Testo di Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz

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Testo di Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz
9. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica
Quando, assieme all’onore di questo premio, mi è stato offerto anche l’onere
di tenere il “discorso solenne” ed ho letto nella biografia del Rabbino
Leopold Lucas, alla cui memoria tale premio è stato istituito, come egli sia
morto a Theresienstadt e come invece sua moglie Dorotea, la madre del
fondatore, sia stata inviata da lì ad Auschwitz, dove ha condiviso lo stesso
destino di mia madre, allora questo tema mi si è imposto irresistibilmente.
L’ho scelto tremante e con timore. Ma pensavo di essere in debito verso
quelle ombre, di non poter negare loro qualcosa come una risposta al loro
grido, spentosi da lungo tempo, verso un Dio muto.
Ciò che ho da offrire è un pezzo di teologia manifestamente speculativa.
Lascio in sospeso la questione se qualcosa del genere si addica ad un
filosofo. Immanuel Kant ha bandito tutto ciò dal lavoro della ragione
teoretica e, con essa, dalla filosofia; e il positivismo logico del nostro secolo,
l’intera analitica dominante, ha perfino negato un significato reale ad ogni
espressione linguistica impiegata per i temi che vi sono presumibilmente
discussi, e quindi ogni senso concettuale in generale, e ha così dichiarato
che anche solo il parlarne sia mero non-senso (del tutto a prescindere dalla
questione della verità e della verificabilità). E tuttavia ciò avrebbe
profondamente meravigliato il vecchio Kant. Perché egli, al contrario,
considerava questi non-oggetti come gli oggetti più alti che la ragione non
deve affatto trascurare, sebbene essa non possa sperare di giungere ad
alcuna conoscenza al riguardo e nel perseguirla attraverso i confini
immutabili della conoscenza umana sia condannata al fallimento. Accanto
alla completa rinuncia, questa posizione apre un’altra possibilità. Chi, infatti,
accetta che riguardo alla conoscenza di questi non-oggetti si debba fallire, e
anzi rinuncia in anticipo a questo scopo in generale, questi può comunque
riflettere su tali cose dal punto di vista del senso e del significato. Perché
l’affermazione secondo cui qui non vi sarebbero alcun senso e alcun
significato si lascia facilmente liquidare come circolo vizioso tautologico, in
quanto essa ha definito in anticipo il “senso” come ciò che alla fine si può
verificare attraverso dati sensibili, e quindi equipara “sensato” a
“conoscibile”. A questo colpo di mano per definizione, è legato solo chi è
d’accordo con esso. Si può lavorare al concetto di Dio anche quando non vi è
alcuna dimostrazione dell’esistenza di Dio. Un tale lavoro è filosofico quando
si attiene alla rigorosità del concetto, e ciò significa anche: se si attiene alla
sua relazione all’universo dei concetti.
Naturalmente tutto ciò è fin troppo generale e impersonale. Come Kant ha
riconosciuto alla ragion pratica ciò che aveva negato a quella teoretica, allo
stesso modo noi possiamo far risuonare la forza di una esperienza unica e
mostruosa nella domanda su cosa significhi Dio. E qui emerge subito la
questione: cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che già si poteva sapere a
proposito della grandezza delle cose mostruose e terribili che gli uomini
possono fare agli altri uomini e che hanno perpetrato da sempre? In
particolare, cosa aggiunge a ciò che noi ebrei conosciamo da millenni di storia
di sofferenze e che costituisce una parte tanto essenziale della nostra
memoria collettiva? La domanda di Giobbe è stata da sempre la domanda
fondamentale della teodicea, di quella universale per l’esistenza del male nel
mondo in generale, di quella particolare nel suo inasprimento attraverso il
mistero dell’elezione, della presunta alleanza tra Israele e il suo Dio. Per
quanto riguarda questo inasprimento, sotto il quale si pone anche la nostra
domanda attuale, fin dal principio – fin dai profeti biblici – poteva essere
chiamata a spiegarlo l’alleanza medesima: il popolo dell’alleanza gli era
diventato infedele. Nei lunghi tempi in cui il popolo le fu fedele, però, la
spiegazione non fu più la punizione per una colpa, ma l’idea di
testimonianza, una creazione dell’età dei Maccabei, che ha lasciato in
eredità ai posteri il concetto di martire. In base ad esso sono proprio gli
innocenti e i giusti a patire le peggiori sofferenze. Così, nel medioevo, intere
comunità andarono incontro alla morte per decapitazione o al rogo con il
Sch’ma Israel e la confessione dell’unicità di Dio sulle labbra. Il nome ebraico
per questo fenomeno è Kuddusch-haschém, “santificazione del nome”, e le
vittime si chiamavano “santi”. Attraverso il loro sacrificio risplendeva la luce
della Promessa, della salvezza finale attraverso il Messia che deve venire.
Niente di tutto ciò ci serve nel caso dell’evento che porta il nome di
“Auschwitz”. Qui non hanno posto fedeltà o infedeltà, fede o non fede, colpa
e pena, né prova, testimonianza e speranza di salvezza, né ancora forza o
debolezza, eroismo o viltà, caparbietà o rassegnazione. Quell’Auschwitz che
inghiottiva perfino i bambini piccoli non sapeva niente di tutto ciò, né ha
offerto l’opportunità per qualcosa del genere. Quelli non vi morivano per
amore della fede (come ancora i testimoni di Geova), né sono stati uccisi a
causa della loro fede o per qualche orientamento personale. La morte era
preceduta dalla disumanizzazione perpetrata attraverso la massima
umiliazione e privazione, nessuno splendore della nobiltà umana è stata
lasciata a coloro che erano destinati alla soluzione finale, niente di tutto ciò
era riconoscibile nei fantasmi scheletrici sopravvissuti nei campi liberati. E
tuttavia, paradosso dei paradossi, quello era proprio l’antico popolo
dell’Alleanza, alla quale quasi nessuno degli interessati, degli uccisori e
perfino delle vittime, credeva più, e tuttavia è stato proprio tale popolo e
nessun altro, ad essere prescelto, sotto alla finzione della razza, per questo
annientamento totale: il più orrendo rovesciamento dell’elezione nella
maledizione, che supera ogni spiegazione. E quindi esiste una comunanza –
di tipo decisamente perverso – con i profeti e i cercatori di Dio di un tempo,
i cui discendenti sono stati raccolti dalla dispersione e radunati nell’unione
della morte comune. E Dio ha lasciato che ciò accadesse. Quale Dio ha
potuto permettere che accadesse qualcosa del genere?
Qui va solo aggiunto che su questa questione l’ebreo si trova
teologicamente in una condizione più difficile del cristiano. Perché per i
cristiani, che aspettano la vera salvezza dall’Aldilà, questo mondo è
ampiamente in mano al diavolo ed è costantemente oggetto di diffidenza,
soprattutto il mondo umano, a causa del peccato originale. Ma per l’ebreo,
che in questo mondo vede il luogo della creazione, della giustizia e della
salvezza divina, Dio è eminentemente il Signore della Storia, e perciò
“Auschwitz” pone in questione perfino per i credenti l’intero concetto di Dio
che è stato tramandato. Infatti Auschwitz, come ho appena cercato di
mostrare, aggiunge all’esperienza storica ebraica qualcosa che non vi era
mai stato prima, che non si può padroneggiare con le categorie teologiche
antiche. Chi però non vuole semplicemente abbandonare il concetto di Dio
– e anche il filosofo vi ha diritto –, questi, per non dovervi rinunciare, deve
ripensarlo in modo nuovo e cercare una nuova risposta all’antica domanda
di Giobbe. In questo ripensamento egli dovrà abbandonare del tutto il
concetto di “Signore della storia”. E dunque: quale Dio ha potuto permettere
che accadesse qualcosa del genere?
Qui ricorro ad un tentativo che ho azzardato già una volta confrontandomi
con la più ampia domanda sull’immortalità, nel quale tuttavia già si alzava
l’ombra di Auschwitz.1 Allora mi aiutai con un mito escogitato da me, quel
mezzo ipotetico per immagini, comunque credibile, che Platone ammetteva
per la sfera che travalica il terreno del conoscibile. Permettetemi di
1
Cfr. H. Jonas, Tra il nulla e l’eternità, cit., pp. 88 e ss.
ripeterlo in questa sede.
Al principio, per una scelta inconoscibile, il fondamento divino dell’essere
decise di rimettersi al caso, al rischio e all’infinita molteplicità del divenire.
E lo fece completamente: la divinità entrando nell’avventura dello spazio e
del tempo non trattenne nulla di sé; nessuna sua parte ne rimase intoccata e
immune, cosicché essa stessa potesse guidare, correggere, e da ultimo
garantire dall’Aldilà la tortuosa trasformazione del suo destino nella
creazione. Lo spirito moderno consiste in questa immanenza
incondizionata. Il suo coraggio e la sua disperazione, ed in ogni caso la sua
amara onestà, sta nel prendere sul serio il nostro essere-nel-mondo: nel
vedere il mondo come abbandonato a se stesso, le sue leggi come
insofferenti ad ogni intromissione e l’asprezza della nostra appartenenza ad
esso come non mitigata da una provvidenza divina. Il nostro mito esige lo
stesso dall’essere-nel-mondo di Dio. Non però nel senso di un’immanenza
panteistica: se Dio e il mondo fossero semplicemente identici, allora il
mondo mostrerebbe in ogni momento e in ogni stato la sua pienezza, e Dio
non potrebbe né vincere né perdere. Piuttosto, perché ci fosse mondo, Dio
ha rinunciato al suo stesso essere; si è spogliato della sua divinità per
riceverla indietro dall’odissea del tempo, caricata del raccolto casuale
dell’imprevedibile esperienza temporale, trasfigurata o forse anche
deturpata da essa. In questa spontanea rinuncia all’integrità divina per
amore di un divenire senza riserve non si può ammettere nessun’altra
pre-conoscenza se non quella della possibilità che l’essere cosmico concede
alle proprie condizioni: Dio abbandonò quanto gli compete proprio a queste
condizioni, poiché se ne priva a vantaggio del mondo.
Per eoni il mondo è al sicuro nelle mani lentamente laboriose della casualità
cosmica e delle possibilità del suo gioco, mentre, così ci è lecito supporre,
una paziente memoria della rotazione della materia si accumula
continuamente e cresce fino all’attesa presaga con cui l’Eterno accompagna
in modo crescente le opere del tempo: una titubante emersione della
trascendenza dall’opacità dell’immanenza.
E quindi il primo moto di vita, un nuovo linguaggio del mondo, e con esso un
enorme aumento dell’interesse nell’ambito eterno e un salto improvviso
nella crescita verso la riacquisizione della sua pienezza. È il momento
cosmico che la divinità diveniente attendeva e con cui la sua funzione
donatrice mostra per la prima volta i segni della sua salvezza finale. Dalla sua
risacca eternamente oscillante di sentimento, percezione, tensione e azione,
che si solleva sempre più variegata e intensa sul turbinio muto della materia,
l’Eternità ottiene forza, si riempie di contenuto in contenuto di
autoaffermazione, e per la prima volta il Dio adulto può dire che la creazione
è buona.
giustificano l’audace impresa divina. Perfino il loro patire rende più
profonda la pienezza musicale di questa sinfonia. Così, allora, al di qua del
bene e del male, Dio non può perdere nel grande gioco d’azzardo
dell’evoluzione
Ma si osservi che insieme alla vita è comparsa la morte e che la mortalità è il
prezzo che la nuova possibilità dell’essere deve pagare per sé. Se il fine
fosse la continua durata, la vita non sarebbe mai dovuta comparire, poiché
in nessuna forma possibile essa può competere con la durevolezza dei corpi
inorganici. Essa è essenzialmente essere revocabile e distruttibile,
un’avventura della mortalità, che ottiene in prestito dalla materia durevole,
alle sue condizioni (la breve condizione dell’organismo metabolico), l’orbita
finita del sé individuale. Ma proprio nel sentire-se-stesso, nell’agire e nel
soffrire degli individui finiti, che ricevono dalla pressione della finitezza la
loro intera urgenza e con essa il vigore della sensibilità la regione divina
dispiega il proprio gioco di colori e la divinità giunge all’esperienza di se
stessa...
Altrettanto poco, però, egli può vincere veramente nella tutela della propria
innocenza, e in lui cresce una nuova aspettativa in risposta alla direzione
che l’inconsapevole movimento dell’immanenza assume gradualmente.
Si osservi allo stesso modo che nell’innocenza della vita prima della
comparsa del sapere, il compito di Dio non può sbagliare. Ogni differenza di
specie che l’evoluzione produce aggiunge le proprie possibilità a quelle del
sentire e del fare e arricchisce così l’esperienza di sé del fondamento divino.
Ogni dimensione della risposta del mondo, che si schiude nuovamente nel
proprio corso, rappresenta per Dio una nuova possibilità per mettere alla
prova la propria essenza nascosta e scoprire se stesso attraverso le
sorprese dell’avventura del mondo. E tutti i frutti della sua difficile fatica di
divenire, che sia luminosa od oscura, rigonfia il tesoro ulteriore dell’eternità
vissuta nel tempo. Se questo vale già per lo spettro sempre più ampio della
molteplicità in sé, quanto più varrà per la crescente vigilanza e passionalità
della vita, che avanza nel mondo degli animali con la crescita gemellare di
percezione e movimento. L’affinamento sempre maggiore di istinto e
angoscia, piacere e dolore, trionfo e privazione, amore e perfino crudeltà: la
pervasività della loro intensità in sé, e quella di ogni esperienza in generale,
è un guadagno del soggetto divino; e il loro trascorrere, ripetuto
innumerevoli volte, ma che non si smorza mai (e proprio da questo deriva la
necessità di morte e di nuova nascita), offre quella essenza purificata a
partire dalla quale la divinità si ricostruisce. L’evoluzione mette a
disposizione tutto ciò attraverso il rigoglio del suo gioco e la forza del suo
sprone. Le sue creature, realizzandosi in conformità al loro istinto
Ed egli, allora, trema, perché l’urto dell’evoluzione, supportato dalla propria
forza centrifuga, supera la soglia in cui l’innocenza viene meno e un criterio
completamente nuovo di successo e insuccesso prende possesso dell’azione
divina. Il sopraggiungere dell’uomo significa il sopraggiungere di sapere e
libertà, e con questo supremo dono a doppio taglio l’innocenza del mero
soggetto della vita che compie se stessa crea spazio al compito della
responsabilità sotto alla distinzione di bene e male. D’ora in avanti la
materia divina, solo ora divenuta manifesta, è affidata alla chance e al
pericolo di questa dimensione del compimento e il suo esito è in bilico.
L’immagine di Dio, iniziata in modo esitante dal cosmo fisico, tanto a lungo a
lavoro – e lasciata incompiuta – nell’ampia ma sempre più stretta spirale
della vita pre-umana, con quest’ultima svolta e con la drammatica
accelerazione del moto, passa alla problematica custodia dell’uomo per
venire realizzata, salvata o corrotta da ciò che questi farà di se stesso e del
mondo. E l’immortalità umana consiste in questo spaventoso colpo dei suoi
atti sul destino divino, della sua azione sull’intera condizione dell’Essere
Eterno.
Con l’apparire dell’uomo la trascendenza si è risvegliata a se stessa e
accompagna, d’ora in poi, il fare umano con il fiato sospeso, sperando e
corteggiando, con gioia e tristezza, soddisfazione e delusione. E, come amo
credere, rendendosi sensibile a lui senza intervenire nella dinamica della
scena mondana. Non potrebbe essere, infatti, che il trascendente attraverso
il riverbero del suo stato, così come trema assieme al bilancio oscillante
dell’agire dell’uomo, getti luce e ombre sul paesaggio umano?
Fin qui il mito ipotetico che ho esposto in un altro contesto. Esso ha
implicazioni teologiche che solo lentamente mi si sono chiarite. Di esse
vorrei sviluppare quelle più evidenti, nella speranza di riunire con la
tradizione responsabile del pensiero religioso ebraico, tramite la traduzione
dell’immagine nel concetto, ciò che deve apparire come una bizzarra e
arbitraria fantasia privata. In questo modo cercherò di rendere rispettabile
la sconsideratezza della mia speculazione che procede a tentoni.
ellenico non è mai stato adeguato allo spirito e al linguaggio della Bibbia, e il
concetto di un divenire divino, in effetti, può conciliarsi meglio con essa.
Innanzi tutto, allora, e nel modo più evidente, ho parlato di un Dio
sofferente, cosa che appare immediatamente in contraddizione con la
rappresentazione biblica della maestà divina. Naturalmente esiste il
significato cristiano dell’espressione “Dio sofferente”, con il quale tuttavia il
mio mito non va confuso: quest’ultimo non parla, come fa quello, di un atto
univoco, attraverso il quale la divinità, in un momento preciso e al particolare scopo della salvezza dell’uomo, ha inviato una parte di sé in una
precisa situazione di sofferenza (l’incarnazione e la crocifissione). Se
qualcosa di quello che ho detto ha senso, allora questo senso è quello per cui
il rapporto di Dio con il mondo a partire dall’istante della creazione, e
sicuramente dalla creazione dell’uomo, implica una sofferenza da parte di
Dio. Naturalmente essa include una sofferenza anche da parte della
creatura, ma questa ovvietà è stata riconosciuta da sempre in ogni teologia.
Non allo stesso modo è stata riconosciuta l’idea che Dio, creando, soffre, e di
tale idea dico che essa cozza prima facie con la rappresentazione biblica
della maestà divina. Ma lo fa davvero in modo così estremo come sembra al
primo sguardo? Non constatiamo come anche nella Bibbia ebraica Dio si
veda disprezzato e non corrisposto dall’uomo e come soffra per lui? Non lo
vediamo pentirsi perfino di aver creato l’uomo e soffrire per il frequente
dispiacere legato alla delusione di cui ha esperienza con lui, in particolare
con il suo popolo eletto? Ricordiamo il profeta Osea ed il commosso lamento
d’amore di Dio per la sua moglie infedele, Israele.
Perché, cosa significa il Dio in divenire? Anche se non andiamo tanto
lontano, come propone il nostro mito, dobbiamo riconoscere a Dio un
“divenire” quantomeno per il semplice fatto che egli è affetto da ciò che
accade nel mondo, e “affetto” significa alterato, modificato nella sua
condizione. Anche se prescindiamo dal fatto che già la creazione in quanto
tale, quale atto e esistenza del suo risultato, mostra in definitiva una
decisiva modificazione nella condizione di Dio, nella misura in cui egli ora
non è più solo, allora il suo continuo rapporto con il creato, laddove esso ora
soltanto esiste e si muove all’interno del flusso del divenire, significa
proprio che Dio con il mondo fa esperienza di qualcosa, che dunque il suo
proprio essere è influenzato da ciò che accade in esso. Questo vale già per il
mero rapporto del sapere che lo accompagna, per tacere del tutto di quello
dell’interesse. Quindi, se Dio si trova in una qualche relazione con il mondo
(questa è l’assunzione cardinale della religione) allora attraverso ciò
soltanto l’eterno si è “temporalizzato” e diventerà continuamente diverso
attraverso la realizzazione del processo del mondo stesso.
Inoltre, come punto ulteriore, il mito indica l’immagine di un Dio in divenire.
È un Dio che sorge nel tempo, anziché possedere un essere compiuto, che
rimane identico a se stesso attraverso l’eternità. Una tale idea del divenire
divino sta certamente in contraddizione con la tradizione greca,
platonico-aristotelica della teologia filosofica, che dal suo incorporamento
nella tradizione teologica giudaica e cristiana ha in qualche modo usurpato
per sé un’autorità, alla quale, secondo criteri autenticamente ebraici (e
anche cristiani) non è in alcun modo legittimata. Extratemporalità,
impassibilità, immutabilità sono stati dichiarati attributi necessari di Dio. E
la contrapposizione ontologica che il pensiero classico ha affermato tra
essere e divenire, secondo cui il divenire sarebbe inferiore all’essere, essendo proprio del mondo corporeo inferiore, ha escluso ogni ombra di
divenire dal puro e assoluto essere della divinità. Ma questo concetto
Una marginale conseguenza dell’idea del Dio in divenire è che essa
distrugge l’idea di un ritorno dell’uguale. Questa era l’alternativa di
Nietzsche alla metafisica cristiana, che in questo caso è la stessa di quella
giudaica. L’idea di Nietzsche infatti è il simbolo della svolta verso la
temporalità e l’immanenza incondizionata, via da ogni trascendenza che
potrebbe conservare una memoria eterna di ciò che accade nel tempo.
L’idea, cioè, che attraverso il mero esaurimento delle possibili permutazioni
nella ripartizione degli elementi materiali deve rientrare una
configurazione “iniziale” dell’universo, con cui tutto ricomincia nuovamente
dal principio; e se ciò accade una volta, allora accadrà infinite volte (il
nietzschiano “anello degli anelli, l’anello dell’eterno ritorno”). Ma se noi
ammettiamo che l’eternità è toccata da ciò che si dà nel tempo, allora non
può esservi mai un ritorno dell’uguale, perché Dio non sarà mai lo stesso
dopo esser passato attraverso l’esperienza del processo del mondo. Ogni
nuovo mondo che può giungere dopo la fine di un mondo già stato porterà
per così dire nella propria eredità la memoria del precedente. O con altre
parole: non esisterà mai una eternità morta e indifferente, ma una che
cresce con l’accumularsi dei frutti del tempo.
Strettamente connesso ai concetti di un Dio sofferente e in divenire è quello
di un Dio che ha a cuore – un Dio che non è lontano, separato e chiuso in sé,
ma che è coinvolto in ciò che ha a cuore. Qualunque sia la condizione
“primordiale” della divinità, essa ha smesso di essere chiusa in sé
nell’istante in cui è entrata nell’esistenza del mondo, nel momento in cui lo
ha creato o ne ha permesso la nascita. Il fatto che Dio si prenda cura delle
sue creature appartiene ai principi più familiari al credo giudaico. Ma il
nostro mito sottolinea l’aspetto meno familiare secondo cui questo Dio
che-ha-a-cuore non è un mago, che nell’atto di avere-a-cuore realizza al
contempo il fine della sua preoccupazione: egli ha lasciato qualcosa da fare
ad altri attori e ha reso così la sua preoccupazione dipendente da essi. Egli è
perciò anche un Dio in pericolo, un Dio a proprio rischio. È chiaro che le
cose debbano stare così, perché altrimenti il mondo sarebbe in uno stato di
permanente perfezione. Il fatto che esso non vi si trovi può significare solo
una delle due cose: o che non esiste un Dio unico (ma forse più di uno) o che
l’unico Dio ha affidato a qualcos’altro rispetto a se stesso, qualcosa che lui
ha creato, uno spazio d’azione e una codeterminazione, rispetto a ciò che è
gli sta a cuore. Per questo ho detto che il Dio che-ha-a-cuore non è un mago.
In qualche modo egli, attraverso un atto di imperscrutabile saggezza o
d’amore, o qualsiasi sia stata la motivazione divina, ha rinunciato a
garantire con il suo stesso potere la realizzazione di se stesso, dopo aver già
rinunciato, attraverso la creazione stessa, ad essere tutto in tutto.
E con ciò giungiamo a quello che forse è il punto più critico nella nostra
impresa speculativa e teologica: questo non è un Dio onnipotente! Infatti
affermiamo, per amore della nostra immagine di Dio e del nostro intero
rapporto con il divino, che non possiamo mantenere la tradizionale
(medievale) dottrina di una potenza divina assoluta e sconfinata. Lasciatemi
argomentare questo punto innanzi tutto su di un piano puramente logico,
attraverso l’articolazione del paradosso che giace già nel concetto di una
potenza assoluta. La situazione logica è in effetti in nessun modo quella per
cui l’onnipotenza divina sia la dottrina razionalmente plausibile e in qualche
modo consigliabile, mentre quella della sua limitazione sarebbe riottosa e
bisognosa di difesa. Tutto il contrario. Dal mero concetto di potenza
consegue che l’onnipotenza è un concetto autocontraddittorio,
autosuperantesi e perfino insensato. È la stessa situazione, in ambito
umano, della libertà. Lungi dal cominciare laddove finisce la necessità, essa
sussiste e vive nel suo misurarsi con la necessità. La separazione dal regno
della necessità sottrae alla libertà il proprio oggetto, senza di questo essa
diviene nulla come la forza senza resistenza. La libertà assoluta sarebbe
libertà vuota, tale da annullare se stessa. Così anche l’assoluta potenza
solitaria sarebbe vuota potenza. Potenza assoluta e totale significa potenza
che non è limitata da nulla, nemmeno dall’esistenza di qualcosa d’altro in
generale, qualcosa oltre se stessa e distinto da essa. Perché la mera esistenza di un tale altro rappresenterebbe già una limitazione, e una potenza
dovrebbe annullare quest’altra per preservare la sua assolutezza. La
potenza assoluta, allora, nella sua solitudine, non ha un oggetto su cui
potrebbe agire. In quanto potenza priva di oggetto, però, essa è una potenza
impotente, che nega se stessa. “Tutto” equivale qui a “zero”. Perché possa
essere efficace deve esserci qualcos’altro e appena esso esiste, essa non è
più onnipotente, sebbene la sua potenza possa essere superiore ad ogni
confronto. L’esistenza per sé di un altro oggetto limita, in quanto condizione
del suo azionamento, la potenza della forza attiva più potente
permettendole al contempo di essere una forza attiva. In breve, la “potenza”
è un concetto relazionale e richiede un rapporto a più poli. Quindi una
potenza che non incontra nel proprio partner di riferimento alcuna
resistenza equivale a non essere una potenza. La potenza si esercita solo in
relazione a ciò che ha esso stesso potenza. La potenza, se non deve essere
inattiva, consiste nella capacità di superare qualcosa, ed è sufficiente la
coesistenza di un altro in quanto tale per fornire questa condizione. Perché
esistenza significa resistenza e, quindi, forza contraria. Così, come in fisica la
forza senza la resistenza, ovvero una controforza, rimane vuota, così anche
in metafisica la potenza senza contropotenza non è potenza. Ciò su cui la
potenza ha effetto deve avere una potenza da se stesso, anche quando
questa sorge dalla prima ed è offerta originariamente al suo possessore
insieme alla sua esistenza attraverso l’autorinuncia della potenza illimitata
– e cioè proprio nell’atto della creazione. In breve: non può essere che ogni
potenza si trovi esclusivamente dal lato di un soggetto agente. Perché in
generale vi sia potenza essa deve essere condivisa.
Ma, accanto a questa obiezione logica e ontologica, contro l’idea di una
onnipotenza divina ve ne è una più propriamente teologica ed
autenticamente religiosa. L’onnipotenza divina può coesistere con la bontà
divina solo al prezzo della totale incomprensibilità di Dio, cioè della sua
enigmaticità. Di fronte all’esistenza del male morale o anche soltanto del
male fisico nel mondo dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla
coesistenza di quei due attributi. Solo di un Dio del tutto incomprensibile si
può dire che egli sia contemporaneamente assolutamente buono e
assolutamente onnipotente e che tuttavia sopporti il mondo così com’è.
Detto più in generale, i tre attributi in questione – bontà assoluta, potenza
assoluta e comprensibilità – sono in un tale rapporto tra loro che ciascun
legame tra due di essi esclude il terzo. La domanda, allora, è: quali di essi
sono veramente essenziali al nostro concetto di Dio e quindi inalienabili e
qual è il terzo che deve recedere, poiché meno forte, di fronte al diritto
superiore degli altri due? Di certo la bontà, ovvero la volontà del bene, è
inseparabile dal nostro concetto di Dio e non può sottostare a nessuna
limitazione. Comprensibilità o conoscibilità che è doppiamente
condizionata, dall’essenza di Dio e dai limiti dell’uomo, è, in ultima analisi,
sottomessa alla limitazione, ma non si presta in nessun caso ad essere
negata. Il Deus absconditus, il Dio nascosto (per non parlare di un Dio
assurdo) è una rappresentazione profondamente non ebraica. La nostra
dottrina, la Torah, si fonda sul fatto che noi possiamo comprendere Dio,
naturalmente non completamente, ma almeno in parte: possiamo
comprendere qualcosa della sua volontà, dei suoi propositi, e perfino della
sua essenza, poiché Egli ce lo ha annunciato! Ci fu la rivelazione, noi
possediamo i suoi comandamenti e le sue leggi, e ad alcuni – i suoi profeti –
egli si è comunicato direttamente, in modo che parlassero in sua vece a tutti
nel linguaggio degli uomini e del tempo, rifrangendosi così in questo
medium limitante e non chiudendosi nell’oscurità del mistero. Secondo la
norma ebraica un Dio completamente nascosto e incomprensibile è un
concetto inaccettabile.
E tuttavia, se gli venissero attribuite contemporaneamente la bontà assoluta
e l’onnipotenza, egli dovrebbe essere proprio tale. Dopo Auschwitz
possiamo affermare con la maggior fermezza di sempre che una Divinità
onnipotente o non è assolutamente buona oppure è totalmente
incomprensibile (nel suo governo del mondo, nel quale soltanto possiamo
coglierla). Ma se Dio, in un certo modo e in un certo grado, deve essere
comprensibile (e dobbiamo tener fede a questo punto) allora il suo essere
buono deve essere conciliabile con l’esistenza del male, e ciò è possibile solo
se egli non è onnipotente. Solo allora possiamo ammettere che egli sia
comprensibile e buono e che tuttavia nel mondo ci sia il male. E poiché
abbiamo ritenuto che comunque il concetto dell’onnipotenza sia dubitabile
in se stesso, è questo attributo che deve decadere.
Finora la nostra argomentazione sull’onnipotenza non ha fatto altro che
enunciare il principio, fondamentale per ogni teologia che si collochi in
continuità con l’eredità ebraica, che la potenza di Dio vada considerata
limitata da qualcosa di cui egli riconosce l’esistenza, a partire da un diritto
proprio, e la potenza di agire per autorità propria. Ciò si può interpretare
soltanto semplicemente come una concessione da parte di Dio che egli può
revocare quando preferisce, e cioè come il trattenimento di una potenza che
egli possiede illimitatamente, ma che utilizza in modo ridotto per amore del
diritto proprio della creazione. Ma ciò non sarebbe sufficiente, perché
rispetto al vero e proprio orrore che tra le creature a sua immagine, di
quando in quando, le une hanno perpetrato contro ad altre innocenti, ci si
dovrebbe aspettare che il buon Dio, di quando in quando, rompesse la
propria regola di trattenere la sua potenza e intervenisse con un miracolo
salvifico. Ma non ha avuto luogo alcun miracolo salvifico: durante gli anni
della furia di Auschwitz Dio ha taciuto. I miracoli che sono accaduti sono
provenuti soltanto dagli uomini: le azioni di questi singoli giusti tra le
nazioni, spesso sconosciuti, che non hanno avuto timore dell’estremo
sacrificio, per salvare, lenire, e addirittura, se non era possibile fare altro,
condividere la sorte di Israele. Parlerò ancora di loro. Ma Dio ha taciuto. E
allora io dico soltanto: egli non è intervenuto non perché non volesse, ma
perché non poteva. Per ragioni derivate in maniera decisiva dall’esperienza
contemporanea, propongo l’idea di un Dio che per un periodo – il periodo
del continuo processo del mondo – ha rinunciato ad ogni potere di
ingerenza nel corso fisico delle cose del mondo; un Dio che all’urto degli
accadimenti del mondo sul proprio essere non risponde “con la mano forte
e il braccio teso”, come recitiamo noi ebrei ogni anno in memoria dell’esodo
dall’Egitto, ma con il muto e insistente tentativo di conquistare il suo fine
incompiuto.
Qui, allora, la mia speculazione si allontana molto dall’antica dottrina
ebraica. Molti dei tredici dogmi di Maimonide,2 che vengono cantati durante
la funzione religiosa, terminano con l’espressione “mano forte”: i dogmi
della potenza di Dio sulla creazione, la sua ricompensa per i buoni e la
punizione per i malvagi, perfino la venuta del Messia promesso. Non si
allontana però dalla dottrina della chiamata delle anime, dell’ispirazione dei
profeti e della Torah, né dall’idea dell’elezione, poiché l’impotenza di Dio si
riferisce solo alla dimensione fisica. Soprattutto rimane fedele all’idea di
unico Dio e quindi all’”Ascolta Israele”; non viene scomodato nessun
2
Secondo Maimonide (XII secolo) i dogmi della Torah sono riassumibili in tredici articoli
di fede, che egli riassume nel decimo capitolo del trattato Sanhedrin. [N. d. C.]
dualismo manicheo per spiegare il male: esso emerge solo dal cuore
dell’uomo e ottiene potenza nel mondo. Nel mero ammettere la libertà
umana ha luogo una rinuncia della potenza divina. Già dalla nostra
discussione sulla potenza in generale è risultata la negazione
dell’onnipotenza divina. Ciò lascia teoricamente aperta la scelta tra un
iniziale dualismo, teologico o ontologico, e 1’«autolimitazione dell’unico Dio
attraverso la creazione dal nulla. Il dualismo a sua volta può ammettere la
figura manichea di una forza attiva del male, che fin dal principio si è
contrapposta allo scopo divino in ogni cosa: una teologia di due dei; oppure
la figura platonica di un medium passivo, il quale – altrettanto universale –
consente solo in modo imperfetto l’incarnazione dell’ideale nel mondo: una
ontologia di materia e forma. La prima scelta – la teologia dei due dei – è
evidentemente inaccettabile per l’ebraismo. La scelta platonica risponde,
nella migliore delle ipotesi, al problema della imperfezione e della necessità
della natura, ma non a quello del male positivo, il quale implica una libertà
dotata di un proprio potere autonomo di contro al proprio creatore. Ed è il
fatto e il successo del male voluto, molto più delle disgrazie della cieca
causalità naturale – Auschwitz e non il terremoto di Lisbona – ciò con cui
oggi la teologia ebraica deve fare i conti. Solo con la creazione dal nulla
abbiamo l’unità del principio divino con la sua autolimitazione, che offre lo
spazio per l’esistenza e l’autonomia del mondo. La creazione è stato l’atto
della sovranità assoluta, con cui essa, per amore dell’esistenza della
finitezza autodeterminante, acconsentì a non essere più assoluta — un atto,
dunque, dell’autoalienazione divina.
originario, l’infinito, dovette ritirarsi in se stesso e quindi lasciar sorgere al
di fuori di sé il vuoto, il nulla, nel quale e dal quale egli ha potuto creare il
mondo. Senza questo ritiro in se stesso non vi potrebbe essere nient’altro
oltre Dio, e solo il suo ulteriore trattenersi preserva le cose finite dal
perdere il loro essere proprio nel divino “tutto in tutto”.
E perciò ricordiamoci che anche la tradizione ebraica non è così monolitica
nelle questione della sovranità divina come fa sembrare la dottrina ufficiale.
Il potente corso sotterraneo della Kabbalah, che nei nostri giorni è stato
riportato alla luce da Gershom Scholem, riconosce un destino di Dio a cui
egli si è sottoposto con il divenire del mondo. Vi si trovano speculazioni
altamente originali e molto poco ortodosse, tra le quali la mia non si
troverebbe poi così sola. Per esempio il mio mito, fondamentalmente,
radicalizza soltanto l’idea dello Tzimtzum, questo centrale concetto
cosmogonico della Kabbalah luriana. 3 Tzimtzum significa contrazione,
ripiegamento, autolimitazione. Per creare spazio al mondo lo En-Sof
Signore e signori! Tutto questo è un balbettio! Anche le ineguagliabili parole
dei grandi veggenti e uomini di preghiera, i profeti e i salmisti sono stati un
balbettio di fronte al Mistero Eterno. Anche ogni risposta alla domanda di
Giobbe non può che essere tale. La mia è contrapposta a quella del libro di
Giobbe: quella invoca la pienezza della potenza del Dio creatore; la mia la
sua rinuncia alla potenza. E tuttavia, strano a dirsi, sono entrambe a sua
3
L'autore si riferisce alla teoria dello Tzimtzum elaborata da Luria (XVI secolo), secondo
la quale la creazione sarebbe avvenuta attraverso una autolimitazione volontaria
dell'Infinito.
Il mio mito va ancora oltre. La contrazione è totale, in quanto il tutto,
secondo la sua potenza, ha alienato l’infinito nel finito consegnandosi così
ad esso. Rimane ancora qualcosa ad un rapporto con Dio? Lasciatemi
rispondere con un’ultima citazione di uno scritto precedente.4
Rinunciando alla propria invulnerabilità il principio eterno ha permesso al
mondo di essere. A questa autonegazione ogni creatura deve la propria
esistenza e ha ricevuto ciò che vi è da ricevere dall’Aldilà. Dopo essersi dato
completamente nel mondo in divenire, Dio non ha più niente da dare: ora
sta all’uomo dargli qualcosa. E lo può fare nelle vie della sua vita facendo
attenzione acciocché non accada o non accada troppo spesso, e non a causa
sua, che Dio debba pentirsi di aver fatto divenire il mondo. Questo potrebbe
essere il mistero degli sconosciuti “trentasei saggi” che, secondo la dottrina
ebraica del mondo, non dovrebbero mai venir meno, e al cui numero
possono essere appartenuti, nel nostro tempo, alcuni dei già ricordati “giusti
tra le nazioni”:5 in forza della superiorità del bene sul male, cui noi
confidiamo nella logica non causale delle cose di questo mondo, la loro
santità nascosta è in grado di compensare una colpa infinita, parificare il
conto di una generazione e salvare la pace del regno invisibile.
4
5
V. H. Jonas, Tra il nulla e l'eternità, cit., p. 93.
Secondo la tradizione dei Lamed-waw in ogni generazione esistono sempre trentasei
Giusti: grazie alla loro presenza l'umanità non è soffocata dal male prodotto dagli
uomini. Nel 1953, lo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah, ha
avviato un progetto per onorare del titolo di "Giusti tra le Nazioni" i non ebrei che
hanno rischiato la propria vita, e senza alcun tipo di interesse personale, per salvare gli
ebrei durante la Shoah.
lode: è grazie alla rinuncia che noi siamo potuti essere. Anche questa, mi
pare, è una risposta a Giobbe: che anche Dio soffre. Se questa sia vera non lo
possiamo sapere da alcuna risposta. Della mia povera parola a tal proposito
posso solo sperare che essa non sia del tutto esclusa da ciò che Goethe nel
Vermächtnis altpersischen Glauben ha riassunto in queste parole:
Und was nur am Lob des Höchsten stammelt,
Ist im Kreis’ um Kreise dort versammelt.6
Tratto da: H. Jonas, Ricerche filosofiche e ipotesi metafisiche, a cura di A. Campo, Milano –
Udine, Mimesis, 2011, pp. 195-210.
6
E ciò che si balbetta a lode dell'Altissimo/ è lassù riunito in cerchi su cerchi" [N. d. C.].