Modifiche fisiche e chimiche

Transcript

Modifiche fisiche e chimiche
Modifiche fisiche e chimiche
Iniezioni
Per iniezione si intende l’inserimento di miscele fluide nei vuoti del terreno o negli spazi tra lo stesso e
strutture adiacenti. Molte di esse sono progettate in modo da gelificarsi o indurire dopo l’immissione,
o istantaneamente o dopo un po’ di tempo.
L’obiettivo principale delle iniezioni è rendere il terreno più resistente, più denso e/o meno permeabile,
ossia modificare le sue caratteristiche idrauliche e meccaniche. Esse tuttavia possono servire anche
solo a riempire i vuoti che altrimenti sono irraggiungibili con altre tecniche, e a favorire un adeguato
trasferimento degli sforzi entro il terreno o dalla struttura allo stesso.
I terreni iniettabili sono materiali alluvionali o detritici fino a un certo limite inferiore di permeabilità
(dalle ghiaie ai limi sabbiosi),
iosi), rocce (da carsiche a microfessurate) e murature difettose.
Le miscele utilizzate sono fluidi (sospensioni, soluzioni ed emulsioni) con proprietà reologiche idonee
alla permeabilità del terreno.
Fig. 1.4.1.1: Classificazione delle miscele
Cenni storici
La tecnica dell’iniezione è stata applicata per la prima volta dal francese Berigny nel 1802 per il
risanamento di murature subacquee, mediante malte di cemento e pozzolana. Egli ideò una pompa a
percussione installata direttamente nei fori di iniezione, e questo metodo si sviluppò in Francia e
Inghilterra nella metà del 1800.
In Italia ha avuto un notevole incremento principalmente nel periodo della ricostruzione postbellico, in
connessione con la riparazione e la costruzione di numerosissimi impianti idroelettrici.
Recentemente l’utilizzo delle iniezioni ha preso campo in maniera preponderante nel settore della
viabilità sotterranea, gallerie e linee metropolitane.
In principio si adottavano solamente sospensioni di cemento instabili, così denominate per la loro
tendenza a sedimentare se non agitate; si potevano in tal modo trattare solo rocce fessurate ed erano
quindi esclusi i terreni incoerenti.
Nel 1887 si cominciò ad estendere tale metodologia a terreni a granulometria più fine mediante
l’iniezione separata (in uno stesso foro o in due fori vicini) di silicato sodico seguito da una soluzione di
cloruro di calcio: tale metodo risultava comunque irregolare e costoso. Nel 1911 si cominciò ad usare il
solfato di alluminio come reagente per iniezioni preliminari a iniezioni cementizie in rocce porose.
L’alto costo delle soluzioni in due fasi ha favorito l’introduzione di soluzioni uniche, in grado di
gelificare in tempi brevi e quindi consentire una più ampia diffusione nel terreno: inizialmente sono
state utilizzate miscele a base di silicato di sodio con vari tipi di reagenti inorganici, i quali però
necessitavano di abbondanti diluizioni e come risultato finale si presentavano sotto forma di un gel di
bassa consistenza, idoneo ad una semplice impermeabilizzazione.
Solo verso il 1957 si ottennero dei gel ad alta consistenza in modo più economico e razionale dei due
sopra presentati: si tratta di miscele sempre di silicato sodico ma con reagenti organici che consentono
di ritardare la presa e di regolarla con eventuali additivi.
Un’ulteriore evoluzione è cominciata una trentina di anni fa ed è tuttora in corso: essa consente
l’iniezione nei mezzi porosi più fini, conferendo resistenze di ordine anche elevatissimo. Si tratta delle
soluzioni a base di resine organiche, le quali possono avere una viscosità iniziale inferiore rispetto ai
casi precedenti e mantenerla costante in un intervallo di tempo regolabile, fino alla presa.
Un’importante categoria intermedia fra le soluzioni instabili di cemento e le soluzioni chimiche è data
dalle soluzioni stabili, per l’impermeabilizzazione e il consolidamento di ghiaie e sabbie, fino ad un
certo limite di finezza granulometrica.
Tra le più diffuse vi sono le soluzioni stabili di argilla e
cemento, spesso con preferenza alla bentonite rispetto alle comuni argille.
Si sono andate via via perfezionando anche le miscele impermeabilizzanti di bentonite deflocculata e
stabilizzata e, per l’impregnazione di terreni granulari, le emulsioni di bitume stabilizzate col
procedimento Solètanche ed i lignocromati (liscive ligno-sulfitiche con aggiunta di bicromato di
potassio o di sodio).
In Giappone è stato sviluppato un metodo di iniezione chiamato CCP (Chemical Churning Pile) che
consiste nel proiettare ad altissima pressione delle opportune miscele cementanti a rapida presa, tali
da migliorare le caratteristiche meccaniche del mezzo da stabilizzare. Questo permette di consolidare
un’ampia varietà di terreni, dalle sabbie alle argille, indipendentemente dai legami tradizionali tra
permeabilità e viscosità delle miscele, dato che il terreno viene mescolato con il prodotto iniettato.
Tipologie di iniezioni
Le diverse iniezioni sono qui classificate secondo il metodo di inserimento nel terreno, tuttavia sarebbe
possibile considerare altri criteri di differenziazione, come il tipo di materiale iniettato, le
applicazioni,ecc..
•
iniezioni per penetrazione (impregnazione o intasamento);
•
iniezioni per sollevamento (compattazione o idrofratturazione);
•
gettiniezione (jetgrouting);
•
iniezioni per riempimento di grandi cavità;
•
iniezioni speciali, ad esempio l’elettroiniezione.
I metodi per impregnazione o intasamento consistono nel riempire con miscele rispettivamente vuoti
nel terreno e giunti di stratificazione e fratture nelle rocce; in questi casi le immissioni avvengono a
bassa pressione e non modificano quindi le dimensioni delle discontinuità o dei pori riempiti.
I metodi per sollevamento muovono il terreno interessato e si distinguono in iniezioni per
compattazione e per idrofratturazione. Nel primo caso (compaction grouting) una miscela densa è
iniettata in terre sciolte e forma bulbi che spostano e densificano il terreno circostante, senza
penetrare nei vuoti. Nel processo di idrofratturazione le miscele sono immesse ad alta pressione e
danno luogo a fessurazioni; qui lo spostamento del terreno non è limitato, come avviene nel caso
precedente, ma è notevole.
Il jet-grouting consiste nell’immissione di boiacca di cemento, la miscelazione del terreno avviene
sfruttando il potere erosivo di un getto di aria o acqua o boiacca, iniettato ad altissima velocità
orizzontalmente da un’asta in rotazione (monitor).
Con elettroiniezione si intende il processo di tempra elettrochimica durante l’elettrosmosi che si
ottiene con l’aggiunta di composti chimici, quali il silicato di sodio e il cloruro di calcio, all’anodo. Sotto
l’influenza del campo elettrico, questi composti chimici fluiscono nel terreno in direzione del catodo
mentre l’anodo diventa un tubo di iniezione.
Fig. 1.4.1.2:: Rappresentazione schematica delle tipologie di iniezione
Per molti ingegneri, le iniezioni sono considerate un’arte piuttosto che una scienza.
sci
Esse richiedono
molta esperienza, una precisa conoscenza delle condizioni geologiche del sito, e consapevolezza delle
possibilità e dei limiti dell’attrezzatura adottata.
Classificazione delle miscele (composizione)
Si distinguono tre tipologie di miscele
iscele a seconda della loro composizione:
•
sospensioni: piccole particelle solide disperse in un mezzo liquido. Esempio: cemento e argilla in
acqua;
•
emulsioni: sistema bifase contenente piccole goccioline colloidali di liquido in fase dispersa.
Esempio: bitume e acqua. A questa categoria appartengono anche le schiume, ottenute
emulsionando un gas nel materiale di iniezione, che può essere cemento o un composto chimico
organico. Alcuni agenti schiumogeni, come additivi che incrementano la tensione superficiale,
contribuiscono a formare bolle durante l’agitazione, o altrimenti possono indurre reazioni
chimiche con produzione di gas;
•
soluzioni: miscele molecolari liquide ed omogenee di due o più sostanze. Esempi: silicato di
sodio, resine organiche ed un’ampia varietà delle cosiddette miscele chimiche. Si possono
distinguere le soluzioni colloidali (tra cui le miscele a base di silicato sodico, i lignocromati e le
emulsioni bituminose) e le soluzioni pure (tra cui le resine acriliche e fenoliche e gli
amminoplasti).
Cambefort (1987) ha distinto i principali tipi di miscele:
Fig. 1.4.1.3:
.3: Classificazione delle miscele secondo Cambefort (1987)
Egli ha inoltre caratterizzato le schiume con i seguenti parametri:
coefficiente di espansione
coefficiente di rigonfiamento
indice d’aria
La relazione tra il coefficiente di espansione e l’indice d’aria è analoga a quella tra indice dei vuoti e
porosità nei terreni.
Le proprietà reologiche e la penetrabilità delle schiume nei terreni non sono solo legate al coefficiente
di espansione, che può variare tra meno di 3 per le schiume di base cementizia a più di 50 per le
schiume organiche, ma anche alla dimensione delle bolle.
Per quanto riguarda le miscele chimiche, fattori importanti che devono essere tenuti in considerazione
sono la tossicità e la permanenza. La permanenza rappresenta la resistenza al deterioramento
meccanico dovuto al gelo-disgelo
disgelo o alla bagnatura, e al deterioramento
deterioramento chimico per reazioni con la
falda o con i componenti del terreno. Tale caratteristica può essere anche minacciata dal movimento
dell’acqua o dall’erosione per infiltrazione attraverso gli spazi lasciati vuoti a seguito di un’iniezione
inadeguata o del ritiro, e dalla solidificazione della stessa miscela.
La tossicità si riferisce ai rischi per la salute a seguito del trattamento della miscela, e a suoi effetti
sulla qualità della falda con cui è in contatto. Sfortunatamente adottare miscele ad alta
al resistenza e
con molta permanenza comporta i maggiori rischi per la salute e le peggiori conseguenze a seguito
dell’inquinamento della falda e della corrosione.
Fig. 1.4.1.4:
4: Classificazione delle principali miscele chimiche di After Greenwood e Thomson
Thomson
Mezzi iniettabili, criteri di iniezione
Il metodo di iniezione di miscele può essere applicato in due grandi categorie quali:
•
i pori dei terreni granulari che formano uno schema di solito assai complesso;
•
le fessure che presentano un’apertura sensibilmente costante ed un reticolo più determinabile.
E’ questa diversa forma dei vuoti che differenzia totalmente l’iniezione delle rocce da quella dei
depositi alluvionali e che ha comportato uno sviluppo assai più difficoltoso e ritardato nel secondo caso.
Questo processo consiste nella permeazione di un fluido viscoso pertanto i criteri di iniezione sono
basati sulla permeabilità del mezzo e su altre caratteristiche ad essa correlate:
•
granulometria;
•
porosità e densità;
•
dimensione dei pori.
La scelta della miscela dipende comunque anche dalla compatibilità chimica e mineralogica tra
miscela e terreno da iniettare, e dalle proprietà meccaniche o idrauliche richieste al terreno trattato.
Criteri basati sulla granulometria
Lo studio granulometrico permette
te di ottenere diversi parametri, più o meno importanti e correlabili
con la permeabilità, ad esempio la composizione riferita a classi granulometriche convenzionali, il
diametro efficace d10, il grado di uniformità U=d60/d10. Diversi autori hanno cercato di valutare
l’iniettabilità dei terreni in base ai valori assunti da questi termini:
Criterio di Mitchell e Katti (1981) per sospensioni
Definiti i rapporti =
,
,
e =
,
,
(in cui i pedici m e t si riferiscono rispettivamente alla miscela e
al terreno), gli autori hanno determinato che se N<11 e Nc<6 non è possibile iniettare, mentre se N>24
e Nc>11 è possibile farlo. Sono quindi in genere iniettabili con sospensioni i terreni granulari (sabbie e
ghiaie).
Criterio di Cambefort (1967)
Egli ha ipotizzato che le particelle del terreno fossero sferiche e ha determinato la superficie specifica
per ogni diametro d:
S0 = 6/d
se riferita all’unità di volume [1/m]
SS = 0.222/d
se riferita all’unità di peso (assunto γS=27 kN/m3) [m2/kN]
Integrando tra il valore minimo e il valore massimo del diametro, ha quindi ottenuto la superficie
specifica integrale:
, = % Dividendo la curva granulometrica in classi con dm pari al diametro medio di ciascuna classe, si è
sostituito l’integrale con la sommatoria seguente:
In base a S0,int Cambefort ha quindi fornito i criteri di iniettabilità.
Criteri basati su d10, d50 e grado di disuniformità
disuniformità U=d60/d10
Criteri di questo tipo hanno fornito indicazioni discordanti. Si può comunque affermare che al
diminuire di d10 o all’aumentare del grado di disuniformità U, diminuisce l’iniettabilità.
Commento sui criteri basati sulla granulometria
Il criterio granulometrico è stato adottato da molti Autori i quali sono però arrivati a conclusioni
abbastanza discordanti, come dimostrano le seguenti curve granulometriche limite, al limite di
penetrabilità dei prodotti indicati. Come si può notare, le soluzioni pure a base di resine non
compaiono nella figura, per esse non vi è in teoria un vincolo granulometrico. Altrettanto vale per le
soluzioni colloidali per le quali però, per ragioni pratiche ed economiche, viene comunque fissato un
limite minimo.
Fig. 1.4.1.5:
5: Curve granulometriche corrispondenti ai limiti di penetrabilità con sospensioni
e soluzioni colloidali, secondo vari autori (da Cambefort)
Fig. 1.4.1.6:
6: Confronto tra la diversa permeazione delle miscele (After Clarke, 1984)
Criteri basati sulla porosità
La porosità n, volume totale dei vuoti riferito all’unità di terreno, aumenta con la finezza
granulometrica (cioè col diminuire della dimensione media dei pori), a parità di densità relativa Dr.
Viceversa, a parità
ità di terreno, n diminuisce all’aumentare di Dr. Valori indicativi della porosità in
terreni iniettabili sono:
•
0.2 ≤ n ≤ 0.3 per terreni grossolani
•
0.3 ≤ n ≤ 0.4 per terreni fini
Il volume dei vuoti riempiti non supera di solito il 50% della porosità globale, anche nei casi di miglior
successo ai fini del risultato.
Criteri basati sulla dimensione dei pori
La superficie dei pori si ricava per via teorica dalla superficie specifica e dalla porosità oppure
sperimentalmente mediante il porosimetro, strumento
strumento che permette di saturare il terreno con il
mercurio a pressioni di 3.5-7000
7000 kPa con misura del volume che penetra. Da questa, essendo il
diametro dei pori dP =1228/p (dP in µm e p in kPa), si ricava una curva V-d
V P che permette di risalire al
diametro dei pori medio o al valore modale della distribuzione.
Criteri basati sulla permeabilità
Usare la permeabilità k è più agevole della granulometria perché si usa un unico valore di confronto.
Essa è usualmente espressa dall’equazione fondamentale di Darcy, che regola il flusso laminare
dell’acqua in un mezzo poroso, ossia
=
(
)·
e rappresenta la velocità di flusso corrispondente a valori unitari della portata Q, della sezione
filtrante A, e del gradiente idraulico i; può essere determinata direttamente mediante prove in sito o in
laboratorio.
Diversi autori hanno proposto correlazioni tra la permeabilità ed altri parametri, ad esempio:
Hazen
= · con k in cm/s, C costante variabile da 40 a 150 per sabbie con grani
da 0.1 a 3 mm e grado di disuniformità U inferiore a 5;
Kozeny
=
· con k in cm/s, S0 superficie specifica in cm-1, n porosità, f fattore di
forma pari ad 1 per grani sferici e a 1.4 per grani spigolosi;
Loudon
!"# · $ = . & .. · Cambefort ha determinato un criterio di iniettabilità basato sul confronto tra le dimensioni dei vuoti
dello scheletro solido e quelle dei grani della miscela, basato sulla seguente formula:
′ * · √
dove C=600'800, con d’m (diametro medio dei grani della miscela) in micron e k in m/s.
Fig. 1.4.1.7:
7: Limiti di iniettabilità di sabbie e ghiaie in funzione della permeabilità
(Cambefort, 1967)
Il limite di 10-6 riferito alle miscele più penetranti (resine organiche) si basa su considerazioni di
carattere pratico, nel senso che ci si prefigge di poter raggiungere una buona impregnazione in tempi
brevi. Il trattamento di terreni ancora meno permeabili è possibile ma bisogna osservare che la
diffusione della miscela avviene parzialmente per effetto “claquage” cioè attraverso il riempimento di
micro fessure prodotte nel corso dell’iniezione: se ben controllati tali effetti possono essere favorevoli
all’esito globale del trattamento.
Bisogna comunque sottolineare che è difficile stabilire regole generali in quanto la penetrabilità di un
terreno in sito, ai fini del risultato, è spesso superiore a quella determinata in laboratorio o basata su
criteri di impregnazione uniforme.
Caratteristiche chimiche e mineralogiche del terreno
Prima di procedere ad un intervento è bene verificare che la miscela sia compatibile a breve e lungo
termine con la mineralogia delle particelle, la chimica dell’acqua interstiziale (acque molto dolci, acide
o seleniose) e la presenza di gas disciolti o prodotti dal terreno. In tutti i casi dubbi o non ben chiariti
dall’esperienza si dovranno fare specifiche indagini di laboratorio per accertare l’influenza del tipo di
ambiente nel quale è previsto l’intervento. Si eseguiranno quindi degli interventi correttivi, ad esempio
introdurre piccole percentuali di argilla o bentonite nelle sospensioni cementizie stabili, che permette
di ridurre o annullare la suscettibilità del cemento agli agenti aggressivi.
I rischi nell’utilizzo delle resine sono generalmente limitati alla fase di consolidazione, avvenuta la
presa, infatti, il mezzo non degrada, per cui è necessario e utile il controllo in laboratorio su campioni
di terreno trattato per qualche giorno.
Proprietà meccaniche dei terreni trattati
Le proprietà meccaniche (resistenza e deformabilità) vengono usate come termine di paragone per
valutare i dati di riferimento iniziali con i requisiti finali del consolidamento.
Se l’iniezione avviene per impregnazione (senza alterazione dell’indice dei vuoti della frazione
granulare), l’effetto è quello di conferire coesione al terreno, mantenendo inalterato l’angolo di attrito.
Se l’iniezione è spinta troppo, si ottiene il completo annegamento dei grani nella miscela e quindi il
prodotto è un mezzo puramente coesivo e si perde l’attrito. Se ci sono reazioni tra terreno e miscele, il
terreno diventa un “mezzo continuo” con caratteristiche meccaniche diverse; ciò avviene di solito
nell’iniezione di sabbie fini, generalmente silicee, con soluzioni a base di silicato sodico.
Iniezioni nelle rocce fessurate
Anche nel caso di iniezioni in roccia è necessario, al fine di definire le modalità d’iniezione ed i tipi più
appropriati di miscele, conoscere con precisione la natura della roccia, il suo stato di fessurazione e la
presenza o meno di una circolazione delle acque sotterranee. Il miglior approccio iniziale al problema è
ovviamente l’ispezione diretta con pozzi, gallerie o trincee ma questa non è sempre consentita per
motivi di costo e di tempo. Diventa comunque indispensabile eseguire sondaggi e prove in sito, sia
come completamento dell’ispezione diretta, sia in sua sostituzione.
Fattore importante nella valutazione delle modalità operative e dei risultati attesi è la conoscenza
della permeabilità della massa lapidea che può essere legata alla porosità (o “permeabilità in piccolo”
es. arenarie) o alla fratturazione (o “permeabilità in grande” es. roccia fratturata). Se una roccia è
porosa può drenare l’acqua della miscela non permettendo l’avanzamento della miscela stessa.
La permeabilità in grande si misura con le prove Lugeon: esse consistono in prove di pompaggio a
pressione in porzioni di foro isolate con otturatore. (Unità Lugeon = portata in l/min per metro di foro
ad una pressione di 1 MPa). Sono iniettabili rocce fini a 1-3 uL.
Un ulteriore problema sono le rocce carsiche: queste sono formazioni calcaree nelle quali l’acqua
sotterranea ha disciolto la roccia creando cavità di dimensioni molto variabili e a volte anche molto
grandi. In questi casi è difficile prevedere, anche nel caso di avere a disposizione sondaggi, il reale
stato fessurativo e la distribuzione dei vuoti della roccia e, di conseguenza, è difficile ragionare con le
tecniche dei terreni.
Reologia delle miscele
La reologia è lo studio dello scorrimento dei materiali. Le proprietà reologiche di base delle miscele
sono la stabilità, il tempo di indurimento e la viscosità.
Stabilità: una miscela si definisce stabile se le sue particelle rimangono in sospensione nella soluzione
finché essa non ha raggiunto la sua destinazione nel terreno. Se invece la fase solida tende a
sedimentare separando un’apprezzabile percentuale della fase liquida, quando la miscela non è
mantenuta in agitazione o comunque in movimento, quest’ultima viene detta instabile.
Tempo di indurimento: è appunto il tempo necessario alla miscela per indurire. Le miscele a base
cementizia normalmente solidificano in un tempo compreso tra 4 e 24 ore, a seconda degli additivi
usati. Le miscele chimiche possono indurire molto rapidamente, anche in pochi minuti.
Viscosità: è definita dalla legge di Newton sulla viscosità come il fattore di proporzionalità tra lo sforzo
di taglio τ e il gradiente della velocità di flusso dv/dz:
,=-
.
/
L’equazione soprastante è valida nel caso di moto laminare, ossia quando le particelle di fluido
seguono linee di flusso uniformi, non disturbate da correnti vorticose.
Il termine - è anche chiamato viscosità dinamica o viscosità assoluta. Se rapportato alla densità, esso
diventa viscosità cinematica ν :
0=
- -"
=
1
2
dove g = 9,81 m/s2 rappresenta l’accelerazione di gravità. Nel caso di moto turbolento, la legge di
Newton sulla viscosità dev’essere modificata per tener conto della cosiddetta viscosità dinamica dei
vortici η:
, = - & 3
.
/
E’ importante considerare moto turbolento finché
finché si assume il mantenimento della stabilità della
miscela durante il pompaggio; nel momento in cui bisogna valutare la penetrazione della miscela nel
terreno si assumono condizioni di moto laminare. La transizione da moto laminare a turbolento è in
generee descritta in termini della quantità adimensionale detta numero di Reynolds Re
45 =
1.6
-
dove v è la velocità di flusso e L è una lunghezza caratteristica, ad esempio il diametro del foro. Se il
numero di Reynolds è basso significa che le forze viscose prevalgono sulle forze d’inerzia e si verifica
un moto laminare.
La viscosità di un fluido può essere misurata direttamente o indirettamente. Una sua misura diretta è
ottenuta in laboratorio per mezzo del viscosimetro cilindrico mentre in sito la viscosità di una miscela
si ricava misurando il tempo necessario affinché una certa quantità di liquido
liqu
scorra attraverso un
imbuto standardizzato (ad esempio il cono di Marsh).
Fig. 1.4.1.8: Esempio di viscosimetro
a rotazione
Fig. 1.4.1.9:
9: Esempio di cono di Marsh
Modelli reologici e modelli di iniezione
In un fluido newtoniano lo sforzo di taglio τ varia proporzionalmente al gradiente della velocità dv/dz;
il modello meccanico ad esso corrispondente è un ammortizzatore
ammortizzatore ed è un modello lineare.
Un fluido che invece è caratterizzato da una relazione non lineare tra τ e dv/dz è denominato fluido
non newtoniano: il materiale presenta uno sforzo iniziale t0 che deve essere superato affinchè si
manifesti una deformazione continua. Il suo modello reologico corrispondente è quello di un
ammortizzatore e di una resistenza d’attrito in parallelo. Le sostanze che seguono questa regola sono
chiamate corpi di Bingham, essi non sono fluidi ma piuttosto
piuttos solidi visco-plastici.
plastici. Il comportamento
reologico di un corpo di Bingham è espresso dalla legge
, = , & -
.
/
Lo sforzo iniziale τ 0 è chiamato “rigidità”, “coesione” o “limite fluido”. Il comportamento di un fluido
descritto dall’equazione sovrastante
stante è talvolta detto “plastico ideale”.
Fig. 1.4.1.10:
10: Modello e diagramma reologici di un fluido
newtoniano
Fig. 1.4.1.11:
11: Modello e diagramma reologici di un
corpo di Bingham
Le sospensioni la cui rigidità viene persa subito dopo lo scuotimento ma è recuperata non appena sono
lasciati indisturbati per un po’ di tempo sono detti tixotropiche. Le proprietà tixotropiche della
bentonite contribuiscono a mantenere la stabilità
stabil
delle iniezioni cementizie.
L’acqua si comporta come un fluido newtoniano mentre le particelle argillose in sospensione
rappresentano una sostanza non newtoniana. Una miscela di argilla o di cemento può essere
approssimativamente trattata come un corpo
corpo di Bingham e l’argilla bentonite è un tipico materiale
tixotropico.
Per descrivere il processo di iniezione da un foro in un mezzo poroso è possibile adottare due modelli,
iniezione da sorgente sferica e da sorgente cilindrica. Si assume che il moto di filtrazione sia laminare,
stazionario, ed avvenga entro certi limiti di pressione. Si fanno inoltre le ipotesi di fluido newtoniano
non evolutivo (come le soluzioni pure), per il quale vale la legge di Darcy, e di terreno omogeneo,
isotropo e saturo.
Nell’applicare tali modelli a fluidi newtoniani evolutivi (soluzioni colloidali) si può calcolare una
viscosità media valutata entro il tempo di iniezione. Difficile è l’estensione della legge di Darcy alle
sospensioni, anche se stabili, data la loro rigidità evolutiva.
Iniezione da sorgente sferica
Si assume che la miscela fluisca nel terreno da una cavità sferica di raggio R0 sotto l’influenza di una
pressione netta pe (superiore alla pressione idrostatica locale). Vale quindi la relazione seguente:
5 =
(2
(2=
74 8 74 -9
dove
Q = portata d’iniezione [m3/s];
γ = peso specifico della miscela [kN/m3];
kG = permeabilità del terreno alla miscela [m/s];
k = permeabilità del terreno all’acqua [m/s];
µ = viscosità della miscela [Pa∙s];
µw = viscosità dell’acqua [Pa∙s].
Il tempo richiesto alla miscela per percorrere una distanza R da una cavità sferica di raggio R0 può
essere determinato con la formula
=
7 #4 − 4 $
(
In linea teorica un fluido newtoniano continua a fluire verso l’esterno finché esiste sovrapressione pe o
finché esso solidifica o gelifica.
Iniezione
Iniezione da sorgente cilindrica
Le equazioni equivalenti al caso precedente ma valide per flusso radiale da sorgente cilindrica (come
da una sezione del foro di iniezione) sono:
5 =
(24
7-9 4 dove
pe = sovrapressione necessaria al mantenimento della portata Q quando la miscela ha raggiunto la
distanza R dal punto di iniezione;
R0 = raggio del foro di iniezione;
m = spessore dello strato da iniettare;
e l’equazione
=
7 #4 − 4 $
(
La pressione p(R) della miscela diminuisce con la distanza R dal foro secondo l’equazione
4 = 5 −
(24
7-9
4
Queste equazioni dimostrano che:
il tempo richiesto alla miscela per fluire nel terreno ad una data distanza dal foro dipende dalla
portata d’iniezione Q;
la portata d’iniezione può essere incrementata adottando una maggiore pressione d’iniezione o
una miscela a viscosità inferiore (una pressione troppo alta può però provocare la frattura del
terreno e/o la screpolatura della superficie);
il tempo di indurimento della miscela dev’essere maggiore del tempo richiesto alla miscela per
fluire nel terreno;
maggiore è il raggio del foro, maggiore è la pressione ad una data distanza.
Classificazione delle miscele (reologia)
Le miscele di iniezione possono essere suddivise in sospensioni instabili, stabili, soluzioni colloidali,
soluzioni pure e emulsioni gassose. Una tale suddivisione è determinata dalle loro caratteristiche
reologiche, la cui determinazione viene di solito fatta in laboratorio dove si misurano i parametri di
viscosità, di densità, di rigidità, di pompabilità per le miscele cementizie e di sedimentazione.
Vi sono poi le verifiche meccaniche che si eseguono su campioni di materiali iniettati, giunti a
maturazione; la principale di queste verifiche è quella allo schiacciamento che si esegue come per i
provini di calcestruzzo, per mezzo di una pressa.
La viscosità è misurata con frazioni di unità poise in laboratorio con il viscosimetro, o in cantiere
utilizzando l’imbuto di Marsh. Per quanto concerne le miscele cementizie non si parla però di viscosità,
dato che non dimostrano un comportamento di fluidi reali, ma di consistenza, e viene comunque
mantenuta l’unità di misura in poise.
In base al comportamento reologico le miscele possono essere classificate in:
• sospensioni instabili:
instabili la loro fase solida tende a sedimentare quando la miscela non è mantenuta in
agitazione o comunque in movimento. Sono ad esempio le sospensioni di cemento puro in acqua,
adatte al trattamento di rocce fessurate ma non all’impregnazione di terreni incoerenti in generale.
Questo tipo di miscele è soggetto alla sedimentazione e alla pressofiltrazione, la prima propria delle
miscele instabili e la seconda comune a tutte le sospensioni ma più accentuata in quest’ultime.
La pressofiltrazione comporta un drenaggio, attraverso i fori più piccoli, che ispessisce la miscela e
ne riduce il raggio di azione. Venendo così limitata la diffusione per permeazione della miscela, se
continua la sua immissione, si ha un aumento di pressione che porta alla rottura della massa di
terreno iniettato.
La sedimentazione si manifesta al di sotto di un valore limite della velocità di flusso e crea delle
ostruzioni; può inoltre creare dei vuoti anche dove ci fosse stata una buona iniezione.
Fig. 1.4.1.12: Effetto arco durante l’inie-
Fig. 1.4.1.13: Sedimentazione di una sospen-
zione di sospensioni insta-
sione instabile iniettata in
bili in terreno granulare
terreno granulare
L’iniezione di sospensioni instabili è pienamente efficace solo in un mezzo poroso con grani aventi
dimensioni minime di 5-10 mm. Essa ha successo anche nei mezzi fessurati, in cui l’acqua
costituisce il mezzo di trasporto ad esempio dei grani di cemento.
• sospensioni stabili:
stabili la loro tendenza alla sedimentazione è nulla o trascurabile. A questa classe
appartengono in ordine crescente di penetrabilità le miscele di cemento con aggiunte di argilla o
bentonite, e le miscele di argilla o bentonite trattate con additivi chimici. Sono sospensioni stabili
anche i fanghi da perforazione, che non sedimentano e presentano tixotropia.
La tixotropia è il fenomeno esibito da alcuni fluidi che a riposo formano una struttura gel, la quale
si disperde non appena vengono nuovamente messi in movimento, dimostrando inoltre una sorta di
memoria della loro passata condizione.
Questi tipi di miscele si comportano come fluidi non newtoniani e seguono in generale la legge di
Bingham.
• soluzioni colloidali:
colloidali sono anche dette “evolutive” dal momento che in esse la viscosità, parametro di
proporzionalità tra sforzi di taglio e velocità di flusso secondo la legge di Newton, aumenta nel
tempo. Il suo incremento è di lieve entità fino ad una certa frazione del periodo di iniettabilità, che a
sua volta è una frazione più o meno importante del tempo di solidificazione.
Alle soluzioni colloidali appartengono le miscele a base di silicato sodico, i lignocromati e le
emulsioni bituminose. Le soluzioni di bentonite trattata (con additivi deflocculanti e rigonfianti) si
avvicinano allo schema reologico delle soluzioni colloidali.
La relazione tra la loro viscosità e la resistenza che esse conferiscono ad un dato materiale è
estremamente variabile a seconda dei tipi di prodotti; i recenti progressi in questo campo
consentono comunque di ottenere un buon grado di consolidamento anche con soluzioni
notevolmente diluite.
I vantaggi delle soluzioni colloidali rispetto alle sospensioni sono:
-
l’assenza di rigidità;
-
l’assenza di una fase solida che può separarsi da quella liquida per effetti di sedimentazione e
pressofiltrazione.
• soluzioni pure:
pure hanno il privilegio di non essere evolutive, cioè mantengono costante la viscosità fino
alla solidificazione. A questa classe reologica appartengono le miscele a base di resine organiche,
che si dividono in due grandi categorie:
-
i monomeri acquosi che dopo la polimerizzazione possono conferire resistenze notevoli;
-
i polimeri precondensati che danno luogo a prodotti ad altissima resistenza, anche molto
superiore a quella dei calcestruzzi. Essi sono i più costosi e sono di conseguenza adottati in casi
particolari, i monomeri acquosi sono molto più noti ed utilizzati.
Il loro limite di iniettabilità è teoricamente indefinito, ma subordinato a considerazioni di carattere
pratico ed economico: si adottano portate e tempi accettabili con pressioni tali da evitare diffusi
fenomeni di rottura del terreno (claquage).
• emulsioni gassose
gassose (miscele espansive ad alto grado di rigonfiamento). Il trattamento fisico o chimico
delle sospensioni cementizie può permettere di ottenere un inglobamento d’aria. Se il tasso di
rigonfiamento è contenuto entro il 20-30% le bolle d’aria inglobata hanno un effetto fluidificante che
favorisce la penetrabilità, in quanto eliminano l’effetto d’arco tra gli interstizi. Tale miscele, dette
“areate” appartengono comunque alla classe delle sospensioni stabili.
Se invece si vogliono riempire grandi cavità o si ricerca comunque un maggiore potere espansivo, si
trattano le sospensioni cementizie in maniera tale da ottenere tassi di rigonfiamento fino a tre volte
il volume iniziale. In tal modo si ottengono le “emulsioni gassose”, caratterizzate da una normale
fluidità in fase di pompaggio e da una rapida rigidificazione successiva.
Con cavità o fessure molto aperte con forti circolazioni d’acqua che dilaverebbero le normali miscele,
il problema è risolvibile con emulsioni organiche (a base di poliuretani) che si formano e
polverizzano l’acqua anche in movimento; il loro tasso di rigonfiamento può raggiungere valori
elevatissimi.
Indagini preliminari sui mezzi da trattare
Lo studio preliminare di ogni problema comporta innanzitutto la raccolta delle informazioni necessarie
alla scelta della soluzione più idonea, e successivamente una messa a punto mediante indagini
specificatamente connesse al tipo di intervento previsto. Per accertare la fattibilità e definire le più
adeguate modalità di un trattamento mediante iniezioni, si dovrà quindi procedere attraverso le
seguenti fasi sperimentali:
•
accurato studio della natura del terreno (sciolto o lapideo), della sua struttura e della idrologia
sotterranea, mediante sondaggi geognostici, osservazioni piezometriche e prove in sito
(soprattutto di permeabilità);
•
indagini di laboratorio su campioni tipici per la determinazione dei parametri geotecnici di
interesse generale e specifico (connessi all’iniettabilità);
•
formulazione in laboratorio di uno o più tipi d miscele mediante prove necessarie ad un
orientamento che cerchi di conciliare le molteplici e spesso contrastanti esigenze: penetrabilità,
limiti di pressione e tempo, resistenza e minimo costo;
•
prove di iniezione e controllo dei risultati in sito, per verificare i precedenti dati sperimentali,
colmandone eventualmente le lacune e traendo dei più precisi indirizzi pratici sulle modalità
operative.
Metodi di perforazione e tecnica dell’iniezione
Iniezione in terreni incoerenti
Mentre l’iniezione di rocce fessurate con miscele cementizie è un’operazione relativamente semplice, il
trattamento dei terreni sciolti richiede un’elevata qualificazione ed esperienza da parte dei progettisti
e degli esecutori.
Sulla base dei dati sperimentali (caratteristiche del terreno e delle miscele) e dei dati di progetto può
essere definita la più adeguata geometria di trattamento, ossia la distribuzione, l’orientamento e la
profondità dei fori di iniezione, in modo da assicurare ovunque il minimo interasse prescritto. Gli
interassi dei fori sono comunque generalmente compresi tra 1.5 e 2.5 m.
I fori, di diametro variabile generalmente fra 65 e 130 mm, vengono eseguiti mediante perforazione a
rotazione o rotopercussione, e più generalmente a percussione utilizzando, a seconda delle necessità,
fluidi di circolazione (acqua o fango bentonitico) e rivestimenti provvisori. In ogni caso il metodo di
perforazione deve assicurare il minimo disturbo al terreno da trattare e garantire il rispetto della
geometria di progetto.
Le tecniche di iniezione in terreni incoerenti sono:
•
in avanzamento (dall’alto verso il basso);
•
in estrazione (dal basso verso l’alto);
•
con guaina plastica;
•
con tubi valvolati (tubes à manchettes).
Iniezione in avanzamento
Questo sistema viene usato proficuamente quando si debbano iniettare terreni sciolti con
granulometria molto variabile, in cui si possano incontrare grossi massi esotici che richiedono l’uso di
utensili duri per la loro perforazione. Si esegue un tratto di foro, si ritira di qualche metro l’utensile di
perforazione e si inietta attraverso le aste; si attende quindi l’indurimento della miscela, si riperfora e
si prosegue nei tratti successivi con la stessa sequenza.
Se il terreno ha subito una sufficiente compattazione con una prima iniezione, si potrà usare per quelle
successive il packer otturatore, altrimenti si proseguirà con il foro rivestito.
Fig. 1.4.1.14: Iniezione in avanzamento
Il packer consiste in un tubo di acciaio provvisto di dispositivo di sicurezza contro il riflusso del
materiale. Questo tubo viene ancorato nel foro mediante un elemento ad espansione ed il foro viene
chiuso a tenuta tramite uno o più tubi in gomma. L’ancoraggio e la chiusura ermetica del foro
avvengono avvitando
vitando il packer. Alcuni accessori sono diventati parte integrante di questo sistema che
soddisfa le più svariate esigenze, combinando opportunamente i vari elementi.
Fig. 1.4.1.15: Esempio
mpio di packer meccanico
Fig. 1.4.1.16:
6: Packer espandibile con la pressione
di un gas compresso
Con questo sistema le operazioni di iniezione sono molto lunghe per il fatto di dover attendere, per
l’approfondimento del foro, la presa della miscela iniettata.
L’iniezione in avanzamento si adopera per l’esecuzione di prove di permeabilità “Lugeon” su rocce
fessurate.
Iniezione in estrazione
Il foro viene in questo caso eseguito fino al termine, ponendo in opera un rivestimento provvisorio che
viene poi raccordato all’iniettore e ritirato gradualmente con l’avanzamento dell’iniezione. Quando si
usavano per la perforazione impianti a percussione, il rivestimento portava una sorta di tappo o
fondello in testa che, che veniva abbandonato al fondo del foro, all’inizio dell’iniezione.
dell’iniezione Se il terreno è
sufficientemente compatto è possibile usare il packer al posto del tubo di rivestimento e sollevare
l’attrezzo al termine della iniezione di una sezione, per iniettare la successiva. Il rischio che si corre
operando con i tubi di rivestimento
mento è che la miscela, risalendo all’esterno del rivestimento, lo cementi
al terreno oppure si diffonda in modo incontrollabile negli orizzonti non ancora trattati. Non è inoltre
possibile riprendere l’iniezione sulle sezioni iniettate una prima volta.
Fig. 1.4.1.17: Iniezione in estrazione
Iniezione con guaina in plastica
Questo tipo di iniezione prelude allo sviluppo successivo (tubo a valvole), e per il momento definitivo,
dell’iniezione con tubo valvolato. Si esegue inserendo una canna
canna di iniezione entro un foro riempito di
miscela plastica, solitamente cemento-bentonite.
cemento bentonite. La guaina, dopo opportuna maturazione, impedirà
alla miscela iniettata di risalire lungo le pareti della perforazione e contemporaneamente manterrà in
posizione la canna
anna di iniezione. Il vantaggio che si può avere con questo metodo, rispetto al precedente,
è che certamente la risorgenza di miscela viene assolutamente inibita ed alcune volte, su determinati
terreni, è anche possibile riprendere la cementazione dopo brevi
bre soste.
Fig. 1.4.1.18:
1.4.1.
Iniezione con guaina plastica
Iniezione con tubi valvolati
Il tubo a valvole consiste in una normale tubazione perforata ogni 33 cm od ogni 50 cm con quattro fori
disposti sullo stesso piano in posizioni opposte, ricoperti
ricoperti da un manicotto elastico con funzione di
valvola di non ritorno. Attualmente si usano tubi in materiale sintetico, ma possono essere anche
usate tubazioni in altro materiale, purché abbiano la capacità di resistere alle pressioni di iniezione.
Fig. 1.4.1.19:
.19: Rappresentazione di un tubo valvolato
Il tubo viene posto in opera al termine della perforazione e sigillato al terreno tramite una “guaina”.
Prima di iniziare l’iniezione vera e propria, infatti, la cavità anulare fra tubo valvolato e parete del
de
foro viene infatti riempita con un’apposita sospensione di cemento e bentonite iniettata attraverso la
valvola. Dopo un breve periodo di maturazione della guaina (generalmente poche ore), si inizia ad
iniettare usando il doppio packer (packer con dispositivo
dispositivo ad iniezione e due elementi di chiusura). La
presenza di una guaina ha lo scopo di impedire la risalita della miscela lungo la tubazione, obbligando
la stessa ad interessare di volta in volta le singole sezioni definite dalla posizione delle valvole.
La sospensione di cemento-bentonite
bentonite o cemento-argilla,
cemento argilla, date le sue scarse caratteristiche meccaniche
di resistenza dovute alla sua composizione, sarà facilmente fratturata dalla pressione di iniezione,
permettendo così l’espandersi della miscela iniettata alle sue spalle entro il terreno da trattare.
Quest’ultima presenta di solito un rapporto cemento/acqua attorno a 0.5 ed una dose di bentonite
adeguata per rendere stabile la sospensione (decantazione nulla o trascurabile) e conferire la
necessaria fluidità.
L’ordine di iniezione dei fori viene stabilito in base alle esigenze dei singoli casi, ma in generale è
buona norma iniziare con i più esterni in modo da creare un contenimento; tutto il procedimento
risulta di notevole efficacia, anche perché con esso è possibile operare riprese multiple di iniezione
sulla stessa valvola già iniettata. Ciò è possibile introducendo all’interno del tubo valvolato, dopo ogni
ciclo di iniezione, una canna di lavaggio; la pulizia dell’interno del tubo dal residuo dell’iniezione
permetterà così di rientrare in seguito nel tubo valvolato con il doppio packer e di riprendere
l’iniezione sulle valvole prescelte.
Poiché spesso si ha a che fare con alternanze di strati con caratteristiche di granulometria, densità e
permeabilità diverse, i tubi valvolati consentono inoltre di poter variare le caratteristiche di iniezione
per i vari strati: permettono infatti l’iniezione controllata di miscele diverse in ogni ordine, ad ogni
livello e a qualsiasi intervallo di tempo.
Iniezioni in rocce fessurate
Fermi restando i criteri generali relativi ai terreni incoerenti, gli interassi dei fori nel trattamento
delle iniezioni in roccia sono generalmente maggiori (3-6 m). La spaziatura ottimale dovrebbe essere il
compromesso fra due regole contraddittorie: più la roccia è fessurata più si devono distanziare i fori e
viceversa; d’altra parte più i fori sono distanti e più miscela bisogna iniettare per realizzare uno
schermo continuo. Nei casi più incerti si eseguono quindi prove preliminari ma in generale si fa
appello all’esperienza di lavori analoghi.
Le perforazioni sono eseguite a rotazione con piccoli diametri, normalmente compresi fra 35 e 75 mm,
mentre le iniezioni sono eseguite su tratte di 3-5 m, dopo aver effettuato prove d’acqua tipo Lugeon per
avere una indicazione sul dosaggio iniziale di cemento da utilizzare.
Si può operare, come già detto per i terreni sciolti:
•
in avanzamento;
•
in estrazione.
Il primo metodo è teoricamente migliore in quanto dovrebbe consentire pressioni più elevate, in
pratica però si è constatato che procedendo in senso inverso si hanno globalmente degli assorbimenti
dello stesso ordine.
Il secondo metodo è molto più vantaggioso economicamente in quanto permette di separare le fasi di
perforazione e di iniezione, riducendo al minimo i tempi morti. Vi è però il problema della tenuta
dell’otturatore, che deve essere assicurata lungo tutto il foro: se la roccia è troppo fessurata la miscela
potrebbe risalire sopra l’otturatore e cementarlo.
La scelta del metodo, ed anche del tipo di otturatore, deve quindi essere fatta ogni volta a seconda
della natura della roccia (durezza e grado di fessurazione). Nelle rocce mediamente fessurate il
trattamento viene generalmente effettuato mediante sospensioni “instabili” di cemento, iniziando con
un minimo dosaggio da valutarsi in base al risultato delle prove d’acqua e passando progressivamente
a concentrazioni sempre maggiori.
In alcuni casi l’iniezione in roccia si esegue con il metodo a circolazione continua: si realizza perforando
fino alla profondità voluta dopo aver intestato all’inizio del foro un rivestimento di tenuta. Si introduce
poi nel foro predisposto una canna di iniezione collegata all’iniettore e la si cala in prossimità del
fondo.
Si crea un tampone con un apposito
pposito tappo sulla testa del tubo da rivestimento e si collega la bocchetta
di ritorno con una valvola tarata che è quella che controllerà la pressione di iniezione; il ritorno della
linea andrà a scaricarsi nel mescolatore per chiudere il giro della miscela.
misc
Fig. 1.4.1.20:
1.4.1.
Tecnica di iniezione a circolazione continua
Il problema che può creare questo metodo di iniezione deriva dal fatto che, operando con miscele
instabili, si possono verificare le decantazioni che otturano sia le zone iniettate che la parte bassa della
perforazione. Al fine di evitare questo inconveniente occorre muovere verso l’alto e verso il basso la
canna di iniezione, cercando di mantenere comunque una certa turbolenza all’interno del foro
iniettato. E’ possibile inoltre che si verifichino risalite di miscela all’esterno del rivestimento intestato
all’inizio del foro; quest’ultimo fatto può compromettere tutto il programma di iniezione.
Impianti di cantiere
I campi d’applicazione dei procedimenti d’iniezione nell’ingegneria civile
civile sono molteplici e in continuo
sviluppo: fondazioni e sottofondazioni, scavi a cielo aperto, gallerie, schermi d’impermeabilizzazione
per dighe di ritenuta,ecc. L’utilizzo di una sempre più ampia gamma di miscele ha quindi comportato
l’affinamento nella
la tecnica d’iniezione: è stato necessario un adeguamento degli impianti, così da
renderli rispondenti alle accresciute necessità operative.
I principali requisiti di un impianto di iniezione sono:
affidabilità del ciclo di preparazione delle miscele, i cui valori di viscosità e peso specifico non
possono discostarsi da quelli prefissati;
modalità di iniezione programmabili in funzione della quantità di miscela da iniettare o delle
pressioni limite da raggiungere;
sicurezza dell’impianto, ossia protezione dall’eventuale tossicità dei materiali costituenti le
miscele o delle miscele stesse;
sicurezza in termini ecologici dell’intervento, ossia controllo dei tempi di presa compatibili con
la non diffusione del prodotto iniettato all’esterno del volume di terreno
terreno teorico interessato, e
neutralizzazione chimica o biologica delle acque di lavorazione prima della messa in discarica.
Tali obiettivi sono stati raggiunti con l’automatizzazione delle singole unità componenti l’impianto,
riservando agli addetti alla centrale
entrale d’iniezione solo funzioni di controllo e di pronto intervento. Lo
schema di un normale impianto predisposto per il confezionamento di miscele cementizie stabili a
dosaggi variabili, e da due tipi di miscele chimiche, è costituito da:
•
due silos per cemento e bentonite e una serie di serbatoi per lo stoccaggio dei prodotti chimici
che alimentano tre miscelatori principali, a funzionamento regolabile automaticamente, per la
formazione delle diverse miscele nelle esatte composizioni;
•
una serie di otto dosatori automatici posti a valle dei mescolatori e utilizzati per la taratura e la
contemporanea registrazione dei volumi di miscela di volta in volta utilizzata;
•
una corrispondente serie di otto iniettori alternativi per il pompaggio delle miscele ai relativi
rel
settori d’intervento (fori d’iniezione);
•
apposite attrezzature, poste a valle di ogni singolo iniettore, che controllano i valori di pressione
e portata dell’iniezione ed intervengono automaticamente quando sono superati i limiti imposti.
Fig. 1.4.1.21:
21: Schema dell’impianto di iniezione
Controllo dei trattamenti
Si distinguono in controlli d’iniezione preliminari, controlli durante il trattamento e controlli dopo il
trattamento.
Le prove di iniezione preliminare sono finalizzate ad un’accurata scelta tecnico-economica perché le
informazioni che si possono ottenere sono utili a una prima verifica delle modalità operative previste
in fase di progetto, anche se i controlli del risultato sono spesso difficili e tendono a sottovalutare
l’esito del trattamento globale; ciò è dovuto all’area molto ristretta sulla quale normalmente si opera,
per ovvi motivi economici. L’esigenza di eseguire prove d’iniezione preliminare sono legate alla
risoluzione di problemi particolarmente delicati e viene espressa dall’impresa specializzata o dal
committente per avere più garanzie sull’esito del trattamento.
Per quanto riguarda i controlli durante il trattamento, si verifica sistematicamente in cantiere la
composizione delle miscele, apportando eventuali correzioni. Oltre all’esattezza dei dosaggi, che deve
essere garantita dall’impianto, è necessaria la rispondenza ai requisiti fondamentali di ogni singolo
caso: si controllano le caratteristiche reologiche iniziali, le pressioni, le portate e i quantitativi delle
miscele iniettate.
Per valutare la buona riuscita del trattamento è utile eseguire alcune prove, tra cui:
•
Prove di permeabilità: sono finalizzate principalmente alla verifica della tenuta idraulica ma
vengono adottate anche nei problemi di consolidamento ed in particolare nel caso delle rocce. Il
controllo della permeabilità può rappresentare un valido giudizio indiretto sulla qualità del
risultato, almeno in termini di omogeneità.
Nei terreni incoerenti le prove entro gli stessi fori d’iniezione sono poco significative o
difficilmente interpretabili, contrariamente a quanto avviene per le rocce.
•
Sondaggi e campionamenti: sono utilizzati sia in roccia che nei terreni sabbiosi per verificare la
rispondenza del risultato sperimentale al risultato reale del trattamento. Nel caso di formazioni
contenenti ghiaia od inclusioni lapidee ancor più grossolane la loro esecuzione risulta
difficoltosa in quanto l’utensile di perforazione tende a produrre un effetto di disturbo in un
mezzo costituito da uno scheletro di elementi lapidei comunque più duri della matrice di
miscela.
Nel caso di un trattamento omogeneo e resistenza della miscela molto elevata si possono
talvolta prelevare dei buoni campioni ma in generale l’esame dei carotaggi sottovaluta il
risultato effettivo, tanto più quanto più grossolana è la granulometria del terreno. In questi casi
il più attendibile giudizio può essere fornito dall’ispezione diretta mediante scavo di pozzi,
trincee o cunicoli.
•
Prove meccaniche in sito: servono per valutare in sito le proprietà meccaniche dei terreni.
Comprendono prove penetrometriche statiche e dinamiche, prove di carico su piastra e prove
pressiometriche.
Elementi di costo
Il costo di un trattamento di iniezione dipende dall’attrezzatura utilizzata (impianto di miscelazione,
pompaggio e distribuzione), dal numero di fori eseguiti e dalla qualità degli eventuali tubi valvolati,
dai prodotti utilizzati per la formazione delle miscele, dall’unità di volume o peso delle miscele o dei
singoli componenti. A questo bisogna aggiungere il costo della manodopera e della necessaria
assistenza tecnica, e il costo dei controlli da effettuare in corso d’opera.
Resine espandenti
Nel consolidamento dei terreni tramite iniezioni sono sempre più frequentemente utilizzate le resine
poliuretaniche ad alta pressione d’espansione, che producono un notevole aumento delle
caratteristiche meccaniche del terreno di fondazione.
Fig. 1.4.2.1: Esempio d’applicazione
di resine espandenti
Esecuzione
Le modalità d’applicazione delle resine espandenti sono relativamente semplici e non necessitano di
scavi invasivi o di problematici sistemi di collegamento per solidarizzare le preesistenti e le nuove
opere di fondazione.
Per effetto della rilevante espansione della resina, all’interno del volume di terreno trattato, è possibile
inoltre ripristinare il contatto all’interfaccia terreno-fondazione anche laddove i valori della
sollecitazione risultino più modesti. In questo modo si ottiene una migliore distribuzione dei carichi ed
una conseguente limitazione dei picchi di tensione.
L’applicazione comporta l’iniezione nel terreno a basse pressioni di questa resina ad alta pressione
d’espansione, ottenuta dalla miscelazione di componenti che, per reazione chimica, provocano un
effetto di consolidamento esercitando nel terreno ospitante una pressione fino a 10 MPa in un tempo
massimo di 6’’-10’’ dalla loro miscelazione.
La resina viene iniettata allo stato liquido attraverso dei condotti nei quali viene spinta dall’azione
meccanica
di
una
pompa
fino
a
fuoriuscire
nel
terreno
da
consolidare.
I condotti vengono inseriti in fori di diametro inferiore ai 20 mm praticati direttamente nella
fondazione in modo da trattare con precisione il volume di terreno sottostante la fondazione medesima.
La pressione di iniezione non è elevata e non è particolarmente rilevante ai fini della riuscita
dell’intervento; il grado di compattazione del terreno ottenibile è infatti funzione della forza di
espansione della resina e non della pressione alla quale viene iniettata. Al momento dell’iniezione, la
miscela sviluppa una reazione chimica esotermica che ne induce il cambiamento di stato da liquido a
solido con conseguente aumento di volume correlato allo sviluppo di una forza di espansione.
La resistenza incontrata dalla resina nella fase di espansione determina in modo inversamente
proporzionale l’aumento di volume mentre implica una forza di espansione direttamente proporzionale
ad essa. La reazione chimica è molto rapida e il composto solido che ne deriva possiede già da subito le
caratteristiche fisico-meccaniche definitive. La reazione, confinata dal terreno circostante, trasferisce
l’energia prodotta direttamente alla struttura dello stesso, comprimendolo e, dove possibile,
aggregandolo.
La miscela , infatti, una volta iniettata nel terreno, si comporta in maniera differente a seconda della
natura del mezzo incontrato: se il terreno è granulare la miscela permea i vuoti e, fungendo da legante
idraulico, produce un conglomerato monolitico di notevoli caratteristiche meccaniche; se il terreno è di
natura coesiva, la miscela non permea i vuoti, ma forma un fitto reticolo di lame simili all’apparato
radicale di una pianta producendo un ammasso compresso e irrobustito dalle lame stesse.
In entrambi i casi la resina trasferisce al terreno ospitante una forte azione di compressione frutto
della reazione chimica.La resina espande dove trova la minor resistenza offerta dal terreno e, grazie al
suo forte aumento volumetrico, compatta e consolida il terreno di fondazione amalgamandosi con esso;
tale pressione esercitata solleva quindi la struttura sovrastante e tale sollevamento è costantemente
monitorato con apparecchiatura laser costituita da un emettitore e da ricevitori, fissati alle strutture
sotto le quali sono eseguite le iniezioni.
Caratteristiche
La reazione chimica che trasforma i componenti liquidi in un materiale solido è stabile, e questo
permette di ridurre drasticamente la variabilità delle caratteristiche meccaniche per una data densità.
Ciò significa avere la certezza del buon esito dell’intervento, potendo prevedere esattamente le
proprietà della resina una volta iniettata nel terreno.
Le resine poliuretaniche sono più leggere del terreno e quindi non lo appesantiscono, sono inoltre tali
da avere un modulo elastico simile a quello dei terreni, variando da 15 a 85 MPa a seconda della
densità. In questo modo si può essere certi che trattare il terreno di fondazione del cosiddetto bulbo di
pressione significativo (nel senso di Boussinesq) non trasferisce il carico in profondità, ma lascia
inalterate le tensioni al di sotto del bulbo medesimo, cioé evita l’instaurarsi di nuovi cedimenti nel
volume sottostante il terreno trattato.
Jet grouting
Tra i metodi di miglioramento con modifiche fisiche e chimiche rientra quello denominato jet
jet--grouting
o di gettiniezione con il quale vengono modificate in sito le caratteristiche del terreno utilizzando
l’effetto di getti fluidi ad altissima velocità ottenuti con pressioni elevate per disgregare il terreno e
miscelarlo o anche sostituirlo parzialmente con un fluido stabilizzante formato da una miscela acquacemento.
Cenni storici
Tale sistema, nato in Giappone intorno al 1965, si è affermato nel giro di pochi anni in tutti i paesi
europei ed americani tecnologicamente avanzati. Esso ha avuto un notevole sviluppo in Italia, paese di
antiche tradizioni nel campo dei consolidamenti e delle fondazioni.
I motivi del rapido sviluppo di tale tecnica sono da ricercare nella sua versatilità di impiego; se si
devono trattare terreni a granulometria fine o comunque chiusa, infatti, i sistemi tradizionali di
consolidamento o impermeabilizzazione per impregnazione, claquage o compattazione, presentano
notevoli limitazioni di natura tecnica od economica e possono inoltre comportare gravi problemi di
inquinamento. Le tecniche jettings, mescolando il terreno direttamente in sito con cemento,
permettono di trattare queste formazioni in modo omogeno, continuo e non inquinante.
Le prime esperienze di jet-grouting furono condotte in Giappone da Yamakado et al. nel 1965 ma fu
solo nel 1970 che i sistemi jettings cominciarono ad essere utilizzati sistematicamente e che la loro
tecnologia assunse aspetti differenziati e chiaramente individuati.
Nel 1970, infatti, furono sviluppate le tecniche “Chemical Churning Pile”, “Jet Grout”, “Jumbo Jet
Special Grout”, “Column Jet Grout”.
Esecuzione ed attrezzature
La tecnologia del “jet grouting” consiste nell’iniettare, attraverso perforazioni di piccolo diametro (da 7
a 10 cm) volumi controllati di miscela cementizia in volumi controllati di terreno. Il trattamento può
essere eseguito con tre diverse metodologie, le prime due perfezionate in Italia, la terza di origine
giapponese:
1) iniezione di sola miscela (sistema monofluido);
2) iniezione di aria e miscela (sistema bifluido);
3) iniezione d’aria, acqua e miscela (sistema trifluido).
Nel jet grouting monofluido la disgregazione del terreno avviene attraverso l’azione della miscela
cementizia che ha anche la funzione di stabilizzazione.
Fig. 1.4.3.1: Sistema monofluido
Nel jet grouting bifluido l’azione disgregante è affidata ancora al getto di miscela ad altissima
pressione, ma questo è guidato da un anulo d’aria compressa a circa 8-12 bar che ne limita la
dispersione aumentandone, di conseguenza, il potere penetrante.
Fig. 1.4.3.2: Sistema bifluido
Nel jet grouting trifluido la funzione disgregante è invece demandata all’azione di un getto d’acqua (a
circa 400 bar) a guida d’aria (a circa 5 bar) che realizza un processo di rottura e scavernamento del
terreno completamente indipendente da quello d’iniezione. Il getto successivo di miscela, che avviene
con pressioni dell’ordine di 50 bar, sostituisce il terreno scavato con la miscela stabilizzante.
Fig. 1.4.3.3: Sistema trifluido
Nella figura 1.4.3.4 sono riportati per i tre sistemi di trattamento i campi di variabilità dei principali
parametri operativi, costituiti dalla velocità di trattamento (traslazione del monitor), dal volume di
fluido iniettato per unità di lunghezza del foro, dalla portata erogata dagli ugelli e dalla pressione
applicata.
Fig. 1.4.3.4: Campi di variabilità orientativi dei parametri operativi (Tornaghi, 1989)
Le oggettive condizioni di operatività dei cantieri, in termini di spazi disponibili, fasi di lavoro e
soprattutto di terreno da trattare, determinano di volta in volta il metodo più appropriato di
perforazione ed iniezione. La fig. 1.4.3.5 mostra schematicamente le attrezzature necessarie per la
realizzazione di un trattamento jet grouting:
•
silos di cemento (1);
•
apparecchiatura di dosaggio e mescolamento (2);
•
pompa ad alta pressione da 400 a 500 CV di potenza (3);
•
pannello di comando e controllo automatico (4);
•
sonda per l’esecuzione del trattamento (5). Essa è dotata di una batteria d’aste cave con giunti
di tenuta ad alta pressione; è connessa inferiormente alla valvola d’iniezione ed all’attrezzo di
perforazione, di solito un tricono. Aste da 60, 76 e 90 mm di diametro esterno sono misure
standard.
Fig. 1.4.3.5: Attrezzature necessarie per la realizzazione di un trattamento jet grouting
Il foro si esegue usualmente a rotazione o a rotopercussione. L’avanzamento a rotazione è preferibile
nei terreni a granulometria media-fine, in quanto richiede sonde leggere. In terreni incoerenti
grossolani, e/o in presenza di blocchi lapidei, la rotopercussione può essere più conveniente in termini
di produzione, ma richiede attrezzature più ingombranti se si vogliono minimizzare i tempi di
manovra. La perforazione del terreno viene generalmente eseguita con la stessa sonda usata per
l’iniezione ad alta pressione.
Le operazioni necessarie per l’esecuzione del jet grouting mono-fluido e bi-fluido, che sono i sistemi più
usati, si articolano principalmente in due fasi (fig. 1.4.3.6):
Prima fase: fase di andata o perforazione, in cui si inserisce nel terreno la batteria d’aste, munita della
valvola porta ugelli, fino alla profondità di trattamento richiesta dal progetto.
Seconda fase: fase di ritorno o di estrazione. La batteria d’aste viene estratta a velocità di risalita ed
angolare programmate mentre si effettua l’iniezione della miscela attraverso gli ugelli.
Fig. 1.4.3.6: Schemi operativi dell’intervento jet grouting
A seguito del trattamento, le caratteristiche meccaniche del terreno interessato risultano incrementate
fino a raggiungere valori di permeabilità e resistenza confrontabili con quelli di un calcestruzzo.
Parametri operativi
I principali parametri operativi sono:
•
pressione d’iniezione;
•
numero e diametro degli ugelli;
•
rapporto acqua/cemento della boiacca d’iniezione;
•
tempo d’insistenza del getto.
La pressione d’iniezione è controllata con manometri, da essa dipende l’energia del getto e quindi il suo
raggio d’azione. Generalmente si adottano pressioni d’esercizio pari a 40-60 MPa.
Il numero e il diametro degli ugelli determinano, con la pressione, la portata d’iniezione, cioè il volume
di miscela immessa nel terreno nell’unità di tempo e, di conseguenza, la velocità di trattamento. Non
disponendo di macchine d’iniezione di elevata potenza conviene limitare il numero degli ugelli.
Il rapporta acqua-cemento della boiacca d’iniezione è il paametro che principalmente influenza le
proprietà meccaniche della colonna e le caratteristiche iniziali della massa terreno-boiacca. Da prove
di laboratorio e in sito si è ricavato che esso è in stretta relazione con la resistenza alla compressione
semplice.
Il tempo d’insistenza del getto dipende dalla velocità di estrazione della batteria d’aste e dalla velocità
di rotazione della stessa. Se la velocità d’estrazione è eccessivamente ridotta, il getto, non avendo
energia sufficiente per creare ulteriore diametro, fuoriesce attraverso l’intercapedine aste-foro. Esiste
inoltre un limite inferiore anche per la velocità di rotazione, al di sotto del quale si hanno effetti di
riflessione del getto che ne diminuiscono l’efficienza.
Fig. 1.4.3.7: Valori tipici dei parametri operativi
Prodotto del consolidamento
Utilizzando il sistema monofluido si realizzano colonne con diametro variabile da 0,4 a 1,4 m, a
seconda delle caratteristiche del terreno e in relazione ai parametri operativi impiegati.
Il sistema bifluido aumenta la potenza del getto e la sua capacità di penetrazione: l’incremento del
diametro, rispetto al sistema monofluido, varia dal 30% al 70%, mentre sono penalizzate le resistenze
meccaniche, per effetto dell’inglobamento d’aria all’interno del materiale trattato.
Con il sistema trifluido, che per motivi tecnici non può essere impiegato per trattamenti in sub
orizzontale, si possono realizzare colonne di diametro anche superiore ai 2 m, ma i maggiori costi, la
minore flessibilità operativa e soprattutto il rischio di provocare allentamenti nel terreno, ne hanno
eliminato l’impiego.
Per realizzare colonne di diametro notevole con il sistema monofluido si può utilizzare il sistema della
“doppia passata”, in cui alla fase di iniezione con sospensione stabilizzante si fa precedere un’iniezione
d’acqua ad altissima pressione, che produce una disgregazione preliminare del terreno.
Applicabilità ai diversi tipi di terreno
Il jet grouting può essere utilizzato in tutti i terreni granulari ed in quei terreni coesivi che presentano
resistenza al taglio tale da renderli attaccabili dal getto. Questo offre il notevole vantaggio di poter
trattare
terreni
eterogenei,
garantendo
consolidamento
ed
impermeabilità
uniformi
indipendentemente dalla natura dei terreni incontrati.
La presenza di falda in regime idrostatico non compromette in nessun modo i risultati del trattamento,
in regime idrodinamico, invece, l’impiego di particolari accorgimenti come l’uso di acceleranti ha
permesso di ottenere buoni risultati anche a fronte di velocità di 0,1 cm/sec.
Criteri di progetto e dimensionamento
La progettazione di un intervento di consolidamento del terreno mediante jet grouting deve
svilupparsi attraverso le seguenti fasi:
•
esecuzione di indagini preliminari sul terreno e campi prova;
•
scelta del tipo di miscela e dei parametri operativi;
•
scelta della geometria e dimensionamento dei trattamenti;
•
individuazione del modello matematico più rispondente per lo studio dell’evoluzione tensionale
e deformativa;
•
scelta dei sistemi di controllo.
Le indagini preliminari sono molto importanti in quanto consentono di valutare la fattibilità del jet
grouting e di determinare i principali parametri caratteristici di esecuzione. Le principali sono
sondaggi geognostici per la conoscenza generale dei tipi di terreno da trattare, prove penetrometriche
statiche o dinamiche per la determinazione della consistenza relativa del terreno, prove di
permeabilità in sito e/o in laboratorio, prove d’iniezione in un campo prova rappresentativo delle reali
condizioni operative.
E’ molto importante inoltre disporre di un efficace sistema di controllo sugli interventi di
consolidamento. Si distinguono controlli durante il trattamento e controlli dopo il trattamento.
Durante il trattamento si verificano l’affidabilità delle principali componenti meccaniche ed elettriche
che presiedono al controllo ed alla registrazione continua dei parametri operativi, la corretta direzione
delle perforazioni, gli eventuali movimenti in superficie del terreno circostante,..
Dopo il trattamento si eseguono prove di carico e prove di carotaggio sonico per verificare il
miglioramento delle caratteristiche meccaniche, la continuità e l’eventuale compenetrazione di
colonne.
Applicazioni
La tecnica di consolidamento jet grouting ha trovato largo impiego in diversi campi dell’ingegneria
civile, grazie allo studio e alla messa a punto di schemi progettuali specifici, che ben si adattano alle
più svariate condizioni operative.
Le prime applicazioni si riferiscono all’esecuzione di opere di contenimento e di fondazione, forse a
causa della forma colonnare del trattamento, che richiama quella del palo.
Ad esse seguirono rapidamente impieghi sempre più sofisticati e geniali per la stabilizzazione di
versanti, lo scavo di gallerie in terreni sciolti, la realizzazione di opere idrauliche.
Opere di sostegno
In tema di contenimento di scavi a cielo aperto e trincee artificiali si è verificata una notevole
evoluzione di schemi progettuali (fig. 1.4.3.8):
Fig. 1.4.3.8: Applicazioni di jet grouting nelle
opere di sostegno
Le prime geometrie realizzate consistevano in una fila di colonne di terreno consolidato più o meno
accostate, eseguite lungo il contorno del futuro scavo. Geometrie di questo tipo, pur efficaci per il
contenimento provvisorio di scavi in terreni alluvionali o coesivi, di discrete caratteristiche
geomeccaniche, non erano però sufficientemente affidabili per protezioni definitive.
A questo scopo si è quindi passati a schemi più complessi, che prevedevano più ordini di colonne jet
grouting disposte a quinconce. Questa soluzione, grazie agli eccellenti risultati forniti ed alla facilità e
rapidità realizzativa, si è imposta rapidamente soppiantando spesso le tecnologie più tradizionali.
Stabilizzazione di versanti
La fig. 1.4.3.9 riassume alcune tipologie caratteristiche. Si va da quella “a ventaglio”, al contenimento
“a speroni” di jet grouting disposti planimetricamente in senso radiale, su un arco di circonferenza, per
finire con la tipologia “a pozzo”, sempre molto efficace.
Fig. 1.4.3.9: Applicazioni di jet grouting nella stabilizzazione di versanti
Fondazioni e sottomurazioni
Il jet grouting ha trovato numerose applicazioni in lavori di fondazione o sottomurazione. Per quanto
riguarda le fondazioni, si sono utilizzate soprattutto due tipologie (fig. 1.4.3.10):
“Dirette consolidate” che realizzano un graduale passaggio di rigidezze crescenti; risultano
particolarmente idonee in zone soggette a sismi.
“A pozzo” largamente impiegate per costruzioni da realizzare su versanti o in alvei fluviali.
Fig. 1.4.3.10: Applicazioni di jet grouting nelle
fondazioni
La realizzazione di pozzi con il sistema jet grouting è un’operazione molto rapida ed economica,
veramente insostituibile operando sotto falda. Eseguendo una coronella continua sul perimetro del
futuro pozzo, ed un tappo sul fondo, costituiti da colonne di terreno consolidato, si può scavare il pozzo
lavorando all’asciutto, all’interno della coronella, fino a raggiungere la sommità del tappo di fondo e,
susseguentemente, effettuare all’asciutto i getti di calcestruzzo necessari per riempire il volume
scavato fino al piano d’imposta del plinto di fondazione.
Opere idrauliche
In tema di opere idrauliche il jet grouting ha trovato applicazioni soprattutto in lavori
d’impermeabilizzazione di dighe e di protezione di argini.
Gallerie
In tema di gallerie, il jet grouting, nei progressi compiuti negli ultimi dieci anni, ha avuto un ruolo
fondamentale. In particolare la sua applicazione in sub orizzontale ha permesso di superare in un sol
colpo tutte le difficoltà connesse con l’avanzamento di un cavo in terreni privi di coesione.
Anche in questo caso è stata fondamentale l’ideazione di uno schema statico adatto alle caratteristiche
del terreno trattato; uno schema statico, cioè, che facesse lavorare il materiale consolidato
prevalentemente a compressione e taglio. Si tratta del famoso trattamento “ad ombrello” lanciato in
avanzamento, con cui si innesca nel terreno un “effetto arco” in anticipo sullo scavo.
Trattamenti termici
A questa categoria di lavori appartengono i metodi di congelamento e di cottura del terreno, ma
mentre i primi risultano necessariamente temporanei, provocando nel terreno un effetto che perdura
per il tempo di applicazione del raffreddamento, quelli che realizzano la cottura dei terreni sciolti
possono considerarsi definitivi, apportando al terreno una variazione strutturale pressoché
permanente.
Il riscaldamento di un terreno provoca un notevole consumo d’energia: da esempi descritti in
letteratura si deduce che per stabilizzare 1 m3 di terreno sono necessari da 50 a 100 L di olio
combustibile. In un’epoca come questa in cui il costo dell’energia e l’inquinamento atmosferico sono
sempre più crescenti, interventi di cottura del terreno su larga scala non sono molto diffusi, eccetto in
circostanze molto particolari: una situazione speciale si può presentare quando il terreno contiene già
del combustibile, o per natura o sottoforma di prodotti di scarto.
Cottura
La termoconsolidazione del terreno è una pratica applicabile in primo luogo ai terreni argillosi di cui
provoca una vera e propria cottura, formando in essi colonne di materiale arrostito le cui
caratteristiche meccaniche finali risultano fortemente modificate.
Cenni storici
I primi esperimenti di questa tecnica di miglioramento del terreno risalgono agli anni Trenta, periodo
in cui si cercò in Australia di migliorare le caratteristiche meccaniche di sottofondi stradali,
arrostendoli. Questa tecnica è stata utilizzata negli anni successivi in Unione Sovietica ed in Romania
dove si è sviluppata in una serie di casi che vanno dalle realizzazioni di sottofondazioni di edifici e
strutture industriali, alla stabilizzazione di scarpate e rilevati stradali.
Esecuzione
Si genera calore facendo bruciare combustibile liquido, gassoso, o solido; si possono distinguere i
trattamenti con trasferimento del calore dalla superficie di contatto da quelli con trasferimento di
calore attraverso fori e pozzi, i quali possono essere a circolazione forzata (tipo chiuso) o a tiraggio
libero (tipo aperto).
Con la cottura si verificano modificazioni nella struttura dei minerali argillosi, tali da rendere
irreversibile il fenomeno dell’espulsione dell’acqua, raggiungendo un limite superiore della
temperatura di riscaldamento in cui si manifestano i primi tratti caratteristici della fusione delle
argille.
Gli intervalli di temperatura in cui si manifestano modificazioni della struttura del terreno argilloso si
possono considerare compresi tra i 350 e i 1000 °C, temperatura alla quale iniziano a manifestarsi i
primi fenomeni di liquefazione con conseguente diminuzione della permeabilità per fessurazione
manifestatasi a temperature inferiori. Con la temperatura aumenta la resistenza a compressione del
terreno argilloso trattato che può raggiungere valori notevoli.
Cottura della superficie del terreno
Uno dei primi tentativi di cottura del terreno per la realizzazione di strade fu realizzato da Irvine
(1930, 1934) in Australia. Egli progettò e costruì un forno con bruciatori a legna che viaggiava con una
velocità compresa tra 2 e 10 m/h su una formazione di terreno precedentemente preparata; esso
produceva a partire da un’argilla molto sensibile all’umidità uno strato cotto, spesso da 50 a 200 mm,
di materiale compatto non plastico. In seguito al trattamento termico, il materiale superficiale era
lasciato sottoforma di pezzi di mattoni incastrati aventi dimensioni minori o uguali a 100 mm. Le
particelle più grandi, infatti, venivano schiacciate e ridotte a ghiaietto in seguito a compattazione con
un rullo. Mentre la pavimentazione era ancora calda poteva essere applicato bitume o uno strato di
catrame, al fine di assicurare la penetrazione del legante nelle fessure.
La macchina di Irvine fu utilizzata per costruire parecchie miglia di strade provinciali nel New South
Wales e nel Queensland, dove i materiali di pavimentazione a grana grossa sono una cosa rara. Irvine
stimò che per trattare 1 m3 di terreno erano necessari più di 400 kg di legno, che erano comunque più
economici di costruire una strada con ghiaia, se quest’ultima non era disponibile entro 16 km dal
cantiere.
Fig. 1.4.4.1: Rappresentazione schematica della macchina di Irvine
Cottura attraverso fori
La cottura del terreno attraverso fori è stata realizzata nell’Unione Sovietica, in Romania e in
Giappone. Forzando entro fori praticati nel terreno da consolidare gas arroventati da processi di
combustione, si creano strati concentrici di terreno la cui caratteristica principale è quella di non
contenere né acqua di saturazione, né acqua reticolare.
Fujii distingue tra un impianto di cottura di tipo aperto e uno di tipo chiuso.
In un impianto chiuso (fig. 1.4.4.2) sopra ogni pozzo è posizionata un’unità di combustione. Fujii (1971)
descrive un intervento eseguito a Fukuoka in cui è stato trattato un deposito di rifiuti riscaldando 227
pozzi, profondi da 2 a 6 m e distanti 5 m l’uno dall’altro. Il calore è stato mantenuto da 7 a 15 giorni,
consumando un totale di 760 L di olio combustibile; è stato trattato il volume di terreno compreso nel
primo metro di raggio attorno al pozzo, risultando così un consumo d’olio di 60L/m3.
Fig. 1.4.4.2: Impianto di cottura di tipo chiuso
Una versione speciale di un impianto di cottura aperto fu utilizzata per stabilizzare un rilevato a
Kanazawa, Giappone, come illustrato nella figura 4.35. In un periodo di 10 giorni furono fatti bruciare
1200L d’olio in ogni pozzo attraverso dei convenzionali bruciatori d’olio, finchè si raggiunse una
temperatura di 300°C ad una distanza di 300 mm dal centro del pozzo. Il terreno trattato
termicamente mostrò una resistenza pari a 10-20 volte il suo valore originario.
Fig. 1.4.4.3: Stabilizzazione termica di un rilevato
Congelamento
Cenni storici
La tecnica del congelamento dei terreni per scopo geotecnici si è sviluppata da circa 40 anni, anche se
le prime esperienze in materia possono essere fatte risalire a più di 60 anni fa. Veniva eseguita in
modo estremamente rudimentale in campo minerario per bloccare sfornella menti di materiali
granulari fini, saturi d’acqua, è già negli anni Quaranta in Unione Sovietica si sviluppò la trattazione
teorica di questo metodo.
Esecuzione
Il congelamento del terreno viene usato quando bisogna eseguire uno scavo in terreno difficile ed in
condizioni statiche di pericolo. Abbassando la temperatura del terreno fino al suo punto di
congelamento si attribuisce ad esso un forte grado di coesione, che esalta notevolmente la sua
resistenza a compressione. In tal modo si ottengono dei setti o delle colonne di terreno congelato che
presentano buone caratteristiche meccaniche e che è possibile scavare o iniettare senza possibili
ulteriori difficoltà derivanti da deformazioni dei terreni circostanti.
L’effetto del congelamento è purtroppo ridotto nel tempo e bisogna quindi provvedere continuamente
per tutta la durata dei lavori al ripetuto raffreddamento del terreno da trattare. Queste operazioni
comportano un costo notevole e la loro programmazione deve essere fatta con la massima precisione
per evitare tutti i possibili sprechi.
Il congelamento del terreno può produrre effetti collaterali, spesso non voluti e di cui occorre tenere
conto. Il primo è quello di un generale rigonfiamento del terreno trattato, che può divenire pericoloso
per l’integrità delle strutture coinvolte nel trattamento. Il secondo effetto deriva dal fatto che i terreni
sottoposti a congelamento dimostrano un notevole deterioramento delle loro caratteristiche
geomeccaniche, una volta scongelati.
Al congelamento, per controllare efficacemente questi effetti, si abbinano quindi interventi di iniezioni
consolidanti, che rendono più stabilizzata la composizione del terreno da trattare.
I terreni che maggiormente possono essere influenzati dal congelamento, nei confronti del
miglioramento delle loro caratteristiche geomeccaniche, sono le sabbie e in genere i terreni granulari
fini pervii. I terreni argillosi, non potendo subire congelamento, non riusciranno a mostrare
miglioramenti delle loro caratteristiche geomeccaniche dello stesso ordine di grandezza di quelle
evidenti nei terreni sabbiosi.
Durante il congelamento del terreno non tutta l’acqua in esso contenuta è trasformata in ghiaccio, ma
una notevole parte di essa si mantiene allo stato liquido; anche per questo motivo i terreni argillosi
presentano maggiori volumi di acqua libera, rispetto a terreni sabbiosi trattati con le stesse
temperature e che presentano lo stesso grado di saturazione di acqua iniziale.
Il comportamento meccanico del terreno congelato è assimilabile a quello di un corpo con
caratteristiche elasto-plastiche, con plasticità di tipo viscoso.
Le attuali tecniche di congelamento possono ricondursi a tre tipologie differenti:
metodo diretto;
metodo indiretto;
metodo misto.
Metodo diretto
Il metodo diretto è anche noto come metodo a ciclo aperto ed è quello che adotta le temperature più
basse (-194°C). Si realizza pompando azoto liquido entro apposite sonde inserite nel terreno da
congelare per mezzo di normali perforazioni. L’azoto liquido è portato in cantiere con cisterne
coibentate e trasferito in serbatoi con le stesse caratteristiche di coibentazione, in cui viene mantenuto
con pressioni di poco superiori a 1 MPa.
Con tale pressione l’azoto è spinto entro le sonde congelanti dove, liberandosi, vaporizza dopo aver
trasmesso al terreno l’energia refrigerante e si libera nell’aria con temperature ancora attorno ai -60/80 °C. La temperatura di -194°C è la temperatura di passaggio di stato dell’azoto alla pressione
atmosferica in cui vaporizza.
Fig. 1.4.4.4: Schema operativo di un cantiere di congelamento del terreno realizzato usando il metodo diretto
Fig. 1.4.4.5: Schematizzazione
del metodo diretto
Le sonde congelatrici sono formate da tubi concentrici in cui viene fatto circolare l’azoto liquido, fino a
raggiungere l’ultima sonda congelatrice della batteria, da cui l’azoto vaporizza nell’atmosfera. Il
congelamento omogeneo del terreno avviene per il continuo spostamento in progressione del punto di
passaggio di stato dell’azoto liquido entro le sonde congelatrici.
In seguito alla prima fase di congelamento del terreno vi è quella di mantenimento del freddo, che
permette l’esecuzione dei lavori progettati. Il rendimento di questa tecnica, viste le bassissime
temperature ottenute, è molto alto ma sono tali anche il consumo di azoto liquido e il costo di
realizzazione di questo trattamento.
I vantaggi del metodo diretto sono l’estrema velocità che si ottiene nel raggiungere temperature di
congelamento efficaci per l’esecuzione di lavori in sotterraneo.
Metodo indiretto
Con questo sistema si adottano veri e propri impianti frigoriferi che permettono di produrre una
circolazione di liquido refrigerante nel terreno. Le temperature raggiungibili con questa tecnica sono
nettamente inferiori a quelle caratteristiche del metodo diretto, esse si aggirano attorno ai -25/-30 °C.
Si realizzano due circuiti di refrigerazione, tra cui uno primario, alimentato da gruppi di compressione
e condensazione che portano a bassa temperatura un fluido, liquefacendolo. Questo fluido liquefatto
circolando all’interno di uno scambiatore di calore vaporizza nuovamente, cedendo la bassa
temperatura accumulata al circuito secondario. Nel circuito secondario è mantenuto in movimento il
vero liquido refrigerante del terreno (salamoia), che circola entro le sonde congelatrici. I fluidi
frigoriferi usati nel circuito primario sono generalmente ammoniaca o freon ed il liquido frigorifero che
circola nel secondario è dato da una soluzione satura di cloruro di calcio in acqua. Con questi
componenti si raggiungono, come già detto, temperature di -25/-30 °C.
Fig. 1.4.4.6: Schema operativo di un cantiere di congelamento del terreno realizzato
usando il metodo indiretto
Fig. 1.4.4.7: Schematizzazione del metodo
indiretto
Più recentemente con l’impiego di liquidi frigoriferi che hanno temperature di solidificazione molto
basse, abbinati a bassi valori della viscosità, si riescono a raggiungere con il metodo indiretto
temperature dell’ordine di -60 °C.
Utilizzando il metodo indiretto si usano le stesse sonde criogeniche usate nel metodo diretto ad azoto
liquido ed esse vengono collegate in parallelo con un collettore munito di saracinesche di regolazione. Il
rendimento refrigerante ottenuto è inferiore a quello del metodo diretto ed inoltre è necessario un
maggior tempo di refrigerazione per giungere ai risultati richiesti.
Con il metodo indiretto, a causa del lungo periodo di tempo richiesto per raggiungere le temperature
adeguate alla esecuzione dei lavori di progetto, si verificano nel terreno consistenti mutamenti
strutturali: diviene considerevole principalmente il problema del rigonfiamento. Questo sistema resta
economicamente più competitivo del precedente, in particolar modo dove può essere abbinato ad altri
lavori specializzati che lo possono integrare e completare.
Metodo misto
Il metodo misto si realizza con l’abbinamento dei due precedenti metodi, sfruttando così l’alta capacità
criogenica dell’azoto liquido (metodo diretto) che consente la veloce realizzazione del congelamento del
terreno ed il mantenimento di basse temperature con il metodo indiretto a costi accettabili. I due
metodi vanno quindi coniugati utilizzando sempre le stesse sonde congelatrici ed abbinandone
opportunamente le linee adduttrici dei liquidi refrigeranti.
Aspetti pratici del congelamento
Il congelamento può essere utilizzato per le più svariate tipologie geometriche di intervento e per
condizioni geomeccaniche estreme. Si possono per esempio realizzare corone cilindriche di terreno
congelato entro cui effettuare scavi di fondazione o getti, evitando negli scavi la presenza di acqua
senza ricorrere alle lavorazioni entro cassoni con aria compressa.
Si possono eseguire vere e proprie paratie a protezione di strutture soprastanti scavi che interessano
terreni sotto falda sull’immediato estradosso della sezione di terreno congelato. E’ possibile eseguire il
congelamento sulla calotta e sui piedritti di cunicoli e gallerie da scavare in terreni difficili saturi
all’interno di centri abitati. Lo scavo di trincee, inoltre, è considerevolmente agevolato dal
congelamento del terreno in margine.
Le tipologie di intervento, come già ricordato, possono essere innumerevoli, ma occorre tenere presente
i due aspetti fortemente negativi del procedimento: l’alto costo di realizzazione che ne confina l’uso a
problemi geotecnici veramente non trattabili con sistemi più economici e le consistenti variazioni
strutturali indotte nei terreni in cui tale metodologia viene applicata (rilassamenti al termine del
congelamento con perdite di coesione ed aumenti di volume dei materiali congelati che si verificano
durante il trattamento).
Fig. 1.4.4.8: Esempi di applicazioni del congelamento