Nostos e peripezia nella letteratura greca

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Nostos e peripezia nella letteratura greca
Fausto Montana
Università di Pavia (Cremona)
Nostos e peripezia nella letteratura greca
Temi e motivi avventurosi attraversano quasi tutti i generi della letteratura greca antica, non
soltanto quelli che attingono istituzionalmente al mito e alle saghe di viaggi e imprese in
Grecia e in regioni estreme del mondo (l'epos, la tragedia, il romanzo), ma anche alcuni filoni o
forme della poesia lirica, della storiografia e persino della prosa filosofica. Una ragione di ciò
è ravvisabile in due aspetti dell'antropologia greca: la concezione agonistica dell'esistenza e la
propensione a leggere e rielaborare la realtà in forma di racconto (mythos). Tra i motivi
letterari spicca in questo ambito il nostos, il viaggio di ritorno in patria (il cui archetipo è
l'avventurosa navigazione di Odisseo narrata nell'Odissea) che ricorre nella letteratura
posteriore, anche in prosa (ad esempio nell'Anabasi di Senofonte). La riflessione criticoletteraria aristotelica sulla forma della tragedia, nella Poetica, perviene a identificare il
procedimento narrativo della peripeteia, la peripezia o mutamento imprevisto della situazione
presente, che dà nuovo impulso alla vicenda narrata o rappresentata: un meccanismo la cui
individuazione risulta particolarmente efficace nell'analisi degli elementi avventurosi dei testi
letterari, dall'epos al dramma al romanzo.
La categoria narrativa dell'avventura, così diffusa e nutrita nella cultura letteraria moderna e
contemporanea, fu tutt'altro che ignota agli autori greci dell'antichità. Se, aiutati dall’etimologia,
intendiamo per "avventura" il verificarsi di eventi straordinari e inattesi, conditi di emozione e
di audacia e inanellati in serie nell’esperienza di un eroico protagonista, probabilmente non
riusciamo a individuare alcun genere letterario praticato dai Greci nel quale questo aspetto non
abbia trovato spazio o lasciato almeno qualche traccia.
L’affermazione viene fin troppo naturale per la poesia epica arcaica, nella quale l’etica
aristocratica e guerriera degli eroi è tradotta naturaliter nella disponibilità degli individui (e
dunque dei personaggi) al coraggio e alle imprese. Sarà sufficiente accennare, anche solo
cursoriamente, alle antichissime saghe di Eracle e degli Argonauti, che coniugano insieme le
ambiziose aspirazioni eroiche dell’aristocrazia guerriera con il gusto per l’esotismo e
l’avventura; ricordare l’articolata leggenda degli Atridi, nella quale si incastona la rutilante
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vicenda della guerra di Troia; e infine menzionare la saga tebana, nella quale lo spirito
d’avventura s’insinua nell’inquietante dimensione dell’identità e della coscienza individuale
nel terribile dramma personale dell’autoindagine edipica.
Anche nella tragedia ci si può attendere ragionevolmente che agli elementi di avventura
sia riservato ampio spazio. Il repertorio tematico del genere attinge al medesimo bacino
tradizionale dell’epos; e gli altri generi teatrali classici, la commedia e il dramma satiresco, che
per loro costituzione “fanno il verso” al teatro tragico, ne riprendono anche temi e motivi
avventurosi. Meno ovvio è rilevare la ricorrenza dell’avventura nei generi della lirica: ma
basterà pensare all’epinicio – la solenne ode celebrativa delle vittorie atletiche di principi e
aristocratici del mondo greco –, forma nella quale eccelsero Pindaro e Bacchilide, per
riconoscerne l’impronta anche nella poesia musicata dei Greci.
Neppure tra i generi in prosa riusciamo a operare categoriche esclusioni. Se è facile
immaginare che certi orientamenti della storiografia abbiano potuto indulgere
all’amplificazione di risvolti avventurosi di avvenimenti reali, meno scontato appare che anche
la prosa filosofica abbia fatto ricorso a questa categoria, almeno a livello simbolico. La
filosofia è intesa e raffigurata da Parmenide, un pensatore magnogreco nato nel VI secolo, nel
suo poema in esametri intitolato Sulla natura, come un prodigioso viaggio, sul carro delle
figlie del Sole, dalle dimore della Notte verso la luce, attraverso la porta che divide i sentieri
della Notte e del Giorno, della quale la divina Giustizia custodisce le chiavi. Parimenti, per fare
solo un altro celebre esempio, nel VII libro della Repubblica Platone assimila l’indagine
filosofica all’avventura immaginaria di un minatore: prima segregato in un’oscura caverna e
costretto a percepire soltanto flebili ombre e vaghi contorni della realtà, proiettati sul fondo
dell’antro; poi liberato e lasciato uscire all’aperto, dove può percepire distintamente, alla luce
del sole, le forme tridimensionali e i colori, cioè la verità nella sua pienezza complessa e
ineffabile.
Lo spirito d’avventura, dunque, è trasversalmente diffuso in numerosi generi letterari
praticati dagli autori greci. Il fenomeno può essere messo in relazione con alcuni archetipi
culturali caratteristici della mentalità greca: la concezione agonistica dell’esistenza umana e la
propensione a leggere e rielaborare la realtà in forma di mito. I miti greci possono essere
definiti, in senso antropologico, come una rappresentazione figurata della mentalità, una
drammatizzazione spazio-temporale dell’origine e del significato di concetti, credenze e
tradizioni. Lo schema tipico di questa drammatizzazione è il percorso di un individuo
attraverso situazioni di pericolo e di conflitto mortale, che coincide nella sostanza con la
categoria letteraria dell’avventura. E nella letteratura dei Greci, così come nel mito, la materia
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cantata o narrata coincide con un itinerario esperienziale in territori incogniti, “alla ventura”;
un percorso a ostacoli emozionante, rischioso e talvolta inquietante, nel quale il soggetto è
sottoposto a prove continue e a difficoltà impreviste; che all’uomo – cioè a ogni uomo,
all’essere umano – richiede audacia o, perlomeno, coraggio, costanza, capacità di
sopportazione.
Il profilo appena tracciato, qualcuno se ne sarà avveduto, è quello dell’omerico Odisseo, il
protagonista del più antico racconto letterario d’avventura conservato per intero della civiltà
occidentale. È il caso di ricordare che l’Odissea è l’unico conservato dei nostoi, i poemi epici
arcaici che narravano il ritorno in patria degli eroi achei dopo la conclusione della guerra di
Troia. Del resto, la stessa spedizione a Troia, di cui l’Iliade offre un breve spaccato temporale,
è un impressionante viaggio di massa degli eroi micenei, un’avventura collettiva durante la
quale si consumano emozionanti prodezze e tragedie irreversibili. Bastano questi pochi cenni
per riconoscere che il motivo del viaggio si presta immediatamente, agli albori della cultura
letteraria greca, come veicolo ideale, impalcatura connaturata del racconto d’avventura.
Ma torniamo al nostro esempio, al nostos di Odisseo. La disponibilità dell’eroe verso le
esperienze estreme della vita è resa integralmente, nell’Odissea, non tanto o non solo come
audace e aggressiva spericolatezza, quanto piuttosto come tenace resistenza, capacità di
“incassare” i colpi che la sorte e gli dèi gli infliggono nel suo paradigmatico viaggio
avventuroso. Non è un caso che uno degli epiteti fissi dell’eroe sia polu/tlaj, “che molto
sopporta”. Il suo viaggio, significativamente, è un ritorno: cioè serve non a portare l’eroe a
una mèta, ma a ricondurlo circolarmente, sano e salvo e fatto più esperto, al suo originario
punto di partenza, a casa. Il movimento avviene all’interno di uno schema polare: il ritorno a
casa si realizza grazie a un viaggio eccentrico e avventuroso dentro l’ignoto. Questo aspetto
non è trascurabile. La circolarità connota il percorso come non fine a se stesso, ma funzionale
a un’acquisizione di esperienza e di conoscenza: un progresso rilevabile e misurabile soltanto
dal confronto con il punto di partenza, cioè facendo ritorno al luogo nel quale l’individuo
possa rispecchiare e conoscere la propria mutata identità, nuova e più saggia di prima (il che
non significa più felice). Il nostos, in quest’ottica, implica dunque anche la nostalgeia, il
“desiderio sofferto di tornare”, la “voglia di casa”, per ritrovare finalmente le proprie cose
ma soprattutto se stesso.
Questi connotati del personaggio sono presenti fin dal proemio dell’Odissea (vv. 1-5):
Narrami, o Musa, dell’eroe versatile, che così tanto
vagò, dopo che ebbe distrutto la sacra rocca di Troia:
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di molti popoli vide le città e conobbe le menti,
molte angustie soffrì nel suo cuore sul mare,
per guadagnare la vita a se stesso e il ritorno ai compagni.
Vorrei far notare, in questi pochi versi incipitari del poema, la frequenza dell’idea di
pluralità, espressa in greco da polu/j: Odisseo è polu/tropoj, “dalle molte risorse”, ha
vagato polla/, “in molti luoghi”, ha visitato città e culture “di molti uomini” (pollw=n
a0nqrw/pwn) e nelle sue peregrinazioni sul mare ha molto sofferto (polla\ a!lgea). La varietà
multiforme delle esperienze, che perciò sono imprevedibili e più istruttive e mettono a più dura
prova il soggetto, è uno degli elementi costitutivi del racconto d’avventura. Così come
possiamo considerare ingredienti della situazione avventurosa il “vagare sbattuto”
(pla/gxqh) e lo scenario marino (e0n po/ntw|): gli orizzonti dell’azione e delle traversie del
protagonista sono dilatati all’estremo, in un quadro potenzialmente illimitato e onnidirezionale.
Una splendida risorsa, si capisce, nelle mani creatrici dell’autore letterario. Il quale,
nell’Odissea, con perizia compositiva ripartisce nelle due metà del poema le mirabili avventure
del protagonista: nella prima parte quelle di viaggio, magistralmente condensate nei racconti in
prima persona di Odisseo stesso ai Feaci, nei canti dal IX al XII: il Ciclope Polifemo, il re
Eolo, i Lestrigoni, Circe, la discesa nell’Ade, le Sirene, Scilla e Cariddi, e l’empia cattura delle
vacche del Sole, che costerà la vita ai compagni superstiti dell’eroe; e nella seconda parte il
piano di vendetta, ricco di suspense, contro gli impostori, la cui riuscita è epicamente garantita
dalla destrezza tattica e dalle virtù guerriere di Odisseo.
Se ci lasciamo trasportare da una libera associazione d’idee, ci viene alla mente un altro
famoso nostos, non marittimo, ma per via di terra, non redatto in solenni versi epici, ma riferito
nell’asciutta narrazione del resoconto diaristico e autobiografico in terza persona. Mi riferisco
all’Anabasi, cioè Il viaggio verso l’entroterra, composta dallo storico ateniese Senofonte per
fissare nel tempo la terribile esperienza di un contingente di mercenari greci, partiti nel 403/2
a.C. alla volta dell’Asia e usciti male da una guerra fra Persiani. Senofonte, che di quegli
eventi fu protagonista e testimone, ricostruisce la penosa ed estenuante ritirata a piedi delle
truppe sconfitte, soffermandosi su insidie, pericoli, stenti e privazioni che implacabilmente si
abbattono sui soldati mentre si affrettano a guadagnare il confine dell’impero persiano e la
propria salvezza. Ecco alcune istantanee, capaci di evocare al lettore moderno scenari da
campagna di Russia (Anabasi IV 5, 1ss):
Il giorno successivo si decise di scegliere la via che consentiva la marcia più rapida,
prima che l’esercito nemico si raccogliesse di nuovo e prendesse il controllo dei passi
montani. Prepararono i bagagli e si inoltrarono immediatamente nel fitto manto di neve, con
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molte guide. Quel giorno stesso valicarono la cima... Da qui, in tre tappe, avanzarono di
quindici parasanghe [80 km] in una zona disabitata fino all’Eufrate. Oltrepassarono il
fiume bagnandosi all’altezza dell’ombelico. Si diceva che le sorgenti non fossero lontane.
Quindi procedettero nella neve alta, in pianura, per cinque parasanghe in tre tappe.
L’ultima fu dura: un vento di tramontana soffiava contrario, bruciando completamente la
vegetazione e intirizzendo gli uomini. Un indovino allora suggerì di immolare vittime in
onore del vento, e così fecero: tutti ebbero modo di constatare che l’intensità delle raffiche
scemò. La neve era alta un’orgia [quasi 2 m]: molti animali e schiavi persero la vita e
anche una trentina di soldati. Passarono la notte a bruciar legna: nella zona in cui avevano
fatto tappa ce n’era molta, ma chi giungeva per ultimo non ne aveva più a disposizione. I
primi arrivati, attorno ai falò, impedivano ai ritardatari di accostarsi al fuoco, se non in
cambio di grano o di qualsiasi altro genere commestibile. Allora barattarono quel poco che
ciascuno aveva... L’indomani, per l’intera giornata, marciarono nella neve e molti caddero
in preda alla bulimia... Alcuni gruppi di nemici, radunatisi, seguivano i Greci, depredavano
il bestiame che non ce la faceva più, per il cui possesso si azzuffavano tra di loro. Furono
abbandonati al loro destino i soldati rimasti abbacinati dal riverbero della neve e chi aveva
le dita dei piedi incancrenite dal gelo. Per gli occhi c’era un rimedio contro il bagliore della
neve, se si proseguiva la marcia bendandoli con stoffa nera. Per i piedi invece bisognava
muoversi, non stare mai fermi e, prima di addormentarsi, sfasciare i calzari...(trad. di
Andrea Barabino).
Facciamo adesso un altro balzo nel tempo e nello spazio e disponiamoci ad ascoltare la voce
del filosofo Aristotele, che nella Poetica così si esprime a proposito delle trame delle tragedie
(1452a 11ss.): Tra i racconti, alcuni sono semplici, altri complessi: tali, infatti, sono
precisamente le azioni, di cui i racconti sono imitazioni. Definisco ‘semplice’ un’azione
quando, dopo che essa si è sviluppata (...) in modo continuo e unitario, si genera il
mutamento (metabolh/) senza peripezia (peripe/teia) o riconoscimento (a0nagnwrismo/j);
‘complessa’, invece, un’azione dalla quale si ha il mutamento con riconoscimento o
peripezia o entrambi. Aristotele è il primo critico e teorico occidentale, a quanto sappiamo, ad
avere individuato in modo tecnico il meccanismo letterario della peripezia e ad averle
assegnato questo nome. Il significato etimologico del termine è “il piombare addosso”,
“accadimento improvviso”. Ecco come il filosofo definisce il concetto: Peripezia è il
mutamento dei fatti nel loro contrario (...), il che deve accadere secondo verosimiglianza o
necessità. Segue un illuminante esempio: nell’Edipo [re di Sofocle], il messo, venuto ad
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allietare Edipo e a liberarlo dal timore nei confronti della madre, quando svelò chi fosse,
produsse il contrario (trad. di Andrea Barabino). Nell’ambito della tragedia, dunque,
Aristotele assegna a due meccanismi di sorpresa, il riconoscimento e il ribaltamento di
situazione (generalmente sfavorevole), il ruolo di chiavi di volta decisive dell’azione. Già nella
speculazione aristotelica, peripe/teia viene a indicare, in senso più generico ma comunque
ancora tecnico-letterario, anche l’evento insolito e inatteso, tale da sconvolgere un equilibrio o
uno stato di quiete. Riconosciamo in queste definizioni l’accezione germinale del nostro
“peripezia”, che un prestigioso Vocabolario della lingua italiana (Zingarelli 1999) glossa
con “vicenda fortunosa”: cioè – per glossare la glossa – evento degno di nota perché
imprevisto, esperienza avventurosa.
Se volessimo tentare di applicare il concetto aristotelico di peripezia ai due esempi
letterari che ho portato in precedenza, l’Odissea e l’Anabasi, vedremmo che esso
funzionerebbe egregiamente. Nel caso di Odisseo, basta pensare a quante speranze deluse da
eventi inaspettati, cioè peripe/teiai, costellano la sua navigazione alla volta di Itaca (vorrei
notare, per inciso, che nel ritorno di Odisseo a Itaca svolge un ruolo importante anche
l’anagnorismos, studiatamente articolato in più fasi, graduate sul procedere del racconto). E lo
stesso può dirsi dell’eroica marcia di Senofonte e dei suoi stremati compagni verso la
salvezza. I protagonisti della narrazione vengono continuamente sorpresi da accadimenti che
essi non avevano saputo o potuto prevedere e che alterano i loro piani. Questa è la molla
strutturale del racconto che moltiplica – teoricamente all’infinito – la serie delle esperienze
individuali e genera avventura, o anche, com’è caratteristico specialmente della tragedia e della
commedia, disavventura.
Per stare alla tragedia, possiamo aggiungere un paio di esempi che illustrino
l’improvviso mutamento, la peripe/teia, che si abbatte tragicamente sul protagonista. Nelle
Baccanti, Euripide mette in scena la dura opposizione di Penteo, re di Tebe, alla diffusione
nella città del culto di Dioniso. Nell’ultimo episodio, non rendendosi conto di essere ormai
totalmente in balìa del potere fascinatorio e illusionista del dio, Penteo si reca sul monte
Citerone, convinto di andare a smascherare e catturare le seguaci di Dioniso: in realtà, sta per
accadere esattamente il contrario ed egli sta andando a gettarsi da solo in una trappola mortale:
scovato, viene catturato e dilaniato dalle donne invasate, fra le quali è anche sua madre Agave,
che accecata dal delirio bacchico non lo ha riconosciuto. In un’altra tragedia di Euripide,
Medea, a lungo la protagonista appare in una posizione d’inferiorità e d’impotenza fattuale nei
confronti di Giasone, lo sposo che l’ha ripudiata per sposare la figlia del re di Corinto. Ma,
con una impressionante escalation di scelte tattiche spregiudicate, Medea recupera
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rapidamente terreno e nel finale, grazie alla potenza delle sue arti magiche, può ergersi come
vincitrice cruenta sul proprio avversario annichilito. Entrambe le tragedie euripidee, come
anche altre, si chiudono con un breve ma emblematico refrain intonato dal coro:
Molte sono le forme del divino,
molto di inaspettato compiono gli dèi.
Quanto ci si attende non si compie,
la via per l’inatteso il dio la trova.
Come sanno anche i non specialisti della civiltà greca, purché lettori almeno del Nome
della rosa di Umberto Eco, della Poetica aristotelica si è conservato un unico libro
concernente essenzialmente la tragedia, ma alcune testimonianze antiche hanno fatto supporre
che il filosofo avesse composto un secondo libro, dedicato alla commedia, la cui tradizione
manoscritta si sarebbe persa nel corso dei secoli. Seguendo questa irrisolta suggestione,
possiamo giocare a domandarci se Aristotele abbia (o avrebbe) applicato il concetto di
peripe/teia anche alle trame comiche. La mia risposta è ipoteticamente affermativa. Anzitutto,
perché il teatro comico si nutre istituzionalmente di moduli tragici rielaborati in chiave
parodica e grottescamente paradossale. Inoltre, la tecnica primaria del commediografo è lo
spiazzamento continuo dello spettatore con coups de théâtre, uscite umoristiche, caricature
fulminee, trovate estemporanee, capovolgimenti di fronte: un vero e proprio arsenale di microe macroperipezie, che mira a tenere “sulla corda” i personaggi in scena e, di conseguenza, in
divertita tensione gli spettatori sugli spalti.
Farò alcuni esempi di disavventura comica, tratti da drammi di Aristofane e di
Menandro. Nelle Nuvole aristofanee, un padre assillato dai debiti contratti dal figlio scioperato,
avendole provate tutte per raddrizzarlo, rinuncia ai metodi tradizionali e decide di affidare il
ragazzo ai costosi insegnamenti di un intellettuale di grido, un Socrate che assomiglia alla
caricatura dei coevi sofisti, maestri prezzolati di retorica e d’idee, molto più che alla figura
storica del filosofo Socrate. Nel finale, in effetti, il ragazzo ha appreso l’arte di piegare i
ragionamenti a proprio vantaggio e interesse, così da liberare il padre dai creditori; ma la
soluzione dei guai del vecchio si rivela un pericoloso boomerang, in quanto il giovane lo
malmena e per giunta gli dimostra a parole come ciò sia giusto e sacrosanto. All’esasperato
genitore non resta che dar fuoco al grottesco pensatoio di Socrate. Delle commedie note di
Menandro, nessuna è esente, nel finale, da almeno uno dei due espedienti analizzati da
Aristotele nella Poetica, il riconoscimento e il rovesciamento imprevisto della situazione o
peripezia. Ad esempio nel Dyskolos, “Lo scorbutico”, un vecchio burbero e misantropo che
non lesina male parole e dinieghi a chicchessia finisce per convertirsi a sentimenti più miti e
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socievoli, colpito profondamente dal disinteresse di due giovani che lo traggono in salvo dal
fondo di un pozzo in cui è accidentalmente precipitato. Analogamente, tutti gli altri drammi
conosciuti di Menandro si chiudono con provvidenziali riconoscimenti o ritrovamenti, che
giungono insperati a restituire identità dimenticate e fortuna sociale a personaggi contro i quali
la sorte pareva accanirsi, impedendo loro di coronare progetti e aspirazioni.
Le trame menandree, con il loro repertorio di neonati abbandonati, progetti d’amore e di nozze
osteggiati, conversioni d’animo, scomparse e rinvenimenti, riconoscimenti improvvisi, rovesci
del destino, ribaltamenti di stato e di condizione dei personaggi, preludono ai complicati e
fantasiosi intrecci del romanzo greco, un genere d’intrattenimento destinato alla lettura privata,
le cui più antiche attestazioni sembrano rimontare al II secolo a.C. e che può essere ritenuto,
almeno per certi versi, l’erede del poema epico e l’antenato del romanzo moderno. Più di
qualsiasi descrizione o definizione delle caratteristiche del genere, può valere riassumere il
contenuto di uno dei romanzi conservati, Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia.
Cherea e Calliroe, i due giovani più belli di Siracusa, mentre si dirigono al tempio di
Afrodite per partecipare alla festa cittadina della dea, s’incontrano per strada e s’innamorano.
Il padre della fanciulla è contrario alle nozze, ma deve cedere all’insistenza della popolazione,
commossa e partecipe della bella storia d’amore. La felicità coniugale della coppia è però
ostacolata da vecchi pretendenti di Calliroe, i quali, facendo leva sul carattere ingenuo e
impulsivo di Cherea, lo convincono dell’infedeltà della sposa: in un accesso d’ira, Cherea le
sferra un calcio, lasciandola priva di sensi. Calliroe viene creduta morta. Con una solenne
cerimonia funebre la giovane viene chiusa in un sepolcro pieno di inestimabili ricchezze. Il
ladro Terone penetra con la sua banda nella tomba e vi trova viva Calliroe: la rapisce e salpa
per Mileto, dove la vende a un notabile della città di nome Dionisio. Quando questi incontra la
ragazza, se ne innamora. Soltanto adesso Calliroe si rende conto di aspettare un figlio da
Cherea: per evitare al bambino un destino da schiavo, acconsente a sposare Dionisio. Intanto a
Siracusa Cherea scopre la verità e, messosi sulle traccia di Calliroe, giunge anch’egli a Mileto,
dove viene fatto prigioniero da Mitridate, satrapo della Caria. Anche Mitridate si è innamorato
di Calliroe e pensa di servirsi di Cherea per cercare di sottrarre la ragazza a Dionisio. Questi
intercetta una lettera inviata da Cherea a Calliroe e, interpretandola come un tranello di
Mitridate, chiede aiuto a Farnace, satrapo della Lidia e della Ionia e nemico di Mitridate.
Farnace a sua volta si rivolge al re dei Persiani Artaserse, il quale convoca tutti a Babilonia per
un processo. A complicare il dibattimento, interviene a sorpresa Cherea, che reclama per sé
Calliroe. Durante il processo, Artaserse, colpito dalla bellezza della ragazza contesa, tenta
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invano di sedurla. L’improvvisa ribellione degli Egizi e l’invasione della Siria costringono
però il re alla partenza insieme all’esercito e a un imponente seguito, di cui fanno parte anche
la bella Calliroe e Statira, regina dei Persiani. Dionisio si schiera al fianco del sovrano, mentre
Cherea raggiunge l’esercito egizio, grazie al suo eroismo viene nominato ammiraglio e in
occasione di una vittoria navale ritrova Calliroe. La vittoria finale, tuttavia, arride ai Persiani,
che reprimono la rivolta degli Egizi. Allora con l’astuzia Cherea e Calliroe riescono a fuggire
alla volta di Siracusa. Prima di partire, Calliroe lascia un messaggio a Dionisio, per affidargli
l’educazione del proprio figlio sino al compimento della maggiore età. Al loro ritorno a
Siracusa Cherea e Calliroe, da tutti ritenuti ormai morti, sono accolti con felice sorpresa e
portati in trionfo.
È di per sé evidente come, in intrecci talmente labirintici, la peripezia metta a frutto tutte
le sue potenzialità di motore dell’azione e moltiplicatore di avventura. Rispetto alla commedia
menandrea, vincolata di fatto all’unità di luogo e di tempo, la narrazione romanzesca si avvale
per giunta di una totale libertà spazio-temporale e, teoricamente, sull’onda della fantasia
letteraria la catena spiraliforme di eventi e colpi di scena potrebbe non avere mai fine. E infatti
lo spirito acutamente sarcastico e dissacrante di Luciano di Samosata, nel II secolo d.C., colse
questo aspetto d’inesauribilità per così dire intrinseca e offrì una gustosa parodia delle
convenzioni dei racconti d’avventura componendo un divertissement letterario la cui prima
provocazione sta nel titolo: la Storia vera, una manieristica carrellata di peripezie
rocambolesche e fantastiche, che una spassosa prefazione (§ 4) non esita a definire bugie:
Anch’io m’impegnai, per civetteria, a lasciare qualcosa di mio ai posteri, affinché non
rimanessi l’unico non partecipe di tale licenza favolistica; e visto che non avevo a
disposizione fatti veri da raccontare – perché purtroppo non m’era mai successo niente
d’interessante –, mi decisi a dire le bugie, ma bugie che si potessero riconoscere molto
meglio di quelle che dicono gli altri; perché, infatti, almeno su un punto dirò la verità, se
dichiaro che sto mentendo! Credo di poter evitare così le accuse che alcuni mi potranno
fare, se di mia iniziativa ammetto che non sto dicendo un’acca di verità. Scrivo, dunque, di
cose che non vidi, non mi capitarono, non seppi da nessuno, e che per di più non esistono
affatto, né a priori possono accadere. Chi si trovi a leggerle, non ci deve assolutamente
credere! (trad. di Massimo Vilardo).
Anche per questa via paradossale, riconosciamo da un lato le enormi risorse del genere
romanzesco e, dall’altro, intuiamo la fertilità del suo incontro con il preesistente filone
letterario d’avventura. Alla libertà degli eventi narrabili, già simbolicamente guadagnata alle
opere d’avventura dal mare infinito che fa da sfondo alla navigazione di Odisseo, si assomma
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ora la libertà della forma narrativa, il racconto perpetuo in prosa di peripezie fantasiosamente
concepite e concatenate. Temi avventurosi e forma romanzesca: un connubio che non si può
certo dire sia rimasto infecondo nei suoi due millenni di vita.
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