Treviso una mostra abbastanza
importante non solo per il valore scientifico in sé, ma anche per l’analisi storica
del territorio che in questa occasione fu compiuta dal Comitato organizzatore.
Scrive Benetti, presidente dell’Ond per la provincia di Treviso:
L ’organizzazione delle m ostre non è stata facile. Il territorio della provincia, tagliato
da grandi vie di comunicazione, non ha potuto conservare, come altre regioni etnica­
m ente e geograficamente più chiuse, il carattere e i costumi tradizionali. L a grande
guerra poi, com battuta più di un anno, e vittoriosam ente risoltasi sulle rive del Piave,
ha spazzato di colpo tutto quello che poteva restare, se non delle usanze, certo degli
oggetti che tali usanze testimoniavano e perpetuavano [...] è stato possibile raccogliere
quanto più di caratteristico resta ancora nelle nostre cam p ag n en .
Il 18 novembre 1940, a cinque mesi dall’entrata in guerra dell’Italia e a pochi
giorni dalla aggressione alla Grecia venne inaugurata a Pola la mostra istriana
delle arti popolari.
Questo il commento di Emma Bona: « [...] nella ricorrenza dell’assedio econo­
mico, a dimostrare come l’Italia, pur nell’eccezionale periodo storico che sta
attraversando non rallenta il ritmo della sua vita, e dà al suo popolo i mezzi per
migliorarsi culturalmente e spiritualmente » ,8.
Sono parole che esprimono molto bene la funzione sempre più propagandistica
che vennero assumendo le mostre etnografiche negli anni del conflitto mondiale.
In questo senso un ruolo importante ebbero anche le mostre di religiosità po­
polare soprattutto nella fase immediatamente prebellica. Quella di Venezia, inau­
gurata in dicembre, fu presentata su «Lares» con queste parole: « [...] servirà
a interpretare la spiritualità del nostro popolo in questo eccezionale momento
storico che si identifica nella lotta anticomunista e nella difesa della civiltà cri­
stiana » 1789.
Sempre a Venezia si era aperto in settembre, il IV congresso nazionale di arti
e tradizioni popolari: tale congresso è l’ultimo di un periodo che vede la tra­
sformazione degli studi etnografici in arma ideologica nelle mani del regime:
[...] nell’esposizione universale, che sarà indetta a Rom a non appena la potenza e il
valore delle nostre arm i avrà raggiunta la definitiva vittoria, due fra le più im portanti
manifestazioni saranno dedicate alle arti e tradizioni popolari. Cioè la « M ostra nazionale »
per la quale si sta costruendo uno dei più cospicui palazzi, e che diverrà poi il Museo
del popolo italiano, ed il Congresso internazionale di arti e tradizioni popolari.
Possiamo pertanto dire che il bilancio consuntivo, scientifico e artistico dell’O pera na­
zionale dopolavoro, nel campo delle arti e delle tradizioni, anche se considerato in rapida
sintesi, è più che soddisfacente. Di questo fervore di studi e di opere il m erito va a ttri­
buito, incondizionatam ente, all’O pera nazionale dopolavoro e al suo Com itato nazionale
che vogliono assicurare alla patria, con la vigile tu tela del patrim onio spirituale ed arti­
stico della sua gente la sicura affermazione del suo incancellabile passato e del suo lum i­
noso avv en ire20.
17
E.
benetti,
Mostra delle arti, dei costumi e delle tradizioni della marca trivigiana, in « La-
rcs », XVII [1938], p. 31.
E. bona, La mostra istriana delle arti popolari, in « L ares» , XIX [1940], p. 77.
A tti del Comitato, in « L ares» , XIX [1940], p. 454.
20
E. bona, A ttività dell’Ond per le arti popolari dal Congresso di Trento all’anno XV11I, in
A tti del IV congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, Roma, 1942, pp. 613-616.
18
18
Il ruolo delle mostre etnografiche
103
Gli eventi successivi avrebbero completamente mandato in fumo questi auspici;
mentre ancora in Italia infuriava la guerra alcuni etnografi si accingevano a
riprendere l’attività di ricerca che ritrovò un punto fermo nella ricostituzione
della Società di etnografia italiana nell’autunno 1944.
Ma per restare al periodo fascista, si può proporre un ulteriore punto di vista
nel considerare il problema: quale fu l’efficacia reale sul piano culturale e didat­
tico della attività dell’Ond in campo etnografico?
Non c’è dubbio che le masse lavoratrici, spesso demagógicamente invocate, erano
assenti agli appuntamenti delle esposizioni, sempre organizzate nei centri urbani.
Il pubblico, prevalentemente piccolo borghese, non era mai incoraggiato ad ap­
profondire i temi proposti, ma veniva sollecitato a concentrare l’attenzione sugli
aspetti più superficiali ed innocui del folclore popolare.
Senza addentrarsi, né sarebbe questa la sede, nell’analisi delle caratteristiche
dell’Opera nazionale dopolavoro, è evidente l’interesse rivolto ai lavoratori di
città, prevalentemente impiegati e dipendenti di pubblici servizi. Non fu mai
effettuato, se non nei discorsi programmatici, un serio tentativo di rilancio dell’artigianato, che avrebbe immediatamente posto il problema della formazione
di quadri preposti all’istruzione tecnica e professionale, in modo particolare nelle
zone rurali. Anzi il regime scelse la linea opposta:
verso la fine degli anni trenta, il regime eliminò le ultime tracce di una istruzione spe­
cializzata nelle più povere e remote zone rurali.
Fondate all’inizio del secolo, prevalentemente da iniziative private, alcune migliaia di
piccole scuole rurali avevano offerto ai bambini delle campagne l’opportunità di una
istruzione elementare di carattere generale e professionale [...] Tra il 1928 e il 1935
tutte queste scuole vennero praticamente assorbite dall’Opera Balilla, che tuttavia non
modificò il carattere specializzato dell’insegnamento, ma neppure si preoccupò molto di
mandare i suoi « missionari » nelle zone meno accessibili21.
Anche lo spazio concesso al dialetto nella scuola elementare dalla riforma
Gentile, era ben lontano dal favorire la crescita della coscienza di una identità
etnica e quindi politica, ma mirava piuttosto a sollecitare il municipalismo cam­
panilista in una prospettiva di accentramento totale.
M A S SIM O TO ZZI FONTANA
21
E.
tannenbaum ,
L ’esperienza fascista, Milano, 1974, p. 200.