uno spazio di conflitti
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uno spazio di conflitti
Da Alessandro Vanoli, Le parole e il mare. Tre considerazioni sull’immaginario politico mediterraneo. Aragno Editore, Torino 2005. UNO SPAZIO DI CONFLITTI “Scontro di civiltà”. Idea tristemente fortunata che, sono sicuro, la maggior parte dei lettori ha ben presente e associa ormai a una serie di immagini drammaticamente eloquenti: quell’aereo che trapassa la torre del World Trade Center in una nuvola di fuoco; il volto sorridente di Bin Laden accucciato dietro una roccia in qualche punto dell’Afghanistan; le luci dei bombardamenti che illuminano la notte di Baghdad… Immagino, anche, che molti lettori sappiano che “scontro di civiltà” traduca l’inglese “Clash of Civilisations” e che esso sia, a sua volta, il titolo di un - forse troppo - fortunato studio di Samuel P. Huntington risalente alla metà degli anni Novanta1. La tesi centrale, detto un po’ rozzamente, era che il nuovo scenario geopolitico, dopo la caduta del blocco sovietico, andava sempre più verso un crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà che cominciavano a riorganizzarsi su basi ideologiche e religiose. Huntington ne elencava nove di queste “civiltà”: Occidentale, Latinoamericana, Africana, Islamica, Sinica, Indù, Ortodossa, Buddista e Giapponese. Si tratta di raggruppamenti piuttosto curiosi e sono in molti i detrattori che lo hanno ampiamente notato; ma al di là di qualsiasi legittima critica, rimane il fatto incontrovertibile della fortuna di un’idea, quella appunto di “scontro di civiltà”, magari falsa e basata su presupposti erronei, ma così forte da obbligare, da quel momento, a confrontarsi con essa. E non solo in Occidente, ma anche nello stesso mondo arabo, dove la grande quantità di dibattiti sull’idea di uno scontro di civiltà dopo l’11 settembre2, lascerebbe quasi pensare che quella di Hungtington, almeno, fosse una profezia che stava rischiando di autoavverarsi. In questo crescendo di toni, il Mediterraneo, per tanta retorica giornalistica e politica, gioca l’inevitabile ruolo del mare di mezzo, di mezzo a due civiltà in questo caso: frontiera e fatale luogo di scontro tra mondi in secolare lotta tra loro. Il problema – tra i tanti – è che più si avvicina lo sguardo meno semplice diventa l’intendersi su chi sia il nemico. Chi inneggia contro i musulmani dimentica che moltissime persone arabofone e abitanti in Medio Oriente non sono credenti; oppure sono cristiane; e in ogni caso anche quando professino l’islam hanno usi e convinzioni tra loro estremamente diverse e, normalmente, lontanissime dalla religiosità di un qualsiasi integralista. Dall’altra parte chi guarda agli occidentali chiamandoli, in senso spregiativo, cristiani, parla di un 1 S.P. Hunington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1997 (ed. ingl. New York 1996); la tesi centrale era già apparsa in un saggio intitolato Clash of Civilisations? e pubblicato nell’estate del 1993 dalla rivista «Foreign Affairs». 2 Si veda a tale proposito lo studio di R. Dolce, La percezione arabo-musulmana dello scontro di civiltà. L’opinione della stampa egiziana e la destrutturazione del pensiero «hungtintoniano-fallace» dopo l’11 settembre, in M. Emiliani (a cura di), L’idea di Occidente tra ‘800 e ‘900. Medio Oriente e Islam, Roma 2003, pp. 107-57. mondo che non esiste, considerando l’esplicita crisi religiosa delle nostre società europee e tenuto conto, soprattutto, che, al contrario loro, la nostra storia culturale e istituzionale ha prodotto un’esplicita separazione dei discorsi religioso, giuridico e politico3. Malgrado se ne parli anche troppo, insomma, maneggiare il problema del conflitto in uno spazio come il Mediterraneo è difficile tanto quanto parlare di pace; forse in questo caso, però, con un’aggravante: negli ultimi anni si è depositata una bibliografia impressionante per mole - un po’ meno, talvolta, per contenuti - sull’idea di guerra, di nemico e, più in generale, di “altro”. Pur essendo tra quelli che, in convegni, articoli e libri, hanno contribuito ad ampliare il numero di pagine sull’argomento, confesso, a prudente distanza di alcuni anni, più di una preoccupazione metodologica riguardo a questi temi. Detto in poche parole, non credo che gli attuali studi sulla semiotica e sulla semantica del discorso polemico siano sufficienti per consentire agli storici di capire realmente il funzionamento di rappresentazioni come quella del “nemico”. Mi preoccupa ancora di più l’idea di “altro”, estremamente suggestiva oltre che editorialmente di effetto, ma francamente troppo vaga per poter essere usata con tranquillità quando si voglia dare conto, sempre da storici, dei rapporti tra culture diverse nel loro dispiegarsi nel tempo. Sancita dunque la doverosa prudenza, definiamo un punto di vista da cui cominciare il discorso e proviamo a chiederci in cosa consista quell’attualissimo e tragico luogo comune che vede un nemico cristiano contrapposto a un nemico musulmano, se sia esso il frutto di una contemporanea ricostruzione di una distorta identità mediterranea o se piuttosto, come vogliono i partigiani del Mediterraneo spazio di conflitti, affondi le sue radici in un passato secolare. Il punto di vista scelto è quello di due termini sin troppo fortunati, Crociata e Riconquista, che, per quanto apparentemente medievali, acquistano il loro senso più profondo, come vedremo, nel nostro complicato presente. Anche in questo caso dovremo parlare di traduzioni; anche in questo caso dovremo tracciare una storia lunga di questi concetti, che permetta di dare conto dei mutamenti e dei passaggi da una cultura all’altra. Di alcuni musulmani all’ombra di un verziere Il re Marsilio si trova in Saragozza. E’ in un verziere andato, sotto l’ombra: sopra un pietrone di marmo blu si corica, gli stanno attorno più di ventimila uomini. Egli si volge ai suoi duchi e ai suoi conti: “Signori, udite che disgrazia ci è sopra. L’imperatore che tien la Francia dolce In questa terra è venuto a sconvolgerci. Io non ho esercito che battaglia gli muova, né ho tale gente che mandi in rotta i suoi. Or consigliatemi come saggi miei uomini, per farmi salvo da morte e da vergogna”. Nessun pagano risponde qui all’infuori Di Biancandrino del castel di Valfonda4 Il consiglio di Biancandrino è quello di non peggiorare la situazione: meglio dare a Carlo Magno quei doni che la situazioni richiede e farsi suoi vassalli, piuttosto che ritrovarsi a mal partito e perdere la Spagna. I lettori che conoscono la Chanson de Roland sanno che da questo momento le cose procederanno inesorabilmente sino al drammatico scontro nella gola pirenaica di Roncisvalle. E’ un invenzione, si sa, e non ce ne curiamo. Quello che conta per noi, in quest’opera del secolo XI, sono proprio i saraceni: vi è un re, Marsilio, seduto all’ombra di un verziere nella città di Saragoza, attorno a lui ventimila uomini e tutti i suoi conti e duchi. La prima cosa, scontata ma rilevante, che 3 Non sto ovviamente dicendo che nella storia islamica non si sia data una chiara separazione tra sfera politica e sfera religiosa: l’intera storia della teoria califfale è lì a dimostrarcelo. Quello di cui sto parlando è piuttosto il risultato istituzionale di quel complesso fenomeno che, nell’Europa moderna, ha determinato una profonda rielaborazione e specializzazione dei saperi. 4 La Chanson de Roland, ed. crit. C. Segre, Milano-Napoli 1971, II, 10-23 invito ad osservare è che l’anglonormanno in cui è scritta la canzone usa il termine reis per Marsilio oltre che dux e cuntes per gli altri5; termini cioè che designano figure istituzionali del mondo europeo dell’epoca. Inutile dire che si tratta dell’immagine speculare, neanche tanto negativa, della classe nobiliare francese: quei Saraceni in riunione sono, cioè, soggetti alle stesse consuetudini sociali e alle stesse logiche politiche6 dei Franchi, solo sono pagani, paien. Si è detto molto di questa raffigurazione dell’altro che nega ogni distanza, affermando una sostanziale uguaglianza dei due schieramenti: si può concordare sul fatto che vi sia in essa la necessità di rappresentare qualcosa che altrimenti rimarrebbe estraneo alla propria cultura7, a patto di non dimenticare che una simile rappresentazione non era, anche all’epoca, incompatibile con altri possibili modi di vedere la diversità: il musulmano poteva essere sì il nemico di cui si favoleggiava nelle feste di piazza, ma spesso – soprattutto in Spagna o in Sicilia - era anche e solo colui che si incontrava per strada e con cui si facevano affari. Partire dalla constatazione che lo schema è sempre più complicato di quanto si spererebbe è già una piccola conquista di metodo. In ogni caso, la Chanson de Roland avrebbe fatto scuola: nella successiva tradizione epica di lingua francese il tema della guerra contro i mori si sarebbe diffuso in innumerevoli varianti, ma i Saraceni del Couronnement de Louis o della Chanson de Guillaume sarebbero rimasti pressoché identici: un nemico indistinto, mosso dagli stessi valori che informavano l’ordine feudale 8, valori che, però, rimanevano celati dietro una generica etichetta di paganesimo o politeismo: un elemento funzionale nell’autorappresentazione sociale e politica che tali poemi mettevano in opera9. Volendo a questo punto rimanere nello spazio sospeso delle pagine letterarie, è noto che un gran divoratore di romanzi cavallereschi sarebbe stato, qualche secolo dopo, Don Chisciotte. La questione, si sa, è complicata: in Don Chisciotte la letteratura si confonde con la vita e il cavaliere della Mancha è intriso di letteratura: sa a memoria i romanzi cavallereschi, ne ha riempito la propria biblioteca sino a provare lui stesso a scriverne. Tutto questo non possiamo dimenticarlo quando ci accostiamo al romanzo anche solo per leggervi di mori e saraceni: Cervantes è sempre sottile nel giocare col lettore, confondendoci sino al punto di non riuscire più a distinguere chi sia l’autore e chi il personaggio. In ogni caso, giungano dai romanzi di cavalleria, da tristi vicissitudini personali (Cervantes a Lepanto aveva perso l’uso della mano sinistra e in Algeria aveva passato cinque anni in schiavitù) o da diffuse convinzioni popolari, le seguenti parole di Don Chisciotte, preso a riflettere sulle sue stesse avventure, suonano quantomeno rivelatrici: Eppur delle imprese degli scudieri non si è mai usato di fare menzione in iscritto, e quand'anche vi fosse una tale istoria, dovendosi riferirla ad errante cavaliere, dovrebbe essere per necessità eloquentissima, alta, insigne, magnifica, veritiera.» Lo consolavano un poco queste riflessioni, ma si trovava poi sconfortato pensando che n'era Moro l'autore, poiché aveva il nome di Cide, né dai Mori attender poteasi verità alcuna, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici. Temeva che non si fosse parlato degli amori suoi colla più rigorosa decenza, e che ne avesse quindi a ridondare pregiudizio ed oltraggio alla onestà della sua signora Dulcinea del Toboso; almeno bramava che fosse stata posta in chiaro lume la sua fedeltà e il decoro che aveale gelosamente serbato, sprezzando per tale suo idolo, regine, imperatrici e donzelle di ogni condizione, e infrenando gl'impulsi suoi naturali. In un mio precedente lavoro sull’idea spagnola di Riconquista mi soffermai per la prima volta su questa frase e sul disappunto di Don Chisciotte nei confronti di colui che avrebbe narrato le sue avventure: già quel nome, Cide Hamete Benengeli, tradiva evidentemente il suo essere moro; e dai mori, era risaputo, non ci si poteva attendere alcuna verità, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici 10. Una frase, niente di più, ma di una certa importanza. Il castigliano di Cervantes, usa tre termini molto espressivi: embelecador, falsario e quimerista. Il primo aggettivo richiama l’idea 5 II, 10-14: Li reis Marsilie esteit en sarraguce. / Alez en est en un verger suz l’umbre; / Sur un perrun de marbre bloi se culched, / Envirun lui plus de vint milië humes. / Il en apelet e ses dux e ses cuntes. 6 Id., III, 37-39, in cui il re saraceno spiega ai suoi che condotta tenere con Carlomagno: Vos le sivrez a feste seint Michel, / Si recevrez la lei de chrestiëns, / Serez ses hom par honur e par ben. 7 Lotman-Uspenskij, Tipologia della cultura, cit. pp. 54-55. 8 Cfr. J. Flori, Cavalieri e cavalleria nel medioevo, Torino 1999 (ed. fr. Paris 1998), p. 256. 9 La letteratura su questi argomenti è notoriamente vastissima, mi limito a rimandare alle considerazioni di A. Varvaro, Le letterature romanze del medioevo, Bologna 1985, p. 241. dell’ingannare per mezzo di artifici e false apparenze, falsario designa invece colui che non fa cose conformi alla verità, mentre il terzo, quimerista, attiene esplicitamente all’ambito, per così dire, più cervantesco del produrre finzioni, favolose e immaginarie. La falsità e la finzione dominano il romanzo, a cominciare dalla decisione di Cervantes di fingere che il suo libro altro non sia che una traduzione dall’arabo di una misteriosa Historia de don Quijote de la Mancha, escrita por Cide Hamete Benengeli e ritrovata fortunosamente a Toledo. In realtà l’idea della falsità del musulmano ha una storia antica e prima di tornare ai temi cavallereschi, occorrerà aprire su questo una parentesi. Inventare i Saraceni Il lettore particolarmente attento ricorderà forse il ruolo ricoperto da Isidoro da Siviglia nella definizione cristiana dell’idea di Mediterraneo, ricorderà anche che tale definizione si basava sulla separazione dei popoli così come narrata dalla Bibbia. Bene, la stirpe di Sem, quella che si era insediata in Asia, era costituita, secondo il racconto biblico, da ventisette popoli, uno di questi, gli Ismaeliti, era derivato da Ismaele, figlio di Abramo; e proprio tali Ismaeliti erano per Isidoro i Saraceni. Questa la sua argomentazione. Innanzi tutto registrava una convinzione diffusa: i Saraceni (Saracenos) si sarebbero chiamati così in quanto procedevano da Sara, allo stesso modo in cui gli Agareni erano così chiamati da Agar11. Poi continuava insinuando un serio dubbio su tale etimologia, in quanto non sarebbe stata altro che una pretesa di codesti Saraceni quella di discendere da Sara, e aggiungeva che secondo i gentili il loro nome sarebbe derivato invece dal fatto di essere originari della Siria12. Isidoro inoltre distingueva tra Saraceni e Arabi: anzi, questi ultimi erano per lui di stirpe camitica. Gli Arabi, infatti non erano altro che i Sabei (Sabaei), discendenti di Saba, ma noti anche come Arabi (Arabes), l’unico popolo, stando almeno a Virgilio, che coltivava l’incenso13. Nell’affermare queste cose, Isidoro, si ricollegava consapevolmente a un’antica tradizione e aggiungeva un po’ del suo: notizie degli Arabi circolavano da secoli, perlomeno da quando Erodoto vi si era lungamente diffuso, parlando della loro penisola come dell’ultima delle terre meridionali abitate e l’unica a produrre l’incenso14. Ma, al di là dei greci, c’era pur sempre la Bibbia. Nell’Antico Testamento gli Arabi facevano la loro comparsa solo alcune volte e sempre in rapidi cenni15; così pure nel Nuovo Testamento, in cui comparivano solo una volta, ricordati tra coloro che avevano udito gli apostoli nella Pentecoste16. Per Gerolamo, che avrebbe ripreso il passo neotestamentario nel suo commento a Isaia17, il termine Arabes era da tradursi come “collocati in basso” (humiles) o “abitanti della pianura” (campestres)18, ricollegandosi, evidentemente, all’ebraico ‘arabah, con cui si designa la steppa o una zona desertica. Anche il termine latino Saracenos era un calco dal greco, ma molto più recente19: i Sarakenoí (sing. Sarakenós) erano stati citati da Tolomeo e, in generale, erano noti alla tarda letteratura ellenistica. 10 M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, II, 3: “Pero desconsolóle pensar que su autor era moro, según aquel nombre de Cide; y de los moros no se podía esperar verdad alguna, porque todos son embelecadores, falsarios y quimeristas.” 11 Etimologie, IX, 2, 6. 12 Id., IX, 2, 57. 13 Etimologie, IX, 2, 14; il riferimento di Isidoro è alle Georgiche 2,117. 14 Storie, III, 107. 15 Nel secondo libro delle cronache sono enumerati tra coloro che portavano tributi a Giosafat (2 Cr 17,11). Nel libro di Nehemia sono tra quelli che si adirano per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme (Ne 4,7). Infine, nel secondo libro dei Maccabei si accenna a cinquemila arabi con cinquecento cavalieri che attaccano Giuda (2 Mac 12,10). 16 At, 2,11. 17 Commentarii in Isaiam, in SL 73, ed. M. Adraen, 1963, IV, 11,11. 18 Liber interpretationis hebraicorum nominum, in SL 72, ed. P. de Lagarde, Turnholt 1959, 66. 19 E’ stato spesso ripetuto, pur senza una valida base documentaria, che tale termine potesse essere stato, a sua volta, desunto dall’arabo sharkî, cioè “orientale”. Dato il periodo di diffusione del termine in ambito occidentale, tale ipotesi mi sembra da prendere, almeno, con molta prudenza. La Bibbia non ne faceva menzione e anche la letteratura cristiana faticava non poco a collocare tale popolazione in uno spazio pensabile: Arnobio, apologeta latino tra il III e il IV secolo, li voleva in quella vasta parte d’oriente che si estendeva dal deserto della Palestina sino alle terre dei Persiani20; Agostino invece riteneva si trattasse dei Madianiti - popolazione nomade che l’Antico Testamento inseriva tra i “figli dell’oriente”21 - e ricordava che tale popolazione fosse solo ora (nunc) chiamata Saraceni. Pur non volendo esagerare il valore di quel nunc, Agostino sembrava indicare che il termine fosse entrato in uso di recente, o almeno che lui non lo reperiva in fonti più antiche. Le stesse cose disse pure Gerolamo: anche per lui non doveva essere molto che i Saraceni avessero preteso di chiamarsi così; prima, continuava, erano stati Madianei, Ismaeliti, Agareni22.Fu insomma tra i secoli IV e V che il termine Saracenos dovette fare la sua introduzione nel vocabolario latino. Su cosa significò davvero quel nome, non ne sappiamo, in fondo, molto di più dei padri della chiesa. Sin qui, comunque, siamo ancora evidentemente lontani da ogni esplicito accento negativo che non rientrasse nella consueta percezione cristiana dei popoli “altri” e nei problemi da essi suscitati per collocarli all’interno del progetto della divina provvidenza. D'altronde non poteva essere altrimenti: solo l’irruzione dell’Islam nella storia avrebbe obbligato a mutare radicalmente tale percezione. E agli inizi del secolo VIII, i Saraceni giunsero in Europa. In Spagna le prime cronache latine a darcene notizia sono la cosiddetta Bizantino-araba, redatta nell’anno 741 e la Mozarabica, così chiamata perché scritta presumibilmente da un mozarabo23 di Cordova nel 754. In esse ritroviamo il termine generico Sarracenos e, con meno frequenza, Hismalitas. Ma ciò che più conta sono le caratteristiche di questi popoli: si sottolinea con forza, infatti, che la vittoria musulmana in Spagna sia, da una parte frutto dell’inganno (arte fraude virtute)24, e dall’altra segnata dalla loro crudeltà; il governo dei musulmani viene descritto a volte come crudelis e terribilis; ed è alla crudeltà musulmana che si devono le sofferenze senza precedenti che la Spagna ha dovuto soffrire25. Nel resto dell’Europa si narrarono cose più o meno simili26. Un anonimo cronista borgognone ricordò circa nello stesso periodo come «i Saraceni, secondo il loro costume, avanzarono devastando senza posa le province dell’impero»27. Negli anni Trenta del secolo VIII il Venerabile Beda, monaco anglossassone, tirava invece un sospiro di sollievo, riassumendo gli ultimi avvenimenti: In quel tempo una gravissima invasione di Saraceni ha miseramente devastato le Gallie, ma poco dopo, in quella stessa regione, essi hanno pagato giusta pena delle loro perfidie28. 20 Commentarii in Psalmos, in SL 25, ed. K.D. Daur, Turnholt 1990, Sal. 119, 7. Quando Abramo espulse i rivali di Isacco “nella regione d'oriente”, Madian fu incluso tra questi (Gen 25,6). Per questo i Madianiti erano compresi tra i “popoli dell'oriente” (Orientale populi; Gdc 6,3.33; 7,12), una generale designazione per gli abitanti nomadi del deserto siriano e arabo. 22 Commentarii in Ezechielem, in SL 73, ed. F. Glorie, 1964, VIII, 25,76: “Madianeos, Ismaelitas et Agarenos, qui nunc Saraceni appellantur, assumente sibi falso nomen Sarae quo scilicet de ingenua et domina videantur esse generati”. 23 Dall’arabo musta‘rib: nome dato ai cristiani spagnoli che vivevano sottomessi ai musulmani in al-Andalus. 24 Continuatio Byzantia Arabica a. DCCXLI et Continuatio Hispana a. DCCLIV, in M.G.H. Auctores Antiquissimi, ed. Th. Mommsen, Berlin 1894, XI, p. 337, 9. 25 Id., p. 353, 72. 26 Su questo e quanto segue si veda la sintesi di M. Rodinson, Il fascino dell’Islam Bari 1988 (ed. fr.Paris 1980). 27 Chronique dite de Frédégaire, IV, 66, ed. J.-M. Wallace-Hadrill, London 1960, p. 53. 28 Historia ecclesiastica gentis Anglorum, V, 23, ed. B. Col grave-R.A.B. Mynors, Oxford 1969, pp. 556. Il problema cronologico che si cela dietro questa citazione è tutt’altro che semplice. Se, come hanno supposto molti commentatori, si allude alla vittoria riportata a Tours da Carlo Martello, questa avvenne forse nel 732, un anno dopo, cioè, che Beda ebbe terminato la sua Storia. Si tratterebbe in questo caso dell’interpolazione posteriore operata da un copista o di una revisione successiva dell’autore. 21 E via di seguito. Allo stesso modo si sarebbero espressi più tardi gli Annali Carolingi 29 e in termini molto simili si sarebbe narrato, un secolo dopo, delle scorribande di Saraceni in Italia meridionale: popolo efferato capace di distruggere ogni cosa al suo passaggio, null’altro lasciando che sterpi e rovi30, ma capace, anche qui, di vincere e conquistare solo con l’inganno. Così, ad esempio, sarebbe avvenuto nell’anno 847, quando questi invasori “delinquenti” e “iniqui”, presero la città di Bari, manco a dirlo, con la frode31. Crudeli e falsi. Non si tratta di epiteti dovuti a una qualche convinzione sulla loro fede: a quel tempo le idee religiose sull’islam sono ancora a dir poco vaghe. Non si tratta neppure di una qualche improbabile e anacronistica “obbiettività” dei cronachisti. In un mio precedente lavoro 32 ho dimostrato che, nel caso spagnolo, la crudelitas musulmana è rappresentata come un esplicito strumento di Dio. L’idea della Spagna perduta rimanda visibilmente al paradiso e al tema biblico della caduta; le cronache non parlano infatti di nemici ma di punizione divina: la crudelitas mostrata dai musulmani è strumento di Dio. Il riferimento, più o meno esplicito, di tale immagine letteraria è ancora la Bibbia, dove molto spesso la crudelitas - elemento positivo del rapporto punizione-colpa inserito nello schema del patto tra Dio e Israele - è attributo divino33. Un discorso analogo può essere fatto per il problema della falsità. Uno dei possibili punti di partenza è sicuramente l’opera di Giovanni Damasceno (m. 749), un cristiano che visse, come ricorda il nome stesso, a Damasco lavorando come funzionario dei califfi Omayyadi. A lui dobbiamo uno tra i primi trattati compilati da un cristiano sull’islam. Il punto di vista da lui espresso sulla nuova religione è chiaro sin dall’inizio, specie considerando che la sua è un’opera sulle eresie: i musulmani sarebbero stati, di fatto, un eresia del cristianesimo. E non era una risposta al nuovo problema suscitato dall’espansione islamica, quanto piuttosto l’abitudine antica ereditata dall’ermeneutica cristiana consolidata dai Padri della chiesa: ormai da secoli ogni elemento esterno all’ortodossia era ormai interpretato come un’eresia del cristianesimo. Ecco, allora, la menzogna, la falsità: elemento fondamentale dell’eresia, aspetto che, più di ogni altro, ne fissa i tratti rispetto alla vera fede. Già da secoli il punto era chiaro; lo aveva spiegato, tra gli altri, Eusebio di Cesarea nella sua celeberrima Storia ecclesiastica: quando le chiese avevano preso a fiorire su tutta la terra, il demonio (daímon), nemico del bene e notoriamente ostile alla verità, si era volto contro di esse, servendosi per questo di uomini malvagi e incantatori (góesin), ed escogitando ogni mezzo affinché maghi e ciarlatani si potessero nascondere all’interno della dottrina cattolica, facendo così precipitare i fedeli nel baratro della perdizione34. Eusebio si riferiva all’eresia gnostica, ma nelle sue parole erano ormai presenti tutti gli elementi che avrebbero caratterizzato le successive interpretazioni cristiane35: l’eresia si collocava, così, su quella linea diretta che legava il diabolico odio della verità all’impostura di coloro che si celavano all’interno dell’ortodossia. Per secoli, sino al pieno dell’età moderna, i musulmani sarebbero stati riletti, più o meno consapevolmente, attraverso queste antiche tracce: riconducendoli, lungo precise filiere testuali, alla 29 Annales regni Francorum, ed. F. Kurze, Hannover 1895, pp. 94 ss: relativamente all’anno 793 si registra che “due gravi prove (duo valde displicentia) vennero da due diversi territori”; si trattava dell’invasione dei Sassoni e dell’incursione dei Saraceni in Settimania. 30 Così, ad esempio, nella Historia Langobardorum Beneventanorum di Erchemperto, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878, capp. 35, 51; su questo si veda L.A. Berto, I musulmani nelle cronache altomedievali dell’Italia meridionale (secoli IX-X), in M. Meschini (a cura di), Mediterraneo medievale. Cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oltremare, Milano 2001, pp. 3-28. 31 Cfr. Cronica Sancti Benedicti Casinensis, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878, cap. 5: “In tempesta videlicet noctis hora more solito nominatam rapuerunt civitatem”. 32 Vanoli, Alle origini della Riconquista, cit., pp. 281-83. 33 Così, ad esempio, Isaia (Is 13,9) annuncia la venuta del giorno del Signore, crudele (crudelis nella versione latina di Gerolamo) e pieno di indignazione, il giorno in cui si farà della terra un deserto e verranno sterminati i peccatori. 34 Historia Ecclesiastica, IV, 7,1-2, in SC 31, ed. G. Bardy, 1952, p. 166. 35 Cfr. su questo G. Filoramo, Tra eresia e ortodossia, in G. Filoramo - D. Menozzi (cur.), Storia del cristianesimo, Bari 1997, I, pp. 181-85. loro natura più evidentemente demoniaca: l’eresia era il nodo che legava i musulmani alla storia sacra, proiettandoli sin nello spazio della lotta finale tra luce e tenebre, tra Israele e l’Anticristo, così come aveva narrato il libro di Daniele, così come mostrava l’Apocalisse. Crudeli e falsi, dunque: il cristianesimo aveva inventato i Saraceni. Conquistare e ri-popolare Ci si sbaglierebbe di molto se da quanto ora detto si deducesse che furono tali idee sui musulmani a determinare la risposta cristiana nella Penisola iberica o le crociate. Semmai il contrario: quello che accadde nel Mediterraneo medievale trovò una sua giustificazione teorica in convinzioni ormai consolidate. La cosa è complessa e dovrò dilungarmi un poco. Cominciamo dalla Spagna e dalla sua Reconquista, con una premessa necessaria: di questo termine, con cui oggi si indica il secolare scontro tra cristiani e musulmani avvenuto nella Penisola iberica, non c’è traccia nelle fonti medievali. Che la guerra ci fu, non è però in discussione; e neppure si può dubitare che nella Penisola iberica di quei secoli proprio la guerra tra cristiani e musulmani assunse un valore particolare, capace di distinguerla da ogni altro tipo di conflitto. Per una parola che non c’è, possiamo però assistere alla nascita e allo sviluppo di pratiche e convinzioni che la giustificheranno a posteriori. E’ questa storia che dobbiamo seguire36. Dal mondo latino, la Spagna visigota aveva ereditato un solo termine per definire la guerra nel suo senso più generico: bellum. All’alba del secolo VII ancora il nostro Isidoro da Siviglia aveva riassunto il problema in questi termini37: vi sono quattro generi di guerra (bellum), giusta, ingiusta, civile (civile) e più che civile (plus quam civile)38. Per semplificare, la distinzione è tra la guerra combattuta secondo la ragione fissata dalla legge e le guerre che sovvertono, invece, l’ordine sociale (le guerre generate dal furore o le guerre civili). In questo senso acquista un significato ancora più chiaro l’etimologia di bellum proposta da Isidoro, secondo cui il termine deriverebbe da duellum; indicando, così, ancor più chiaramente la netta contrapposizione tra due parti dello scontro39. Questa serie di immagini isidoriane, è noto, aveva già un antico passato, essendo giunta al vescovo di Siviglia attraverso una lunga catena che rimontava, tra gli altri, ad Agostino di Ippona e Cicerone, ma era destinata anche a una notevole fortuna. Per restare alla Penisola iberica, si può dire che tale percezione della guerra si diffuse almeno attraverso due vie. Da una parte la tradizione religiosa, connessa alla diffusione dei grandi centri monastici del settentrione, come San Millán e San Martín de Dumio. Attraverso tale tradizione, molte delle idee legate alla guerra sarebbero confluite nel linguaggio della pratica monastica e dell’attività intellettuale, stimolate da opere quali, fra tutte, il famoso Commento all’Apocalisse di Beato di Liébana, uno dei testi più copiati e diffusi di tutto il medioevo spagnolo. Dall’altra parte, l’idea di bellum trovò una fondamentale cassa di risonanza nella politica dei re asturiani, posti a capo dei primo nucleo cristiano in grado di opporsi, anche militarmente, al potere musulmano. A cominciare almeno dalla fine del secolo IX prese a confluire in questa idea di guerra una serie di elementi politici complessi e già maturi; lo vediamo, ad esempio, nel coevo ciclo cronachistico di Alfonso III. In primo luogo, i nuovi re cristiani affermavano una chiara continuità con la monarchia visigota, e più giù, per questa via, sino all’impero romano (e tale pretesa era ribadita tanto dalla produzione storiografica quanto dal consapevole uso politico della lingua e della cultura latine). In secondo luogo si scorgeva una prima equivalenza tra bellum e la guerra combattuta contro i musulmani. Uno degli elementi che aveva consentito che questo insieme ideologico, solo apparentemente confuso, si fosse coagulato in senso 36 Le considerazioni che seguono fanno sostanzialmente riferimento al primo capitolo del mio Alle origini della Reconquista, ad esso rimando per i necessari approfondimenti e per la bibliografia. 37 La letteratura concernente gli antecedenti isidoriani che fondano il problema del bellum justum è estremamente vasta. Si faccia riferimento all’opera, superata ma ancora classica, di C. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankens, Stuttgart, 1935; cfr. anche R.A Markus, Saint Augustine’s View on the Just War, in Studies in Church History, 20 (1983), pp. 1-13; e F.H. Russel, Love and Hate in Medieval Warfare: the Contribution of St. Augustin, in Nothingham medieval studies, 31 (1987), pp. 108-124. 38 Etimologie, XVIII,1,2-4. 39 Etimologie, XVIII,1,8-9. anti-musulmano, era stato probabilmente l’aspetto dell’esplicita rivendicazione territoriale formulata da parte cristiana. E’ questo, infatti, uno degli elementi che segna con maggiore chiarezza la profonda distanza con il mondo musulmano. Il monarca cristiano, sempre secondo Isidoro, era definito a partire dall’unità del possesso territoriale; al contrario, per i musulmani, era il lignaggio e l’appartenenza a un gruppo definito, piuttosto che la terra, ciò che concretamente definiva il luogo di residenza. Per chiarirci: se per i cristiani la Spagna sarebbe stata sempre tutta la Penisola iberica, per i musulmani al-Andalus fu solo quel luogo della Penisola iberica dove prevalse, in un particolare momento, la legge dell’Islam, indipendentemente da ogni modificazione dei confini geografici. Tornando al regno cristiano, è difficile dire quando si formò questa coscienza di un’unità politica, culturale e territoriale. A mio parere, tutto quello che possiamo affermare è solo che ci troviamo di fronte a un processo lento, i cui primi esiti cominciano ad apparire dalla fine del secolo IX; un processo che raggiungerà il suo completo sviluppo solo tra i secoli XI e XII, quando, per intenderci, la fine del califfato (1031) e la conseguente guerra civile lascerà un vuoto di potere che permetterà ai cristiani di aumentare il controllo sul territorio. E’ a partire solo da questo periodo – ed evidentemente non si tratta di un caso – che cominciamo a disporre di un numero maggiore di documenti. Già a partire dal secolo XI è attraverso le fonti diplomatiche, soprattutto le leggi municipali (i fueros), che veniamo a conoscenza della diffusione di un linguaggio politico ormai consapevole. Così, ad esempio, nel Fuero della città di León (circa 1020), troviamo l’esplicito discorso di re Veremudo, in cui al tema della depopulatio, lo spopolamento, causata dai Saraceni, viene contrapposta la necessità di una re-populatio del territorio40. Si tratta di due termini chiave per comprendere l’idea di guerra così come fu percepita da parte cristiana. Il termine latino populatio, traduce, infatti, una complessa pratica di appropriazione territoriale attraverso il suo controllo amministrativo. Il fatto che questa pratica si leghi sempre più strettamente all’idea di guerra contro i Saraceni pare il segno evidente di un’ulteriore elaborazione del problema politico. Poi arriveranno nuove parole, giunte dalla lingua volgare e utilizzate per designare tipi di conflitto più specifici. Proprio nel fuero di León fa una delle sue prime apparizioni il termine guerra, ma già nel secolo precedente, le fonti diplomatiche parlavano di fonsado o anubda: brevi razzie, turni di difesa attorno alle mura cittadine; tutte cose che avevano poco a che vedere con la religione e molto di più con l’economia; specchio di una pratica quotidiana del conflitto, lontana dalle idealizzazioni teologiche o politiche della guerra. E in tali attività, per così dire, più modeste, i destini finirono spesso per confondersi: un esempio sin troppo noto è quello di Rodrigo Díaz,, più conosciuto come il Cid (tra l’altro, un adattamento castigliano dell’arabo sayîd, ‘signore’), il quale, vissuto in quel periodo che vide lo sgretolamento del califfato in numerosi piccoli stati, poté prestare i propri servigi tanto al re Alfonso VI, quanto al sovrano – musulmano - di Siviglia. L’impressione è, insomma, che occorra distinguere i piani: vi sono tracce, nelle fonti diplomatiche, ma anche in numerose cronache, di una situazione complessa in cui contano sempre di più le sfumature. Erano passati secoli dal loro arrivo e, ormai i musulmani non erano solo al di là di una più o meno ipotetica frontiera: ce lo raccontano le sempre più diffuse tracce linguistiche dell’influsso arabo nelle nascenti parlate iberiche; le descrizioni, stralciate dalle cronache, di cristiani dai tratti e dai nomi “esotici”; ce parlano le vite, in qualche modo “esemplari” di personaggi come Rodrigo Díaz, che solo in un luogo dalle identità così complesse avrebbe potuto passare alla storia come il Cid campeador. Poi vi è un altro piano, quello, semplificando un po’, dell’ufficialità, della retorica politica oltre che dei discorsi giuridici e religiosi. E’ lì che vediamo sedimentarsi l’idea della lotta contro i musulmani, prima come necessità istituzionale, poi sempre più chiaramente, come destino, 40 Fuero de León, ed. L. Vázquez de Parga, in «Anuario de Historia del Derecho Españól», XV (1944), pp. 464-98, XX, 65-66: “Costituimus adhuc ut Legionensis civitas, quae depopulata fuit a Sarracenis in diebus patris mei Veremudi Regis, repopuletur per hos foros subscriptos, et numquam violentur isti fori in perpetuum. Mandamus igitur ut nullus junior, cuparius, alvendarius, adveniens Legionem ad morandum, non inde abstrahatur” definizione stessa della natura spagnola. A questo processo avrebbe contribuito in maniera determinante un elemento esterno, in un certo senso, alla storia spagnola. Nel 1213, l’anno successivo all’importante vittoria cristiana di Las Navas de Tolosa, veniva emanata la bolla Quia maior, che sistemava in un insieme politicamente coerente (ripreso poi, due anni dopo, dal IV Concilio Lateranense), i temi che si erano venuti sedimentando già dalla prima crociata: l’offerta di salvezza intesa come “antico disegno di Gesù Cristo”, la carità per i cristiani oppressi, la regolamentazione delle indulgenze per coloro che partivano. Lentamente, spinta tanto dai canali diplomatici ecclesiastici quanto dalle poesie dei trovadori, una nuova idea era giunta in Spagna, legandosi strettamente a quanto si era già sviluppato autonomamente: l’idea del musulmano come nemico della cristianità. Ma se esterna era la teoria, profondamente interna fu l’identità sociale e politica che su tale teoria si fondò. Ci voleva un santo per unificare forze di una cristianità iberica ancora sulla difensiva. La Spagna lo trovò tra i monti della Galizia, a Compostela, dove si diceva fosse conservato il sepolcro dell’apostolo Giacomo, quello che il Nuovo testamento diceva essere fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo41. Santiago, secondo la pronuncia spagnola, divenne sempre più il simbolo dell’unità cristiana iberica contro il potere politico e militare dei musulmani. Il tutto fu inserito all’interno di una ormai consolidata storia sacra, con la cristianità iberica come nuova Israele, soggetta allo stesso rapporto punizione-colpa sancito dall’Antico Testamento, e dove Santiago giocava sempre di più il ruolo di guida: è lui il centro dei pellegrinaggi iberici ed è lui che, per questo, lega la Spagna all’Europa; è a lui che si prega prima di una battaglia; è lui che, nell’immaginario dei combattenti, guida lo stesso assalto. Lo videro in tanti, in quei secoli, sui campi di battaglia, armato di spada, al galoppo di un destriero bianco. Così lo descrissero le cronache, come quella voluta e coordinata da Alfonso X el Sabio alla fine del secolo XIII, la Primera Crónica General de España: una battaglia famosa, quella di Clavijo, e l’apparizione di Santiago, accato al re Ramiro I, che giunge alla testa di una schiera angelica, montando un cavallo bianco e brandendo una spada scintillante. E’ questa immagine ingenua che che giungerà sino ai giorni nostri, ossessivamente ripetuta nelle chiese che costeggiano i Pirenei e la cordigliera cantabrica, cristallizzata in una sorta di perfezione iconografica già dal periodo barocco42. Dalla metà del medioevo, dunque, Santiago divenne la guida di un esercito la cui identità cristiana era sempre più politicamente connotata. Dall’altra parte c’era Satana a dare manforte ai musulmani43, un nemico che nel suo volto inevitabilmente nero ricostruiva, attraverso quel marchio diabolico, la lunga catena che legava i mori alla falsità dell’eresia. La Reconquista, parola che ancora non esisteva, aveva trovato la sua teoria e la sua storia. Andare oltremare Il 14 ottobre dell’anno 1100, papa Pasquale II si trovava a Melfi; circa un mese prima una crociata di Lombardi era partita alla volta del Santo Sepolcro guidata dall’arcivescovo di Milano, Anselmo di Buis: la notizia della presa di Gerusalemme si era ormai ampiamente diffusa in Occidente e contribuiva ad alimentare, da molte parti, il desiderio di raggiungere l’Oriente. Queste voci dovevano essere piuttosto diffuse anche in Spagna, se è vero che il papa, quel giorno, aveva ritenuto opportuno inviare al re di Castiglia, Alfonso VI (1072-1109), una lettera in cui proibiva esplicitamente ai soldati spagnoli di recarsi in Terra Santa: le avversità che il suo pur florido regno doveva subire, diceva, erano tali da rendere ben più necessaria la presenza di quelle forze alle 41 Su questo e quanto segue la bibliografia è ovviamente immensa. Per maggiori riferimenti mi permetto di rimandare al mio Il territorio sacro. La nascita del cammino di Santiago, in A. Vanoli, Politica, conflitti e comunicazione nella storia del mondo islamico, Firenze 2005, pp. 38-59. 42 Cfr. G. Sicart, La iconografia de Santiago ecuestre en la Edad Media, in «Compostellanum» 27, pp. 11-32; J. Fernandez Arenas, Los Caminos de Santiago: historia, arte y leyendas, Barcelona 1993; di grande importanza, inoltre, la raccolta di studi presentati in occasione della 20ª Semana de Estudios Medievales: El Camino de Santiago y la articulación del espacio hispánico, Estella 1993. 43 Primera Crónica general de España, ed. R. Menéndez Pidal, 2 voll., Madrid 1955, pp. 698, 700, 807, 956, 1016, 1018. frontiere meridionali44. Indipendentemente dall’effettivo impatto di tale appello45, il segnale era evidente: vi era una diretta analogia tra la crociata che aveva condotto alla presa di Gerusalemme e lo sforzo militare che la Spagna cristiana affrontava contro i Saraceni. Le ricompense spirituali per coloro che partecipano alla guerra nella Penisola iberica erano analoghe a quelle promesse ai crociati d’oltremare; un aspetto, questo, che già Gregorio VII nel 1073, il suo primo anno di pontificato, aveva ribadito con forza, fondandolo su un’affermazione gravida di conseguenze: il territorio della Penisola iberica apparteneva di diritto a San Pietro46. E’ singolare - ma non si tratta certo di un caso – che in questa serie di parallelismi, anche i nomi stessi finiscano col condividere la stessa sorte: Reconquista, si diceva poco fa, è una parola che non esiste per coloro che la vivono, e che solo molti secoli dopo, come vedremo, verrà coniata per definire una cosa di cui ormai si fraintende il senso e la portata. Forse non tutti sanno che un analogo destino è in parte condiviso anche dal termine “Crociata”. Per lungo tempo l’andare, come si diceva, “oltremare”, sulle coste del Mediterraneo orientale, si definì variamente come peregrinatio, iter, expeditio, passagium, voiage, a cui magari si aggiungeva un epiteto di santità o la destinazione geografica, tanto per essere chiari47. Chi lo compiva fu usualmente identificato come pellegrino, peregrinus dunque, ma anche, seppur non con la frequenza che si potrebbe supporre, crucesignatus48. E proprio quest’ultimo termine, malgrado l’assenza di un vocabolario uniforme, tradiva l’importanza crescente dell’immagine della croce in tale contesto: la sua adozione liturgica, il culto della croce così come il suo simbolismo mistico, sono elementi che appaiono dovunque, nei sermoni crociati così come nelle varie esortazioni ecclesiastiche. Insomma, la crociata, nata come pellegrinaggio penitenziale si stava sviluppando come guerra privilegiata49. Il termine cruciata fece la sua apparizione più avanti, non sappiamo di preciso dove, e forse fu una trascrizione latina di un termine che già circolava in qualche lingua volgare50. Nel XV secolo lo usavano parecchi accademici e cronisti, anche se, a quanto pare, con significato pecuniario: per molto tempo, cioè, indicò il denaro raccolto per la spedizione. Ancora gli inizi dell’età moderna, anzi, la cosa era chiarissima: nelle parole di papa Leone X o dell’imperatore Massimiliano, il termine era esplicitamente sinonimo di denaro raccolto per una crociata attraverso la vendita di indulgenze51. Ancora oggi molti problemi concernenti lo sviluppo dell’idea di crociata rimangono aperti, facendo la fortuna di un’intera branca degli studi di storia medievale52; non intendo approfondire ulteriormente. Al lettore mi permetto solo di rammentare un elemento che, dal nostro punto di vista, riveste un’importanza fondamentale: in un mondo europeo e mediterraneo che stava profondamente mutando, definendo la propria identità politica nell’universalità cristiana simboleggiata dalle potenze dell’impero e del papato, la “santità” di tali guerre non fu tale perché il nemico era infedele. Piuttosto il contrario: la santità si legò strettamente al fatto di essere predicata e legittimata dal papa, con l’intenzione di difendere gli interessi della Santa Sede53. 44 La lettera è consevata in Historia Compostellana, I, 9,4. Su questo si veda B. F. Reilly, The Kingdom of León-Castilla Under King Alfonso VI, cit., pp. 300-1. 46 Registrum, I, 7, ed. E. Caspar, in M.G.H. Epistolae selectae II, Berlin 1967, t. I, pp. 11-12. 47 Su questo e quanto segue rimando a Ch. Tyerman, L’invenzione delle crociate, Torino 2000 (ed. ingl. Oxford 1998), pp. 82-92) 48 Tale termine "tecnico" venne in auge nei testi latini solo dopo la terza crociata. 49 Faccio mia un’affermazione di F. Cardini, La crociata mito politico, in Id., Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma 1993, p. 183. 50 Si veda ad esempio, D. du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Paris 1844, III, p. 629; inoltre Tyerman, L’invenzione delle crociate, cit. p. 90. 51 Cfr. M.J. Heath, Crusading Commonplaces: La Noue, Lucigne and Rethoric, Geneva 1985, p. 79. 52 Di fronte a una bibliografia quasi sterminata, mi limito a segnalare i lavori che ho avuto più presenti nella stesura di queste pagine. C Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankes, cit.; P. Alphandéry-A. Dupront, La cristianità e l'idea di crociata, Bologna 1974.(ed. fr. Paris 1954); J.S.C. Riley-Smith, The First Crusader and the Idea of Crusading, London 1986. 53 La cosa è risaputa, qui rimando solo alle importanti osservazioni di J. Flori, L’église et la guerre sainte. De la «paix de Dieu» a la «croisade», in «Annales ESC», (1992), pp. 453-66, in particolare p. 458 ; inoltre Id., Guerre sainte, jihad, croisade, Paris 2002, pp. 249-50; si veda anche F. Cardini, La guerra santa, in "Militia Christi" e crociata nei secoli 45 Di fronte alla costruzione di un’idea di cristianità di tale portata, veicolo di una forte identità politica e religiosa, non dovrebbe stupire più di tanto che i termini con cui si guarda al nemico siano più o meno gli stessi. Nelle cronache di crociata di Foucher di Chartres, Raymond d’Aguilers o Guglielmo di Tiro, ritroviamo terminologie e stereotipi già noti: i musulmani saranno definiti infedeles, pagani, gentiles, di loro si dirà che sono gens incredula, filii falsitatis o canes immundi, in esplicita antitesi con i cristiani, christi milites e populus laudabilis54. Che i termini siano analoghi non può certo stupire: basterebbe la comune matrice patristica a spiegarlo: da una parte all’altra del Mediterraneo, sulle coste della Siria come in Spagna, si diffonde e si consolida un’idea unitaria: in un momento di forte ridefinizione del proprio ruolo politico e istituzionale la Chiesa partecipa, inevitabilmente, a una radicale costruzione dell’identità di chi cristiano non è. Ad essere in gioco, nelle tante crociate predicate in quegli anni, non sono solo i territori di San Pietro, ma la definizione, davanti a una diversità esplicitata, della propria identitas, della propria comune natura cristiana. Eccoci così tornati alle canzoni di gesta: in questa costruzione di un Mediterraneo cristiano, le immagini dei musulmani si diffusero ben oltre gli ambienti ecclesiastici e le corti: i saraceni dai tratti diabolici, assimilati a pagani perversi, nemici di una lotta sostenuta da Dio, si diffusero ben oltre gli scriptoria monastici. I cantastorie, i giullari, che transitavano sulle strade di Francia come della Spagna settentrionale, contribuirono a diffondere un’immagine dei musulmani, forse più popolare, di cui ci rimane traccia nelle canzoni di gesta. La Chanson de Roland ne fu il prototipo: le epopee che seguirono tradussero forse meglio degli scritti latini l’immagine che i guerrieri cristiani si facevano di quei musulmani che avrebbero affrontato in Spagna o nell’Oriente mediterraneo55. Di queste cose lessero anche Cervantes e i suoi personaggi: con gli incantamenti e le falsità dei mori del Don Chisciotte potremmo, in un certo modo, chiudere il cerchio aperto parecchio pagine fa. Non si traggano troppe conclusioni affrettate, però. La Spagna di Don Chisciotte, quella che normalmente si designa come Siglo de oro, è ormai enormemente lontana dalle cavalcate del Cid campeador o dagli scontri con gli eserciti califfali: i mori, dopo la fatidica – e più che altro simbolica – caduta di Granada del 1492 non ci sono più, o meglio sono diventati minoranze, parti di un sistema, di uno Stato. Lentamente la memoria della guerra sostenuta per secoli contro i musulmani, diventa elemento fondante di una nuova identità, che non è solo cristiana ma sempre più spagnola. Quella che segue è una parentesi necessaria, che parla di come l’idea dello scontro con i mori continuò ad alimentare le nuove necessità politiche e di come l’immagine di un conflitto, che era stato per secoli esplicitamente mediterraneo, cominciò a mondializzarsi. Di come anche su nuovi continenti si combatterono i Saraceni Rimanendo a metà strada tra queste due isole, cioè di quella chiamata Santa Maria e di questa più grande che chiamo Fernandina, capitò un uomo che su una almadía passava dall’isola di Santa Maria alla Fernandina56 E’ lunedì 15 ottobre 1492, Cristoforo Colombo che, come è noto, pensa di trovarsi in qualche arcipelago del Catai, è ormeggiato in realtà al largo di Long Island57. Sono cose risapute58 e mi ci soffermerò un istante solo per notare un termine: quell’indigeno citato da Colombo attraversa il braccio di mare tra le due isole a bordo, dice l’Almirante, di una almadía. Si potrebbe tradurla canoa e farla finita, ma è anche vero che il termine è arabo e designava un’imbarcazione per la navigazione fluviale, usata in Africa e, presumibilmente, anche in Spagna. XI-XIII, Milano, 1992, pp. 387-402. 54 Su questo cfr. S. Louchitskaja, L’image des musulmans dans les chroniques des croisades, in «Le Moyen Age», 3-4 (1999), pp. 717-35. 55 Flori, Guerre sainte, jihad, croisade, cit., pp. 132-35. 56 C. Colón, Los quatros viajes. Testamento, ed. C. Varala, Madrid 1986, p. 66. 57 Per la precisione l’attuale Long Island corrisponde all’isola Fernandina. 58 Altro caso di bibliografia sterminata. Ho avuto presente in particolare E. Jos, El plan y la génesis del descubrimiento colombino, Valladolid 1980; L. Arranz, Cristóbal Colón. Diario de a bordo, Madrid 1985. Si è scritto molto – forse un po’ troppo – sull’incapacità culturale e linguistica di Colombo a comprendere il Nuovo Mondo: Todorov, in un celebrato saggio sulla conquista dell’America, concludeva sostenendo che Colombo “non riesce a percepire l’altro, e gli impone i propri valori”59. Ribadisco quanto detto prima riguardo al concetto di “altro” e ai notevoli dubbi che nutro sul suo utilizzo in ambito storiografico; d’altronde l’opera di Todorov è più che altro un testo filosofico, teso a definire una “storia della scoperta che l’io fa dell’altro”60, piuttosto che un vero e proprio saggio storiografico. Si potrebbe anche, con qualche ragione, sostenere che il problema di questo arabismo, non è poi così importante: l’uso di un termine conosciuto per designare qualcosa di nuovo è una prassi universale. Le cose non cambiano più di tanto anche scoprendo che Colombo utilizzò allo stesso modo altri termini arabi: alfaqueques (pietre di colore rosso), alfaneques (fattorie), almaizares (le stoffe con cui si coprivano il capo i musulmani di Granata)61. Non bastano questi pochi riferimenti a definire un criterio interpretativo. I musulmani, però, non erano una “alterità” qualsiasi: essi appartenevano alla memoria – vera o inventata poco conta – della Spagna. E’ da questo punto di vista che la voce di Colombo si fa più interessante. Lo vediamo bene nella dedica ai Re Cattolici posta in apertura al diario del primo viaggio: Nel presente anno 1492, dopo che le Vostre Altezze hanno posto fine alla guerra contro i mori, che regnavano in Europa, e avendo terminato la guerra nella grandissima città di Granada, dove in questo stesso anno, nei giorni del mese di gennaio, con la forza delle armi si pose la bandiera reale delle Vostre Altezze sulle torri della Alhambra, che è la fortezza di questa città, e si vide uscire il re moro alle porte della città e baciare le reali mani delle Vostre Altezze e del Principe mio signore, e poi, quello stesso mese, per le informazioni che io avevo dato alle Vostre Altezze sulle terre delle Indie e su di un principe chiamato Gran Can […] le Vostre Altezze, come cattolici cristiani e principi amanti della santa fede cristiana, di essa accrescitori e nemici della setta di Maometto e di tutte le idolatrie e eresie, pensarono di inviare me, Cristoforo Colombo, a dette parti delle Indie, per vedere tali principi, i popoli, le terre e la loro disposizione e tutto, in modo che si potesse convertire esse alla nostra santa fede62 Sin da subito si vide nella conquista del Nuovo Mondo, la continuazione dello scontro mediterraneo contro i musulmani e una sorta di “compenso” per le conquiste dell’islam63. Non a caso Colombo veleggiò verso ponente anche nella speranza dichiarata di trovare nelle Indie i mezzi per l’ultima crociata, per la liberazione del Santo Sepolcro. Non a caso l’anno successivo, il 3 maggio 1493, Papa Alessandro VI sancì tale concetto nella famosa – e vituperata – bolla Inter Coetera divinae: la fede cattolica andava diffusa in ogni luogo e i popoli barbari dovevano essere vinti e condotti alla fede; la concessione delle nuove terre64 veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferiva qui a Isabella di Castiglia) i sacrifici (“fatiche, spese, pericoli”) sostenuti contro i Saraceni. Vi era insomma il senso di un’esplicita continuità, che era quella della successione dei regni e quella, ovviamente, della diffusione del cristianesimo. Inutile dire che tutto ciò riguardava strettamente anche la guerra contro i mori: se la Spagna era stata liberata, lo stesso non si poteva dire per le tante terre a oriente del Mediterraneo. La crociata doveva dunque continuare. Per questo nel 1533, Espinoza avrebbe potuto annunciare a Carlo V le grandi novità del Perù, incoraggiandolo a valersi di questo dono della Provvidenza per proseguire la guerra contro il Turco, contro Lutero e contro gli altri nemici della fede65. Per questo il visionario Francisco de la Cruz avrebbe potuto 59 Tz. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”, Torino 1984 (ed. fr. 1982), p. 61. Id., p. 5. 61 N. Manrique, El universo mental de la conquista de America, Lima 1993, p. 30. 62 C. Colón, Los quatros viajes, cit., p. 40. 63 A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli 1983, p. 183. 64 Si trattava tecnicamente dell’assegnazione non di un possesso territoriale, ma di un territorio di missione; anche se il distinguo è sottile, dato che già l’editto papale del giorno dopo (4 maggio 1493) conteneva espliciti cenni sulla donatio feudale dei possedimenti, rendendo gli eredi di Castiglia e León «dominos cum plena et omnimoda protestate, auctoritate et jurisdictione»; cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Milano 1991 (ed. ted. Berlin 1974), pp. 88-89. 65 Cit. in G. Galasso, L’opera del Brandi e alcuni studi recenti su Carlo V, in «Rivista Storica Italiana» 74 (1962), p. 114: «para que con mas animo y posibilidad prosegua la santa impresa e guerra contra el turco e lutezio y los otros 60 vaticinare che una chiesa sarebbe sorta in America a compenso di quella rovinata da Lutero e dai Turchi in Europa66. Per questo avrebbe potuto consolarsi il tedesco Lorenzo Surius nel 1586 , notando come la Croce, calpestata in Europa, veniva ora trionfalmente sollevata ed eretta al di là degli Oceani67. Molti dei primi spagnoli che giunsero nelle Indie avevano combattuto nella stessa presa di Granada o nelle tante scorrerie contro le coste nordafricane, moltissimi erano stati bambini a quei tempi e conservavano nella memoria i racconti di quei fatti, di quelle gesta cavalleresche. Per la maggior parte di questi si passò dunque dalla conquista di Spagna alla conquista delle Indie senza soluzione di continuità68. I conquistatori del Nuovo Mondo, insomma, inserirono la loro esperienza all’interno di un’ideologia politica coerente, che guardava al passato medievale scontro con i mori come all’elemento fondante dell’identità spagnola69. Il lettore forse ricorderà come l’idea di repoblación (versione casigliana della latina repoblatio) si fosse intimamente legata, già in pieno medioevo, all’idea di conquista, e che tale repoblación indicasse, più che una semplice immissione di coloni in un territorio deserto, un’appropriazione territoriale che passava dal controllo amministrativo di tale territorio e dal suo sfruttamento. Non ci si stupirà allora troppo di ritrovare tale concetto, ad esempio, in Francisco López de Gómara (1511-1566): Chi non popolerà, non farà una buona conquista, perché senza conquistare la terra, non si convertirà la gente; per questo la massima del conquistare deve essere il popolare70. Eccoci allora tornati a quelle tracce di “mori” che ci è parso di scorgere inizialmente nelle parole di Colombo, per concludere che, forse, tale atteggiamento fu così diffuso tra i conquistadores, proprio perché celava una profonda necessità istituzionale. Valga per tutti l’esempio di Hernan Cortéz (1485-1547). E’ stato ampiamente notato come ben poco si capirebbe di lui e del suo operato se non collocandolo all’interno della società e della cultura spagnola del tardo medioevo e del primo rinascimento71: il conquistador ne rispecchia ideali e aspirazioni ed è partecipe del processo di sviluppo che questa stava conoscendo. Anche lui, insomma, attinse a quella cultura e a quell’ideologia che nella continuità della conquista vedeva il fondamento della monarchia spagnola. Per giunta non fu affatto un illetterato, si interessò di diritto e storia e amò – come quasi tutti i gentiluomini del tempo – i romanzi cavallereschi.72. Poi vi era naturalmente l’elemento religioso e tutto ciò che portava con sé, a cominciare da quegli argomenti, soprattutto, che avevano stimolato le crociate e le conquiste medievali. Non a caso la sua insegna di battaglia era un labaro circondato enemigos de la fee». Sulla frequenza di tale argomentazione nei cronisti dell’epoca, si veda E. O’Gorman, Cuatro historiadores de Indias, siglo XVI: Pedro Mártir de Anglería, Gonzalo Fernández de Oviedo, fray Bartolomé de Las Casas, Joseph de Acosta, México 1972, p. 206 nota 51. 66 M. Bataillon, Études sur Bartolomé de Las Casas, Paris 1965, pp. 264-67, 314-15. 67 J.H. Elliott, The Old World and the New. 1492-1650, Cambridge 1970, p. 80; Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, cit., p. 190. 68 Su questo e quanto segue ho fatto particolare riferimento all’importante contributo di M.A. Ladero Quesada, Estructuras y valores sociales, in Congreso de Historia del descubrimiento (1492-1556), Madrid 1992, III, pp. 213-61. 69 In tal senso si faccia riferimento ai seguenti importanti contributi: R. Romano, Les mécanismes de la conquête coloniale: les conquistadores, Paris 1972; L. Weckmann, La herencia medieval de México, México 1984; F. de Solano (a cura di), Proceso histórico al conquistador, Madrid 1988. 70 F. López de Gómara, Historia General de las Indias, Caracas 1978, XLVI : “Quien no poblare, no hará buena conquista, y no conquistando la tierra, no se convertirá la gente; así que la máxima del conquistar ha de ser poblar”. 71 Il personaggio, come è comprensibile, è stato variamente interpretato. R. Konetzke (Hernán Cortés como poblador de la Nueva España, in Estudios Cortesianos, Madrid 1948, pp. 341-81) sottolineò maggiormente gli aspetti costruttivi della sua carriera, come fondatore di una società di tipo coloniale; V. Frankl (Hernán Cortés y la tradición de las Siete Partidas, in «Revista de Historia de América» LIII (1962), pp. 9-74), ne ha analizzato la concezione imperiale e le sue radici medievali; M. Alcalá (César y Cortés, Mexico 1950) E. Guzmán (Relaciones de Hernán Cortés a Carlos V sobre la invasión de Anáhuac, Mexico 1958) ne hanno maggiormente sottolineato gli elementi negativi e la violenza. 72 Su questo e quanto segue ho fatto particolare riferimento a J.H. Elliott, L’universo mentale di Hernán Cortés, in Id., La Spagna e il suo mondo. 1500-1700, Torino 1996, pp. 40-62. dalla seguente legenda latina: amici sequamur crucem et si nos fidem habemus vere in hoc signo vincemus. Fu con questa memoria che Cortés giunse in Messico, e, ovviamente, anche lui vi trovò non poche tracce “saracene”: a Carlo V narrò di indigeni vestiti come saraceni73, di case dai decori “moreschi”74 e “moschee” (mezquitas) dove i sacerdoti bruciavano incenso e compivano sacrifici umani75. Non credo che a questo punto stupisca più di tanto scoprire che Cortés, durante le battaglie, invocasse Santiago76. Anzi, dissero in molti di vederlo, Santiago, a cavallo, precedere Cortés contro gli Indios. Lo narrò Francisco López de Gómara (1511-1566)77, riecheggiò per decenni nei racconti e nelle cronache , tanto che ancora negli anni Settanta del secolo XVI, Francisco Hernández (15171578) poteva scrivere, esagerando un po’: Ebbero un’altra battaglia vicino alla città di Centla, contro quarantamila uomini, che non cedettero alle armi iberiche prima che settanta dei nostri soldati ricevessero innumerevoli ferite, ma nessuno per grazia di dio morì. Gli indios che furono vinti, a quanto si dice con l’aiuto di Santiago, furono accolti con uguale bontà nell’impero e nel grembo della santa Chiesa di Roma.78 Insomma, è evidente come nel Nuovo Mondo si riproponesse il modello di guerra che si era definito nella Spagna tardomedievale come legittimazione dell’aristocrazia e dello Stato che essa incarnava. E’ per tale via che si possono più facilmente comprendere i riferimenti agli usi musulmani o agli interventi di Santiago. Non si tratta solo di definire le coordinate di un inevitabile – e tautologico – orizzonte mentale: il lessico e le immagini che esso produce sono parte integrante di un processo di istituzionalizzazione del Nuovo Mondo (che non a caso gli spagnoli a quel tempo chiamano Nuova Spagna). Nel riproporre lo schema della guerra come crociata si pongono nuovamente i presupposti per fondare le medesime istituzioni che reggono in Europa la monarchia spagnola. In questo insieme, anche i libri di cavalleria fecero la loro parte79. E non si trattò certo solo di un problema di gusto letterario: in quelle storie immaginifiche, in quelle battaglie tra cavallereschi campioni dell’islam e della cristianità, si conservarono i valori sociali dell’aristocrazia spagnola e si idealizzò, allo stesso tempo, la missione monarchica della guerra ai miscredenti. Così poté capitare che giunto innanzi alla città di Tenochtitlán, Bernal Díaz del Castillo, potesse esclamare estasiato: Rimanemmo ammirati, e ci dicevamo che assomigliava alle cose e agli incantamenti chi si narrano nel libro di Amadís, per le sue grandi torri, cupole e edifici che avevano nell’acqua, tutti di cal e canto. E alcuni dei nostri soldati dicevano che ciò che qui si trovava era in un sogno.80 Non approfondiamo ulteriormente. Vale la pena solo ricordare che Amadís de Gaule, modellato sul Lancelot di Chrétien de Troyes, fu una delle letture preferite dell’aristocrazia spagnola; e il suo successo durò a lungo, se è vero che, quasi un secolo dopo, ancora Don Chisciotte si sforzava di 73 H. Cortes, Cartas de la conquista de México, Madrid 1985, p. 35: “Los vestidos que traen tapadas sus verguenzas, y encima del cuerpo unas mantas muy delgadas y pintadas a manera de alquizales moriscos”. 74 Id., p. 35: “y los aposentos dellos muy amoriscados”. 75 Id., pp. 35-36. 76 Un elenco completo delle citazioni sarebbe enorme e inutile, rimando, come unico esempio a B. Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, ed. M. León-Portilla, Madrid 2000, I, LXIII, p. 229: “Entonces dijo Cortés: «Santiago y a ellos»…”. 77 F. López de Gómara, Historia de la Conquista de México, México 1943, I, 20. 78 F. Hernández, Libro de la conquista de la Nueva España, in Id., Antigüedades de la Nueva España, ed. A. Hernández, Madrid 2000, p. 208. 79 Cfr. I. Rodríguez Prampolini, Amadises de América. La hazaña de Indias como empresa caballeresca, México 1948; A. Sánchez, Los libros de caballería en la conquista de América, in Anales Cervantinos, VII (1968), pp. 237-70. 80 B. Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, ed. M. León-Portilla, Madrid 2000, I, LXXXVII, p. 310: “Nos quedamos admirados, y decíamos que parcía a las cosas y encantamiento que cuentan en el libro de Amadís, por las grandes torres y cues y edificios que tenían dentro en el agua, y todas de cal y canto; y algunos de nuestros soldados decían que si aquello que aquí si era entre sueños”. dimostrare – con argomenti, ovviamente, confutabilissimi – che Amadìs (e con lui i vari Artù, donzelle, draghi, etc.) fosse davvero esistito81. Al di là degli incantamenti e delle suggestioni letterarie, rimaneva il fatto concretissimo di un nuovo mondo che doveva essere conquistato e la conquista, si sa, è spesso anche un fatto di nomi e di parole. In quell’impresa non poteva che giungere tutta l’esperienza mediterranea, così come era ricordata nella memoria istituzionale di Spagna. La Conquista di Spagna e la Crociata di tale memoria erano parte integrante: l’affermazione di un’identità monarchica fondata sul cristianesimo e sulla tradizione imperiale e giuridica dei Romani: conquista e población si adattarono così al nuovo continente riproponendo un modello che si credeva antico. Fu anche per questo che Cristóbal Colón, Cortés e i tanti che con loro giunsero nel Nuovo Mondo, poterono cogliere, fugaci, le immagini dei mori e di un mondo medievale che non c’era più. La crociata, la ragione, la nazione I Maomettani, secondo i principi della loro fede, sono obbligati ad impiegare la violenza per abbattere le altre religioni; e ciò nonostante essi le tollerano da svariati secoli. I cristiani non hanno ricevuto altro ordine che quello di predicare ed istruire; e ciò nonostante da tempo immemore essi sterminano col ferro e col fuoco quelli che non appartengono alla loro religione.82 Questo giudizio decisamente severo è posto da Bayle in una nota alla voce Mahomet83 del suo celeberrimo Dictionnaire. Volendo precisare, il riferimento è alla legge ottomana che prevedeva la tutela delle comunità religiose o etniche, in turco chiamate millet. La notizia gli giungeva tramite la polemica opera sul calvinismo di Pierre Jurieu84 e la Storia dell’Impero ottomano del diplomatico inglese Ricaut85. E’ chiaro che dietro tali considerazioni dell’ugonotto Bayle si celava una più ampia riflessione sulla tolleranza e sul problema degli scontri confessionali che da tempo avevano investito l’Europa86; è vero però che questo accenno alla violenza cristiana contro i musulmani ci offre un punto di vista privilegiato anche sul problema della crociata. Ci dice appunto che, al di là delle fantasticherie letterarie, attorno alla metà del secolo XVIII non era quasi più possibile parlare delle spedizioni d’oltremare senza tenere conto della critica all’ideologia religiosa e alle azioni dei crociati che era giunta soprattutto da parte protestante. Il che non vuol dire, ovviamente, che non si levassero voci entusiastiche e cariche di nostalgia per quelle antiche spedizioni. Soprattutto in ambito cattolico, infatti, la crociata fu riletta anche con ammirazione, guardando sempre più spesso a motivi di orgoglio nazionale, piuttosto che religioso87. Era questo, per fare un esempio importante, che si poteva leggere nella Histoire de Croisade del gesuita Louis Maimbourg: la storia di un’impresa meravigliosa, dove «i più valorosi prìncipi del loro tempo, principi di sangue regale, che avevano acquistato in mille belle azioni un’immortale gloria»88. Non ci si stupisca troppo per questi toni esaltati: l’autore sta parlando in realtà a Luigi XIV e quei prìncipi eroici altri non sono che gli 81 Don Quijote, I, 49. P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, I-IV, Basel 1741, III, p. 265. 83 Come è risaputo, il testo di ogni voce del Dictionnaire è letteralmente circondato da un triplice sistema di note, designate rispettivamente con lettere minuscole per le note al testo principale; con lettere maiuscole per le annotazioni più lunghe; con numeri per le note alle annotazioni; infine, quando necessario, con ulteriori segni tipografici (asterischi, croci) per ulteriore chiarezza. 84 P. Jurieu, Histoire du Calvinisme & celle du Papisme mises en parallele: ou Apologie pour les Reformateurs, pour la Reformation, & pour les Reformez, Rotterdam 1683, II, p. 55. 85 P. Ricaut, Histoire de l'état présent de l'Empire ottoman, Paris 1670, II, p. 318. Ricaut era giunto a Costantinopoli nel 1661 come segretario di Heneage Finch, ambasciatore presso la Sacra Porta. L’edizione originale della sua opera risale al 1668, Bayle utilizzò la traduzione francese di due anni successiva. 86 Si veda su questo Y. Bizeul, Bayle – Vordenker des modernen Toleranzbegriffs, in: H.J. Wendel-W. Bernard-Y. Bizeul (a cura di), Toleranz im Wandel, Rostock 2000, pp. 67-112. 87 Per questo e per quanto segue si faccia riferimento a F. Cardini, Le crociate fra illuminismo ed età napoleonica, in Id., Studi sulla storia e sull’idea di crociata, cit., pp. 465-501. 88 L. Maimbourg, De l’Histoire de Croisades pour la deliverance de la Terre Sainte, Paris 1675, p. 2. 82 avi del Re Sole: era questo il legame che permetteva di congiungere tali fatti lontani tanto al presente francese quanto agli scontri con l’impero ottomano. Il filone ebbe successo e lo ritroviamo ancora vivo nel secolo successivo, in opere come quella di Schoeplin, il De sacris Galliae Regum in Orientem Expeditionibus (1726), dove, come già anticipava il titolo, si esaltavano - piuttosto acriticamente, va detto - le imprese dei Francesi e del loro re, senza dimenticare i tristi fatti contemporanei e auspicare così, una nuova lega dei principi cristiani capace di vincere definitivamente la minaccia turca89. I tempi però stavano cambiando e sempre meno era possibile prescindere da quella critica nei confronti del proprio passato che già aveva attraversato le pagine di Bayle. Giunti più o meno a metà del secolo dei lumi, questa tendenza avrebbe trovato egregi continuatori: I frequenti pellegrinaggi che i cristiani fecero in Terra Santa, dopo che vi ebbero ritrovato la croce sulla quale era morto il figlio dell’uomo, dettero luogo a queste guerre sanguinose. I pellegrini, testimoni del duro servaggio sotto il quale gemevano i loro fratelli d’Oriente, non mancavano di farne, al loro ritorno, dei tristi quadri e di ricordare ai popoli d’Occidente il lassismo con cui essi abbandonavano i luoghi bagnati dal sangue di Gesù Cristo proprio nelle mani dei nemici del suo culto e del suo nome. Per lungo tempo i proclami di questa buona gente furono trattati con l’indifferenza che meritavano, ed è davvero difficile credere che sarebbero potuti giungere tempi di tenebre tanto profonde, di così profondo stordimento tra i popoli e tra i loro sovrani, rispetto ai loro veri interessi, da trascinare una parte del mondo in una infelice e piccola contrada, al fine di sgozzarne gli abitanti e di impadronirsi di uno spuntone di roccia che non vale certo neppure una goccia di sangue e che essi avrebbero potuto venerare in spirito da lontano come da vicino e che il cui possesso era così estraneo all’onore della religione. Altra voce da dizionario. Sono le parole di Diderot poste al principio del lemma Croisades nel quarto volume dell’Encyclopédie. Nella ventata razionalista che l’illuminismo conduceva con sé era ormai impossibile comprendere i motivi che avevano potuto animare una cosa come la crociata: più che di campioni della cristianità si trattava, agli occhi di Diderot, di imbecilli, spinti da uno zelo falso o da egoistici interessi politici, oltre che dall’intolleranza, dall’ignoranza e dalla violenza che aveva animato la Chiesa di quei secoli90. E naturalmente Diderot in quegli anni fu in buona compagnia: lo stesso disprezzo razionale, a cui si accompagnava un esplicito anticlericalismo, mosse, pur con accenti diversi, anche le interpretazioni di Gibbon, Voltaire e Hume91. Con questo pareva chiudersi ogni ulteriore discorso sulla crociata e, soprattutto ogni nuovo possibile spazio istituzionale e genericamente politico legato a tale tema. Di fatto, però, le cose non finirono così. Certo, tanta della successiva analisi storica contribuì a demolire il mito eroico legato alla crociata, avviando una grande stagione di ritorno ai testi originali (si pensi all’opera di Michaud92), che in un certo modo avrebbe anticipato il rigore critico e l’analisi filologica con cui, cominciare da Von Ranke, si è proceduto sino ad oggi nell’analisi scientifica del passato93. E’ vero però che il XIX secolo, nella sua complicata sovrapposizione di recupero del passato e di nazionalismo oltre che nell’espansione geografica e politica dell’età coloniale e imperialistica, aprì un nuovo, insospettato, spazio alla memoria della crociata. A molti verranno forse in mente i cavalieri fedeli, altruisti e galanti disegnati dalla penna un po’ stucchevole di Sir Walter Scott: soprattutto i crociati inglesi del XII secolo, l’epoca di Riccardo Cuor di Leone, in Ivanhoe (1819) e in The Talisman (1825). Scott, si sa, non sempre scrisse 89 J.D. Schoeplin, il De sacris Galliae Regum in Orientem Expeditionibus, Strasburgo 1726. D. Diderot, Dictionnaire Encyclopédique, IV, Paris 1754, pp. 502-5. 91 I riferimenti sono reciprocamente a E. Gibbon, Decline and Fall of the Roman Empire, London 1753; Voltaire, Essaie sur les moeurs et l’esprit des nations, Paris 1756, II: Histoire des croisades; D. Hume, History of England, London 1761. 92 Quello di Joseph-François Michaud (m. 1839) è sicuramente il più importante contributo allo studio delle crociate che si sia avuto nella prima metà del XIX secolo: mi riferisco in particolare alla sua Histoire de Croisades (1817) e alla raccolta di testi con traduzione, intitolata Bibliothèque des croisades (1829). Su questo rimando alle considerazioni in Cardini, Le crociate fra illuminismo ed età napoleonica, cit., pp. 497-501. 93 E’ a un allievo di Von Ranke, Heirich von Sybel, che dobbiamo probabilmente la prima opera sulle crociate in senso moderno: Geschichte des ersten Kreuzzuges, del 1841. 90 capolavori, ma se è vero che la sua opera contribuì all’imborghesimento del romanticismo 94 è vero altrettanto che essa alimentò enormemente l’immaginario sulla crociata come parte determinante di un medioevo eroico in cui si erano fondati i valori delle nazioni europee 95. Questo connubio di nazionalismo e riscoperta di un passato di intrepidi scontri con i mori avrebbe fatto scuola. Il romanzo storico, come è noto, si diffuse in tutta Europa, ma l’immaginario si alimentò anche a fonti diverse: ricordo - volutamente a caso - le litografie di Hayez per l’Ivanhoe o il ciclo di Doré sulla crociata ma anche opere musicali come come il famoso dramma lirico di Verdi I lombardi alla prima crociata, dove il libretto di Solera guardava, certo, a Tasso, ma era imbevuto delle idee dominanti in Italia prima del 1848, quando Gioberti si richiamava alla potenza di “incivilimento” del cattolicesimo unita al fondamentale genio italico96. Non è certo un caso, a tale proposito, che lo stile, il linguaggio e i materiali usati da Verdi per i Lombardi fossero pressoché gli stessi del Nabucco, opera dove il riferimento patriottico era altrettanto evidente. Gli scontri passati come figura del presente, la crociata come immagine del destino delle nuove nascenti nazioni. Queste cose non restarono solo sulla tela, nel buio dei teatri o tra le pagine di libri d’avventura97: era l’aria del tempo e le crociate segnarono, talvolta un legame più profondo con quelle supposte origini nazionali che da tante parti in Europa si andavano costruendo. Uno stimolo non irrilevante era venuto inevitabilmente dalle imprese di Napoleone in Egitto e in Siria nel 1798; lo aveva ricordato molto chiaramente un testimone di quella campagna, Vivan Denon, al momento di descrivere l’avvenuta presa di Alessandria: Alessandria, questo punto così importante nella storia, dove i monumenti di tutte le epoche, dove i resti delle arti di tante nazioni sono ammassati alla rinfusa, e dove le devastazioni delle guerre, dei secoli e di un clima umido e salino, hanno apportato più cambiamenti e distruzioni che in qualsiasi altra parte dell’Egitto. Bonaparte, che si era impadronito di Alessandria con la stessa rapidità con cui San Luigi aveva preso Damietta, non vi commise lo stesso errore: senza lasciare il tempo al nemico di raccapezzarsi, e alle sue truppe quello di vedere la penuria di Alessandria e l’asprezza del suo territorio, fece mettere in marcia le sue divisioni man mano che sbarcavano.98 Quello che segue è di un certo interesse, ma noi possiamo fermarci qui. L’accenno a San Luigi e alla presa di Damietta stabilisce un’esplicita continuità, tanto nel ruolo di Napoleone, quanto nel destino della Francia intera. E’ stato ampiamente studiato come a partire dalla Rivoluzione Francese il tema di una politica universalista coincida ideologicamente con la liberazione dei popoli e l’estirpazione dell’errore99, perché proprio “l’errore prosterna tutti i musulmani verso la Mecca, mentre la verità solleverà la fronte di tutti gli uomini che fissano lo sguardo verso Parigi” 100. Nel successivo periodo coloniale questi elementi avrebbero inevitabilmente giocato un ruolo importante e anche il già citato Michaud avrebbe contribuito a rinsaldare tale immaginaria continuità, ricordando con preoccupante sicurezza che i crociati avevano in realtà fondato “colonie cristiane”101. La cosa può apparire eccessiva, forse. Lo è meno se si pensa che quando il re Carlo X dovette annunciare alla Camera dei Deputati l’intervento francese in Algeria, disse che doveva 94 M. Praz, La letteratura inglese dai romantici al novecento, Milano 1975, p. 68. La cosa in Ivanhoe è chiarissima: al termine del romanzo, Riccardo Cuor di Leone, che ha riconquistato il trono, annuncia la definitiva riconciliazione di sassoni e normanni, segnando la nascita della nazione inglese. 96 A sua volta il libretto di Temistocle Solera era ricavato dal poema omonimo pubblicato da Tommaso Grossi nel 1826 97 Su questi temi e il loro rapporto con la nascita delle identità nazionali si veda A.M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna 2001 (ed. fr. Paris 1999). 98 V. Denon, Voyages dans la Basse et la Haute Égypte pendant les campagnes de Bonaparte en 1798 et 1799, London 1817, pp. 36-37. 99 Ennesimo caso di inevitabile ipertrofia bibliografica. Per una introduzione il lettore si guardi il secondo volume dell’ancora interessante opera di F. Châtelet (a cura di), Storia delle ideologie, Milano 1978 (ed. fr. Paris 1978), in particolare pp. 175-82; inoltre i più recenti F. Furet (a cura di), L’eredità della rivoluzione francese, Roma-Bari 1989 e M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari 1999 (ed. fr. Paris 1985) 100 Il passo è tratto da un’orazione in elogio della stampa come strumento civilizzatore, pronunciata al parlamento francese da Anacharis Cloots il 9 settembre 1792, in Archives Parlamentaires de 1787 a 1860, Preemière série (1787 à 1799), XLIX, Paris 1896, pp. 498-500. 101 Michaud, Histoire des croisades, cit., p. 371. 95 essere fatto «per il beneficio del cristianesimo»102. E non si trattò di un caso isolato, se è vero che ancora nel 1919, alla conferenza di pace di Versailles, i Francesi avrebbero reclamato un mandato in Siria in nome dei loro diritti medievali…103 Ma il caso della Francia non è certo unico. Anzi, verrebbe da dire che si inserisce in una tendenza che attraversa in più modi l’Europa mediterranea. Si è parlato molto della Spagna e forse non stupirà troppo scoprire che quella curiosa parola, reconquista, fa la sua prima apparizione soltanto sul finire del secolo XIX. Per essere proprio precisi è solo nel 1843 che un dizionario spagnolo registra per la prima volta il termine, peraltro senza alcun preciso riferimento storico104. E non si tratta, per giunta, di un utilizzo molto diffuso: la ritroviamo qua e là in autori romantici come Gaspar Melchor de Jovellanos, Leandro Moratín105, spesso assieme alla più semplice (e antica) idea di conquista, come si vede ad esempio, in questo passo di Mariano José de Larra: Si narrava nel paese che in tempi antichi, un moro, un mago, fosse stato fondatore del castello la cui costruzione si perdeva nei tempi remoti della conquista e della riconquista (los tiempos remotos de la conquista y reconquista), opinione, questa, che pareva confermata dal colore scuro della pietra e dall’aspetto venerabile e misterioso delle sue antichissime mura.106 Chiunque venga da letture più note, come la celeberrima Notre Dame de Paris, ci si ritroverà un po’ in questo castello sberciato e nelle solite oscure maledizioni che lo circondano. Senza avventurarmi troppo in considerazioni ulteriori, i lettori tengano presente che un autore come Larra guardava con estrema ammirazione all’Europa, a quell’Europa del nazionalismo nascente, che aveva in Parigi il suo centro ideale e proprio in scrittori come Victor Hugo i suoi principali riferimenti intellettuali 107. Per molti versi il medioevo dei romantici spagnoli è lo stesso dei loro colleghi ultrapirenaici: il luogo in cui gli uomini seppero dispiegare virtù eroiche e il momento irripetibile della genesi di un popolo. Solo, qui c’è una differenza: il medioevo iberico era inevitabilmente quello della lotta contro i mori, quello della favolosa (e favolistica) resistenza del principe goto Pelayo108 contro l’avanzata musulmana, quello del Cid Campeador. E se il medioevo iberico doveva generare un popolo, esso non poteva che essere forgiato in questo scontro secolare che per otto secoli aveva segnato la terra di Spagna. Poi giunse il 1989, la guerra contro gli Stati Uniti e la perdita degli ultimi resti dell’impero coloniale. La Spagna reagì ricostruendo la propria identità nazionale a partire da ciò che tanti percepivano come la sua vocazione profonda: quella di trasmettere e perpetuare una civiltà superiore. L’immagine di un’autenticità nazionale fu così ricostruita a partire dalla radice castigliana, (supposto) nucleo storico dell’identità spagnola109. Era questo, più o meno, che sostenne un giovane Sánchez Albornoz in una conferenza universitaria nel 1919, molto prima, cioè, di diventare il più celebrato storico del medioevo spagnolo: la Castiglia, che ora pagava lo sforzo 102 Si veda su questo K. Munholland, Michaud’s «History of the Crusades» and the French Crusade in Algeria under Louis Philippe, in P. Chu-P.G. Weissberg (a cura di), The Popularisation of Images: Visual Culture under the July Monarchy, Princeton (NJ) 1994, p. 154. 103 Si veda E. Siberry, Images of the Crusades in the Nineteenth and Twentieth Centuries, in J. Riley-Smith (a cura di), Oxford illustrated History of Crusades, Oxford 1995, pp. 365-85. 104 Diccionario de la Real Academia Española, Madrid 1843: “Reconquista f. La accion y efecto de reconquistar. Armis facta recuperatio. Reconquistar a. Volver á conquistar una plaza, provincia ó reino, despues de haberse perdido.” Un’esplicita indicazione cronologica si trova invece nei dizionari attuali, almeno a partire dagli anni ’80 del secolo XX. 105 Cfr. F. Ruiz Morcuende, Vocabulario de D. Leandro Moratín (1760-1828), I-II, Madrid, 1945; J. Corominas, Diccionario crítico etimológico de la lengua castellana, Madrid, 1954, III, 946. 106 Mariano José de Larra, El doncel de Don Enrique el Doliente, in Obras Completas, Barcelona 1886, pp. 77-255, cap. XXXII. 107 Si veda a tale proposito G. Díaz-Plaja, Introducción al estudio del romanticismo español, Madrid 1972, pp. 107-12. 108 Su questo tema si veda il mio Alle origini della Riconquista, cit., pp. 141-44, 234-39. 109 L’argomento è stato ampiamente trattato; si vedano almeno i seguenti lavori: J.L. Abellán, Visión de España en la generación del 98, Madrid 1968; A. Angoustres, Historia de España en el siglo XX, Barcelona 1983; J. Marías, España ante la historia y ante sí misma (1898-1936), Madrid, 1996; C. Morón Arroyo, El alma de España, Oviedo, 1996, pp. 108-35. gigantesco di tre secoli spesi a portare alla maggiore età le sue “figlie d’America”, era stata nel medioevo lo strumento di formazione della nazionalità spagnola; ora occorreva salvarla e strapparla dall’apatia, occorreva che tutti ingaggiassero una nuova cruzada de reconquista ancora più difficile di quella combattuta per il suolo della patria110. La sintesi tra riconquista, crociata e tema nazionalista è già tutta qui. Lo abbiamo visto: si poneva innanzi tutto l’immagine di un’originaria divisione politica altomedievale della Penisola iberica; due unità territoriali omogenee e ben differenziate. Questa immagine si legava poi, inevitabilmente all'assunto di una guerra, di fatto ininterrotta, intercorsa tra cristiani e musulmani; tale guerra si poneva, in termini dialettici, come il rapporto tra la conquista araba, avvenuta a partire dagli anni 710-711, e la conseguente reconquista cristiana, proseguita a fasi alterne - a partire da isolati moti di resistenza - sino a culminare nella vittoria epocale di Las Navas de Tolosa nel 1212. Al concetto di reconquista, intesa come espansione militare, si legava dunque, indissolubilmente, quello di repoblación, cioè la colonizzazione del territorio rurale da parte di una popolazione che avanza nella misura in cui si sviluppano i successi della guerra. Naturalmente tale modello si applicava allo stesso modo, seppure in senso contrario, ai musulmani, il cui potere era visto retrocedere progressivamente assieme ai loro confini politici. Chi dei lettori ritenesse di intravedere in questo schema qualcosa di già noto, forse non si sbaglierebbe di tanto. Questa idea di una riconquista - o di una crociata – fatta da gruppi di «audaci uomini liberi» che partiti dalla Castiglia si spingeranno sempre più lontano111, assomiglia sin troppo all’idea di frontiera che negli stessi anni evocava lo storico F.T. Turner a proposito degli Stati uniti. La tesi era chiarita sin dalle prime righe del suo famoso The frontier in American History (1920): “la peculiarità delle istituzioni americane deriva dal fatto che esse sono state costrette ad adattare se stesse ai cambiamenti di un popolo in espansione”, alla base stessa dei caratteri costitutivi della nazione americana, insomma, c’era la frontiera, intesa come movimento, espansione colonizzatrice verso l’ovest. Turner, peraltro, arrivava al termine di un lungo processo di costruzione nazionale che aveva occupato tutto il secolo precedente. Sono cose note e ci porterebbero troppo lontano dal Mediterraneo, ma quell’idea di frontiera che marcia verso Ovest, si sa, è impensabile senza la solida percezione di un’elezione divina, di un “destino manifesto”112, che avrebbe segnato profondamente la nascita degli Stati Uniti. Una traccia, niente di più, che ci introduce però alle ultime, necessarie, considerazioni sulla fortuna novecentesca e ancora tristemente attuale di queste parole di conflitto. Il Mediterraneo in guerra: nuove fortune dell’idea di crociata Se il clima nazionalista europeo aveva contribuito a recuperare l’idea di crociata, intesa tanto come espansione militare quanto come lotta per le idee, la Grande guerra, tra il 1914 e il 1918, ne divenne inevitabilmente la tragica cassa di risonanza: una «grande crociata» fu chiamata da Lloyd Gorge, che dal 1916 fu primo ministro dell’Inghilterra. A ben guardare, la parola così utilizzata rimandava a un suo significato più generico che ormai da quasi un secolo andava affermandosi: sempre di più infatti, per “crociata” si intendeva ora la battaglia per una buona causa, soprattutto di tipo religioso o morale, senza nessun particolare riferimento allo scontro con il mondo musulmano del Mediterraneo meridionale e orientale. Di quest’ultima accezione si finì col tenere conto però nelle campagne di Siria e Palestina nel 1917-18. Come è noto, in quel fronte orientale il generale inglese Edmund Allenby strappò ai Turchi Gerusalemme e Damasco; come forse è un po’ meno noto furono 110 C. Sánchez Albornoz, Vindicacion historica de Castilla, Conferencia de extensión universitaria pronunciada al 5 de abril del 1919, Valladolid 1919, rip. in Id., Mis tres primeros Estudios Históricos, Valladolid 1974, pp. 138-42. 111 C. Sánchez Albornoz, La frontera y las libertades castellanas, in Investigaciones y documentos sobre las istituciones hispanas, Santiago de Chile 1970, p. 45. 112 Il concetto di “destino manifesto”, coniato nel 1845 per definire la missione espansionistica degli Stati Uniti, è stato ampiamente studiato; ho avuto particolarmente presente A.K. Weinberg, Manifest Destiny: A study of Nationalist Expansionism in American History, Glouchester (Mass.) 1958; N.A. Graebner (a cura di), Manifest Destiny, Indianapolis 1968; per una sintesi e un approfondimento bibliografico il lettore italiano può vedere A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano 2004 (ed. ingl New York 1995). in tanti a vedere in quell’impresa l’atto definitivo di una storia secolare. Lo affermò a chiare lettere il solito belligerante primo ministro inglese «il cristianesimo aveva ripreso possesso delle sue sacre testimonianze»113; lo ribadirono Vivian Gilbert, veterano di quella campagna, in un libro significativamente intitolato The Romance of the Last Crusade, e H. Pirie-Gordon che vide nella presa di Gerusalemme “la continuazione definitiva di Guglielmo di Tiro”114. Era l’ultima crociata. O per meglio dire: in quell’ultimo scontro con l’impero ottomano, ricompariva la traccia, deformata e grottesca, di un’antica memoria. Lontano da qualsiasi coerenza storica, L’ultima crociata divenne pure il titolo di uno spettacolo scritto da un certo Lowell Thomas e incentrato sulla figura di T.E. Lawrence, l’avventuroso Lawrence d’Arabia, qui dipinto a esasperate – e false – tinte come l’ispiratore della rivolta araba che aveva distrutto l’impero ottomano. Lo spettacolo fu al Century Theater di New York nel marzo del 1919, poi attraversò l’Atlantico e per sei mesi rimase in cartellone a Londra, mentre negli anni seguenti avrebbe girato mezzo mondo raccogliendo un enorme successo e contribuendo non poco a creare quell’immagine avventurosa della spia inglese che nella memoria di tanti di noi ha, ormai, inevitabile, il volto ascetico e vagamente femmineo dell’attore inglese Peter O’Toole 115. Appendice cinematografica di un destino teatrale che, come i lettori avranno notato, marchia non poco la storia dell’idea di crociata. Torniamo un istante alla storia politica. Caduto l’impero ottomano con la fine della Prima guerra mondiale, era in un certo senso inevitabile che il termine sparisse in parte dalla scena, almeno per quanto riguardava l’idea, ad esso legata, di lotta contro il mondo musulmano. In realtà le cose sono, anche questa volta, più complicate. Da una parte, certo, prevalse, come già accennato sopra, il suo significato più generico di lotta per un nobile scopo; dall’altra, però, non venne meno la possibilità di continuare a legare – almeno in certi casi - l’idea di crociata a più articolate necessità di legittimazione politica. Cerco di spiegarmi con alcuni esempi. Ricordavo prima come l’esperienza coloniale francese avesse recuperato il tema delle crociate tanto sul piano storiografico (Michaud), quanto su quello politico (il trattato di Versailles). Nel novecento la tendenza, manco a dirlo, continuò. Non vale la pena dilungarsi, ma furono in tanti gli storici che guardarono al levante come a una terra di “colonie francesi” e alle crociate come al momento della costruzione di una civiltà franco-siriana: Louis Madelin, René Grossuet, Jean Richard, per fare alcuni nomi: la crociata era divenuta per loro il momento fondatore di un improbabile mondo coloniale mediterraneo a marchio francese; non tanto diversa, in un certo senso, da quella che sarebbe diventata l’altrettanto improbabile Spagna franchista segnata, nel proprio passato, dalla civilizzatrice avanzata castigliana. La tradizione della Reconquista, infatti, aveva contaminato inevitabilmente la retorica politica già dagli inizi del Novecento e le cose non poterono che peggiorare negli anni del guerra civile (1936-39): se i membri della Brigata internazionale repubblicana si videro come combattenti di una crociata contro il fascismo, i franchisti dipinsero la loro rivolta contro il governo come una “crociata di Spagna”. E questo da subito, almeno da quando il vescovo di Salamanca Pla y Deniel pubblicò la lettera pastorale Las dos ciudades nella quale così si descriveva il colpo di stato militare del 18 luglio: 113 War Memoirs of David Lloyd George, Boston 1934, VI, p. 98. Su tale contesto storico si veda D. Fromkin, Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno, Milano 2002, in particolare pp. 347-77. 114 Cit. in J.L. La Monte, Some Problems in Crusading Historiography, in «Speculum» 15/1 (1940), p. 60. 115 Qualche anno più tardi Thomas scrisse un libro basato sullo spettacolo e intitolato With Lawrence in Arabia (New York-London 1924), in cui si ricostruiva – con imbarazzanti dosi di esagerazione – la carriera di Lawrence in Arabia, presentandolo come colui che, da solo, avrebbe promosso e guidato la rivolta dello Hijaz. Per ulteriori considerazioni su questo singolare caso rimando a D. Fromkin, Una pace senza pace, cit. pp. 564-66. Il film Lawrence of Arabia, del 1962, ebbe tra le sue fonti, oltre al libro di Thomas, anche l’autobiografia di T. E. Lawrence, I Sette Pilastri della Saggezza. La spiegazione più chiara ce la offre il carattere dell’attuale lotta, che converte la Spagna in un spettacolo per il mondo intero. Essa riveste, sì, la forma esterna di una guerra civile, ma in realtà si tratta di una crociata (cruzada). Una sollevazione non per perturbare, bensì per ristabilire l’ordine116. Non si poteva essere più chiari, già a cominciare da quel titolo, Las dos ciudades: idea esplicitamente agostiniana, riadattata per le necessità presenti, dove i cristiani combattenti erano pronti al martirio in nome della Spagna racial y auténtica, lottando strenuamente contro i sin Dios y contra Dios117. Furono anni grigi, quelli, per tutto il Mediterraneo, e di crociate si parlò sin troppo, ma sempre più in questo senso generico di una lotta contro le varie forze del male; lotta che al massimo poteva rimandare – come nel caso spagnolo - a una più profonda matrice storica in cui si identificavano i combattenti, ma che non chiamava direttamente in causa il mondo musulmano. La parola, insomma, si confuse sempre di più con un significato generico di “guerra giusta”, concetto che in occidente (e non solo) ha una forte tradizione ma che non necessariamente deve essere legato all’idea di crociata intesa come scontro tra cristiani e musulmani. Naturalmente il mondo islamico continuò comunque ad essere oggetto di molto interesse. Sono cose si troppo note ma val la pena dedicarvi qualche riga. Erano gli anni, quelli tra il ’20 e il ‘30, in cui il fascismo si si propose sempre più chiaramente come potenza mediterranea e africana, deputata a cacciare tutti gli estranei dall’antico e ritrovato Mare nostrum118: E’ destino che il Mediterraneo torni nostro. E’ destino che Roma torni a essere la città direttrice della civiltà in tutto l’Occidente d’Europa. Innalziamo la bandiera dell’impero, del nostro imperialismo che non dev’essere confuso con quello di marca prussiana o inglese.119 Nello sforzo di reinterpretazione della nazione italiana, la guerra coloniale costituì uno degli elementi fondamentali: Addis Abeba avrebbe risarcito, secondo Mussolini la tragica sconfitta di Adua, mentre la conquista della Libia avrebbe definito ineluttabilmente la vocazione imperiale del paese. In questo senso, però, più che al medioevo crociato, si guardò a Roma e all’antico dominio mediterraneo che essa aveva saputo imporre120; al più a tale modello “classico” poteva aggiungersi l’elemento provvidenziale, il segno di un’esplicita volontà divina: Quando io penso al destino dell’Italia, quando io penso al destino di Roma, quando io penso a tutte le nostre vicende storiche, io sono ricondotto a vedere in tutto questo svolgersi di eventi la mano infallibile della Provvidenza, il segno infallibile della Divinità.121 Queste parole il Duce le pronunciò a Tripoli l’11 aprile 1926. Non si parlava di crociata, anche perché, almeno formalmente, non era l’islam ad essere in discussione. Certo parrebbe, in queste 116 "La dos ciudades", carta pastoral del obispo de Salamanca (30-IX-1936), in A. Montero Moreno, Historia de la persecución religiosa en España. 1936-1939, Madrid 1961, pp. 688-707, p. 698. 117 Il tema è stato ampiamente studiato. Ho fatto riferimento H. Raguer, La Espada y la Cruz (La Iglesia 1936-1939), Barcellona, 1977; A. Fernández García, La Iglesia española y la guerra civil, in «Studia Histórica», 4 (1986), pp. 37-74. Si veda inoltre G. Di Febo, Ritos de guerra y de victoria en la Espana franquista, Bilbao 2002; della stessa autrice si può consultare, proprio su questo argomento, La crociata e le rappresentazioni del nazionalsocialismo, in http://195.62.160.66/soprintendenza/SPAGNA/sez6-saggio27.htm. 118 M. Isnenghi, Il mito di potenza, in A. Del Boca - M. Legnani - M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari 1995, p. 142. 119 Si tratta di un discorso tenuto da Mussolini il 6 febbraio 1921 al politeama Rossetti di Trieste, cit. in A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. II. La conquista dell’impero, Roma-Bari 1979, p. 5. 120 Una tendenza ampiamente scandagliata da quello che ormai è diventato quasi un autentico filone storiografico. Cito solo alcune dei lavori a me più presenti: M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari 1979; L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980; si tengano in considerazione anche le pagine di P.G. Zumino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 1995, pp. 63-129, che hanno il merito, a mio parere, di sottolineare come l’immagine del passato continuò ad essere un elemento particolarmente labile all’interno dell’ideologia fascista; e questo malgrado i noti riferimenti retorici al glorioso passato imperiale romano e quant’altro. 121 Cit. in Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 10. righe, di ritrovare parecchi elementi a noi ormai ben noti. Ma la differenza, in realtà c’era: l’islam, si è detto, non era in discussione. Anzi, cominciava allora, si può dire, quella politica filomusulmana, forse un po’ disordinata ma incessante, che avrebbe portato Mussolini nel 1937 a imbracciare, con la consueta retorica, la spada dell’islam: un appariscente manufatto berbero in oro massiccio e finemente cesellato, che il duce alzò verso il cielo a siglare l’avvenuta congiunzione tra fascismo e islam122. E’ un’altra storia e non intendo approfondire. Ma dopo quei momenti, il destino dell’idea di crociata segue altre vie, la maggior parte delle quali, per la verità, carsiche. Alla fine del secondo conflitto il mondo coloniale europeo era in frantumi. L’islam fu sempre più – almeno in un certo senso - un problema marginale di fronte al manifestarsi del nuovo ordine mondiale dominato dalla schiacciante superiorità politica, economica e militare delle potenze statunitense e sovietica. Scomparsa o quasi dal linguaggio politico (almeno quando riferita all’islam)123, la crociata, piuttosto, diventò tema di una matura riflessione storiografica, a partire almeno dal grande saggio di Runciman, History of the Crusades: in esso le spedizioni d’oltremare tornavano ad essere un fenomeno centrale dell’Europa medievale, allontanato nel tempo e guardato significativamente come «un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio»124. Si potrebbe smettere qua, almeno se la storia avesse seguito altri percorsi. E’ sin troppo famosa l’azzardata previsione in calce a un famoso studio politologico del 1989: ormai il comunismo sovietico era morto e lo sgretolarsi del muro di Berlino altro non avrebbe portato che la fine della storia, l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale in cui i conflitti tra stati o etnie avrebbero avuto sempre più un carattere residuale125. Come purtroppo chiunque sa, le cose si sarebbero dimostrate drammaticamente diverse. La scoperta della crociata nel mondo musulmano Tutto ha inizio negli anni Sessanta del XIX secolo: siamo in pieno periodo coloniale e il vacillare dell’impero ottomano si è ormai fatto tangibile. Nel 1865, appare a Gerusalemme una traduzione araba di un’opera storica francese. La cosa di per sé non sarebbe particolarmente strabiliante: da decenni, da quando perlomeno le flotte di Napoleone avevano fatto la loro apparizione al largo di Alessandria d’Egitto, il mondo musulmano guarda alla cultura europea con un misto di diffedenza e ammirazione; di conseguenza le versioni di opere scientifiche e letterarie stanno diventando sempre più numerose. La differenza è che in questo questo libro del 1865 si parla di crociate. L’originale è francese: si tratta dell’opera – francamente piuttosto brutta – di un certo Maxime de Montrond (1805-79), prolifico autore di testi a tema religioso, tra cui figurava, appunto, anche un volumetto di una settantina di pagine, intitolato Combats de la croix, étude historique offerte à la jeunesse126. A quanto pare gran parte del problema sulla crociata, o perlomeno della sua riscoperta in ambito islamico, nasce proprio qui. 122 Su questo rimando a R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, Ebrei e Indiani nella politica di Mussolini, Bologna 1988, pp. 15-123; si veda anche, pur con qualche riserva, E. Galoppini, Il fascismo e l’Islam, Parma 2001. 123 In usi più generici, tanto legati a una vaga idea morale quanto più legati all’originario significato religioso, il termine ricomparve, come è noto, sin troppo spesso. Si pensi, ad esempio, al peso dell’idea di crociata in occasione della Guerra di Corea. 124 S. Runciman, Storia delle crociate, Torino 1966, II, p. 1093. Faccio mia a questo proposito la seguente considerazione di Tyerman (L’invenzione delle crociate, cit., p. 200): “E’ a un mondo in cui la civiltà , spinta ai limiti consentiti dall’ingegniosità dell’uomo, era arrivata quasi all’autodistruzione che Steve Runciman indirizzò la durissima conclusione della sua magnifica History of the Crusades (1951-1954): «La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio, il che costituisce un peccato contro lo Spirito Santo»”. 125 F. Fukuyama, The End of History?, in P. O’Meara-H.D. Mehlinger-M. Krain (a cura di), Globalization and the Challenges of a New Century, Bloomington-Indianapolis 2000, pp. 161-62. 126 M. de Montrond, [Les ]Combats de la croix, étude historique offerte à la jeunesse, Paris 1871. Su questa traduzione si veda E. Sivan, The Crusaders described by modern Arab historiography, in «Asian and African Studies» 8 (1972), pp. 104-49, in particolare p. 110. Di fronte a una storia in gran parte dimenticata, il traduttore arabo, Muhammad Mazlûm, si trovò nella necessità di rendere il francese croisade. La soluzione fu un neologismo che avrebbe fatto fortuna: Harb al-Salîb, letteralmente “guerra della croce”. Anche il libro, nella sua traduzione araba guadagnò una discreta notorietà: il Târîkh al-hurûb al-muqaddasa fî al-Mashriq al-mad‘ûwa Harb al-Salîb, “La storia delle guerre sante in Oriente, chiamate guerra della croce” avrebbe aperto la via a tante altre opere simili, contribuendo soprattutto a introdurre nella lingua araba termini e concetti nuovi. Prova ne è che solo pochi anni dopo, nel 1899, uscì la prima vera opera storica araba sulle crociate, ne era autore l’egiziano Sayyid ‘Alî al-Harîrî: Le splendide notizie sulle guerre crociate (al-Akhbar al-saniyya fî l-hurûb al-salîbiyya). Magari il titolo può far sorridere, ma si trattava, per molti versi, di un lavoro pionieristico: non solo sanciva che quelle nove parole, da poco introdotte nel lessico arabo, avevano avuto successo ed erano ormai diffuse, ma soprattutto lo faceva attingendo direttamente alle fonti arabe. Anche se il suo esempio non trovò immediati continuatori, quell’opera sanciva con chiarezza un’esplicita convinzione politica: vi era un chiaro parallelo tra il movimento crociato medievale e la contemporanea ingerenza coloniale dei paesi europea. Lo affermava esplicitamente l’autore nella prefazione, citando le parole del sultano ottomano ‘Abdül Hamid II: l’Europa stava ora conducendo una Crociata contro di loro, contro il mondo musulmano, nella forma di una campagna politica127. E così, inevitabilmente, si cominciò a pensare alle crociate come al primo stadio del colonialismo europeo o, secondo una diffusa formula araba, come a una sorta di isti‘mâr mubakkir, un ‘prematuro imperialismo’128. Anzi, si pensò da più parti, erano proprio le crociate, più di qualsiasi altro episodio del passato che davano senso all’attuale situazione di oppressione coloniale. Credo si possa affermare – anche se la cosa meriterebbe di essere approfondita - che questa ricostruzione ideologica della storia medievale avesse alle spalle l’antica percezione dualistica dello spazio imperale islamico. Detta in altri termini: l’assunzione dell’idea europea di crociata avvenne – e non poteva essere altrimenti – attraverso il suo inserimento all’interno della griglia concettuale che contrapponeva un dâr al-islâm a un dâr al-harb, spazi che per essere pensati come antagonisti devono giocoforza essere percepiti come omogenei ognuno al loro interno. E non è tanto un problema di discorso religioso quanto, per così dire, di percezione istituzionale della propria identità: è prima di tutto, come abbiamo visto tante volte, uno spazio politico quello che si definisce; nella frattura ideale tra un dâr al-islâm e un dâr al-harb vi è più la misura di un impero, che la percezione di una volontà divina. Scoperte le crociate era inevitabile che tornassero i loro eroi. Così, frugando anche questa volta nelle cronache europee, gli intellettuali arabi ritrovarono Salâh al-Dîn, il Saladino di tante cronache occidentali ma, come abbiamo già visto, pressoché ignorato dalla letteratura araba precedente alla metà dell’Ottocento. Gli anni sono più o meno gli stessi: a quanto mi risulta la prima attestazione di un’opera dedicata al condottiero medievale risale al 1872, anno in cui uscì una sua biografia ad opera du Namık Kemal (1840-88), forse l’intellettuale turco più rappresentativo del periodo, oltre che esponente di punta dei Giovani Ottomani129. Non si capisce il motivo di quest’opera se non si tiene conto che Kemal fu vicinissimo alla cultura europea del tempo, alle sue forme (il romanzo storico, ad esempio) e alle sue tensioni politiche. Non è un caso che tale biografia di Salâh al-Dîn fosse presentata assime a quella di Maometto II, il conquistatore di Costantinopli, e Solimano il magnifico, il sultano che forse più di tutti aveva incarnato l’apice della potenza ottomana130. Parlare delle motivazioni nazionalistiche che si celavano dietro a simili operazioni ci porterebbe ampiamente fuori tema, meglio sarà, per intendersi, leggere alcune righe da un dramma a sfondo patriottico, Vatan yakhud Siliste (“Patria ovvero Silistria”) che lo stesso Namık Kemal avrebbe 127 Sayyid ‘Ali al-Harîrî, al-Akhbar al-saniyya fî l-hurûb al-salîbiyya, Il Cairo 1899, p. 6. Si veda anche E. Sivan, The Crusaders, cit., p. 112. 128 C. Hillebrand, The Crusades, cit., p. 590. 129 Su di lui si veda F.A. Tansel, Kemâl (Meh med Nâmık i) in Encyclopédie de l’Islâm, Leiden 1978, IV, pp. 875-79. 130 Meh med Nâmıqi Kemâl, Salâh ̣ al-Dîn Eyyûbî, in Evrâq-i perîshân, Istanbul 1872. scritto l’anno successivo e che meglio di ogni altra mia parola aiuta a chiarire il ruolo di un personaggio come Salâh al-Dîn in questo tentativo di riscrivere la memoria di un popolo: E’ vero! Gli ottomani sembra non conoscano la parola patria. A tal punto sembrano non conoscerla che diresti che l’uomo con cui parli sia una statua di pietra. Ma metti loro innanzi un nemico! Lascia che capiscano che uno straniero calpesterà con l’immondo piede la sacra terra ella patria (vatan)! Ecco che allora quei turchi avvolti in rozzi mantelli di lana e di feltro, quei contadini dal parlare dolce, dal volto mite, quegli infelici che noi non vogliamo distinguere dai buoi che si aggiogano all’aratro, spariscono ed appare lo spirito eroico dell’Ottomanesimo!131 Salâh al-Dîn non era turco ma aveva comunque dato una lezione esemplare a un nemico invasore, anzi al nemico per eccellenza. In più il colto Kemal offriva in questa biografia una sorta di risposta alle posizioni false e tendenziose esposte nelle opere occidentali sulle crociate. In particolare aveva presente la famosa Histoire de Croisades di Joseph-François Michaud, pubblicata a Parigi tra il 1812 e il 1822, di cui, giusto per dare un’idea sul legittimo disappunto di Kemal, vale forse la pena leggere un breve passo: Dopo la morte del Profeta della Mecca, i suoi luogotenenti e i compagni delle sue prime imprese proseguirono la sua opera. La vista delle province conquistate accrebbe il fanatismo e il coraggio dei Saraceni. […] Le loro conquiste furon sempre più rapide ed essi unirono nel loro governo militare e religioso la volontà unica e rapida del dispotismo a tutte le passioni che si trovano nelle repubbliche. 132 C’era di che dargli ragione. L’opera di Michaud ebbe una traduzione turca, ma altri testi simili presero a circolare con frequenza nel resto del mondo arabo. Fossero ora chiamate al-hurûb alsalîbiyya (guerre crociate), o harb al-salib, (guerra della croce), le spedizioni medievali d’oltremare assunsero sempre più un’importanza politica, divenendo specchio di una storia attualissima che, nell’immaginario politico degli intellettuali arabi e turchi, continuava a ripetere senza sosta lo scontro tra cristianità e islam; uno scontro che, non è affatto irrilevante, aveva da sempre il suo centro nel mare Mediterraneo. Da qui in poi sarebbe impossibile (e anche inutile) dar conto in modo sistematico della ricorrenza di questo concetto. In un mio precedente lavoro sull’argomento133 ricordavo come esempio il legame sempre più stretto che si cominciò a definire tra la ritrovata figura di Salâh al-Dîn e Gerusalemme. In quegli decenni a cavallo tra Otto e Novecento, nel Medio Oriente cambiò tutto: alla fine della Prima guerra mondiale l’impero ottomano era scomparso e le potenze coloniali, Francia e Inghilterra in testa, si spartivano i suoi resti. Di più, nel territorio della Palestina stavano cominciando ad affluire masse sempre più consistenti di ebrei; e anche se al principio la situazione potè non apparire a molti drammatica, non è difficile immaginare che un autore arabo del periodo potesse assumere il nome di Salâh al-Dîn e scagliarsi contro la minaccia sionista in Palestina134, oppure che già nel 1915 si aprisse proprio a Gerusalemme una nuova università intiolata a Salâh alDîn Ayyubî. La strada era tracciata. Già durante il periodo del Mandato britannico, la vittoria di Saladino contro i crociati a Hattin divenne uno dei temi politici centrali nei discorsi contro il sionismo: di lì a poco lo avrebbero spiegato con grande chiarezza due grandi esponenti del pensiero arabo come Isâf al-Nashâshîbî e Rashîd Ridâ, in occasione dell’anniversario della battaglia di Hattin nel 1932135, anniversario che sarebbe diventato, proprio a partire da quegli anni, festa nazionale palestinese136. 131 Citato in A. Bombaci, La letteratura turca, Milano 1969, p. 428. J.F. Michaud, Histoire des Croisades, Paris 1825, I, p. 20. Come ho già detto in altre occasioni, sulla scorta di simili parole, varrebbe la pena proseguire, chiedendosi se e in che termini fu introdotta nel mondo islamico una riflessione sulle categorie politiche – affini alla classica definizione di Montesquieu – di “dispotismo” e “repubblica”. 133 A. Vanoli, La crociata e il nemico nel discorso politico islamico, in «Passato e presente», 63 (2004), pp. 35-48. 134 Cfr. W. Ende, Wer ist ein Glaubenscheld, cit., p. 86; N. J. Mandel, The Arabs and Zionism before World War I, Berkeley 1976, pp. 84, 88. 135 W. Ende, Wer ist ein Glaubenscheld, cit. p. 86. 136 E. Sivan, Mythes politiques arabes, Paris 1995, p. 25. 132 Siamo quasi giunti alla fine della storia, anche se manca ancora qualcosa per meglio chiarire il problema della rinascita mediterranea dell’idea di crociata. Spesso, nelle pagine precedenti, ho rievocato i destini guerreschi della Spagna: una lunga storia di scontri medievali e un’altrettanto lunga traccia di temi politici, sociali e identitari la cui coda giungeva sino al presente. Meno noto è invece il destino arabo di questa vicenda; destino tutto contemporaneo che si lega inevitabilmente alla riscoperta della crociata e ci permette di chiarire qualcosa di più di quella complessa circolazione mediterranea di idee che stiamo osservando. La scoperta della Spagna perduta Torniamo allora indietro, a quegli anni Sessanta del secolo XIX da cui siamo partiti alcune pagine fa. Istanbul, 1863, solo un paio di anni prima di quella traduzione sulle crociate di cui si è parlato: esce la versione turca del Essai sur l’histoire des arabes et des Mores d’Espagne di Louis Viardot, il traduttore francese del Don Quijote. Opera di un altro grande intellettuale del periodo, Ziya Paşa (1825-1880)137, viene pubblicata col titolo di Endelüs Tarihi, “Storia di al-Andalus”, ed ottiene un successo strabiliante: non solo avrà una ristampa in quattro volumi tra il 1886 e il 1887, ma ispirerà tutta una serie di poemi, commedie e storie di ambientazione andalusa138. Quello che conta è che il successo non si limita alle coste turche: da ogni parte, nel Mediterraneo arabo e anche oltre è tutto un rapido diffondersi di nostalgie moresche, ricordi dell’Alhambra e sentimentali descrizioni di Cordoba. Certo, anche in questo caso l’Europa c’entra molto: le nuove élites intellettuali islamiche leggono avidamente gli orientalisti occidentali e questi, dal canto loro, cominciano proprio in quegli anni a interessarsi alla Spagna (uno per tutti: si pensi alla fondamentale Historire des musulmans d’Espagne di Reinhart Dozy, pubblicata per la prima volta proprio nel 1861). Così capitò a molti, nel mondo arabo di quel periodo, di osservare per la prima volta le coste iberiche cercandovi le tracce del proprio passato139. Non ho alcuna intenzione di fare un elenco, ma vi sono casi e persone che occorre comunque ricordare. Primo fra tutti, probabilmente, il celebrato Jurjî Zaydân, la cui attività di romanziere dovette non poco alle opere di Dumas padre e Walter Scott140 e di cui è nota l’attenzione nei confronti del materiale storico utilizzato: «Noi facciamo di tutto» –dichiarava forse con qualche esagerazione – «affinché la verità storica prevalga sull’aspetto romanzato, a differenza di quanto fanno gli occidentali, che rivolgono il loro interesse principalmente all’invenzione di una vicenda»141. Zaydân scrisse, tra l’altro, un romanzo sulla conquista araba della Penisola iberica, che ruotava attorno alla figura del condottiero Târiq ibn Ziyâd142; sarebbero stati in tanti in tanti a seguirlo: Ahmad Shawqi con Amirat al-Andalus143, ‘Ali alJarim nel suo Hatif min al-Andalus144 o ‘Abd al-Rahmân al-Barquqi con Hadarat al-Andalus; nomi che al lettore medio europeo dicono sicuramente meno di niente, ma che contribuirono in modo notevole al formarsi di una nuova idea sul passato mediterraneo del mondo arabo. E non si trattò solo di romanzieri. Furono in tanti i viaggiatori che a cavallo del Novecento narrarono delle terre 137 Su Ziya Pasha si veda A. Bombaci, La letteratura turca, cit., pp. 420-23. Ad esempio il famoso dramma di ‘Abdülhak Hamid (1852-1937) Tarïq, incentrato sulla figura del conquistatore di Spagna Târiq ibn Ziyâd. Si veda su questo B. Lewis, The Cult of Spain and the Turkish Romantics, in Id., Islam in History: Ideas, Men and Events in the Middle East, London 1973, pp. 115-19, in particolare p. 117. 139 Si veda H. Pérès, L’Espagne par les voyageurs musulmans de 1610 à 1930, Paris 1937; P. Martínez Montávez, AlAndalus, España, en la literatura árabe contemporánea, Málaga, 1992 140 Per un’introduzione alla nascita del romanzo storico nel mondo arabo rimando alle pagine di I. Camera D’Afflitto, Letteratura araba contemporanea, Roma 1998, pp. 80-88; inoltre, soprattutto sulla sua attività di traduttore, si vedano le molte pagine a lui dedicate in M. Avino, L’occidente nella cultura araba, Roma 2002. 141 Citato in Camera D’Afflitto, Letteratura araba contemporanea, cit., p. 86. 142 Fath al-Andalus aw Târiq ibn Ziyâd, Beirouth 1970. Anche in questo caso l’influsso dell’orientalismo europeo fu determinante: lo stesso Zaidân fu autore ad esempio, di una Storia della civiltà islamica in cinque volumi (1902-6), che consisteva in un esplicito adattamento dei celebri lavori europei di Sédillot, Kremer e Goldziher, arricchita, occorre sottolinearlo, dall’uso frequente di fonti arabe originali. Cfr. I. Kratschovsky, Zaidân, in Encyclopédie de l’Islâm, Leiden 1934, IV, pp. 1262-63. 143 Il Cairo 1932. 144 Il Cairo 1979. 138 spagnole con occhi nuovi, Muhammad Labib al-Batnuni145, ad esempio, o Muhammad Kurd ‘Ali146, al quale dobbiamo le seguenti considerazioni: Le campane della chiesa dell’Alhambra suonano successivamente, non in forma armonica, nel corso delle ventiquattro ore, per celebrare in questo giorno ciò che gli Spagnoli in generale e gli abitanti di Granada in particolare, considerano il loro più felice momento di gloria. Essi lo commemorano in varie maniere…vi fu un banchetto….che organizzò il sindaco di Granada. Parteciparono a questo banchetto i grandi della città, bevendo e cantando in ricordo della conquista che i loro antenati avevano fatto dell’ultima terra occupata dagli arabi. Io ricordavo quell’infausto giorno mentre la croce d’argento veniva issata in alto sopra una torre dell’Alhambra… Sarebbe bene che tutti i paesi arabi che hanno perduto la loro indipendenza organizzassero annualmente cerimonie funebri per l’accaduto, specie nei paesi in cui i vincitori fanno rivivere i segni distintivi dei vinti…Oggi qualunque nazione, per quanto possa essere culturalmente arretrata, desidera governarsi da sola, mostrare come esempio le sue proprie caratteristiche e le cose che per essa sono sacre. Riusciranno gli arabi a realizzare questo desiderio?147 Citazione un po’ lunga, ne convengo, ma credo utile per chiarirci sul significato di tale nascita dell’idea di una Spagna perduta. Per amore di equità, mi limito a ricordare che ci sarebbe molto da dire su queste diffusissime feste popolari spagnole legate alla memoria della riconquista e solitamente presentate come antichissime…non mi stupirei di scoprire che la maggior parte di esse fatichi a risalire a due secoli indietro. Rilevante mi sembra, però, questo scontro in atto nella reciproca costruzione di un’identità: una Spagna, da una parte, che fonda anche nel rito della festa la propria percezione nazionalistica e un mondo arabo, dall’altra, ancora coloniale ma già teso verso la ricostruzione – altrettanto nazionalistica - di un passato da ricordare attraverso analoghe pratiche sociali: raduni, feste, e via dicendo. In questa dialettica mediterranea c’è molto di quel processo di scambio linguistico e istituzionale che questo mio libro si sforza di sottolineare e indagare, ma occorrerebbe, per amore di precisione, ricordare anche la portata quasi planetaria di questo mito di al-Andalus. E’ stato notato infatti, che anche gli intellettuali indiani percepirono la cosa in termini molto simili148: guidati anch’essi dagli studi (e dunque dalle categorie) occidentali, attorno al 1870, scoprirono l’opera dell’andaluso Ibn Rushd, l’Averroè latino. Da quel momento fu tutto un fiorire di nuovi interessi: traduzioni in urdu di opere andaluse (ad esempio il Fusûs al-Hikam di Ibn ‘Arabî) o di studi occidentali come l’opera di Meakin, Moorish Empire149 (la traduzione è del 1904); oppure opere originali come le biografie degli iberici Ibn Bâjja e Abû Hayyân. Al di là del valore scientifico, spesso dubbio, cioè che conta è ovviamente l’importanza del mito letterario e politico che la memoria di al-Andalus andava prendendo. Valga per tutte l’opera del famoso poeta Muhammad Iqbâl (m. 1938), in cui le figure degli eroi musulmani di Spagna, Târiq150 e ‘Abd al-Rahmân I, diventano esempi delle virtù di un intero mondo perduto. E’ famosa a tale proposito la sua poesia sulla grande moschea di Cordoba, Masjid-i Qurtuba151, un omaggio all’arte islamica che si allarga all’ammirazione nei confronti del genio creatore di un’intera cultura. Siamo quasi al punto a cui intendevo giungere. In tutto il mondo islamico questa attrazione verso la grandezza culturale e storica della Spagna musulmana celava profonde tensioni politiche e psicologiche. Inoltre, era sin troppo manifesto, nelle opere poetiche come nei saggi di storiografia, che quell’islam evocato dalle memorie di Spagna si riflettesse nell’islam attuale, ricacciato dalle potenze coloniali europee, vincitrici non solo sul piano politico ed economico, ma anche su quello tecnologico e culturale. Al-Andalus era una sorta di mondo al contrario: era da lì che i musulmani avevano dato la scienza all’occidente, era lì che si era manifestato quello sviluppo culturale ed artistico così superiore alle miserie di un’Europa medievale arretrata e barbarica. 145 Rihlat al-Andalus, Il Cairo 1927. Ghabir al-Andalus wa Hadiruha, Il Cairo 1923. 147 Citato in Martínez Montávez, Al-Andalus, cit., p. 58. 148 Su questo e quanto segue si veda A. Ahmad, L’islam d’Espagne et Inde musulmane, in Études d’orientalisme dédiées a la mémoire de Lévi-Provençal, I-II, Paris 1962, II, pp. 461-70, in particolare pp. 465-66. 149 B. Meakin, The Moorish Empire, London, 1899. 150 In M. Iqbâl, Payâm-i Mashriq, Lahore 1953. 151 In Bâl-i Jibrîl, Lahore 1953. 146 E’ in questo complesso nodo che il mito della Spagna perduta e la memoria della crociata si incontrarono. L’adozione delle forme politiche occidentali – fossero esse l’idea di rivoluzione o quella, in fondo speculare, di nazione – comportò necessariamente l’adozione degli strumenti necessari a fondarle. E tra tali strumenti non poteva che esserci una complessa riscrittura della propria storia. Non una riscrittura qualsiasi, ovviamente: quella che entrò nel tessuto delle nuove nascenti istituzioni politiche del mondo musulmano, fu la storia nel suo senso più europeo, la storia che nel succedersi degli eventi identificava l’attuale destino politico e l’identità del popolo che in tale destino intendeva riconoscersi. Tracce contemporanee di un conflitto Eccoci dunque alla fine e all’inevitabile sintesi di queste riscoperte o inventate tracce politiche: la riconquista della Penisola iberica era senza alcun dubbio una crociata; la sola crociata, per giunta, che si era conclusa con la definitiva sconfitta ed eliminazione dei musulmani da quel territorio. Un passato cancellato, è questo il tema che ricorre sempre più forte nelle immagini di tanti letterati del mondo islamico: dalla già ricordata Masjid-i Qurtuba di Muhmmad Iqbâl sino a Flamenco di Nizâr Qabbani, breve elegia il cui nucleo drammatico risiede, appunto, nella constatazione della scomparsa di un intero mondo152. Al-Andalus, crociata, imperialismo: attraverso questa equazione ideologica il ruolo ricoperto dai regni cristiani del medioevo iberico potè essere assimilato a quello dei moderni colonizzatori occidentali: anch’essi erano crociati, proprio come quelli che tanti secoli prima avevano preso Gerusalemme fondando gli effimeri regni latini d’Oriente. La mediterraneità di tale costruzione ideologica la si comprende anche in tale inevitabile, continuo, ritornare a Gerusalemme. In tutto questo terzo capitolo ho parlato di Occidente e Oriente, Cristianità e Islam, ma mai di ebraismo. E questo più per necessità di sintesi che per reale convinzione: nella costruzione dell’idea mediterranea di conflitto l’ebraismo ha un ruolo fondamentale, dai tempi biblici sino ai nostri giorni. Dal punto di vista islamico, è sin troppo noto, l’ebraismo è il problema di Gerusalemme, anche e soprattutto per quanto concerne il nostro discorso sulla crociata. Lo sintetizzò drammaticamente bene una serie di articoli pubblicati tra il 1979 e il 1980 in al-Da‘wa (“La chiamata”), organo dei Fratelli Musulmani153, volti a indicare ai lettori i pericoli incombenti sul mondo musulmano: in una sintesi solo apparentemente ingenua si enumeravano i crociati, gli ebrei, i marxisti e i laici. Un elenco in cui i crociati erano forse gli unici a sfuggire a una caratterizzazione esplicitamente religiosa: non tutti i cristiani erano, infatti, necessariamente crociati, ossia militanti e aggressivi, anche se, notava l’articolista, i cristiani malvagi stavano attualmente corrompendo i cristiani buoni trasformandoli tutti in crociati154. Per gli ebrei, sia detto solo tra parentesi, una simile distinzione era invece assente e il testo non proponeva etichette più specifiche quali “sionista” o “israeliano”155. Si tratta di un esempio che potrei facilmente moltiplicare, ma che proprio per la sua provenienza – il contesto islamista e politico dei Fratelli musulmani - mi permette di puntualizzare ulteriormente facendo riferimento a uno dei testi più importanti del movimento e, in generale del contemporaneo pensiero islamico radicale. 152 Di seguito nella traduzione di P. Martínez Montávez: “Flamenco...Flamenco... La taberna en penumbra se despierta al brotar la voz triste como un chorro de oro, al repiquetear las castañuelas. Yo, con pena, sentado en un rincón, voy juntando mis lágrimas. Voy juntando reliquias de los árabes” (Nizar Qabbani 1955). 153 Fondato in Egitto nel 1928 dal carismatico Hasan al-Bannâ, questo movimento, che coniugava radicalismo religioso all’attività politica (e che è all’origine di molti partiti islamisti attuali), si collocava in un contesto storico preciso: la preoccupante evoluzione della situazione in Palestina e lo sviluppo delle tendenze europeiste secolarizzate, che si esprimeva nel disprezzo dell’identità islamica. 154 Al-Da‘wa, ottobre 1980. Il testo è stato studiato da G. Kepel in Le Prophète et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Paris 1984, pp. 110 ss. 155 Tale aspetto, caratteristico, peraltro, della nuova letteratura antiebraica dei paesi arabi, è ampiamente discusso in B. Lewis, Semites and anti-semites, London 1986, ed. it. aggiornata Milano 2003, in particolare cap. VIII. Nel suo famoso commentario coranico Fî Zilâl al-Qur’ân (“All’ombra del Corano”, composto in carcere dopo il 1954), Sayyid Qutb156 descriveva il grandioso scenario di uno scontro tra musulmani e politeisti in corso ormai da millequattrocento anni; all’interno di tale quadro egli individuava due periodi di particolare rilevanza: le conquiste islamiche e le crociate157. In un punto precedente della stessa opera aveva avuto cura di spiegare che l’idea di “crociata” doveva essere utilizzata per indicare ogni attacco sferrato dalla cristianità contro l’islam. In tal senso “crociate” dovevano essere intese già le opposizioni alle prime conquiste islamiche nella Siria e nella Palestina del secolo VII. “Crociati” erano naturalmente i cristiani spagnoli che distrussero al-Andalus; “crociata” doveva essere intesa la moderna battaglia contro l’islam, le cui basi economiche, politiche e militari celavano in realtà un “segreto proposito dottrinale”, e le cui manifestazioni erano “il sionismo internazionale, il movimento crociato internazionale e il comunismo internazionale”158. Lasciamo perdere la drammatica ingenuità di simili argomentazioni. Ciò che davvero conta è che esse si inseriscano in una retorica politica e religiosa a dir poco solida: nel pensiero di Sayyid Qutb e dell’islamismo radicale successivo che a lui attingerà, i fatti di Spagna, la Reconquista, la presa di Granada e tutto quanto il resto, si collocano all’interno di una continuità priva di storia definita dalla categoria del conflitto. Per chiarirci occorre ripensare alla teoria del jihâd e dimenticarsela: quelli di Qutb furono proprio gli anni in cui tale dottrina classica veniva riletta alla luce di una nuova tensione islamistica di matrice politica: la teoria di uno sforzo di assimilazione e persuasione nei confronti dei non-musulmani fu ripresa adattandola – meglio sarebbe dire però deformandola – per la lettura di un presente caratterizzato dall’ingerenza violenta e opprimente di un mondo occidentale percepito sempre più come nemico159. Questa lettura caratteristica dell’islam radicale – usare la parola “fondamentalista” da più problemi che altro…- è giunta purtroppo sino ai nostri giorni. Era ancora lì, all’alba dei raid angloamericani sull’Afghanistan, domenica 7 ottobre 2001, nelle parole Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano considerato uno dei principali ideologi di al-Qa‘ida, quando ammoniva: Che tu sappia, o popolo americano, e che sappia il mondo intero, che noi non accetteremo che si ripeta di nuovo la tragedia di al-Andalus. E' meglio ed è più facile per noi, che questa comunità perisca tutta assieme piuttosto che vedere la moschea di al-Aqsa demolita o la Palestina giudeizzata e la sua gente buttata fuori. Evitiamo i commenti. Il fondamentalismo, l’islam radicale, o come si voglia chiamarlo, è ultimamente sin troppo evocato da giornalisti e scrittori di successo. Il discorso politico che lega crociata e Spagna è in realtà ben più trasversale e non potrebbe essere altrimenti: nato per fondare una nuova esigenza identitaria, potè essere assunto tanto dagli integralisti islamici che guardavano al passato come a una lotta ininterrotta tra cristiani e musulmani, quanto dai nazionalisti laici che in quella continuità storica di oppressione videro la prova del loro destino attuale. Il risultato è che entrambe le idee sono oggi diffuse – lo dico esagerando solo un po’ – in tutto il mondo musulmano e non importa che si tratti di un religioso, di un laico, del proverbiale “uomo della strada” o di un raffinato intellettuale. Mi limito a due soli esempi: E’ chiaro che l’Oriente arabo veda sempre nell’Occidente un nemico naturale. Contro di lui ogni atto ostile, sia esso politico, militare o petrolifero, non è che una legittima rivincita. E non si può dubitare del fatto che la frattura tra questi due mondi dati al tempo delle crociate, sia percepita dagli Arabi, ancora oggi, come uno stupro. 160 156 L’opera di Sayyid Qutb è stata oggetto di numerosissimi studi, ho tenuto in particolare considerazione O. Carré, Mystique et politique, Paris 1984 e I. Abu Rabi, Intellectual Origins of Islamic Resurgence in the Muslim Arab World, Albany 1996. 157 Sayyid Qutb, Fî Zilâl al-Qur’ân, Il Cairo–Beyrouth 1992, III, p. 1593. 158 Ibid., I, p. 108. 159 Su tale aspetto la letteratura è notoriamente vastissima, rimando al classico E. Sivan, Radical Islam. Medieval Theology and Modern Politics, Yale 1985 e al più recente G. Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Paris 2000, 2002 (nuova edizione aggiornata). 160 A. Maalouf, Les croisades vues par les Arabes, Paris 1985, p. 304. Sono le parole con cui Amin Maalouf chiude la sua fortunata opera divulgativa sulle Crociate viste dagli arabi. Anche in questo caso la distanza cronologica sembra essersi annullata: di tutto quello che è avvenuto dopo le crociate, l’invasione mongola, l’impero ottomano e i suoi scontri con l’Europa, nulla sembra aver lasciato un segno. Le “crociate viste dagli arabi” non sono un fatto lontano da noi quasi mille anni di storia, ma un presente ancora vivo. La Spagna, o meglio alAndalus, è accomunata dallo stesso destino ideologico: è terra islamica violata la cui lacerazione si offre alla memoria del mondo islamico come parte delle ragioni di un presente drammatico. E’ questo che sostanzialmente echeggia nelle parole dello scrittore di origine pakistana Tariq Ali quando, in un suo recente libro, descrivendo la Spagna musulmana riprende e sintetizza i temi di cui abbiamo seguito le tracce: Cordoba primeggiava nel dissenso. Il fatto che l’egemonia islamica non venisse imposta con la forza aveva favorito un incontro spontaneo fra le religioni, creando una sintesi andalusa che giovò enormemente all’Islam locale […] L’interno della Grande moschea di Cordoba è di una bellezza strabiliante. L’impressione di spazio infinito e la foresta di colonne potevano essere solo la creazione di architetti che capivano la città ed erano partecipi del suo fermento intellettuale. Viene spontaneo pensare come si presentasse lo spazio prima che venisse violato dall’aggiunta di un altare cattolico, un organo, immagini barocche, cherubini paffuti, pesanti decorazioni in legno e opprimente ferro battuto. Quando la visitai, in me si alzò un urlo di protesta contro questa imposizione.161 L’approccio di Ali è fondamentalmente ideologico – e un po’ banale…-, ma rispecchia bene il punto di vista della retorica politica araba su questi argomenti: al-Andalus rappresenta da una parte il luogo dove le potenzialità culturali, artistiche ed etiche dell’islam si sono manifestate nella loro pienezza, dall’altra uno dei primi esempi della crudeltà dell’Occidente. Si potrebbe facilmente opporre a simili argomentazioni il fatto che moltissime moschee del mediterraneo fossero già state in precedenza chiese a cui gli invasori musulmani avevano semplicemente cambiato l’orientamento per la preghiera162. Non credo però che servirebbe a nulla, perché argomentazioni del genere si muovono, a ben guardare, al di fuori della storia: sostenere, rimanendo all’interno di un discorso come questo, che tali presupporti sono storicamente falsi – come di fatto sono – non cambierebbe praticamente nulla. Rischio di essere forse troppo tecnico, ma il punto è importante: una confutazione storico-critica fondata su una strumentazione rigorosamente filologica inserita all’interno di una simile argomentazione allo scopo di confutarla, correrebbe il rischio di essere percepita come una sorta di implicita accettazione della validità della stessa affermazione islamica. Con queste sconsolanti constatazioni si chiude questo nostro sguardo al Mediterraneo del conflitto. Aggiungendo un’avvertenza però. Non cadiamo nell’errore drammatico di chi vede nell’islam un nemico naturale o nel cristianesimo uno strampalato connubio di crociata e imperialismo fissato dalla notte dei tempi. Quelli che si appellano ad argomenti simili invocano la storia per dimostrare le proprie teorie senza neanche sapere cosa sia, la storia. Dietro le loro presunte prove c’è una cronologia immobile dove da sempre, cioè dalla creazione, non cambia nulla: le forze del bene si scontrano con le forze del male in un patetico ritornello cosmico. E non ci vuole una sociologia particolarmente approfondita per intuire che dietro tali stereotipate immagini del nemico si celi la necessità (questa, sì, storicamente dimostrabile) di ricostruire o definire una propria identità sociale, politica o religiosa. In fondo quello che abbiamo visto in tutte queste ultime pagine è che dietro ogni epifania del conflitto, si celava una sorta di suo opposto, una necessità di costruire, di fondare una realtà. E’ paradossale, ne convengo, ma la crociata come il jihâd, nelle lore legittimazioni teoriche, nelle loro pratiche, nei loro riti servono anche per creare identità politiche oltre che spazi conflittuali o cose del genere. La comparazione aiuta, forse a comprendere meglio questa singolare situazione contemporanea in cui viviamo, dove crociata e jihâd sono tornati proprio in un momento in cui lo 161 T. Ali, The Clash of Fundamentalism, New York 2002, trad. It. Milano 2002, pp. 54-55. Un esempio per tutti: si pensi alla grande mosche di Damasco, che prima di essere un gioiello dell’architettura omayyade fu una chiesa, dedicata a Giovanni Battista al tempo dell’imperatore Teodosio (a sua volta, poi – come spessissimo capitò, tale chiesa era sorta sul suolo di un tempio pagano dedicato a Giove). 162 spazio politico tradizionale, quello dello Stato, della nazione, vive ormai una profonda crisi e dove le derive globalizzanti, belle o brutte che siano, mettono a dura prova le identità tradizionali. Di più, la circolazione mondiale di informazioni, unita alla divulgazione mediatica di questi concetti, ha prodotto un altro rilevante fenomeno: ha, per così dire, appiattito queste idee sul presente, contribuendo non poco a fornire, se non argomenti, almeno sintassi, ai discorsi di quelli che allo scontro di civiltà ci credono davvero. Il fatto che una notizia o una dichiarazione faccia oggi il giro del mondo in tempo reale ha comportato insomma che tanto l’idea di crociata quanto quella di jihâd debbano essere compresi immediatamente anche da culture differenti. Per far questo esse devono ovviamente perdere ogni profondità storica, ogni stratificazione concettuale. Detto in altri termini: che “crociato” sia stato, un tempo, quasi sinonimo di “pellegrino” non importa nulla a musulmano radicale; oppure, che il jihâd possa voler dire sforzo interiore sulla via di Dio è irrilevante per qualsiasi occidentale che nell’islam vede solo il terrorismo. La cosa funziona anche incrociando le parti. Convengo, naturalmente con tutti quei colleghi docenti di islamistica che inorridiscono quando si traduce jihâd con “Guerra santa”, a patto che l’ingenuità finisca qui: non è affatto vero che tutti gli arabi conoscono le profondità lessicali di ogni radice trilittera della loro lingua; è molto più vero, piuttosto, che in certi casi, come appunto il termine jihâd, la maggior parte dei parlanti arabo sappia benissimo come verrà reso nelle lingue occidentali…pensate davvero che Bin Laden non immagini che quel jihâd da lui invocato su al-Jazeera verrà tradotto sulla BBC con “Guerra santa”? Bisognerebbe a questo punto chiedersi se concetti del genere, allontanati dalla storia e dalla cultura d’origine possano davvero ancora servire per fondare – per quanto drammaticamente - delle identità o una legittimazione politica: in questo senso scoprire che, tanto la crociata quanto il jihâd, al Mediterraneo non servono più sarebbe davvero un bel punto da cui ricominciare.