I volti della realtà

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I volti della realtà
Unità 6
I volti della realtà
Esercizi di comprensione di lettura
Luigi Capuana
Ivan Sergeevič Turgenev
Federico De Roberto
Giovanni Verga
Fastidi grassi
Birjuk
Pentimento
Rosso Malpelo
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Volume 1, Unità 6
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LUIGI CAPUANA
Fastidi grassi
Il racconto dello scrittore verista Luigi Capuana (1839-1915) è tratto da Le Paesane (1894), una
raccolta che, nella rappresentazione del paesaggio campestre siciliano, sembra riproporre l’ambiente delle più note novelle verghiane. Il richiamo al mondo contadino resta però in Capuana un motivo vagamente bozzettistico, senza la profondità e la complessità della visione di Giovanni Verga. Il
mondo dei contadini è reso con intento vagamente folklorico, con una certa compiacenza a rappresentare il mondo popolare, banalizzandone comportamenti e situazioni in forme un po’ astratte e
schematizzate.
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Lo chiamavano don1 Pietro il Gobbo, ma il gobbo veramente era stato suo
padre che, pur avendo due gobbe, una davanti e l’altra di dietro, aveva trovato
una coraggiosissima donna, la quale si era rassegnata a sposarlo e gli aveva regalato due figli dritti come fusi. Il nomignolo però era rimasto appiccicato alla famiglia e probabilmente i d’Accursio saranno chiamati i Gobbi fino all’ultima generazione.
Don Pietro d’Accursio, diceva la gente, non era gobbo ma meritava d’esser
tale. La gobba, aggiungevano, l’aveva nel cuore. In vita sua non aveva mai dato
a un poveretto una buccia di fava, né una stilla d’acqua, mai, mai! Se un poveretto andava a chiedergli l’elemosina e per intenerirlo gli diceva: «Da due giorni non metto niente dentro lo stomaco!» egli aveva la sfacciataggine di rispondergli:
«Beato te, che puoi vivere due giorni senza mangiare! Io, vedi, ho fatto colazione due ore fa e già mi sento lo stomaco vuoto».
A sentir lui, non c’era peggior miseria di quella di esser ricchi. Quanti pensieri! Quanti grattacapi! E come invidiava quegli straccioni che non avevano un
soldo in tasca, né un palmo di terreno al sole, né un tetto sotto cui ricoverarsi!
Per loro non c’erano Esattori, né Agenti delle Tasse, né Ricevitori del Registro,
né focatico2, né dazio di consumo, né ruoli3 di vetture! Essi potevano ridere allegramente in faccia al governo e alla morte, mentre lui, disgraziato, non rifiatava4 da mattina a sera, sempre in giro di qua e di là, per pagare, pagare, pagare;
e, appena aveva finito, doveva ricominciare daccapo! Il Signore gli aveva caricato su le spalle questa pesantissima croce, e gli toccava di portarla, peggio di
Gesù Cristo quando lo conducevano al Calvario.
Il suo Calvario era il Puddàru5, con gli uliveti che coprivano le colline, le vigne
da un lato, i vasti terreni seminativi dall’altro, fino a piè della Montagna6, e il
gran casamento nel centro, metà villa, metà masseria7, con frantoio8, per estrar
l’olio, palmento9, cantina, stalle per buoi, rimesse per la paglia e pel fieno, e tanti e tanti altri impicci10!
«Ah! Che non ci voleva pel raccolto delle ulive?»
Una ventina di bacchiatori11, una cinquantina di raccoglitrici, e, più, dieci o
1. don: appellativo in uso in Meridione, per “signore”.
2. focatico: tassa su ogni focolare.
3. ruoli: tasse.
4. rifiatava: prendeva fiato.
5. Puddàru: nome dei suoi possedimenti.
6. Montagna: l’Etna.
N. Botta, Galeotto fu il libro © Loescher Editore, 2010
7. masseria: abitazione dei contadini.
8. frantoio: macchina per spremere l’olio.
9. palmento: luogo per spremere l’uva.
10. impicci: tutti questi beni.
11. bacchiatori: coloro che con la pertica battono i rami per far
cadere a terra le olive.
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dodici mangiapane12 che lavoravano, sì, giorno e notte nel frantoio, sporchi, unti
di olio, ingialliti per la perdita del sonno, ma che però divoravano come lupi
anche quando non avevano fame. Dove la mettevano quella robaccia indigesta13
che egli doveva far cucinare dalla massaia? Un mese e mezzo d’inferno!
I coppi14, è vero, si riempivano d’olio, ma gli toccava ogni volta scendere giù
in cantina col pericolo di rompersi la noce15 del collo con quegli scalini sdruciti16, e sorvegliare gli uomini perché non sbagliassero nel versare l’olio di prima
qualità in un coppo, e l’olio di sansa17 in un altro. Se non apriva tanto d’occhi
lui, chi sa che pasticci gli avrebbero fatti!
E così, alla fine, quei mangiapane, si beccavano fazzolettate di pezzi da cinque lire, si ripulivano, si rivestivano a nuovo: e lui poveretto, che aveva dormito
appena due, tre ore per notte, per un mese e mezzo di fila, si sentiva tutto rotto18, con la nausea dell’odor dell’olio nelle narici e nella gola... E non era finita!
Quel benedettissimo olio poteva restar in cantina, nei coppi? Bisognava venderlo. Ma prima!... Travasarlo due, tre volte, cavar la morga19 di fondo ai coppi,
e poi attendere che il prezzo salisse, salisse!... Sicuro, attendere, mentre i poveretti, che ne avevano tre, quattro cafisi20 soltanto, se ne sbarazzavano subito e
non ci pensavano più!
E che discussioni, che collere, nei giorni di vendita, con quei ladri dei misuratori che recavano la misura falsa e tenevano la spugna attorno al collo del cafiso, per farla impregnare di olio nel riempirlo col boccale! E che arrabbiature coi
compratori più ladri di loro, che cercavano di appioppargli falsi pezzi da cinque
lire nuovi fiammanti che lo avrebbero rovinato, se lui non avesse avuto la santa pazienza di osservarli bene, voltandoli e rivoltandoli e facendoli ballare sul
marmo a uno a uno per sentirne il suono! Se li era proprio guadagnati sudando,
arrabbiandosi, perdendoci la voce... E da lì a due giorni dov’erano tutte quelle
pile di pezzi da cinque lire?
In mano dell’Esattore, dell’Agente delle Tasse e del Ricevitore del Registro!
«Tu non hai queste seccature!» egli diceva a Cannizzu, povero diavolo che lo
serviva come un cane, magro e allampanato21, tra tutto quel ben di Dio del suo
padrone.
«E voscenza22 dia ogni cosa a me! Così non avrà più seccature!» gli rispondeva ridendo Cannizzu.
«Ti farei un bel regalo23! Mi malediresti giorno e notte! Sta’ zitto! Pensiamo
alla semente piuttosto!»
Laggiù al Puddàru, venti, trenta aratri preparavano il terreno: e in paese, nel
magazzino del grano, il crivellatore24 ripassava il farro, la timinia, la francese25,
l’orzo fra un nugolo di polvere che faceva tossire don Pietro, quasi stesse per
sputar fuori i polmoni. Ma era quella la sua croce! Aver l’occhio a tutto, guardarsi da tutti, per non farsi spogliar vivo, ora che non c’era più moralità in questo mondo, e dei galantuomini si era già perso lo stampo.
12. mangiapane: che “consumavano” cibo per nutrirsi.
13. robaccia indigesta: il ricco e avaro proprietario risparmia
sul cibo.
14. coppi: orci da olio o da vino.
15. noce: osso.
16. sdruciti: rovinati.
17. sansa: ultima spremitura delle olive.
18. tutto rotto: stanco.
19. morga: deposito.
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20. cafisi: misure di capacità equivalenti circa a 2 kg.
21. allampanato: scheletrico.
22. voscenza: vostra eccellenza.
23. Ti farei... regalo: naturalmente è solo per altruismo che non
dona i suoi beni.
24. crivellatore: colui che usa il crivello, setaccio che serve per
mondare il grano.
25. farro... timinia... francese: cereali.
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Era forse sicuro che tutto quel grano da sementa andasse tra i solchi aperti? Non poteva avere cento occhi, non poteva essere come Domeneddio, presente in ogni luogo! Faceva quel che poteva; e si logorava la vita; ci perdeva la
salute e l’appetito.
«Beato te, Cannizzu! Pane e cipolla eh! Fai bocconi grossi! Io, intanto, se non
ho un buon brodo di manzo, un po’ di fritto, un po’ di pesce, una bistecca o un
pezzo di rosbiffe26, un po’ di cacio svizzero, e dolce e frutta e caffè...! Mi reggo
in piedi così!... E tu puoi bere anche quella specie di aceto27, e leccartene i baffi. Io invece..., miseria!... senza due dita di marsala, di moscato, di calabrese! I
nostri vini mi riescono indigesti... Mi tornano a gola... Ci vuole pure un po’ di
Chianti28, un po’ di Bordò29... Miseria! Ma bisogna fare la volontà di Dio!»
Cannizzu qualche volta gli rispondeva:
«La farei anch’io cotesta volontà di Dio!»30
Don Pietro gli dava su la voce:
«Bestia! Bestia! Pane e cipolla! Ringrazia Gesù Cristo che non ti ha dato altro!
Guarda mio fratello. Non ha niente e fa il signore. È guardia campestre; e va a
cavallo da mattina a sera. Che cosa deve guardare? I caprai non conducono a
pascolo le capre per le strade di campagna comunali! Non ha voluto fare mai
nulla, si è giocato e mangiato e bevuto tutto il suo... ed è felice! Ma siccome è
più bestia di te, mi odia perché non ho fatto come lui. Che colpa ci ho io? È stata la mia disgrazia. Ho fatto come la formica; tutto mi è andato bene, tutto mi
va bene; se mettessi acqua nei lumi, credo che arderebbe come petrolio. Che
colpa ci ho io?... E devo sfacchinare il giorno e pensare la notte; pensare a questo, a quello, a cento cose!... La testa mi va per aria... E vorrei dormire il sonno
pieno che dormi tu, sul tuo pagliericcio duro! Che vale che il letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi
rivolto di qua e di là... Sì, sì! Guai se dormissi come te, russando la grossa31! Chi
penserebbe alla mietitura, alla trebbia32? Chi alla vendemmia? Rifiato33 forse?
Tu ridi, bestione, quasi che io dica delle sciocchezze... Ed io ti dico che cambierei volentieri il tuo stato col mio!»
«Cambiamolo, Eccellenza!»
«Mi malediresti l’anima cento volte al giorno!»
«Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto nell’altro mondo. Per chi lavora?»
«Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta questa ricchezza?... Perché, tu lo sai bene, ce n’è di grazia di Dio, ce n’è! Il magazzino del
grano è pieno come un ovo; la cantina non ha una botte vuota; la dispensa ha
quaranta coppi ricolmi fino all’orlo... E poi, e poi!... Se ti dicessi quel che mi deve
il barone Pitulla? Con belle ipoteche34... Eh! Eh!... Ma che vale? Lui se la spassa
a Napoli, a Roma, a Torino, a Parigi35... Ed io sono stato a Roma, una volta sola,
col pellegrinaggio, per vedere il Papa!... E se non tornavo subito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?... Niente, niente! La mia croce è questa. Sia
fatta la volontà di Dio!»
26. rosbiffe: roast-beef, arrosto (in inglese).
27. aceto: vino di qualità scadente.
28. Chianti: pregiato vino rosso toscano.
29. Bordò: Bordeaux, vino della Francia meridionale.
30. «La farei... Dio»: il povero contadino sarebbe disponibile a
sacrificarsi al suo posto!
31. russando la grossa: russando forte.
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32. trebbia: trebbiatura.
33. Rifiato: mi concedo riposo.
34. ipoteche: diritti che il creditore si costituisce sul bene immo-
bile del debitore, per avere una garanzia di pagamento.
35. spassa ... Parigi: il barone è un tipo completamente diverso da don Pietro, preferisce ipotecare i suoi beni e godersi la
vita.
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E don Pietro d’Accursio, detto il Gobbo, era invecchiato, mangiando bene,
bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo, col suo eterno lamento su le labbra,
predicando sempre che non c’è peggiore miseria di quella di esser ricchi; non
facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello che aveva otto figli e non
sapeva come sfamarli col suo misero soldo di guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando puntualmente tutti fino all’ultimo centesimo, mai però un centesimo di più, come neppure uno di meno. Egoista sì, ma
sincero nei suoi lamenti e nel suo aforismo36 prediletto: non c’è peggiore miseria della ricchezza!
E questo si vide benissimo nell’ultima sua malattia.
Quando si accorse che l’ora era arrivata, mandò a chiamare il fratello:
«Senti, Nanni; ti capita una gran disgrazia: stai per diventare ricco, ricco assai.
Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I quattrini sono là, in quel cassetto.
I poveretti vanno all’altro mondo senza torce, né preti, né concerto: io sono
ricco e debbo pensare a queste miserie anche in punto di morte37!... Senti, Nanni: una bella cassa di noce scura, foderata di raso... Ti costerà parecchio... Ma
che vuoi farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti della cassa del Comune... Te la saresti cavata, senza darti nessun pensiero,
senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace d’averti procurato
questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti ricco... Fa’ la volontà di Dio, come
l’ho fatta io!... Io vo a rendere i conti lassù!... Chi sa come andrà? Speriamo bene.
Pensa a quel che ti ho detto di provvedere: cassa, funerale, concerto... E... Spìcciati, spìcciati... Mandami qui il confessore!»
(L. Capuana, Le Paesane, Catania, Giannotta, 1894)
36. aforismo: sentenza, proverbio.
37. I poveretti... in punto di morte: anche quando deve lascia-
co è svantaggiato rispetto al poveretto, perché ha più formalità
di cui preoccuparsi.
re questo mondo, secondo la teoria personale di don Pietro, il ric-
Esercizi
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In quante parti divideresti il racconto? Dai un titolo a ciascuna di esse.
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Chi è il protagonista?
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Quali altri personaggi agiscono?
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In quale ambiente si svolge il racconto?
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Quali sono i «fastidi grassi» di cui si parla nel testo?
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Evidenzia nel testo i punti in cui le parole e i pensieri del personaggio sono riportati con la tecnica del discorso indiretto libero.
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Trascrivi i proverbi, i soprannomi e i modi di dire dialettali che hai incontrato nel racconto e spiega che cosa
significano.
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In quali punti puoi ritrovare il narratore popolare? Sottolineali.
Che giudizio dà il narratore popolare su don Pietro? Ti sembra che si discosti dall’opinione del lettore?
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10 Sottolinea nel racconto i punti in cui l’ambiente ti sembra descritto con maggiore attenzione.
11 Ti sembra che Capuana rispetti il principio dell’impersonalità? A quali tecniche narrative fa ricorso?
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12 Il mondo dei ricchi e quello dei poveri appaiono divisi da comportamenti molto diversi: elencali su due colonne.
Mondo dei ricchi
Mondo dei poveri
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13 Qual è il comportamento di don Pietro verso i suoi subalterni? Quali sono, a tuo parere, le motivazioni del
suo modo di agire?
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14 Perché don Pietro il Gobbo, pur proclamando a tutti che la ricchezza è solo un’inesauribile fonte di preoccupazioni, non riesce alla fine convincente?
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15 Quali sono i privilegi offerti dalla ricchezza al «povero» don Pietro che egli vorrebbe far passare per svantaggi?
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GIUDIZIO
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IVAN SERGEEVIČ TURGENEV
Birjuk
Con una narrazione breve ed essenziale Ivan Sergeevič Turgenev (1818-83) seppe descrivere
la vita del popolo russo con acutezza di rappresentazione, simpatia umana e vivacità. In particolare nel romanzo Padri e figli (1862), affrontò il tema dell’inadeguatezza degli intellettuali, incapaci di agire concretamente e di proporre nuovi ideali in una società che, minata da gravi problemi,
necessitava di urgenti riforme. Progressista, romantico e realista insieme, Turgenev riuscì a far conoscere in Europa i numerosi problemi della condizione del suo Paese senza cadere in una visione
eccessivamente cruda o nella tentazione di un quadro idealizzato. Per lui il realismo è soprattutto
una rappresentazione di ambienti, situazioni e personaggi: la vita della campagna e gli usi e costumi dei contadini russi sono descritti con concretezza, ma anche con grande umanità.
Nel racconto, tratto dalle Memorie di un cacciatore (1852), Turgenev presenta con grande forza
espressiva la semplice e rude vita di campagna, ricreata con precisione e verità. In questo ambiente ben si inseriscono i personaggi, che si rivelano nel loro agire concreto, senza una ricostruzione
psicologica effettuata dall’autore. Anzi, tocca al lettore ricostruirne i caratteri in base alle loro azioni e alle situazioni in cui si trovano.
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Una sera tornavo solo dalla caccia, in calesse1. Mi rimanevano da percorrere
otto verste2. [...] Si avvicinava un temporale. Un enorme nuvolone lilla appariva
in lontananza levandosi sopra il bosco; lunghe nubi grigie mi veleggiavano incontro; i salici stormivano e oscillavano inquieti. Il caldo afoso a un tratto si mutò
in un freddo umido, le tenebre s’infittirono rapidamente. Frustai il cavallo con
le redini, scesi nel fossato, attraversai il ruscello asciutto, tutto coperto da un
vincheto3, risalii dall’altra parte e mi addentrai nel bosco. [...] Il mio cavallo incespicava4. Tutt’a un tratto cominciò a fischiare in alto un vento fortissimo che
scuoteva gli alberi, grosse gocce di pioggia presero a battere con forza picchiettando sulle foglie, guizzò un lampo e scoppiò il temporale. La pioggia scorreva
a rivoli. Mi avviai al passo e ben presto fui costretto a fermarmi: il mio cavallo
affondava nel fango e io stesso non vedevo a un palmo dal naso. Mi riparai alla
meglio in un grande cespuglio [...] quando a un tratto, al chiarore di un fulmine, sulla strada mi parve di intravvedere un’alta figura. [...]
«Chi è?» chiese una voce squillante.
«E tu chi sei?»
«Io sono il guardaboschi5».
Dissi il mio nome.
«Ah, vi conosco! Andate a casa?»
«Certo. Ma vedi che temporale...»
«Eh sì, un bel temporale», rispose la voce. [...] «Potrei accompagnarvi a casa
mia», disse di scatto.
«Mi faresti proprio una cortesia!»
«Montate sul calesse».
Si avvicinò alla testa del cavallo, lo prese per le briglie e gli dette uno strattone. Ci muovemmo. Io mi tenevo al cuscino del calesse, che ondeggiava “come
un vascello sul mare” e chiamai il cane. Il mio povero cavallo trascinava a fati1. calesse: vettura a due ruote tirata da un cavallo.
2. verste: antica misura lineare russa, corrispondente a circa un
4. incespicava: inciampava.
5. guardaboschi: a quei tempi, l’addetto alla sorveglianza e alla
chilometro.
difesa dei boschi di un proprietario terriero.
3. vincheto: terreno in cui crescono i salici.
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ca le zampe nella melma6, scivolava, inciampava; il guardaboschi dondolava a
destra e a sinistra davanti alle stanghe come un fantasma. Camminammo per
un bel pezzetto, infine la mia guida si fermò. «Eccoci a casa, signore», disse
con voce tranquilla. Il cancelletto scricchiolò, alcuni cuccioli abbaiarono in
coro. Alzai il capo e alla luce di un lampo vidi una piccola isba7 in mezzo a un
ampio cortile cinto da una siepe. A una finestrella brillava un fioco lumicino.
Il guardaboschi condusse il cavallo sino alla scaletta d’ingresso e bussò alla
porta. «Subito, subito!» disse una vocina sottile, si udì uno scalpiccìo8 di piedi nudi, il catenaccio cigolò e una bambina sui dodici anni, con una camiciola
e una striscia di stoffa alla cintola, apparve sulla soglia tenendo una lampada
in mano. [...]
L’isba del guardaboschi consisteva in una sola stanza, affumicata, bassa e vuota, senza soppalchi9 né tramezzi10. Un pellicciotto lacero era appeso alla parete. Sulla panca era appoggiato un fucile a una canna; in un angolo erano ammucchiati degli stracci, accanto alla stufa c’erano due grandi pentole. Sul tavolo la
fiammella di una lǔcina11 divampava e si spegneva malinconicamente. Proprio
in mezzo all’isba era appesa una culla, legata all’estremità di un lungo palo. La
bambina spense la lampada, si sedette su un panchetto e cominciò a dondolare la culla. [...]
«Sei sola qui?» chiesi alla bambina.
«Sola», rispose in modo appena percettibile.
«Sei la figlia del guardaboschi?»
«Sì, la figlia», bisbigliò lei.
La porta scricchiolò e il guardaboschi varcò la soglia piegando la testa. Sollevò la lampada da terra, si avvicinò al tavolo e accese il lucignolo12.
«Non siete abituato alla lǔcina, vero?» chiese scuotendo i riccioli.
Lo guardai. Raramente avevo visto un uomo così aitante13. Era alto, aveva le
spalle larghe e un bel portamento. La camicia di canapa bagnata metteva in evidenza i suoi muscoli possenti. Una nera barba crespa copriva a metà il suo viso
maschio e severo, sotto le larghe sopracciglia congiunte i piccoli occhi castani
avevano uno sguardo audace. [...]
«Mi chiamo Foma, ma sono soprannominato Birjuk».
«Ah, sei tu Birjuk?»
Lo guardai con raddoppiata curiosità. Dal mio Ermolaj e da altri avevo sentito spesso parlare del guardaboschi Birjuk, che tutti i contadini dei paraggi
temevano come il fuoco. Secondo loro, al mondo non era mai esistito un uomo
così esperto del suo mestiere. [...]
«Ho sentito parlare di te, amico. Dicono che non ti scappa nessuno».
«Faccio il mio dovere» rispose cupo, «non bisogna mangiare a ufo14 il pane
del padrone».
Si tolse l’ascia dalla cintola, si sedette sul pavimento e cominciò a spaccare
la legna per la lǔcina.
6. melma: fango.
7. isba: tipica abitazione in legno dei contadini russi.
8. scalpiccìo: lieve rumore di passi rapidi.
9. soppalchi: locali ricavati sfruttando l’altezza del tetto o del
soffitto.
11. lǔcina: termine russo, che indica una scheggia di legno fis-
sata a un sostegno e usata per illuminare l’isba.
12. lucignolo: stoppino.
13. aitante: vigoroso e gagliardo.
14. a ufo: a sbafo, senza un guadagno onesto.
10. tramezzi: pareti sottili che dividono una stanza.
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«Non hai una moglie?» gli chiesi.
«No», rispose, e agitò con forza l’accetta.
[...] «È scappata con un borghese di passaggio», disse con un sorriso crudele. La bambina abbassò il capo; il piccolo si svegliò e cominciò a piangere; la
bambina si avvicinò alla culla. «Tieni, daglielo», disse Birjuk ficcandole in mano
un poppatoio sporco. «Ha lasciato anche lui», proseguì a bassa voce indicando
il figlio. Si avvicinò alla porta, si fermò e si voltò.
«A voi forse, signore», cominciò, «il nostro pane non piace, ma ho solo quello. [...] Potrei preparare il samovar15, ma non ho il tè... Vado a controllare il vostro
cavallo».
Uscì sbattendo la porta. Mi guardai intorno una seconda volta. L’isba mi parve ancora più triste di prima. L’odore amaro del fumo raffreddato mi toglieva il
respiro. La bimba se ne stava ferma e non alzava gli occhi, di tanto in tanto spingeva la culla e rimetteva timidamente sulla spalla la camicina che scivolava giù,
le sue gambe nude penzolavano immobili.
«Come ti chiami?» le chiesi.
«Ulita», disse curvando ancora di più il visetto triste.
Il guardaboschi rientrò e si sedette sulla panca.
«Il temporale sta passando», osservò dopo un breve silenzio. «Se volete, vi
accompagno fuori dal bosco».
Mi alzai. Birjuk prese il fucile e controllò che fosse carico.
«Perché?» chiesi.
«Nel bosco c’è qualche malintenzionato... Vicino al burrone di Kobyl’ stanno
tagliando un albero», aggiunse rispondendo al mio sguardo interrogativo. [...]
Uscimmo. La pioggia era finita. In lontananza si addensavano ancora grossi
cumuli di nubi, ogni tanto serpeggiavano lunghi fulmini, ma sulle nostre teste
si scorgeva già il cielo blu scuro e le stelle brillavano attraverso le nuvole rade
che correvano veloci. Le sagome degli alberi, schizzati dalla pioggia e mossi dal
vento, cominciavano a emergere dal buio. Tendemmo l’orecchio. Il guardaboschi si tolse il cappello e abbassò il capo. «Ecco... ecco», disse a un tratto allungando un braccio. «Vedi che bella notte ha scelto». Io non sentivo nulla eccetto lo stormire delle foglie. Birjuk condusse fuori il cavallo dalla tettoia. «Ma così,
forse» aggiunse ad alta voce, «riesce a scapparmi».
«Vengo con te... vuoi?»
«D’accordo», rispose e riportò indietro il cavallo, «lo acciuffiamo in un batter d’occhio e poi vi riaccompagno. Andiamo».
Ci mettemmo in cammino, Birjuk avanti e io dietro di lui. [...]
Intanto il cielo si rasserenava, nel bosco cominciava a farsi chiaro. Finalmente uscimmo dal burrone. «Aspettate qui», mi bisbigliò il guardaboschi, si curvò
e, sollevando il fucile, scomparve tra i cespugli. Cercai di sentire qualcosa. Tra
il fischiare continuo del vento mi parve di udire poco lontano dei suoni soffocati: un’accetta colpiva cautamente i rami secchi, delle ruote cigolavano, un cavallo sbuffava... «Dove vai? Fermo!» tuonò a un tratto la voce ferrea16 di Birjuk.
Un’altra voce si mise a gridare lamentosamente, come una lepre... Cominciò la
lotta. «Non ti illudere» esclamava ansando Birjuk, «non mi scappi...» Mi lanciai
in direzione del rumore e accorsi, inciampando a ogni passo, sul luogo del com15. samovar: contenitore di metallo provvisto di un fornello per
mantenere sempre calda l’acqua per il tè.
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16. ferrea: potente.
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battimento. Accanto all’albero abbattuto, a terra, si contorceva il guardaboschi;
teneva sotto di sé il ladro e con la cintura gli legava le mani dietro la schiena.
Mi avvicinai. Birjuk si alzò e lo rimise in piedi. Vidi un contadino, bagnato, tutto lacero, con una lunga barba arruffata. Un magro cavalluccio, coperto a metà
da una tela rozza, aspettava accanto a un carretto. [...]
«Lascialo andare», bisbigliai all’orecchio di Birjuk, «pagherò io l’albero».
Birjuk in silenzio prese il cavallo per il garrese17 con la mano sinistra: con la
destra teneva il ladro alla cintola: «Su, voltati, incapace», ordinò severamente.
[...] Ci mettemmo in marcia. Io camminavo dietro... La pioggia cominciò di nuovo a scrosciare e ben presto cadde a torrenti. Raggiungemmo a fatica l’isba. Birjuk lasciò in mezzo al cortile il cavalluccio catturato, portò il contadino nella
stanza, allentò il nodo della cintura e lo mise a sedere in un angolo. La bambina, che si era addormentata vicino alla stufa, balzò in piedi e prese a guardarci
con muto terrore. Mi sedetti sulla panca. [...]
Il contadino mi guardò di sottecchi18. Mi ero ripromesso di liberare a ogni
costo il poveruomo. Sedeva immobile sulla panca. Alla luce della lanterna potevo vedere il suo viso smunto e grinzoso, le gialle sopracciglia spioventi, gli occhi
spaventati, il corpo magro... [...]
«Foma Kuz’mič», disse a un tratto il contadino con voce sorda e rotta, «senti, Foma Kuz’mič».
«Che vuoi?» [...]
«Lasciami andare... è stata la fame... lasciami andare».
«Vi conosco», replicò tetro19 il guardaboschi, «siete tutti la stessa razza, giù
al villaggio, tutti ladri».
«Lasciami andare», ripeté il contadino, «il fattore20... ci ha ridotti all’elemosina, è così... lasciami andare!»
«All’elemosina... Nessuno deve rubare».
«Lasciami andare, Foma Kuz’mič... non mi rovinare. Il padrone, lo sai, mi
mangerà vivo».
Birjuk si voltò. Il contadino tremava come se avesse la febbre. Scuoteva la
testa e aveva il respiro affannoso.
«Lasciami andare», ripeté con sconsolata disperazione, «lasciami andare, Dio
santo, lasciami andare! Ti pagherò, ecco... Dio santo, l’ho fatto per la fame... i
bambini piangono, lo sai anche tu. È dura, davvero».
«Però non si deve mai rubare».
«Il cavallo», continuava il contadino, «il cavallo, almeno quello... è l’unica
bestia che ho... lascialo!»
«Ti ho già detto che non si può. Neanch’io sono libero: finirei con l’andarci
di mezzo. Con voi non bisogna essere troppo teneri». [...]
Il poveraccio chinò il capo... Birjuk sbadigliò e appoggiò la testa sul tavolo.
La pioggia non smetteva. Aspettavo quello che sarebbe successo.
Il contadino improvvisamente si alzò in piedi. Aveva gli occhi accesi e il viso
infuocato:
«Su, forza, mangia, dai, strozzati, dai!» cominciò strizzando gli occhi e abbassando gli angoli delle labbra. «Dai, assassino maledetto, bevi il sangue contadino, bevi...»
17. garrese: la parte più elevata del dorso del cavallo.
18. di sottecchi: con gli occhi socchiusi, furtivamente.
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19. tetro: cupo.
20. fattore: amministratore delle terre del padrone.
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Il guardaboschi si voltò.
«Dico a te, a te, carogna, sanguisuga, a te!» [...] «Ammazzami, tanto è la fine;
per la fame o così... fa lo stesso. Vada tutto al diavolo, moglie, figli... crepino tutti... Quanto a te, aspetta, faremo i conti!»
Birjuk si alzò.
«Picchiami, picchiami», riprese il contadino con voce animalesca [...]».
«Basta, basta, Foma», gridai io. «Lascialo... e che Dio lo aiuti».
«Non voglio stare zitto», proseguì lo sventurato. «Fa lo stesso, tanto debbo
crepare. Sei un assassino, una belva, con te non c’è salvezza... Ma aspetta, non
potrai fare il bravaccio21 ancora per molto! Ti tireranno il collo, aspetta!»
Birjuk l’afferrò per una spalla... Mi lanciai in aiuto al contadino...
«Non mi toccate, signore!» gridò il guardaboschi.
Non avrei temuto la sua minaccia e stavo già per allungare la mano quando,
con mia somma meraviglia, egli slegò le braccia al contadino con un solo strattone, lo afferrò per la collottola22, gli calò il cappello sugli occhi, spalancò la porta e lo spinse fuori.
«Andatevene al diavolo, tu e il tuo cavallo!» gli gridò dietro, «ma attento, che
se mi capiti un’altra volta fra le mani!...»
Tornò nell’isba e cominciò a frugare in un angolo.
«Beh, Birjuk», esclamai finalmente, «mi hai sorpreso: vedo che sei una brava persona».
«Eh, basta, signore...» mi interruppe stizzito. «Soltanto non andate a raccontarlo in giro. Ma ora è meglio che vi accompagni», aggiunse, «la pioggia non
accenna a smettere...»
Nel cortile si udirono le ruote del carro del contadino.
«Ecco, se n’è andato!» borbottò. «Gliela dò io!...»
Mezz’ora dopo ci lasciammo sul ciglio del bosco.
(I. S. Turgenev, Tutte le opere, Milano, Mursia, 1964)
21. bravaccio: prepotente.
22. collottola: la parte posteriore del collo.
Esercizi
1
Quali sono i personaggi principali del racconto?
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2
Come sono descritti?
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3
Come sono caratterizzati?
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................................................................................................................................................................................................................................................
4
Quali sono i personaggi secondari?
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5
Come sono caratterizzati?
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................................................................................................................................................................................................................................................
6
Vi sono colpi di scena?
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................................................................................................................................................................................................................................................
................................................................................................................................................................................................................................................
7
A tuo parere i luoghi e i tempi del racconto sono immaginari o rispettosi della realtà storica e geografica?
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................................................................................................................................................................................................................................................
................................................................................................................................................................................................................................................
8
Quali sono gli ambienti esterni?
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9
Com’è descritto l’ambiente interno?
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................................................................................................................................................................................................................................................
................................................................................................................................................................................................................................................
10 In quanti e quali blocchi narrativi si può dividere il racconto?
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................................................................................................................................................................................................................................................
11 Che tipo di sequenze prevale nel racconto (narrative, riflessive o descrittive)?
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12 Analizza le sequenze descrittive relative al guardaboschi Birjuk e alla sua abitazione e precisa quale funzione hanno.
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................................................................................................................................................................................................................................................
............................................................................................................................................................................
13 Il racconto è narrato
a. in .................................................... persona,
b. da un narratore ............................................................................................................
GIUDIZIO
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FEDERICO DE ROBERTO
Pentimento
Scrittore vicino all’ambiente siciliano di Verga e Capuana, Federico De Roberto (1861-1927), si
trasferì a Milano nel 1887, dove l’ambiente culturale, più vivo e stimolante, offriva maggiori possibilità di affermazione. Qui pubblicò le opere maggiori, tra cui I viceré (1894), storia di una potente famiglia catanese, gli Uzeda, colta nell’arco di più generazioni dagli anni del Risorgimento a quelli immediatamente successivi all’Unità d’Italia. De Roberto introduce nella narrazione nuovi interessi:
non abbiamo in lui simpatia o curiosità nei confronti del mondo contadino o paesano, quanto piuttosto una rappresentazione cupa e pessimista dell’esistenza, espressa in una forma impersonale e
lucida, senza alcuna divagazione.
La novella che presentiamo è tratta da Processi verbali, una raccolta nella quale De Roberto, per
rendere il più oggettiva e impersonale possibile la narrazione, porta agli estremi i canoni veristi, fino
a trasformare la rappresentazione in “puro dialogo”: il testo dunque si presenta come un esempio
limite del trapasso dalla forma narrativa a quella teatrale. Il compito di ricostruire la storia tocca
interamente al lettore, che deve riempire i vuoti del racconto, recuperare i fatti nascosti dietro i
gesti e le parole, comprendere i comportamenti e gli stati d’animo.
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La lavandaia, entrando, s’era tolto di capo il fazzoletto, e buttatasi carponi
dinanzi al sottoscala dove stavano i panni sporchi, aveva cominciato a cavarneli1.
«Come sei venuta tardi!» disse la padrona, preparando una striscia di carta
per scriverci su la nota.
L’altra sospirò:
«Signora, mi lasci stare!»
E con un ginocchio piegato a terra, l’altra gamba arcuata e il capo dentro
il ripostiglio, cominciava a buttar fuori camicie e mutande, fazzoletti e strofinacci.
«Perché t’affliggi?»
Inginocchiata ancora, la lavandaia levò un momento la testa, si grattò i capelli ruvidi come la lana e disse, lamentosamente:
«Per mia figlia, signora!... per quella povera creatura, che anche se fosse
calato un angelo dal cielo apposta per dirmelo, mai e poi mai avrei potuto credere a quello che doveva succederle!»
Adesso, sospirando, s’era alzata in piedi e piegatasi in due sul monte della
biancheria, andava separando le lenzuola dalle calze e le tovaglie dai corpetti.
«Chi doveva dirmelo che sarebbe rimasta sola, a ventun anni, con quattro
figliuoli sulle spalle, nel meglio della gioventù? e che nella vecchiaia io avrei
dovuto lavorare per lei, per darle da mangiare?...»
I panni sporchi erano finalmente disposti in tanti piccoli mucchi, e la padrona, con un mozzicone di lapis in mano, cominciava a chiamare:
«Lenzuola?»
«Uno, due, tre, quattro, cinque. Scriva: cinque lenzuola. Lo potevo sapere,
quando le davo quel malacarne2, che le davo un galeotto? e che l’avrebbe lasciata vedova prima del tempo?»
«Perchè? Dov’è?...»
1. cavarneli: toglierli dal luogo in cui si trovano.
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2. malacarne: farabutto.
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«Alle Isole, dove vuole che sia? Galeotto infame, che ammazzò il suo principale a tradimento!...» [...]
«Camicie?»
«Camicie, una, due... dieci, undici».
«E perché lo ha ammazzato?»
«Perché!... Questa è l’infamità...» esclamò la lavandaia, che s’era di nuovo
inginocchiata in mezzo alla biancheria sudicia, e lasciava pendere le braccia,
dall’accasciamento3. «Questa è l’infamità: che ha fatto nascere una mala fama
intorno a mia figlia, dicendo che lei se la sentiva4 col suo principale, e che per
questo l’ha ammazzato... Innanzi a Dio!» giurava, incrociando adesso le braccia
sul petto e alzando gli occhi al soffitto. «Innanzi a Dio, signora bella: una infamità che ha inventata lui!... Mia figlia? queste cose?... Mia figlia non sapeva altro
che la casa e la modista5, la modista e la casa! Tutto il giorno al lavoro, per buscarsi6 il pane – ché quel malarnese era buono soltanto a sciupare – e la sera coi figli,
a rassettar la casa, e a pensare anche per lui, scellerato, a rappezzargli gli abiti, a cucirgli un poco di biancheria, perché potesse fare una buona figura... Una,
due, tre... tre...» ma, tenendo ancora il quarto paio di calze in mano, la lavandaia lasciava di contare, per riprendere, come parlando col galeotto:
«E poi, scellerato, questa era l’affezione7 che portavi a tua moglie, che la
lasciavi sola per andar dietro alle ciabatte8, e ad ubbriacarti; che se ti diceva
mezza parola la pigliavi a ceffoni, e le bastonavi i bambini – con qual cuore, quegli innocenti?... questa era l’affezione?... Tre, quattro, cinque...»
«Calze?»
«Cinque... nossignora, ce n’è un altro paio; sei: calze, sei. Neppur la testa mi
regge. Ogni volta che penso a queste cose, la testa non mi regge...»
E chinata sul monticello dei fazzoletti, ricominciava a contare: «Uno, due,
tre...»
«Ma, allora perché lo ha ammazzato?» chiedeva la padrona.
«Perché, lo sa lui e la sua coscienza!... Per quistioni di ciabatte, dice la gente; che faceva una mala vita: tutta la notte in bagordi9 col suo principale, che gli
dava troppa confidenza; e poi, bene gli sta come gli è finita!... Fazzoletti, dodici... Ma per questo doveva infamare mia figlia, inventando quelle porcherie, e
che io le davo mano10 – bugiardo svergognato! – con la speranza di avere alleggerita la condanna?... Uno, due... La condanna non poteva mancargli; la giustizia c’è per tutti, a questo mondo... Tre, quattro, cinque...»
Si curvava e si rialzava, secondo che contava i capi di biancheria o che riprendeva a narrare la storia della figliuola. La signora, mano mano, veniva chiamando:
«Mutande?»
«... Sei, sette, otto... Tu lo sapevi quello che avevi fatto, e la pena che t’aspettava; dunque, scellerato» e la lavandaia alzava un braccio, venendo a tu per tu
coll’assassino; «dunque, scellerato, perché infamare quella creatura, che è la
madre dei tuoi figli e sai se t’ha voluto bene?... Dunque perché rovinare quella
3. accasciamento: la sofferenza morale che si manifesta anche
negli atteggiamenti del corpo.
4. se la sentiva: se la intendeva, aveva una relazione.
5. modista: artigiana che realizzava cappelli e acconciature da
donna.
6. buscarsi: guadagnarsi.
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7. affezione: affetto.
8. andar dietro alle ciabatte: fare il galante con le donne.
9. bagordi: gozzoviglie, eccessi di ogni genere.
10. le davo mano: la incoraggiavo (si riferisce alla presunta rela-
zione della figlia).
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creatura? Non ti bastava di lasciarla moglie di un galeotto; bisognava anche macchiarla nell’onore?...»
«Ma lei non si è difesa?»
«Difesa, sissignora, si è difesa, piangendo a lacrime di sangue, che perfino i
giudici si sono inteneriti, e i carabinieri all’udienza!... Per tutta l’udienza, non ha
fatto che piangere, povera creatura: “Io non so niente!... gli ho sempre voluto
bene... signore, io non so niente!...” Questo solo, poveretta, sapeva rispondere
al presidente. Che cosa poteva rispondere? Che cosa sapeva lei, povera creatura messa a casa sua, delle infamità che andavano inventando?»
La madre si commoveva, al ricordo; ed anche la signora scrollava un poco il
capo e metteva un eh! di compassione.
«Corpetti?»
«Cinque e sei: corpetti, sei... Non poteva saper niente, mia figlia; e tanto gli
voleva bene, a quel forca11, che sarebbe stata capace di accusarsi, per fargli scemar la pena12. Ma c’è una giustizia al mondo! E la pena che si meritava, lo scellerato, l’ha avuta! E questo è niente; che il Signore lo deve punire nell’altro mondo di tutto quello che ci ha fatto soffrire! Per lui, quella creatura è stata mandata
via dalla modista, e non ha più trovato lavoro, e tutti la maltrattano, con un bambino che sta per andarsene! Morirebbero tutti di fame, se non fosse per me; se
non fosse per queste mani...»
Ora la lavandaia tendeva le sue mani, rugose, screpolate, color mattone vecchio sul dorso; rosee, liscie e dure sulle palme.
«Tutto per causa tua, scellerataccio!... » Levando a un tratto un pugno, imprecò: «Arsa l’anima!»
«No, no...» avverti la padrona; «quelle sono mutande; non le confondere lì».
«Sissignora, ha ragione... Sottoveste, una... Signora bella» riprese, dopo un
momento di silenzio! «giacché siamo a questo, vorrei dirle una cosa... Me la fa
una carità?»
«Che cosa vuoi?»
«Lo dice al cavaliere se fa entrare mia figlia ai Tabacchi13? Sarebbe una grazia di Dio se dicesse di sì...»
La signora chinò un poco il capo:
«Gliene parlerò; ma sta poi a vedere se è possibile...»
«Oh!...» esclamò la donna, sorridendo. «Se vuole il cavaliere, è cosa fatta. A
lui non dicono di no! Sì che sarebbe una grazia di Dio, se potesse avere questo
posticino!... Lei, creatura, non domanda che di lavorare...»
«E adesso cosa fa?»
«Cuce, stira in casa, per conto di qualche signore; che, per sua bontà, qualche benefattore c’è ancora... E se lei avesse bisogno di cucire biancheria, e anche
di ricami di bianco, ricami fini, mia figlia sa far di tutto...»
«Va bene... vedrò... Questi strofinacci quanti sono?»
«Uno, due, tre: sono tre».
La nota era completa e la biancheria stava di nuovo riunita tutta in un monte. Preso un lenzuolo e spiegatolo a terra, la lavandaia adesso vi buttava su tutti gli effetti.
11. forca: cattivo soggetto, degno della forca.
12. scemar la pena: ridurre l’entità della pena stabilita dal tri-
bunale.
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13. Tabacchi: la fabbrica in cui si lavorava il tabacco per la produzione di sigari.
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«Sono belle le cifre di questi fazzoletti... Ma, non disprezzando, mia figlia ne
sa fare di migliori... Alla baronessa Lanzeria, quando la serviva lei, gliene fece
certune, pel corredo della baronessina, che erano una galanteria...»
Sul lenzuolo, il monte dei panni cresceva, in bell’ordine.
«Un corredo che non c’erano occhi per vederlo, quello lì... Era una brava
signora, la baronessa, non disprezzando; che se campava, non ci saremmo trovati in tanti guai!» [...]
Finito di ammonticchiare i panni, si alzò, e presi i quattro capi del lenzuolo,
li annodò di traverso, a due a due, premendo col ginocchio per ammaccare la
grossa pila.
«Lei ha una bella roba... La meglio dei signori che servo io!...» Poi sospirò:
«Anche mia figlia potrebbe avere qualche cosa di suo, a quest’ora, se non fosse
capitata con quello scellerato!...»
Il fagotto era fatto. Intanto che si rimetteva in testa il fazzoletto, la lavandaia esclamava:
«Ma la colpa è anche mia!... Bene mi sta! ci ho colpa anch’io se mia figlia è
ridotta a questo stato!»
Afferrato il fagotto pel nodo, con una prima spinta brusca lo appoggiò al fianco, con una seconda se l’assestò sul capo.
«E come?» chiese la padrona.
«Come?» proruppe lei finalmente. «Che la voleva il marchese Malvizzi! Mi
mise in croce per averla, prima che la maritassi. Quante me ne disse! quante me
ne fece dire, da mia comare, da mio zio, da tutti! Che la ragazza gli piaceva, e
non avrebbe badato a spesa!... Anche una casa le avrebbe comprata, al Fortino!»
Nel suo rammarico, la lavandaia faceva dei movimenti bruschi col capo, e il
fagotto tentennava; per non farlo cadere, lo sorresse alzando un braccio ad arco.
«A quest’ora starebbe per casa sua, vestita e spesata in tutto e per tutto,
come una signora!... Bene mi sta!... Il marchese è un signore ed uomo di parola; che anzi ne ha arricchite tante altre, ed anche la figlia del suo servitore...
Bisogna vederla come esce, in carrozza, piena di cose d’oro!... Bene mi sta! Fui
io che non glie la volli dare!... La colpa è mia!...»
Mentre stava per andarsene, la signora avvertiva:
«Ti raccomando le tovaglie; non ci mettere troppo cloruro14…»
«Sissignora, non dubiti... Ma quanto me ne sono pentita, signora mia!... Più
di quanti capelli ho in testa...»
(F. De Roberto, Processi verbali, Palermo, Sellerio, 1976)
14. cloruro: sale dell’acido cloridrico utilizzato come disinfettante.
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Esercizi
1
Quali sono i personaggi del racconto?
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2
A quale ceto sociale appartengono?
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3
Come sono caratterizzati?
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4
In quale ambiente si svolge la vicenda?
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5
Che tipo di sequenze prevale nel racconto (narrative, riflessive o descrittive)?
................................................................................................................................................................................................................................................
6
Il racconto è narrato
a. in ............................................... persona,
b. da un narratore ...................................................................................................
7
Nella prefazione a Processi verbali De Roberto scrive: «L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che
nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva, consiste nella “scena” come si scrive pel teatro. L’avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono». Verifica nel testo che ti abbiamo presentato l’applicazione coerente di questi principi teorici.
................................................................................................................................................................................................................................................
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8
Il canone dell’impersonalità è tipico della narrativa verista. Confronta i presupposti teorici di De Roberto e
di Verga e il modo con cui entrambi cercano di realizzarla nelle loro opere.
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Dai un altro titolo alla novella e motiva la tua scelta.
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10 Da quanto abbiamo detto nell’introduzione, in mancanza della voce guida del narratore, tocca al lettore ricostruire la storia, alla quale lo sfogo della lavandaia fa riferimento. Secondo te, che cosa è successo alla
figlia della lavandaia?
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GIUDIZIO
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GIOVANNI VERGA
Rosso Malpelo
La novella di Giovanni Verga (1840-1922) Rosso Malpelo apparve per la prima volta a puntate
sul quotidiano romano «Il Fanfulla» dal 2 al 5 agosto 1878. Entrò a far parte dell’edizione della raccolta Vita dei campi pubblicata a Milano nel 1880, e poi della seconda edizione del 1897, nella quale subì notevoli modifiche.
Pur essendo la prima novella verista scritta dal Verga, Rosso Malpelo rivela già compiutamente la
padronanza delle tecniche narrative: dall’impersonalità al narratore popolare, dall’artificio di regressione al processo di straniamento, alla concatenazione, alla ripetizione. Nel racconto sono presenti
diversi tipi di focalizzazione (interna, esterna, multipla, zero): se, infatti, il punto di vista dominante nella prima parte è quello del narratore popolare, ostile a Malpelo, nella seconda il lettore può
ristabilire la verità dei fatti grazie alla presentazione neutra degli avvenimenti, dalla quale è possibile ricavare un giudizio diverso sulla personalità del ragazzo.
Qui Verga fa inoltre emergere in primo piano il punto di vista di Rosso, che esprime direttamente
la propria visione della realtà. Perfettamente consapevole delle leggi che regolano la società, Rosso le formula con esattezza ed è, in questo senso, portavoce delle idee dell’autore: la società e la
natura sono governate dalla legge immutabile della lotta per la sopravvivenza; da sempre e per sempre, chi è più forte opprime chi è più debole e all’uomo, vinto, non resta che chinare il capo e rassegnarsi ad accettare la propria sorte. In questo mondo da cui anche Dio è assente, nulla interviene per premiare il comportamento positivo dell’uomo: che egli sia un mite come il padre di Rosso,
mastro Misciu, o che tenti vanamente di ribellarsi, come fa all’inizio Malpelo, non vi è comunque
alcuna via di salvezza. Relegato all’ultimo gradino della scala sociale, Rosso, pur nella sua posizione
di emarginazione, prende via via coscienza dei meccanismi che sono alla base dei rapporti umani e
col suo comportamento li svela e li demistifica. Mentre infatti chi vive intorno a lui (la famiglia e gli
operai della cava) si adegua passivamente alla legge dell’utile che governa il mondo e giudica “strano” il comportamento del ragazzo che rifiuta questa logica, alla fine del racconto sarà proprio Malpelo l’unico ad aver dimostrato sentimenti umani, autentici e disinteressati. Questi buoni sentimenti, tuttavia, non servono a nulla in una realtà dominata dalla legge del più forte: così Rosso può solo
scegliere la via dell’autoannientamento, l’unica forma di ribellione che gli è consentita, secondo la
pessimistica visione verghiana.
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Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo1, che prometteva di riescire un fior di
birbone. Sicché tutti alla cava2 della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il
suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con
quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere
che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più;
e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno
avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e
lo accarezzavano coi piedi3 allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico4. Al mezzogior1. malizioso e cattivo: i capelli rossi, per un’antica superstizio-
3. accarezzavano coi piedi: ironico, per dire che lo prendeva-
ne, sono indice di cattiveria.
2. cava: posta sotto le colate di lava eruttate nei secoli dall’Etna.
no a calci.
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4. brutto ceffo... selvatico: l’espressione del suo viso provocava
ribrezzo e paura, perché cupa e animalesca, priva di tratti gentili.
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no, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio5 la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello6 fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le
bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo7, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra
i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era
sempre cencioso8 e lordo9 di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica10 per tutto Monserrato e la Carvana11, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di
Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu12, suo padre, era morto nella cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a
cottimo13, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora
non serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra14
di rena. Invece mastro Misciu sterrava15 da tre giorni e ne avanzava ancora per
la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione
come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone;
perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di
tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il
pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie16 cascassero sulle
sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli
altri: «Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre».
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché17 fosse una buona
bestia. Zio Mommu18 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.
Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che
l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la
pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor
del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era
avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi
bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo
pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata!» e così andava facendo il conto del
come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e
girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse:
ohi! ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene,
poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure: «Sta attento! Sta attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non dis5. in crocchio: stando seduti in cerchio.
6. corbello: cesto.
7. motteggiandolo: deridendolo.
8. cencioso: vestito con abiti vecchi e strappati.
9. lordo: sporco.
10. bettonica: pianta medicinale molto diffusa.
11. Monserrato e la Carvana: sobborghi di Catania.
12. Misciu: diminutivo di Domenico.
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13. cottimo: forma di retribuzione per cui il salario viene corrisposto in base alla quantità di lavoro eseguita.
14. carra: carri, qui usati come unità di misura.
15. sterrava: cavava sabbia.
16. soperchierie: soprusi, prepotenze.
17. tuttoché: nonostante.
18. Mommu: altro diminutivo di Domenico.
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se più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un
rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.
Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i
lavori della cava, ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona
con un trono, perch’era gran dilettante. Rossi19 rappresentava l’Amleto, e c’era
un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di
Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran
disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare
da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo Sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana.
Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna,
tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea
prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia20; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran
chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla
di umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!» «To’!» disse lo Sciancato
«è Malpelo!» «Da dove è venuto fuori Malpelo?» «Se tu non fossi stato Malpelo,
non te la saresti scappata21, no!» Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio22 duro a mo’ dei gatti.
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie
colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si
accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati23, e
tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar
serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non
si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella
galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul
petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla
zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non
fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro
che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e
macilenta24, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!»
19. Rossi: Ernesto Rossi, celebre attore livornese (1827-
96).
20. seppellire Ofelia: è la conclusione della tragedia Amleto di
William Shakespeare.
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21. non te la saresti scappata: non ti saresti salvato.
22. il cuoio: la pelle.
23. invetrati: gelidi e fissi come se fossero di vetro.
24. sbilenca e macilenta: incurvata e spossata.
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Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e
lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso.
Sapendo che era malpelo, ei si acconciava25 ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un
asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio
come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo
loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse
vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e
al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno
tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del
modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche
con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!».
E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva26:
«È stato lui, per trentacinque tarì27!» E un’altra volta, dietro allo Sciancato: «E
anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che
sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così
che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio
com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per
prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e
senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con
maggiore accanimento, e gli diceva: «To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare
il viso da questo e da quello!»
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: «Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!»
Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito28, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano
secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due
per le battiture, ma stremo di forze29 non poteva fare un passo, e cadeva sui
ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe
alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e
ci strapperebbe la carne a morsi».
Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi;
così coloro su cui cadranno ti terranno per30 da più di loro, e ne avrai tanti di
meno addosso».
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’
di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora»; diceva a Ranocchio sot25. si acconciava: si sforzava.
26. torva: minacciosa.
27. tarì: circa 15 lire (vocabolo arabo).
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28. rifinito: sfinito.
29. stremo di forze: senza forze.
30. ti terranno per: ti considereranno.
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tovoce «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se
sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio
padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio
piagnuccolava a guisa di31 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e
lo sgridava: «Taci, pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una
mano, dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te».
Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di
badile, o di cinghia da basto32, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire
sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a
digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma
le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda
il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non
era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si
giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata
rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse selvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e
quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la
sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese, ché
avrebbe fatto scappare il suo damo33 se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica,
in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare
a messa o per ruzzare34 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di
andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese35,
come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia
di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della
rena, brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava
fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che
lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterra31. a guisa di: come.
32. basto: grossa e rozza sella di legno per muli e asini.
33. damo: fidanzato.
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34. ruzzare: correre e saltare.
35. malarnese: disgraziato.
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nei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja36, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla
cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e
doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e
lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la
rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca,
e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla
testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato
lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva
a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che
quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre,
il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre
visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come
l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di
qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara37 nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida
disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro
Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi,
proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i
pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si
era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua
e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder
comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o
tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco
addosso, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro
Bestia aveva tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le
mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo
Sciancato «ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
36. Plaja: spiaggia.
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37. sciara: i campi neri di roccia dell’Etna.
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Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carcame38, c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i
calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo
per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli
pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad
un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra,
l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il
piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci
e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri
più lisci e lucenti di quelli, se ei avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa»; brontolava Malpelo
«gli arnesi che non servono più si buttano lontano». Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio,
il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo
bisogna avvezzarsi39 a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le
fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando40 sui greppi41 dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera», gli diceva «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura
perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva
più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa
bianche, e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la
schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le
cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche42, e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva
di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non
più!» Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle
guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato
sarebbe stato meglio.
La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse,
38. lezzo del carcame: puzza del cadavere.
39. avvezzarsi: abituarsi.
40. ustolando: mugolando per desiderio di cibo.
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41. greppi: fianchi scoscesi.
42. guidalesche: ferite.
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o un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone
di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto
era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle;
tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi
capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto
ma nessuno poteva udirlo. «Egli solo ode le sue stesse grida!» diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare.
Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà».
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco dalla lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il
cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti
di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là
vagamente – allora la sciara sembra più brulla e desolata. “Per noi che siamo
fatti per vivere sotterra”, pensava Malpelo, “ci dovrebbe essere buio sempre e
dappertutto”. La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: “Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché
non può andare a trovarli”.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava
perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non
sentivano più il dolore di esser mangiate.
«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti» gli diceva «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra come i topi, non bisogna più
aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci
stanno volentieri in compagnia dei morti».
Ranocchio invece provava una tale compiacenza43 a spiegargli quel che ci
stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso,
dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai
loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva
che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da
monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece
dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella».
E dopo averci pensato su un po’:
«Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano
Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi
calzoni qui che ho indosso io».
Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in
modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe44, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel
ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in
una miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria
malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel pic43. compiacenza: compiacimento, piacere.
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44. corbe: ceste.
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chiarlo sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo
spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un
sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!»
Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per
comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né
con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e
allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico
nel salire la viottola, ei gli borbottava: «È meglio che tu crepi presto! Se devi
soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva che Malpelo era
capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se
ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio
che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si
disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la
settimana.
Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e
sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo
perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto
come quei marmocchi che non si slattano45 mai. Egli invece era stato sano e
robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non
aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la
civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora
del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio
sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la
madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cibali46; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro
non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il
grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
45. slattano: svezzano.
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46. Cibali: località vicino a Catania.
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Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e
si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era
scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli
anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo
dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là
dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un
paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo.
«Perché non sono malpelo come te!» rispose lo Sciancato. «Ma non temere,
che tu ci andrai e ci lascerai le ossa».
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col
pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era
vero c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre
di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il
sangue suo per tutto l’oro del mondo.
Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per
la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era
rimaritata e se n’era andata a stare a Cibali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo
padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non
ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione
si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina
e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma
non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre,
il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne
andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la
voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
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(G. Verga, Novelle, a cura di A. Cannella, Milano, Principato, 1986 [riporta l’edizione del 1880])
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Esercizi
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I personaggi che agiscono nella novella si possono dividere in due categorie: quelli che opprimono Rosso
e quelli a cui il ragazzo è legato da un rapporto di affetto. Elenca su due colonne i personaggi, a seconda
che facciano parte del primo o del secondo gruppo.
Personaggi che opprimono Rosso
Personaggi che hanno un rapporto
di affetto con Rosso
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Quali sono i personaggi su cui Rosso esercita la sua crudeltà? Come giudica il narratore popolare l’atteggiamento del ragazzo?
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3
Confronta l’atteggiamento della madre di Rosso con quello della madre di Ranocchio.
Quale delle due manifesta maggiore comprensione?
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4
Il rapporto di Malpelo col padre sembra crescere dopo la morte di mastro Misciu fino all’identificazione
finale. Rintraccia nel racconto le tappe attraverso le quali il legame di Rosso con la figura paterna si va precisando.
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5
Il testo è scandito da tre morti: quella del padre di Malpelo, quella dell’asino grigio e, infine, quella di Ranocchio. Ognuna di esse insegna a Malpelo qualcosa. Cerca di precisarlo.
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Quali ti sembrano essere le vere motivazioni del comportamento di Malpelo, fraintese dal narratore popolare?
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Rintraccia nel testo i punti in cui più chiaramente è evidente il ricorso a strutture linguistiche proprie del
linguaggio popolare.
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8
Trascrivi i proverbi, i soprannomi e i modi di dire dialettali che hai incontrato nella novella e di’ che cosa
significano.
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La figura di Malpelo è caratterizzata fin dall’inizio da alcuni tratti leggendari che, secondo la superstizione
popolare, rimandano al mondo del male. Quali sono questi tratti?
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10 Prova a dividere la novella in macrosequenze e a dare a ciascuna di esse un titolo che ne riassuma il contenuto.
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11 Che tipo di sequenze è prevalente?
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12 Prova a definire con parole tue il processo dello straniamento.
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13 Prova a definire con parole tue il processo di regressione.
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14 Sottolinea nel testo le parti dove puoi ritrovare il processo di regressione.
15 Evidenzia nel testo i punti in cui le parole e i pensieri dei personaggi sono riportati con la tecnica del discorso indiretto libero.
16 Quale tipo di focalizzazione ha adottato Verga in questa novella? Motiva la tua risposta.
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17 Evidenzia nel testo i punti in cui si fa ricorso alla tecnica della concatenazione.
18 Evidenzia i punti in cui si fa ricorso alla tecnica della ripetizione.
19 Definisci oralmente con parole tue che cosa si intende per “narratore popolare”.
20 Dalla storia di Malpelo è possibile ricavare anche alcune informazioni sulle dure condizioni di lavoro, soprattutto minorile, nelle miniere nella seconda metà dell’Ottocento. Individua nel testo i punti in cui puoi rintracciare tali notizie.
GIUDIZIO
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