leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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http://www.10righedailibri.it
Inizi
Il sussurro dell’Uomo Nero
di Emanuele Corsi
© Associazione Culturale Nero Cafè
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
ISBN: 978-88-98739-14-1
Illustrazioni e immagine di copertina: Ilaria Tuti
Editing e impaginazione: Daniele Picciuti
Finito di stampare nel Maggio 2014
Presso Digital Book srl
Città di Castello
Emanuele Corsi
Il Sussurro
dell'Uomo Nero
Illustrazioni di
Ilaria Tuti
Indice
Prologo7
Un tè che finisce male
9
Uccelli che se ne vanno
17
Uccelli che ritornano25
Vecchie signore permalose31
Un pupazzo che parla
37
Soffitte che tremano45
Attraverso il teatrino51
Racconti da continuare59
Cose che ticchettano71
Cannoni che non sparano
81
Amiche che non collaborano
93
Amiche che spariscono109
Strade alternative119
Bambole che invidiano131
A che servono le mentine cinesi
143
Camerette che non ti aspetti
153
Castelli di bambole165
Storie che cambiano le cose
181
L’Uomo Nero191
Pupazzi che partono197
Prologo
I guai di Lisa cominciarono quando l’Uomo Nero venne a parlare con Corinna.
Corinna era la sua bambola preferita: una bambola di porcellana, di quelle antiche, dalla pelle bianca lucente e i capelli
rossi fiammanti che sembravano veri. A Lisa non piacevano
granché le Barbie, né le Bratz: non le sembravano adatte a
prendere il tè con lei. Corinna, invece, nella sua elegante immobilità, riusciva a darle soddisfazione: rimaneva seduta tranquilla mentre lei le apparecchiava la tavola, sistemava tazze e
cucchiaini, e serviva il tè bollente. Poi ascoltava senza fiatare le
storie che la sua mammina le raccontava.
Lisa aveva scorto l’Uomo Nero nei riflessi dello specchio,
perché quelli come lui non puoi vederli come le persone normali. Sembrava un pezzo di notte sagomato a figura umana,
solo che la notte non era così scura. Era di spalle, o almeno
così sembrava, tutto intento in un chiacchiericcio sommesso
all’orecchio di Corinna.
Lisa avrebbe voluto dirgli qualcosa.
Avrebbe voluto urlare «Giù le mani dalla mia amica!»
Avrebbe voluto scendere dal letto e correre verso la sediola di Corinna, per strappare la bambola alle cure dell’Uomo
Nero. Avrebbe voluto cacciarlo via.
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Invece rimase infagottata nelle coperte, un occhio chiuso e
uno aperto, tra la tentazione di guardare meglio e l’impulso di
nascondere la testa sotto il cuscino.
E l’Uomo Nero continuò, curvo nel riflesso di luce lunare
che dalla finestra colpiva lo specchio. La bambola, d’altro canto, rimaneva immota a guardare per terra, le braccia abbandonate sui braccioli, esattamente come l’aveva lasciata Lisa la
sera prima. Quando l’Uomo Nero ebbe finito con lei, si raddrizzò. E le sorrise.
Era una mezzaluna bianca ed era rivolta proprio a Lisa, ne
era certa. Ed era certa pure che in quel bianco splendente si
nascondessero tanti bei denti affilati. Vide l’Uomo Nero uscire
silenziosamente dal contorno dello specchio, rimanere niente
più che un’ombra lunga sul pavimento e infine sparire sotto
l’armadio.
Lisa provò a riflettere: era grande ormai, aveva otto anni e a
quell’età si smette di credere a queste cose. In effetti, ora che
l’ombra si era dileguata, già cominciava a dubitare che fosse
realmente accaduto qualcosa. Forse aveva mangiato troppo la
sera prima, come le diceva sempre la mamma quando Lisa, da
piccola, la chiamava nel mezzo della notte perché aveva visto
muoversi qualcosa. Forse il film che aveva guardato quel pomeriggio a casa l’aveva impressionata più di quanto non fosse
disposta ad ammettere. Perché Lisa non si spaventava mai davanti ai film, e tutti a scuola l’ammiravano molto per questo.
Si era quasi tranquillizzata, quando Corinna girò la testa
verso di lei e incurvò gli angoli di porcellana della bocca in un
sorriso.
Lisa soffocò un urlo, strizzò gli occhi e trattenne il fiato più
che poté, pregando che se ne andasse, che arrivasse il sonno
e fosse presto giorno, che tutto scomparisse come un brutto
sogno, perché doveva essere un sogno.
Fu accontentata in parte.
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Un tè che finisce male
«E che sarebbe quel coso?» stava dicendo Cristina, il dito
puntato verso lo scaffale appeso al muro.
Era pomeriggio presto, e dopo lunghe e accorate preghiere
Lisa aveva convinto la mamma di Cristina a farla venire a pranzo a casa sua all’uscita di scuola. Cristina non aveva mangiato
quasi nulla, come al solito, al contrario di Lisa che era una
buona forchetta qualsiasi cosa le mettessero davanti. Dopo
pranzo, Lisa aveva trascinato Cristina in bagno a lavarsi i denti
con tutto l’entusiasmo di cui era capace.
«Ma io voglio andare a giocare!» si era lamentata Cristina.
«Dopo» aveva ribattuto Lisa, accigliata «o i vermi ci strisceranno in bocca finché non avremo i denti gialli e cadenti».
L’amica non aveva replicato, forse preoccupata per la sua
bocca invasa da disgustosi animaletti striscianti. Comunque, i
denti se li era lavati fino a farsi sanguinare le gengive.
Appena entrate nella cameretta, però, l’aveva visto.
«Ecco, appunto, è un coso» rispose Lisa «mamma l’ha tirato fuori dalla soffitta la settimana scorsa, dice che mi piaceva
tanto quando ero piccola». Piccola, per Lisa, significava più o
meno nella culla.
«È il pupazzo più brutto che abbia mai visto» disse Cristina,
affascinata «e lo tieni così, in bella vista? »
«Per adesso» spiegò Lisa con una smorfia. «Ho provato a
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dirle che è vecchio e rovinato e probabilmente pieno di malattie, e allora lei sai che ha fatto? L’ha lavato e me l’ha riportato,
tutta sorridente».
Montò su una delle sedie di plastica dell’Ikea e raggiunse lo
scaffale, afferrando con la punta delle dita il pupazzo in questione. Era davvero brutto: alto una trentina di centimetri, la faccia
che assomigliava a una patata, la zazzera di capelli blu scuro a
coprire due occhi tondi tondi e ingialliti dal tempo. Sotto il naso,
grosso più o meno come un funghetto, c’era una scucitura irregolare che poteva passare per una bocca, anche se probabilmente
non lo era. Indossava una magliettina a righe rosse e nere e una
salopette jeans troppo grande. Le grosse mani sembravano muffole da neve, con tutte le dita unite a eccezione del pollice.
«Aspetto qualche giorno e poi, quando mamma se ne dimentica, lo metto nell’armadio» concluse Lisa, grattandosi la
testa: c’era qualcosa che la infastidiva, a pensare all’armadio, ma
non riusciva a metterla a fuoco. Lanciò il pupazzo sullo scaffale,
mancandolo completamente: il corpicino di pezza cadde a peso
morto sul pavimento, rotolò un paio di volte e poi si afflosciò
contro la parete. Lisa considerò per un attimo di raccoglierlo e
metterlo al suo posto, ordinata com’era, ma la vena dispettosa
ebbe la meglio: decise di lasciarlo lì, «così impara».
«A che giochiamo?» chiese Cristina guardandosi intorno
con aria assente. Lisa ebbe paura che non le piacesse granché
di quello che vedeva. «Costruzioni?» azzardò poi «O vogliamo dare da mangiare a Sbirulino?»
Sbirulino era il suo educatissimo canarino biondo, che cantava solo a richiesta e nelle ore più adatte. Cristina però non sembrava interessata all’animaletto, non la stava ascoltando affatto,
attratta invece dalla Casa delle Bambole e dal tavolino da tè.
«Ecco, questa sì che è spettacolare!» cinguettò correndo a
sollevare Corinna dalla sua sediolina. La cullò per un istante,
poi si girò verso Lisa: «Facciamo il tè?».
In altre occasioni Lisa sarebbe rimasta deliziata. Non c’era
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verso di convincere le altre sue amiche a giocare con Corinna,
la trovavano troppo seriosa nel suo vestito bianco tutto pizzi,
con la gonna a balze e le maniche a sbuffo. E poi, dovevi stare
attenta a come la prendevi, a come la lasciavi, a quanto la stringevi: insomma, una noia. E invece Cristina l’aveva adorata da
subito, almeno a giudicare dalla delicatezza con cui la teneva.
Ma Lisa stavolta non si sentiva contenta. Guardava Corinna
e ancora una volta provava una sensazione di fastidio, un po’
come quando la notte, sotto le coperte, non trovava la posizione giusta con le gambe.
«Certo. Aspetta che prendo le tazze» rispose però.
Dopotutto, era la prima volta che Cristina veniva a giocare a
casa sua, voleva che se ne andasse con un bel ricordo.
Mentre andava ad aprire l’armadio dei giocattoli, le capitò
il pupazzo dai ricci blu tra i piedi. Lo raccolse automaticamente e lo squadrò per l’ennesima volta: dubitava che, anche
appena comprato, fosse mai stato “bello”.
«Dai, metti a tavola anche lui» suggerì Cristina con una
punta di cattiveria nella voce. Lisa sorrise: non riusciva a pensare a qualcosa di più ridicolo di un coso del genere che prendeva il tè con due bambine e una bellissima bambola d’altri
tempi.
«Bella idea! Prendi» disse, voltandosi verso l’amica e lanciandolo per la seconda volta. Cristina era occupata a cullare
Corinna, e non poteva certo lasciarla cadere all’improvviso:
fece un goffo tentativo di bloccarlo tra la testa e la spalla, ma
il pupazzo la superò e si accartocciò contro la parete, per poi
scivolare lentamente a terra. Le bimbe scoppiarono a ridere.
«E sono due. Povero!» fece Cristina. «Ma ce l’ha un nome,
almeno?»
«Mi sa di no, non parlavo ancora quando me lo regalarono.
Certo che dormire con ‘sto coso accanto… chissà come facevo
a prendere sonno». Mentre raccoglieva le tazze e l’occorrente
per servire il tè, Lisa ebbe un’illuminazione: «Coso! Ecco co11
me lo chiamerò. Che te ne pare?»
«Perfetto, direi. E lei, come si chiama?» chiese Cristina accennando col mento alla bambola di porcellana.
«Lei è Corinna. È una gran dama di compagnia, sai?
Conosce delle storie fichissime».
«Beh, si vede. Chissà se riuscirebbe a insegnare un po’ di buone maniere a messer Coso, qui». Seguì una risatina sommessa.
«Mi sa di no. Diciamo che Corinna è la Marchesa. Io Sono
la Contessa. Tu vuoi fare la Duchessa?»
Cristina annuì poco convinta. Poi si informò: «Ma che vuol dire?»
«Non lo so di preciso, ma sicuramente possiamo prendere
il tè insieme. Lui potrebbe essere, vediamo» aggiunse pensosa
guardando Coso «il Principe di Bruttolandia?»
Le due bambine si guardarono per un attimo, poi scoppiarono a ridere.
Apparecchiarono il tavolino con tovaglietta e posatine di
finto argento, poi sistemarono le sedie ai quattro lati e Lisa
stessa si incaricò di mettere seduto Coso in modo che stesse
con la schiena dritta. Nonostante gli sforzi, tuttavia, il Principe
di Bruttolandia non voleva saperne di rimanere composto.
Continuava a crollare con la testa nel piattino, spargendo
ovunque pidocchi, pulci e vermi vari (a detta di Lisa). Corinna,
d’altro canto, rimaneva imperturbabile come una regina assisa
sul suo trono Ikea, in attesa.
Finalmente Lisa trovò una soluzione, mentre Cristina rideva a crepapelle: puntellò la testa di Coso con due forchettine
che avanzavano, ottenendo che rimanesse abbastanza dritto
da poter sorseggiare il suo tè.
«Adesso ci siamo» commentò soddisfatta battendo le mani.
Poi aggiunse, contemplando la tavola: «Cosa manca ancora?»
«Non lo so. Il tè, forse?»
«Quello per ultimo. Ci sono ancora due cose da sistemare.
Primo, gli animali da compagnia della Marchesa».
«Oh!» fece Cristina, gli occhi spalancati «Gattini? Cagnolini?»
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«Dinosauri» svelò Lisa, sogghignando. Infilò la mano nello
scatolone dei pupazzi e ne trasse due sgargianti esemplari di
Allosauro, uno rosa e uno arancione.
«Questi sono Marta e Dino Sauro» li presentò, facendoli
inchinare di fronte a Cristina.
«Belli!» disse lei allungando una mano.
«Attenta!» gridò Lisa ritirandoli di scatto. «Qualche volta
mordono» spiegò poi, sistemandoli ai due lati della sedia della
bambola. Cristina la guardò interdetta, poi prese a ridacchiare
a quella sua maniera un po’ irritante.
«Li metto qui. Mi raccomando, Marchesa, tienili a cuccia»
intimò poi a Corinna, puntandole il dito contro «vado a prendere l’ultima cosa».
I pasticcini erano in un bel pacchetto rosa col fiocco sul mobile della cucina. Sarebbero stati il tocco finale per una perfetta
cerimonia del tè, con merenda inclusa. Lisa era molto soddisfatta della sua idea e pensava che anche Cristina sarebbe stata
contenta. Sicuramente quella sera avrebbe raccontato alla sua
mamma com’era stata bene dalla sua amichetta e che avrebbe
voluto tornarci il prima possibile.
Lisa non riusciva a trattenere un sorrisone mentre si dava da fare
per scartare i pasticcini senza rovinare troppo l’incarto (per poterlo
poi richiudere): Cristina le piaceva, stava quasi meglio con lei che
con le amiche “storiche”, che conosceva fin dalla prima elementare. Magari le sarebbero anche piaciute le sue storie, chissà. Prelevò
due pasticcini per ogni tipo dal vassoio e li dispose con cura in un
piattino bianco coi disegni celesti, quello del “servizio buono”.
«Dov’è che vorresti andare tu, con quello?» chiese la mamma, di passaggio con la cesta dei panni.
«Tranquilla, mamma» rispose Lisa con aria di chi deve
spiegare una cosa ovvia per l’ennesima volta «lo sai che ci sto
attenta». La mamma si calò per un attimo gli occhiali sopra
il naso, come per dirle ti tengo d’occhio, poi continuò il suo
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tragitto fino alla porta-finestra che dava sul terrazzo.
Quando Lisa tornò in camera sua con un sorriso trionfante
stampato in volto, non si aspettava quello che si trovò davanti.
Cristina era in piedi, curva su Corinna, due dita infilate nel
colletto del vestito della bambola, a raspare la schiena di porcellana. La bambola era parzialmente caduta dalla sedia, la
testolina appoggiata sul testone di Marta Sauro, i capelli cotonati leggermente in disordine. Sembrava quasi che si stesse
allungando per dirle qualcosa all’orecchio.
Quando percepì la sua presenza sulla soglia, Cristina ritrasse di scatto le dita da Corinna e arrossì violentemente. Lisa
non fiatò, ma la sua espressione doveva essere eloquente.
«Ehm, scusa» si grattò il capo Cristina «mi sa che l’ho fatta
cadere io. Ma non si è rovinata, è finita sul morbido» concluse
indicando il dinosauro rosa. «È che mi ha spaventata, non mi
avevi detto che parla pure».
Lisa si accorse dal biancore dei polpastrelli che stava stringendo con tutta la sua forza le dita sul piattino. Si rilassò, per
non rischiare che le sfuggisse, poi si costrinse a sorridere.
«Ma infatti non parla» rispose. Mentre lo diceva, suonò terribilmente sbagliato. Come se avesse dimenticato qualcosa. Ma
ne era sicura: Corinna era fatta alla vecchia maniera, non aveva
meccanismi più complicati delle giunture di braccia e gambe.
«Sì che parla» ribatté Cristina, accigliandosi «io l’ho sentita. Per quello l’ho toccata, stavo cercando l’interruttore sulla
schiena. E poi, ecco, devo averle fatto perdere l’equilibrio».
«Magari una voce dalla finestra» disse Lisa, convinta che
la sua amica le stesse mentendo. Sta’ tranquilla, voleva dirle,
non mi arrabbio mica perché hai fatto cadere Corinna. Cioè, se
si fosse rotta probabilmente ora starei piangendo e ti starei dicendo cose orribili, ma è andato tutto bene, no? Quindi non c’è
bisogno di dire bugie.
A dirla tutta, Lisa era più indispettita perché la sua entra14
ta a effetto era ormai rovinata, che per il pericolo corso dalla
sua bambola preferita. Provò a recuperare la magia: «Guarda
cos’ho portato!» sorrise, depositando al centro del tavolino il
piatto coi pasticcini.
Cristina sorrise di rimando, seppur con una nota di incertezza negli occhi. Si rimise a sedere di fronte alla padrona di casa e allungò una mano verso il piattino: «Vado?» Lisa la imitò:
«Vai, vai» fece portando alla bocca una pralina con gli estremi
glassati di cioccolato «allora, chi comincia a raccontare?»
«Forse è meglio se fai tu, io non sono brava» rispose Cristina
a bocca piena.
«D’accordo, inizio io. Però poi qualcosa te la devi inventare, è la regola».
«Mmh».
Lisa prese fiato e raccolse le idee.
C’era una volta un bambino di nome Tommy. Era proprio
un bravo bambino, andava a scuola da solo tutti i giorni
perché papà e mamma lavoravano, si lavava i denti da solo
e non faceva mai i capricci per fare il bagno. A scuola tutte
le maestre lo adoravano perché era il più bravo, le ragazzine lo amavano perché era alto e biondo e i maschi lo invidiavano perché era bravo a calcio e a pallavolo. Un giorno,
tornando a casa, si fermò come sempre a preparare la pappa
per il suo coccodrillo da giardino, Pluto («Coccodrillo da
giardino?» ridacchiò Cristina, e Lisa: «Shhhh!») Pluto
dicevo, che aveva la pelle di un bel verde brillante e gli
occhi argentati. Mentre gli teneva compagnia, Pluto disse
che era un po’ preoccupato perché aveva visto («E parla
pure?») aveva visto, dicevo, un’ombra arrivare dal vicino
boschetto, chiamato il Bosco dei Sospiri perché tanto tempo prima vi erano morti due amanti, uccisi da una strega
cattiva e invidiosa della loro felicità. «Che ombra?» chiese
Tommy. «Tre ombre» rispose Pluto, e poi starnutì perché
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aveva preso freddo. Tommy allora andò in casa e gli portò
una copertina, perché la notte cominciava a fare freschetto.
(«Ma queste ombre? Racconta!»)
La notte stessa Tommy decise di rimanere sveglio e
indagare, per tenere al sicuro il suo quartiere. I grandi,
ovviamente, non avrebbero capito. E allora, dopo che i genitori furono andati a dormire, si rivestì e si mise di guardia alla finestra che dava sul bosco. E finalmente, dopo
la mezzanotte, le vide: due ombre che scappavano da una
terza, e la terza sembrava proprio una strega a cavallo di
una scopa! E allora…
«Ahia!» urlò Cristina.
Lisa in quel momento era concentrata su Coso, cioè sul
Principe di Bruttolandia: come tutti i bravi narratori, faceva
correre il suo sguardo da un elemento all’altro del suo piccolo
pubblico, per renderlo partecipe. Alzò gli occhi verso l’amica
con aria spazientita. Insomma, silenzio, non è possibile raccontare in queste condizioni, voleva dirle.
Poi vide gli occhi terrorizzati di Cristina fissi sul proprio
braccio sinistro, e ne seguì lo sguardo. La mano della ragazzina che si stringeva l’avambraccio, le macchioline rosse che
emergevano da sotto le dita, la testa di Marta Sauro che piano
piano scivolava via dal braccio e trascinava sul pavimento il resto del corpo. La lunga coda dell’allosauro che scattava verso
l’alto e colpiva il tavolo.
Il piattino del servizio buono di mamma barcollò pericolosamente sull’orlo del tavolo, sporgendo sempre di più, sempre
di più… finché non cadde a terra spaccandosi a metà.
«Cosa…?» riuscì a dire Lisa, prima che Cristina scoppiasse
in lacrime e corresse via, balbettando qualcosa come «scusa,
scusa». Lisa rimase lì impalata, la tazza di finto tè in mano.
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Uccelli che se ne vanno
Lisa non aveva mai dormito con una bambola o con un peluche.
Almeno fin da quando si ricordava. Lei era grande, non aveva
mica bisogno di una bambola per dormire. Nessun orco sarebbe arrivato di notte a portarla via, nessun branco di lupi affamati l’avrebbe svegliata ululando sotto la sua finestra. Le piaceva
raccontarle, le storie spaventose, questo sì. Le piaceva quando i
cuginetti rimanevano a bocca aperta ad ascoltarla e alla fine, pur
se spaventati, gliene chiedevano «ancora, ancora!»
I pupazzi erano giocattoli, le storie erano storie. Il sonno
era sonno.
Quella notte, però, ebbe il suo daffare per addormentarsi.
Aveva sentito il bisogno di sistemare i signori Sauro sopra
lo scaffale più alto, con la testa girata verso il muro e le lunghe
code che pendevano al di fuori del ripiano.
Corinna l’aveva lasciata seduta al tavolo da tè, di fronte al
pupazzo orribile che secondo la mamma la faceva dormire
tranquilla quand’era piccola. Al buio, con quella matassa di
riccioli blu, sembrava ancora più inquietante.
E poi, a pensarci bene, non l’aveva lasciato in un’altra posizione?
Aggrottò la fronte in quel modo che il suo papà definiva
“buffissimo”. Pensa, Lisa, come stava messo prima che spegnessi la luce? Faccia a faccia con Corinna? Appoggiato al tavolo con
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le braccia? Di certo, non voltato verso di lei in quel modo, con
gli occhi rotondi fissi sul suo lettino.
A meno che…
Rammentò che non riuscivano a farlo stare seduto, gli cadeva continuamente la testa sul tavolo, e allora l’avevano puntellato con le forchettine: ecco spiegato!
Evidentemente una delle forchette era caduta e lui, privo di
un sostegno, si era girato in quella posizione così innaturale.
Lisa sospirò di sollievo.
Poi colse lo sguardo di Corinna.
Aspetta. Di sicuro lei era rivolta da un’altra parte.
Sollevò gli occhi verso il lampadario, dov’era appeso il grosso
pterodattilo di peluche. Stava lì immobile, al solito posto.
Lo sguardo corse alla maniglia della finestra, alla ricerca di Gilda
la Tarantola. Anche lei sembrava tranquilla e paciosa, come sempre.
E poi, di nuovo Corinna. Che la guardava. E le… sorrideva?
Si stropicciò gli occhi e guardò di nuovo. Corinna era tornata nella sua posizione originale, la testa fissa davanti a sé
nella direzione di Coso. O forse non si era mai mossa?
Lisa scosse la testa: gli avvenimenti del pomeriggio l’avevano scossa più di quanto pensasse. Non si era mai fatta strane
fantasie da piccola, al buio, e non avrebbe cominciato nemmeno adesso. Chiuse gli occhi e si addormentò.
Il giorno dopo Cristina aveva il polso fasciato.
Per tutta la mattina Lisa cercò di prenderla da parte per
chiederle scusa. Non sapeva bene di cosa, visto che lei non
aveva fatto niente, ma era accaduto in casa sua e quindi ne
era responsabile. E poi Cristina le piaceva, non aveva nessuna
intenzione di perderla.
Però a ricreazione le era sfuggita. Per la precisione, non
appena Lisa aveva provato ad avvicinarla lei si era chiusa in
bagno, per uscirne solo quando la campanella aveva annunciato la ripresa delle lezioni. Lisa c’era rimasta male.
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All’uscita, aveva cambiato tattica. Entrambe tornavano a casa
da sole, perché abitavano poco distante (e perché erano ragazzine giudiziose). In genere condividevano un tratto di strada, ma se
Cristina aveva deciso di evitarla c’era il rischio che facesse un percorso diverso. Così lasciò che andasse avanti, nascondendosi tra
la folla di bimbetti vocianti all’esodo di metà pomeriggio, per poi
intercettarla nei pressi di un semaforo rosso, un isolato più in là.
«Ciao!» la salutò da dietro, col suo sorriso più bello.
Cristina si voltò, urlando, fece un passo indietro, inciampò
e perse l’equilibrio. E sarebbe caduta, se Lisa non le avesse
afferrato le mani al volo.
Invece, così caddero tutte e due, una sopra l’altra.
Ecco, ho rovinato tutto – pensò Lisa mentre cadeva – non
solo l’ho spaventata a morte, le ho procurato una ferita al polso e
l’ho seguita di nascosto: l’ho pure fatta cadere, magari sul braccio
ferito. Adesso griderà e mi prenderà a pugni oppure scapperà e
non la vedrò mai più. (E poi, chissà quante malattie prenderò a
contatto con questo marciapiede lercio).
E invece Cristina scoppiò a ridere. Lì, sotto la sagoma infagottata di Lisa, sul marciapiede di fronte alle strisce pedonali.
Lisa dopo un po’ si unì al riso, più per il sollievo che per altro,
si alzò e le diede una mano a rimettersi in piedi. La gente intorno passava e le guardava strano.
Attraversarono.
«Mi dispiace tanto per ieri» esordì Lisa non appena fu passata la ridarella a tutte e due «ti fa ancora male?».
Cristina annuì e distolse lo sguardo, rabbuiandosi. Lisa si
indispettì: «Ehi, però! Non è mica stata colpa mia. Non mi era
mai successo di tagliarmi con un dinosauro di plastica».
Si rese conto di averla aggredita: «Prima d’ora» aggiunse.
La sua amica si fermò e alzò gli occhi verso di lei: «Hai ragione, anzi scusami anche con tua mamma per essere scappata
via a quel modo. È solo che…» stava per aggiungere qualcosa,
poi si morse un labbro e riprese a camminare.
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«Solo che?» la inseguì Lisa.
«Lascia stare, è una cavolata».
«Che cosa è una cav… ehi, non si dicono queste parole!»
Lisa condannava il turpiloquio ogni volta che poteva, non riusciva proprio a farne a meno. Sospettava che alcune delle sue
compagne di scuola la prendessero in giro per questo.
«Aspetta, mi fai vedere questi graffi per favore? Non sono
riuscita a capire come hai fatto a ferirti, i denti di Marta Sauro
sono così morbidi…»
«Non posso, c’è la fasciatura».
«Lo so, la vedo, però dai, non si può spostare giusto un
pochetto?»
«Sul serio, Lisa, devo andare a casa».
«Un attimo solo! Almeno spiegami con cosa ti sei tagliata,
di preciso. E se succedesse a qualcun altro?»
A quelle parole Cristina si fermò. Tese la mano verso Lisa e
allentò la parte conclusiva della fasciatura, che arrivava a metà
avambraccio. Poi allargò pian piano le bende sul polso e le
fece vedere.
«Oddio, Cristina, mi dispiace tantissimo» proruppe Lisa,
gli occhi incollati su quei buchini rossi dai bordi frastagliati.
Aveva pensato più a un graffietto, qualcosa provocato dallo
sfregamento, ma quelli sembravano tutt’altra faccenda.
«Lisa…» fece Cristina, esitante.
«Dimmi».
«Mi prometti che metterai via quel dinosauro?»
Che carina, si preoccupava che potesse ferirsi anche lei.
Decisamente, le piaceva sempre di più. «Uh, l’ho già sistemato
sullo scaffale alto, guarda».
«Magari più lontano ancora, okay?» Cristina l’afferrò per le
spalle e strinse, guardandola negli occhi. Era un po’ più alta di
Lisa, la quale fu costretta a fare un passetto indietro per non
cadere di nuovo.
«M-ma tanto non lo tocco più, sta’ tranquilla». Lisa fece un
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debole sorriso, nel tentativo di rassicurarla. Cristina la lasciò
andare e poi riprese a camminare borbottando.
Quando suonò il campanello di casa, sapeva già che qualcosa non
andava. La mamma non l’aspettava mai alla finestra. Ma perché
tutti si comportavano in modo così strano, ultimamente?
Attraversò il cortile di corsa, spinse il portone e si gettò sul
pulsante dell’ascensore: troppo tardi, qualcun altro l’aveva già
richiamato dall’alto. Lisa si morse un labbro e attaccò le scale
due gradini alla volta.
Al quinto piano, squassata dal fiatone, incrociò la signora
Yao-Ping, l’ottantenne cinese che evidentemente le aveva sottratto il mezzo di trasporto. La salutò boccheggiando e proseguì, senza aspettare risposta: ancora quattro rampe.
Al sesto piano le arrivò il saluto attutito della signora Yao-Ping,
che a reagire ci metteva un po’. Alle sue orecchie, suonò più o meno come «Niao». Continuò a macinare gradini, anche se i muscoli
le facevano male e la velocità si riduceva a vista d’occhio.
Al settimo piano si gettò contro la porta di casa senza rallentare, per poi scoprire che era accostata. Ruzzolò nell’ingresso,
riuscendo a rimettersi in piedi come un misirizzi (era proprio
giornata di cadute, quella).
«Mamma!» chiamò, facendo capolino dalla soglia della cucina.
La mamma era ancora lì alla finestra, mentre una grossa pentola
bolliva sui fornelli emanando aromi poco rassicuranti. «Mamma?»
Lisa rabbrividì: l’immagine di sua madre immobile di spalle nella
cornice della finestra aveva un che di inquietante. Erano quelli i
momenti in cui rimpiangeva di aver guardato di nascosto tutti quei
film spaventosi per potersi vantare a scuola che non aveva paura di
nulla. Si avvicinò in punta di piedi, trattenendo per quanto poteva
il respiro spasmodico che le gonfiava il petto, e provando a placare
il cuore che martellava nelle orecchie.
Ancora non riusciva a vederla in faccia. Forse aveva un alieno tentacolato attaccato alla bocca? O era stata vampirizzata e
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sfoggiava lunghi canini affilati? E cos’era quel tremolio lungo
le braccia? Allungò una mano e la toccò sulla spalla.
La mamma sobbalzò e urlò. Lisa urlò pure lei di rimando,
cadendo all’indietro, ancora.
«Ma sei matta?» sbottò la mamma tenendosi il petto «mi
hai fatto morire di spavento!»
Lisa verificò rapidamente che non ci fossero tentacoli o canini, poi partì al contrattacco:
«Ti ho chiamata due volte! Che guardavi?»
La vide sospirare e massaggiarsi la fronte con la mano.
«Hai ragione tesoro, scusami. È che è successa una cosa».
Ecco, pensò Lisa, ci siamo. Sono entrate le formiche a casa.
Il bagno è stato invaso da batteri mangiatori di calcare. Si è
rotta Corinna.
«Dunque, non so come dirtelo. È così strano che non ho
ancora messo a posto nulla. D’altronde, è successo un quarto
d’ora fa. Forse l’avevi messo in equilibrio precario, su quello
scaffale, ecco perché è caduto. Forse…» la mamma si stava
torturando le mani e Lisa stava per sbuffare dall’impazienza
«ecco, vedi, purtroppo, Sbirulino…»
Lisa impallidì. Si rialzò da terra spazzolandosi il sedere,
poi arretrò a passetti piccoli verso la porta. Proseguì verso il
corridoio in punta di piedi, come se avesse paura di svegliare
qualcuno. Poi spalancò la porta della sua stanza.
Lo sguardo le corse al davanzale, alla forma ingombrante
della gabbia. Non mise a fuoco subito, così fece due passi verso il centro della stanza.
Sbirulino giaceva su un fianco sul fondo della gabbietta, il
collo piegato in una posizione innaturale, un’aletta pendente
attraverso le sbarre.
In cima alla gabbia, aggrappata per le zampette, c’era la sagoma rosa di Marta Sauro. Col testone incastrato tra le sbarre,
appena sopra il trespolo incrinato.
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