rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
Giovedì 27 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Volontariato Oggi del 26/08/2015
Migrazioni, fenomeno epocale. Italia (ed
Europa) inadeguate
Francesca Chiavacci
ROMA. Il mese di agosto ci ha consegnato le terribili immagini di migliaia e migliaia di
donne, uomini e bambini disposti ad affrontare un viaggio sempre più rischioso e
disumano pur di coltivare una speranza di futuro. Centinaia di morti in più nel Mediterraneo
rispetto allo scorso anno, e se non è il mare e la crudeltà degli scafisti a provocarle. Come
dimenticare i 49 cadaveri rinvenuti nel giorno di ferragosto in una stiva, perché privi dei
soldi necessari per vedersi consentito il ‘lusso’ di respirare?
Le migrazioni sono un fenomeno epocale. Sono il frutto delle guerre, delle violenze, delle
diseguaglianze, dello sfruttamento feroce delle persone e dell’ambiente. L’Europa ha
precise responsabilità in tutto ciò e non può lavarsene le mani. Nessuna operazione di
polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite
le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa
nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo.
Alle prese con questo fenomeno epocale, l’Italia e l’Europa dimostrano tutta la loro
inadeguatezza. Il presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere
un’Unione in cui si ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione.
Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di
grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi
arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla
Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa. In sostanza vogliono che i paesi di frontiera
facciano da guardiani alla fortezza Europa.
Al contrario bisogna sapere affrontare l’emergenza in modo umanitario e allo stesso tempo
avere un piano di largo e lungo respiro. I canali umanitari, la protezione delle persone, il
salvataggio dei naufraghi, la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato. Ai quali non
si può abdicare, pena l’imbarbarimento dell’Europa. La Merkel si dice inorridita delle
manifestazioni dei neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del respingimento,
dell’egoismo, della cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare.
E non solo in Germania.
Un piano di lungo periodo deve partire dal presupposto che le migrazioni, in un mondo
globalizzato, sono un fatto fisiologico e sono un’occasione straordinaria per lo sviluppo
civile e economico del pianeta. Naturalmente richiedono l’avvio di processi di integrazione
che si basino sul rispetto reciproco delle culture di appartenenza e sui diritti umani e civili.
Perciò chiediamo al Governo italiano di alzare la voce a livello internazionale, di dotarsi di
un piano efficace per l’accoglienza. Chiediamo all’UE di smetterla di voltare le spalle.
Esistono soluzioni: aprire canali umanitari, consentire subito all’UNHCR di rilasciare
lasciapassare, in alcuni paesi del Nord Africa e dell’est del Mediterraneo, per conto
dell’UE per consentire una distribuzione di profughi di dimensioni pari almeno a quello che
è in tanti Paesi intorno al Mediterraneo (la piccola Giordania da sola fa più di tutta l’UE).
Non è con la guerra ai migranti che si risolvono i problemi. Solo una politica di pace, di
solidarietà, di cooperazione a casa loro e di integrazione a casa nostra, è la soluzione.
Francesca Chiavacci
presidente Arci
2
http://www.volontariatoggi.info/migrazioni-fenomeno-epocale-italia-ed-europa-inadeguate/
Da Il Tirreno del 27/08/2015
Sbarcati in città i profughi ripescati dal canale
di Sicilia
Livorno. Cinquanta eritrei, tra cui mamme con bambini, giunti in porto
dalla Sardegna. Quattro restano a Livorno, tra loro un minore. Gli altri
nel resto della Toscana. Giovedì un nuovo sbarco
di Lara Loreti
LIVORNO. Da un marsupio, attaccato al petto di una ragazza, spunta una testolina scura
e due manine microscopiche. Lei non ha più di vent’anni, il bebè massimo tre mesi: la
donna ha lo sguardo un po’ perso, ma sorride mentre stringe a sé quell’esserino. È
l’immagine della vita che si è imposta su un destino che ha visto la morte in faccia, ma poi
è fuggito via verso la speranza. Un nuovo cammino che ha fatto tappa a Livorno. La
giovane madre è una dei 52 profughi che venerdì 26 agosto nel pomeriggio sono sbarcati
in città al Varco Valessini, calata Pisa. Sono un gruppo di eritrei ripescati dal canale di
Sicilia dalle autorità italiane, salvati e portati in Sardegna. Quattro gli africani destinati a
restare a Livorno: tutti adulti e un minore, giunto con lo zio.
La nave Via Adriatico arriva verso le 16 da Cagliari e, dopo la tappa al porto labronico,
riparte per Civitavecchia, dove lascerà altre 50 persone. Si tratta del primo vero sbarco in
città di profughi, dopo i vari arrivi avvenuti tutti via terra.
Per l’occasione in porto sono presenti tutte le autorità civili e militari cittadine, a partire
dalla prefetta Tiziana Costantino fino a carabinieri, guardia costiera, polizia, finanza,
associazioni di volontariato e così via. Lo sbarco viene seguito in tutte le sue fasi dai Piloti
del porto, oltre che dalla Capitaneria. Ad accogliere i quattro profughi, c’era il personale
dell’Arci, guidato da Marco Solimano, che ormai da mesi nell’accoglienza degli immigrati in
città sta dando anima e corpo. In tutto a Livorno gli immigrati arrivati sono circa 600.
«Vedere queste persone mi ha molto colpito - dice Solimano- C’erano numerose mamme
con bambini, anche bebè. E se una madre decide di mettere a rischio la vita sua e di un
figlio, allora vuol dire che davvero sta scappando da una situazione insostenibile. In Eritrea
da anni è in corso una guerra civile spietata». Le mamme sono destinate a centri di
accoglienza di Firenze, Arezzo e Grosseto. Sulla banchina della Calata Pisa sfila
un’umanità disperata. Ma sui volti dei profughi c’è anche il sorriso, specchio di una
speranza irriducibile. «Per queste persone aver raggiunto un Paese civile è già un grosso
traguardo», spiega Solimano. Molto probabilmente gli eritrei non staranno a lungo in città:
statisticamente, le persone che provengono dall’Eritrea hanno come destinazione Paesi
del Nord Europa come Germania, Olanda e Scandinavia. Lo scopo è raggiungere i loro
cari. Dopo la prima accoglienza, i 52 profughi sono stati visitati e fotosegnalati. Uno dei
“nostri” ha la scabbia: per lui è stato subito avviato l’iter sanitario. Oggi è previsto un nuovo
sbarco.
3
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 27/08/2015, pag. 16
In marcia per Sacco & Vanzetti
1927-2015. Anche quest’anno Boston ha ricordato i due anarchici uccisi
sulla sedia elettrica, tracciando un parallelo tra gli italiani di allora e gli
immigrati di oggi. Perché la loro vicenda racchiude più lotte
Luca Peretti
Il 23 agosto del 1927 Sacco e Vanzetti furono uccisi sulla sedia elettrica nella prigione di
un sobborgo di Boston. Da dieci anni, anche in questa grande città americana del nord
est, si tiene una manifestazione che li ricorda e commemora. «Di solito siamo di più – racconta Sergio Reyes, uno degli organizzatori della giornata – probabilmente è il tempo». Il
23 agosto del 2015, domenica scorsa, si presenta infatti con una pioggerellina fitta e una
nebbia bassa, decisamente non un invito a scendere in piazza.
Il concentramento della manifestazione è proprio nel centro della città, in quel Boston
Common che è un grande parco pieno di storia, da accampamento dei soldati inglesi
prima della rivoluzione fino alle proteste contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta,
e dove si radunò anche la folla che in quell’agosto del 1927 tentò di farsi sentire una volta
di più contro la condanna. Da qui partono anche i tour della città condotti da personale
vestito come ai tempi della rivoluzione, che per tutta la giornata fanno un po’ da contraltare
alla marcia di anarchici e militanti di varie sigle che propongono una storia non necessariamente “ufficializzata” dalle istituzioni.
La manifestazione infatti, organizzata oltre che dalla Sacco and Vanzetti Commemoration
Society anche da altri gruppi come Black Rose, Encuentro5 e gli Industrial Workers of the
World (i gloriosi Wobblies), si snoda per le vie del centro attraversando le strade della rivoluzione fino a concludersi nel cuore del North End, la zona italo-americana della città, sotto
gli occhi confusi dei turisti e quelli sconcertati di qualche benpensante dal portafoglio pieno
(questa è una delle zone più ricche del paese).
«Gli italiani di ieri – dice Reyes dal microfono davanti alla piccola folla che si è radunata –
sono i latinos di oggi. Ecco perché anche se molti di noi non sono italiani o anarchici,
è importante essere qui». Ed ecco perché il legame tra immigrazione di oggi e di allora
deve essere così forte, anche grazie alla presenza, per la prima volta quest’anno, della
Boston Banda de Paz El Salvador, una vivace ensemble di immigrati che accompagna il
corteo. «Quest’anno è il decimo anno – racconta sempre Reyes –. È cominciata come iniziativa dei Young Anarchist, che sin dall’inizio hanno lavorato con i movimenti che si battono per i diritti dei lavoratori e dei migranti, in particolare della May day coalition. Il primo
anno il corteo, composto da circa 2000 persone, è andato fino al cimitero di Forest Hill,
dove Sacco e Vanzetti furono cremati. Poi l’anno dopo, nel 2007 per l’ottantesimo anniversario, siamo diventati una society, e da allora il corteo si tiene ogni anno intorno a questa data». Quello di Sacco e Vanzetti è un caso emblematico, anche se all’epoca non
mancarono molti altri casi di uccisioni di comunisti e anarchici italiani (come lo stesso
Andrea Salsedo, amico dei due, “suicidato” dall’Fbi nel 1920), che qui anarchici hanno
cominciato a volare dalle finestre ben prima di Pinelli.
Gli italiani, specie i meridionali, furono anche linciati al pari dei neri fino a pochi anni prima,
come ha raccontato Enrico Deaglio nel suo recente libro Storia vera e terribile tra Sicilia
e America, e una delle chiavi di lettura della vicenda dei due anarchici uccisi a Boston
è proprio quella di vederla come una sorta di linciaggio istituzionalizzato, in un’epoca in cui
4
gli Stati Uniti stavano finalmente cominciando a prendere coscienza di questa pratica brutale e fino ad allora ampiamente tollerata dalle autorità.
Ma quello di Sacco e Vanzetti è diventato un caso emblematico non solo per il clamore
mediatico che suscitò allora e nei decenni a seguire, ma anche perché continua a intercettare una serie di tematiche assolutamente presenti nella società americana e no. «È una
vicenda che racchiude una serie di lotte – continua Reyes – dalle lotte per i diritti degli
immigrati, quanto mai attuali oggi negli Stati Uniti, a quelle contro la pena di morte (viene
infatti ricordato dal palco che il Connecticut ha recentemente dichiarato incostituzionale
questa pratica), fino a quella contro gli abusi degli apparati governativi. Da sempre la marcia ha queste caratteristiche». Reyes racconta come dieci anni fa la manifestazione partì
dal North End, proprio dalla strada dove si trovava l’impresa di pompe funebri che si
occupò delle salme dei due e dove aveva sede il Sacco-Vanzetti Defense Committee «e
proprio lì, dove si trovava il comitato, di recente abbiamo fatto mettere una targa».
Come molte Little Italy degli Stati Uniti anche questa è soprattutto una zona turistica dove
si mettono in mostra (e soprattutto in vendita) scampoli di identità italiana. Una volta era
molto diverso: «Sacco e Vanzetti venivano qui, avevano amici e compagni». Oggi invece
le comunità italo-americane sono largamente conservatrici e poco interessate all’eredità
dei militanti anarchici e comunisti dell’epoca: «Alcuni anni fa siamo riusciti a organizzare
una lezione di Howard Zinn su Sacco e Vanzetti insieme alla Dante Alighieri Society, ma
per il resto non c’è molto interesse da parte della comunità italo-americana».
Il quartiere, proprio in questi giorni, prepara le varie feste dei santi che si tengono in questo periodo, dove abbondano cibo fritto e italianità venduta un tot al chilo. Sui muri, targhe
ricordano poliziotti italo-americani e membri di questa o quell’istituzione governativa, oltre
ai caduti per le guerre della nuova patria. Una grande statua della gloria locale, il pugile
Tony Demarco (ancora vivo e vegeto), campeggia all’ingresso del North End. «Il nostro
obiettivo – conclude Reyes – sarebbe proprio quello di fare un monumento a Sacco e Vanzetti, qui nel quartiere».
5
ESTERI
Del 27/08/2015, pag. 6
10 anni dal Disimpegno, per i coloni primo e
ultimo ritiro
Striscia di Gaza. Nell'agosto 2005 Israele completava l'evacuazione unilaterale dei
suoi coloni e soldati da Gaza ordinata da Ariel Sharon. Ripeterla anche in
Cisgiordania appare impossibile con la destra radicale al potere in Israele. I
palestinesi ricordano i giorni del ritiro con gioia ma è forte l'amarezza per una libertà
conquistata solo a metà
Michele Giorgio
«Gaza? Ci ritornerei subito. È stato un errore gravissimo quel ritiro. Era terra nostra». Meir
aveva una villa e alcune serre nel moshav Ganor, una delle 21 colonie ebraiche costruite
da Israele nella Striscia di Gaza, dopo averla occupata militarmente nel 1967, evacuate
e demolite 10 anni fa assieme ad altri quattro insediamenti in Cisgiordania. Ricorda non
rabbia quando gli ordinarono di partire. «Qualcuno di noi scelse di andare via prima
dell’arrivo dei soldati e accettò i risarcimenti statali, altri come me decisero di opporsi ma
senza usare la violenza. Alla fine i soldati ci cacciarono via tutti», racconta l’ex colono
ricordando quei giorni di agosto del 2005, in cui per la felicità dei palestinesi lasciarono le
loro abitazioni gli ultimi dei circa 10 mila coloni ebrei insediati a Gaza, nel quadro del ritiro
unilaterale ordinato dallo scomparso premier israeliano Ariel Sharon, passato alla storia
come il “Piano di Disimpegno” (Tokhnit HaHitnatkut, in ebraico). Meir si è rifatto una vita
aprendo un minimarket a Nitzan, scialba cittadina sulla costa mediterranea, tra Ashdod
e Ashqelon, dove è finita gran parte degli ex coloni. Prova ancora rancore. Per lui, come
per tutti i coloni, Gaza, come la Cisgiordania, appartiene solo al popolo ebraico. «Sharon
era uno dei nostri, perchè prese quella decisione? – domanda Meir – Non siamo tenuti
a dare un centimento di terra agli arabi. Con noi (coloni) e l’esercito dentro Gaza (il movimento islamico) Hamas non avrebbe mai preso il potere. I palestinesi non potrebbero lanciare razzi». Di una cosa è certo l’ex colono del moshav Ganor. «Forse non torneremo mai
Gaza ma quello di dieci anni fa è stato il primo ed ultimo ritiro da parti di ‘Eretz Israel’, la
nostra gente non accetterà che qualcosa di simile avvenga anche in Yehuda e Shomron
(Giudea e Samaria, i nomi biblici che i coloni usano per indicare la Cisgiordania, ndr)».
Furono complesse, tra una scommessa diplomatica e necessità militari, le considerazioni
che fece Sharon tra il 2002 e il 6 giugno 2004, quando il suo governo approvò il “Disimpegno”. La seconda Intifada contro l’occupazione, cominciata nel 2000, era sempre intensa
e Israele, che nel 2002 aveva rioccupato le città autonome della Cisgiordania, si era scoperto vulnerabile agli attacchi palestinesi. Sharon, che nel frattempo aveva dato il via
libera al progetto del “Muro di Separazione” in Cisgiordania – ufficialmente per «fermare gli
attentati» ma in realtà l’idea era in discussione da anni con evidenti finalità politiche e territoriali – decise il ritiro unilaterale da Gaza per l’impossibilità di proteggere ulteriormente
i coloni di fronte alle accresciute capacità di attacco dei palestinesi. Tra i suoi intenti c’era
anche quello di dare un segnale “distensivo” al mondo che aveva assistito, in verità quasi
senza fiatare o protestare, alla brutale repressione dell’Intifada. Scelse di non andare
all’accordo con Abu Mazen che, nel gennaio 2005, era stato eletto presidente dell’Anp al
posto dello scomparso Yasser Arafat. Raggiunse invece intese con gli alleati americani
e gli egiziani per ottenere il controllo israeliano della costa di Gaza e dello spazio aereo
palestinese, riservandosi il “diritto” di intraprendere operazioni militari in caso di “necessità”
6
(tre guerre avvenute tra il 2008 e il 2014). Ai palestinesi, liberi da coloni e soldati, sarebbe
andato il controllo, sul lato di Gaza, del valico di Rafah.
Il Piano di Disimpegno entrò nella fase finale prima dell’estate 2005 tra le proteste di una
fetta consistente della popolazione israeliana, che appoggiava il “no” dei coloni e di varie
forze politiche al ritiro. Raggiunse il culmine a metà agosto quando esercito e polizia
cominciarono ad evacuare con la forza chi si opponeva alle decisioni del governo. Nelle
sinagoge di Gush Qatif, a Neve Dekalim, a Kfar Darom e in altre colonie i più coloni giovani, tra canti religiosi di dolore e atti di resistenza passiva, si opposero ai soldati inviati dal
governo. Le case e tutti gli altri edifici (ad eccezione di una parte delle serre agricole) non
furono lasciati ai palestinesi, come risarcimento per l’occupazione, ma vennero distrutti
completamente. Furono evacuati, simbolicamente, anche quattro insediamenti ebraici nel
nord della Cisgiordania. Gli evacuati in buona parte finirono a Nitzan, gli altri a Neveh
Yam, Sorek, Ashdod, Ashkelon, Shomriah, Benkalim, Atzmona, in Galilea, in vari piccoli
centri abitati e, naturalmente, in varie colonie della Cisgiordania.
Ogni famiglia di coloni ha ottenuto o avrebbe dovuto ottenere un risarcimento di almeno
600mila shekel (150mila euro). Non ci sono cifre aggiornate disponibili ma lo Stato di
Israele, secondo fonti ufficiose, avrebbe investito sui 10mila coloni evacuati da Gaza circa
12 miliardi di shekel (poco meno di tre miliardi di euro). «Quei soldi a molti non sono
bastati per comprarsi una casa, tanti non hanno trovato un lavoro» si lamenta Inbar
Dabush, 33 anni. Dieci anni fa, Dabush viveva con i genitori ad Alei Sinai, un insediamento
a nord di Gaza, oggi ad Ashdod. Ora gestisce insieme ad altre donne il “Gush Katif Heritage Center” di Nitzan, una sorta di “museo della memoria” che raccoglie oggetti appartenuti alle colonie demolite 10 anni fa. «I militari dicevano che eravamo in guerra ma noi
avevamo buone relazioni con gli arabi, molti lavoravano nei nostri campi, nelle nostre
serre», afferma Dabush ripetendo uno slogan diffuso tra gli ex coloni su presunti ottimi
rapporti con i palestinesi che vivevano intorno agli insediamenti.
«Ottimi rapporti? Ma di cosa parlano, erano i classici rapporti tra il padrone e il servo»,
replica Aziz Kahlout, un giornalista palestinese. «La nostra vita era un inferno – aggiunge
–, segnata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’esercito di occupazione per garantire
la sicurezza dei coloni. Certo qualcuno di noi aveva un lavoro (negli insediamenti, ndr) ma
un milione e mezzo di palestinesi viveva prigioniero di posti di blocco e barriere. Non
dimenticherò mai quando i coloni andarono via. Facemmo festa per giorni, era la fine di un
incubo». Un giudizio condiviso da tutti i palestinesi di Gaza che nel 2005 recuperarono
ampie porzioni di terra destinandole a coltivazioni intensive, all’università al Aqsa, a campi
giochi per i bambini, uffici di associazioni locali ma anche a campi di addestramento per
i combattenti di Ezzedin al Qassam (Hamas) e di altre formazioni armate. «Purtroppo se
da un lato abbiamo realizzato il sogno di riprenderci la terra e di spostarci liberamente
dentro la Striscia, dall’altro non abbiamo realizzato quello di viaggiare, di andare in altri
paesi, siamo rimasti prigionieri», ci dice con amarezza Kahlout, descrivendoci la terribile
condizione di Gaza sotto blocco israeliano ed egiziano e teatro dopo il 2008 di tre ampie
offensive militari di Israele che hanno fatto migliaia di morti e feriti e ridotto in macerie il
territorio orientale della Striscia.
A distanza di 10 anni, con una opinione pubblica israeliana sempre più orientata a destra
e con al potere un governo apertamente schierato dalla parte dei coloni, l’idea di un “Piano
di Disimpegno 2″, ossia un ritiro unilaterale da tutta o gran parte della Cisgiordania palestinese occupata, appare a dir poco irrealistica. Netanyahu è riuscito a superare a destra
Sharon, per decenni l’israeliano più odiato dai palestinesi anche per il suo coinvolgimento
nel massacro di tremila profughi nei campi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982. «Un altro
disimpegno non è impossibile ma assai improbabile», dice Gerald Steinberg, un analista
israeliano vicino al governo «su questo ipotetico nuovo piano pesa inoltre come un maci7
gno il fallimento, dal punto di vista israeliano, del ritiro da Gaza. Nella migliore delle ipotesi
posso immaginare l’evacuazione di qualche piccolo centro (colonia) isolato ma non di tutti
in cittadini israeliani (nelle colonie della Cisgiordania, ndr)».
Del 27/08/2015, pag. 6
La deriva diplomatica di Bibi
Il messaggio del premier nelle nomine ad ambasciatori dei falchi di
destra
Di Alon Liel
Il 2015 sarà ricordato come l’anno in cui Israele ha subito il maggior insuccesso
diplomatico della sua storia. Sebbene il primo ministro Benjamin Netanyahu abbia posto
l’isolamento dell’Iran e l’opposizione al suo piano nucleare come principale obiettivo
strategico di Tel Aviv, Teheran è stata rintrodotta nella famiglia delle nazioni senza aver
dovuto rinunciare nel lungo periodo alle sue ambizioni nucleari.
Nel suo opporsi all’accordo di luglio tra l’Iran e le potenze mondiali, Israele è rimasta
completamente isolata. Sono sempre di più, inoltre, le indicazioni secondo cui Netanyahu
non riuscirà a bloccare l’approvazione dell’intesa sul nucleare al Congresso statunitense
nonostante il forte sostegno di cui gode Israele in quella sede.
Questa settimana [la scorsa, ndt] è apparso evidente che la sconfitta sulla questione
iraniana e lo scontro aperto con l’amministrazione statunitense guidata dal presidente
Barack Obama non interessino affatto Netanyahu. Sicuramente non al punto tale da farlo
riflettere e da fargli imparare la lezione. Le tre recenti nomine diplomatiche che ha fatto in
qualità di premier e ministro degli esteri dimostrano come egli voglia provocare la
comunità internazionale. Laddove il consenso internazionale sulla questione iraniana è
emerso solo recentemente, sulla questione palestinese ha ormai quasi 30 anni. Il mondo
intero crede nella soluzione a due stati con Gerusalemme divisa fra lo Stato d’Israele e la
Palestina. E’ così forte il consenso internazionale che perfino Netanyahu – che è contrario
al ritiro dalla Cisgiordania – è stato costretto a cedere alle pressioni annunciando in più
occasioni negli anni passati di sostenere la soluzione a due stati. Anche quando ha vinto
le legislative lo scorso marzo ha dovuto ribadire a malincuore questa posizione più volte.
Gli ultimi giorni hanno mostrato però quale sia la vera posizione del primo ministro
israeliano sulla questione palestinese. Le nomine di tre falchi di destra a importanti ruoli
diplomatici riassumono il nuovo messaggio di Netanyahu. Il premier ha incaricato Danny
Dayan (ex presidente del Consiglio delle Colonie Yesha), Fiamma Nirenstein (fino al 2013
un membro del partito di Berlusconi eletto nel parlamento italiano) e Danny Danon (uno
dei leader del partito di destra Likud) ambasciatori d’Israele rispettivamente in Brasile,
Italia e Nazioni Unite. Queste nomine mostrano e inaspriscono la differente posizione sulla
questione palestinese che Israele ha rispetto a quanto sostiene consensualmente la
comunità internazionale.
Ministro della scienza e dello spazio e nominato ora ambasciatore israeliano all’Onu,
Danon è il punto di riferimento dei falchi del Likud. Lo scorso anno Netanyahu lo aveva
licenziato come vice ministro alla difesa dopo che questi aveva criticato le presunte
politiche “conciliatorie” del premier durante la guerra di Gaza [“Operazione Margine
protettivo”, ndt]. Danon è tra i principali oppositori alla soluzione a due stati. In numerose
interviste e articoli ha esortato Netanyahu e il suo governo a estendere la sovranità
israeliana anche alle colonie e ad annettere larghe parti della Cisgiordania.
8
Anche Dayan è contrario alla fondazione di uno stato palestinese. Nirenstein ha
regolarmente espresso il suo sostegno per le politiche pro-insediamenti di Tel Aviv
mostrando solidarietà ai coloni anche quando le loro azioni avrebbero meritato una dura
condanna.
Mentre sulla questione iraniana la posizione di Netanyahu è coerente ed è nota da 20
anni, queste nomine rappresentano una specie di un “coming out” del premier sulla
questione palestinese. Incaricando Danon e Dayan, Netanyahu si è dichiarato
effettivamente un sostenitore della soluzione a uno stato. Nessuno al mondo la
penserebbe così se i nuovi ambasciatori esprimessero improvvisamente una posizione
differente da quella che hanno sostenuto per anni.
Qual è il messaggio che Netanyahu vuole mandare? [Il primo ministro] sta dicendo al
mondo: “Così come ci siamo ritrovati isolati sulla questione iraniana ma siamo riusciti a
sopravvivere, così d’ora in poi faremo per il conflitto palestinese. Il mondo può forse volere
due strati tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma avrà un solo Paese. Così vedrà
come non sarà arrecato alcun danno ad Israele. Resteremo isolati sull’Iran e sulla
questione palestinese riservandoci l’opzione di agire come lo riteniamo opportuno visto
che il mondo è debole ed esita mentre noi siamo forti e determinati”.
Ciò può apparire un grosso rischio. Forse perfino folle. Tuttavia, sembra che il premier
sappia molto bene cosa sta facendo. Il mondo ha paura di Israele anche se è difficile
capire il perché. Negli ultimi anni l’esitazione della comunità internazionale su Israele è un
dato di fatto: il mondo non ha obbligato Gerusalemme ad agire diversamente.
Tutt’al più la comunità internazionale andrà per la sua strada consentendo ad Israele di
mantenere la sua posizione: proprio come ha fatto con l’Iran così farà probabilmente con il
conflitto palestinese. Netanyahu è convinto che il riconoscimento internazionale della
Palestina non lo costringa a ritirarsi dalla Cisgiordania. Una decisione questa che, se
presa, permetterebbe la creazione di una stato palestinese. E così il premier fa appello al
suo coraggio dicendo schiettamente a tutti gli altri paesi: “non me ne frega nulla di voi”.
*i24 tv station
Del 27/08/2015, pag.14
Fra accuse di corruzione e colpi bassi Abu
Mazen pensa alla “successione”
di Roberta Zunini
Tra sabato prossimo e il 23 settembre si riunirà il Consiglio nazionale palestinese, cioè il
parlamento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Non succedeva dal
2009. Motivo: l’elezione del presidente dell’Olp e dell’esecutivo dopo le dimissioni
rassegnate il 22 agosto da Mahmoud Abbas, alias Abu Mazen, e dalla maggior parte dei
18 membri. L’attuale presidente dell’Autorità nazionale palestinese, nonché leader di
Fatah – il partito finora egemone in Cisgiordania ma oggi insidiato dai rivali di Hamas che
governano la Striscia di Gaza – era diventato il numero del comitato esecutivo
dell’Organizzazione dopo la morte di Yasser Arafat 11 anni fa. I 740 membri del Consiglio
nazionale palestinese che rappresentano tutti i movimenti palestinesi, escluso Hamas , si
dovranno incontrare a Ramallah previa autorizzazione di Israele.
Ma lo stato israeliano non è, e non è mai stato, l’unico nemico di un futuro stato
palestinese. La vicenda delle dimissioni di Abu Mazen e dei suoi fedeli dal governo
9
dell’Olp mostra ancora una volta le divisioni, le faide e le spaccature non solo tra i diversi
partiti e movimenti che rappresentano i palestinesi, anche quelli della diaspora, ma anche
all’interno di Fatah. E, visto che il comitato esecutivo, è l’unico organo autorizzato a
decidere circa il processo di pace con Israele e a firmare eventuali accordi come quelli di
Oslo nel 1993, chi lo controlla ha il potere con la P maiuscola nelle proprie mani. Un
potere che si riflette direttamente sugli equilibri interni. Sul perché Abu Mazen abbia
deciso di lasciare questa carica dirimente ci sono diverse opinioni. Secondo molti analisti il
leader ottantenne si è dimesso per essere rieletto e per far eleggere il suo fedelissimo, il
negoziatore Saed Erekat, a segretario dell’Olp. Le critiche più dure contro l’ex presidente
gli sono state mosse da Yasser Abed Rabbo che lo ha definito di fatto un dittatore.
Rabbo ha il dente avvelenato perché un mese e mezzo fa è stato rimosso proprio da Abu
Mazen dal suo incarico di segretario generale dell’Olp, la posizione più importante dopo la
presidenza. “L’esecutivo, guidato da Abbas, ha in realtà il controllo di tutte le istituzioni,
compreso il parlamento la cui funzione è stata di fatto soppressa dai decreti Presidente”.
Secondo diverse fonti, Abu Mazen ha accusato Rabbo di cospirare con Mohammed
Dahlan, figura importante e controversa di Fatah, in un presunto tentativo di colpo di stato.
“I confini tra l’OLP, ANP e Fatah sono sempre più sfumati proprio per volere di Abu
Mazen” ha detto Grant Rumley, esperto statunitense di politica palestinese. Rumley
sostiene che il vero obiettivo di Abu Mazen sia quello di mettere al posto di Rabbo un suo
fedelissimo, il negoziatore Saed Erekat.
Il presidente dell’Anp ha inoltre accusato Rabbo di corruzione e ha fatto chiudere la sua
organizzazione non governativa. Le accuse di corruzione sono sempre state uno
strumento usato dai vari attori della politica palestinese per screditare gli avversari. Se
siano vere o false nel caso di Rabbo non è dato saperlo. Resta il fatto che quelle mosse
nei confronti di Arafat, secondo e storico leader dell’Olp, erano vere e hanno creato un
precedente. Il suo patrimonio miliardario, ereditato alla moglie Suha quando Arafat morì
nel 2004, è il risultato di anni di “prelievi” effettuati sugli aiuti internazionali e la sua
leadership secondo molti palestinesi era all’insegna della corruzione in ambito finanziario e
politico. Poco prima di morire Arafat si rifiutò di firmare una legge anti corruzione richiesta
da molti parlamentari. Quando il deputato Abdul Sawad Salah, interrompendo un suo
discorso gli urlò che stava ” proteggendo i corrotti”, Arafat replicò dicendo di “ proteggere
gli interessi di tutti i palestinesi, compresi i corrotti”. Salah quindi commentò: “Arafat ha
parlato di cose vecchie e ha usato slogan da propaganda. Non può continuare a prendersi
gioco del popolo palestinese”. Forse anche in Palestina tutto cambia per non cambiare.
Del 27/08/2015, pag. 14
«Gonfiati» i successi contro l’Is
Pentagono. Aperta un’inchiesta: «I rapporti inviati al presidente Obama dagli 007
militari contenevano dati alterati, soprattutto per quanto riguarda le operazioni
compiute in Iraq»
ELENA MOLINARI
NEW YORK
Una versione edulcorata dei risultati dei raid aerei Usa contro lo Stato islamico, numeri
gonfiati sui jihadisti uccisi. È il tipo di rapporti che Barack Obama e il suo staff avrebbero
ricevuto finora dal Pentagono, più preoccupato di far bella figura di fronte al commander in
10
chief (comandante in capo delle forze armate, il titolo del presidente) che di descrivere la
realtà dei fatti in Iraq e Siria. A portare alla luce le esagerazioni e gli abbellimenti è stato
un analista civile della Dia, il principale servizio di spionaggio militare Usa.
Il funzionario avrebbe scoperto costanti modifiche in senso ottimistico delle conclusioni sui
risultati della lotta contro il Califfato, elaborate da varie agenzie governative e in particolare
dagli 007 militari. E avrebbe deciso di parlare. Non si sa con precisione a quando risalga la
denuncia, ma stando al New York Times la sortita dell’anonimo esperto della Dia (Defence
intelligence agency) ha incoraggiato altri esperti a rivelare che alcuni rapporti elaborati
dagli 007 americani non sono mai arrivati ai vertici politici Usa.
Il Pentagono si è visto costretto ad aprire un’inchiesta su possibili aggiustamenti da parte
di esponenti del Comando Centrale Usa dei rapporti d’intelligence sull’andamento della
campagna contro lo Stato Islamico. Le indagini sono state affidate all’ispettorato generale
presso il ministero della Difesa. Se quanto denunciato trovasse riscontri, potrebbe aiutare
a capire la logica della Casa Bianca di limitare le operazioni militari contro i jihadisti,
nonostante questi abbiano subito finora soltanto sconfitte marginali, senza che sia stata
strappata loro nessuna delle città principali conquistate, come Mosul o Ramadi, mentre
riuscivano a estendere la propria area d’influenza dal Medio Oriente al Nord-Africa e
all’Asia centrale. Intanto ieri il Dipartimento di Stato Usa ha annunciato che la coalizione
internazionale ha distrutto 57 obiettivi dello Stato islamico a Kirkuk, in Iraq. I raid nel
distretto iracheno sono iniziati martedì a supporto dell’offensiva lanciata dalle milizie curde
Peshmerga che sono già riuscite a liberare i villaggi di Daquq e Tuz Khurmato. L’obiettivo
dell’operazione è riprendere il controllo di diverse città nel governatorato di Kirkuk, a
sud del Kurdistan iracheno.
Del 27/08/2015, pag. 14
Accordo di pace dopo 20 mesi di conflitto
PAOLO M. ALFIERI
Dopo 20 mesi di conflitto con il suo ex vice Riek Machar, il presidente del Sud Sudan
Salva Kiir ha firmato ieri un accordo di pace che mette fine (o almeno dovrebbe) alle
violenze nel Paese. La firma è arrivata nel corso di una cerimonia nella capitale Juba
nonostante lo stesso capo di Stato avesse espresso «serie riserve» alla presenza di altri
leader regionali. Machar, da parte sua, aveva già siglato l’intesa la scorsa settimana ad
Addis Abeba. Martedì l’Onu aveva lanciato un ultimatum: il Consiglio di sicurezza aveva
sottolineato che avrebbe agito «immediatamente» se il presidente Salva Kiir non avesse
firmato l’intesa. Dieci giorni fa Salva Kiir aveva opposto il suo «no», esprimendo una serie
di perplessità sul documento e riservandosi di prendere una decisione in merito entro 15
giorni. Poche ore dopo, lo stesso leader sud sudanese aveva chiuso la porta all’accordo,
considerato una «capitolazione», attirandosi le critiche dei mediatori dell’Igad, l’Autorità
intergovernativa per lo sviluppo, e degli Stati Uniti, che avevano già parlato di possibili
sanzioni contro le personalità accusate di ostacolare il processo di pace.
La guerra civile in Sud Sudan è iniziata nel dicembre del 2013, ovvero da quando il
presidente Kiir fu accusato dal suo vice,Machar, di aver impoverito la nazione e di aver
favorito la sua suddivisione secondo l’appartenenza etnica. Kiir, a sua volta, aveva
incolpato Machar di essere il regista di un tentato colpo di Stato. Da allora, migliaia di
vittime e di sfollati, un terzo degli 11 milioni di abitanti a rischio fame e le accuse di stupri e
violenze rivolte dall’Onu all’esercito. Senza contare il calo di oltre un terzo nella
11
produzione di petrolio. «La Comunità di Sant’Egidio, amica da anni del popolo sud
sudanese, si rallegra per il nuovo accordo raggiunto, sollecitato più volte anche dalla
Chiesa locale, nella speranza che porti ad una vera pace in un Paese che ha già troppo
sofferto », è stato il commento di Sant’Egidio. La firma di un’intesa tra i due principali attori
politici del Paese apre nuovi scenari, ma occorrerà del tempo per accertarsi che gli accordi
non restino sulla carta. Nel frattempo, il ministro dei Trasporti Kwong Danhier Gatluak ha
siglato a Città del Capo un documento con il suo omologo sudafricano che prevede
importanti investimenti sul fronte delle infrastrutture. «Quando le armi tacciono, gli
investitori arrivano», ha osservato Gatluak, secondo cui verrà costruita una strada che
collegherà Juba con il nord-ovest del Paese. Anche l’aeroporto della capitale beneficerà di
molti interventi migliorativi.
Del 27/08/2015, pag. 14
Parigi s’indigna per l’islamista portato in aula
scalzo e bendato
Polemiche sul trattamento all’attentatore del treno. Ma il governo: dietro
c’è l’Isis
Leonardo Martinelli
Ricordano altre immagini, che ritraevano i prigionieri di Guantanamo: negli Usa non
avevano scandalizzato nessuno. Ma in Francia, invece, hanno provocato un vero putiferio
quelle trasmesse dal canale i-Télé, con il marocchino Ayoub El-Khazzani, all’origine
dell’assalto sul Thalys, il treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi, che si incammina
scortato verso il Palazzo di giustizia di Parigi: scalzo, indosso un pigiama, le manette ai
polsi (ma in questo caso l’immagine è sfocata) e gli occhi bendati. Ieri anche la rivista
Paris-Match si è allineata: nelle foto, stavolta, le manette appaiono nitide. E lui ha il torso
nudo: i poliziotti l’hanno appena preso in consegna.
Il divieto
La polemica è doppia. Innanzitutto in Francia, sulla base dell’articolo 35 ter di una legge
del lontano 29 luglio 1881, è proibito pubblicare ritratti di persone ammanettate «senza
che esista l’accordo dell’interessato e prima che sia stata pronunciata una condanna
definitiva». El-Khazzani potrebbe fare ricorso. E sarebbe praticamente sicuro di vincere.
Ma soprattutto quei fotogrammi di i-Télé, ripresi da alcuni media, hanno spinto Mani Ayadi,
avvocato difensore del marocchino, a denunciare il trattamento riservato al suo assistito:
«Qualunque siano la natura e la gravità dei fatti per i quali una persona è accusata – ha
dichiarato -, il nostro stato di diritto non può accettare che questo individuo sia trattato in
una maniera così degradante e inumana». Si è chiesto perché non indossasse neanche
un paio di scarpe, anche se la procura della repubblica parigina ha segnalato di aver
proposto delle calzature al presunto terrorista. Ma lui avrebbe rifiutato.
Intanto continuano le indagini sul conto di El-Khazzani. Un lupo solitario? Il solito figlio di
immigrati frustrato che si è montato la testa da solo su Internet? A questa versione dei fatti
la giustizia francese crede sempre di meno. E il ministro degli interni Bernard Cazeneuve
ha ammesso che «sventiamo attentati quotidianamente e ogni volta riscontriamo che ci
sono legami con l’Isis». D’altra parte, è stato accertato che nel 2014 l’uomo ha viaggiato in
Siria. E poi è molto improbabile che abbia fatto tutto da solo per prepararsi a
quell’attentato sul treno, sventato solo grazie alla fortuita presenza a bordo di due soldati
americani in vacanza, che hanno saputo reagire con coraggio ed efficienza. Ma non si
12
potrà contare sempre sulla fortuna. Per questo Cazeneuve ha invitato a Parigi sabato
prossimo i colleghi dei paesi limitrofi, con i quali la Francia condivide linee ferroviarie
(anche l’Italia e poi la Germania, il Regno Unito, la Spagna, il Belgio, il Lussemburgo, i
Paesi Bassi e la Svizzera). Il ministro francese vuole presentare loro «proposte concrete».
Una di queste potrebbe essere l’introduzione di portici di controllo, con metal detector,
dove far passare obbligatoriamente i passeggeri dei tragitti internazionali. Stazioni,
insomma, come gli aeroporti.
Del 27/08/2015, pag. 12
Il reportage.
I mercati finanziari sono scossi dai crolli, la crescita del Paese è minore
delle aspettative ma le “bugie del presidente” stanno creando un vero
terremoto nel partito
Lo tsunami travolge il “nuovo Mao” e il potere
di Pechino
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GIAMPAOLO VISETTI
PECHINO . L’estate nera minaccia di trasformarsi nell’autunno rosso. I cinesi travolti dal
crollo delle Borse dicono che «è la vendetta del mercato contro lo Stato». La cancellerie
straniere sono invece in allarme per «la rivolta dell’apparato maoista contro gli yuppies
riformisti». La Cina è scossa dalla prima grande crisi economica dai tempi di Deng
Xiaoping, ma ogni giorno lo scenario si aggrava perché ad un passo dall’implosione è la
leadership politica del presidente Xi Jinping. Nemmeno la censura riesce più a reprimere
un dissenso nuovo, che da ideologico diventa finanziario, che da studenti e intellettuali
contagia operai, classe media e milionari, l’immenso popolo consegnato al capitalismo
comunista. L’accusa collettiva contro i vertici del partito non ha precedenti e supera ormai i
blocchi del web: «Vi abbiamo obbedito, ci avete tradito e infine venduto». Milioni di cinesi
non dimenticano che proprio le autorità, ancora in giugno, incitavano la gente a comprare
azioni, a vendere casa e a fare debiti per gettarsi nel sogno del mercato di Stato, gonfiato
del 150% in un anno. Quelle stesse autorità ora tacciono, scatenano censura e
repressione, aggiustano le statistiche, rincorrono con imbarazzante ritardo gli scoppi delle
bolle. E’ come se la fine di un’era del suo sviluppo colpisse a morte lo stesso Dragone. A
Pechino l’emergenza economica così si aggrava, ma il virus scava già nel cuore del
partito- Stato. Il consenso popolare per Xi Jinping e per il premier Li Keqiang, costruito su
purghe anti-corruzione, riforme promesse e boom delle Borse, in poche settimane è
svanito. Una sequenza terribile: a giugno lo schiaffo elettorale di Hong Kong, a luglio il
primo crollo dei mercati, in agosto la catastrofe di Tianjin, il caos delle Borse e il no
dell’Occidente alla parata militare anti- Giappone del 3 settembre. Su ogni dossier, per la
prima volta, il potere si rivela vecchio, colto alla sprovvista, incapace di reagire e di
affrontare la situazione. Nei corridoi di ministeri e colossi di Stato montano così le voci su
«una sanguinosa resa dei conti interna al partito». La pubblicazione dei dati economici di
agosto viene rinviata «causa disagi per la parata militare». Cifre essenziali per l’economia
globale slitteranno tra il 10 e il 13 settembre per lasciar sfilare 12 mila soldati in piazza
Tiananmen. I vertici dei tre colossi delle telecomunicazioni vengono azzerati e un’inchiesta
per «trading illegale» travolge le prime cinque società nazionali di brokeraggio. Il
13
governatore centrale Zhou Xiaochuan, fedelissimo dell’ex presidente Hu Jintao, è costretto
a iniettare altri 21,8 miliardi di dollari di liquidità a breve e brevissimo termine per
finanziare. Il Quotidiano del popolo, a cui viene ordinato di «non fomentare pessimismo e
tristezza con termini emotivi», si spinge a invocare «misure più rapide e più decise per
correggere gli errori del piano quinquennale ». Dentro la Città Proibita questo significa che
Zhou Xiaochuan ha le settimane contate e che il premier Li Keqiang, responsabile
dell’economia, «tra un anno non verrà confermato per il secondo mandato ». I due
pagheranno il conto dei mercati, assieme a decine di ministri e di vice «riformisti », ma lo
spettro che si aggira sulla capitale minaccia direttamente il «nuovo Mao». Migliaia di alti
funzionari e generali arrestati per corruzione, gli emarginati avversari della sinistra interna,
i governatori sotto pressione per i debiti, non aspettavano che il primo passo falso di Xi,
accusato di «aver umiliato il partito». A Pechino si assicura che si sia saldato il vecchio
asse tra gli ex leader Jiang Zemin e Hu Jintao, sostenuto dall’ex premier Wen Jiabao,
prossime vittime delle purghe presidenziali, e che non sia un caso che l’epicentro del caos
sia Shanghai, roccaforte di Jiang. La bomba dei conservatori, pronta a travolgere «il
solista » Xi Jinping, sarebbero proprio i dati reali sui conti cinesi: crescita del Pil non al 7%,
ma già sotto il 5%, debito pubblico esploso oltre il 300% del Pil, sopra i 30 mila miliardi di
dollari, metà evaporati nei debiti immobiliari e metà generato dalle banche ombra.
Il panic selling delle Borse cinesi rivela così molto più di quanto gli indici non dicano:
Shanghai, Shenzhen e Hong Kong sono scosse, a tremare davvero però in queste ore è
Pechino, su cui incombe lo scandalo delle «bugie del presidente». L’autoritarismo rosso
non regge il primo urto del mercato, ma dopo trent’anni di crescita record il confronto
decisivo è quello drammatico con la democrazia. Xi Jinping lotta per entrare nella storia, la
Cina per non rientrare nel passato. L’incertezza sull’esito di tale scontro frena il rimbalzo
delle sue Borse, il resto del mondo sa di dover ancora scontare il «caso-Pechino».
Del 27/08/2015, pag.3
IL NEGOZIATO
Trattativa con i libici, ultimo atto o scatta il
piano B
La diplomazia italiana impegnata nella mediazione tra i due governi
Umberto De Giovannangeli
Rabat, ultima fermata per una trattativa che non può più protrarsi nel tempo. In gioco è il
presente della Libia, oggi minacciato dall'avanzata dell'Isis e da un caos armato che
impedisce l'avvio e il consolidamento di un processo di stabilizzazione nel devastato
Paese nord africano. La diplomazia italiana è quella che più sta sostenendo gli sforzi
dell'inviato dell'Onu, Bernardino Leon per giungere ad una intesa tra il governo di Tobruk,
riconosciuto internazionalmente, e quello islamista, ma in rotta con l'Isis, di Tripoli. Ed è
soprattutto su questo secondo fronte, rivelano fonti diplomatiche a l'Unità, che l'Italia sta
agendo in queste ore cruciali, anche alla luce dell'ultima tragedia del mare, con 50
cadaveri individuati ieri nella stiva di unbarcone diretto verso l'Italiae soccorso al largo
della Libia. Negoziato, ultimo atto. L’obiettivo, spiegano le fonti, è trovare un equilibrio
condiviso nella formazione del nuovo esecutivo, in termini di cariche e di poteri, lavorando
soprattutto sulle fazioni e tribù legate a Tripoli che avvertono come prioritaria la minaccia
dello Stato islamico. Roma è pronta ad addestrare l'esercito nazionale libico, a spingere
per un'adeguata rappresentanza di Tripoli in un esecutivo di unione nazionale, e a favorire
14
la definizione di un sostanzioso pacchetto di aiuti finanziari al nuovo governo, che
assomigli molto ad un Piano Marshall per la Libia e il Vicino Oriente. «Bernardino Leon
presenterà nei prossimi giorni una proposta finale, completa degli allegati sulla
composizione del governo unitario, che si spera possa coinvolgere anche il Gnc, il
Parlamento di Tripoli. Chi si autoesclude si assume una grande responsabilità, perché il
processo andrà comunque avanti. Nel caso di accordo l'Italia conferma la disponibilità,
non da sola, a un ruolo di accompagnamento e consolidamento anche sul piano della
sicurezza», ribadisce in una intervista al Corriere della Sera, il titolare della Farnesina,
Paolo Gentiloni. Ma il tempo dei rinvii sta ormai scadendo. Alzarsi dal tavolo negoziale con
un nulla di fatto equivarrebbe al definitivo accantonamento del Piano A e al necessario
passaggio a Roma pronta ad addestrare l'esercito nazionale libico e a favorire un
pacchetto di aiuti finanziari quello B, anticipato da l'Unità nei giorni scorsi: attivare anche
sul fronte libico quella coalizione anti-Isis messa in campo in Siria e Iraq. «Senza accordo
sottolinea sempre Gentiloni, avremmo uno scenario del tutto diverso, centrato sulla
coalizione anti-Daesh (Isis, ndr ), che in quel caso potrebbe estendere il suo raggio
d'azione alla Libia».
Il capo della diplomazia italiana invita a non ingigantire la minaccia di Daesh, tuttavia i
rapporti che giungono dal campo, grazie al prezioso lavoro della nostra intelligence,
indicano un consolidamento della presenza dello Stato islamico soprattutto nell'area di
Derna e Sirte, zone, in primis Sirte, di particolare importanza perché in quell'area si
concentrano il 60% degli impianti petroliferi nei quali l'Eni ha investito massicciamente, e
perché dalle coste di Sirte hanno inizio i «viaggi della morte» in direzione del Canale di
Sicilia. L'Europa esclude un intervento di terra in
Libia, ma al tempo stesso non può continuare a restare inerme di fronte al fatto che i
jihadisti sono giunti a 400 chilometri dalle coste europee e abbiano proclamato l'emirato a
Sirte obbligando la popolazione a sottostare alla più rigida sharia ed eseguendo
esecuzioni che non hanno risparmiato cristiani e supposte spie.
Ma se il tavolo di Rabat dovvesse saltare, a quel punto sarebbe ineyitabile attivare il Piano
B che prevede, tra le altre cose, il blocco marittimo, sanzioni individuall e congelamento
dei ricavi del settore petrolifero, che finora sono stati redistribuiti fra tutte le milizie. Il
problema in questo caso è che queste risorse, per quanto già ridotte, servono anche a far
sopravvivere la popolazione civile. Per implementare il blocco navale, concordano gli
analisti militari, devono essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle
struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste,
una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo, la portaerei Cavour, due
cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere
un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per
imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri
uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti. In sostanza, il contributo italiano
si articola su alcuni aspetti, tra cui il monitoraggio di un cessate il fuoco e il mantenimento
della pace, ma anche l'addestramento delle Forze armate «in una cornice di integrazione
delle milizie in un esercito regolare e per la riabilitazione delle infrastrutture». E
sull'impegno, nelle sedi internazionali, perché sia tolto l'embargo di armi. La formazione di
un governo di unione nazionale faciliterebbe questo impegno.
15
INTERNI
Del 27/08/2015, pag.1-11
Scusi Renzi, ma lei da che parte stava?
di Antonio Padellaro
Suscita qualche legittima curiosità ciò che ha detto Matteo Renzi all’entusiasta platea di
CL sulle colpe storiche del “berlusconismo e dell’antiberlusconismo che hanno fatto
perdere all’Italia venti anni”. Una frase furba e anche abbastanza ignobile.
Come nel carattere del personaggio, perché mette tutto e tutti sullo stesso piano (con lui al
piano di sopra). Ma che lo espone ad alcune inevitabili domande sulle sue personali scelte
di campo, tenendo conto che, a differenza del calcio, su certi argomenti non è possibile lo
zero a zero e neppure mandare la palla in tribuna.
Per esempio, nei giorni del G8 di Genova quando la polizia del governo Berlusconi
mandava all’ospedale le persone che sfilavano pacificamente – per non parlare della
macelleria messicana nella scuola Diaz –, il cuore del Matteo già grandicello, batteva per i
manganelli o per quelli a cui spaccavano la testa?
E nei giorni dell’editto bulgaro quando lesse (se leggeva i giornali) che Biagi, Santoro e
Luttazzi erano stati cacciati dalla Rai perché invisi al presidente-padrone, Renzi continuò a
giocare con le macchinine o pensò tra sé e sé (perché Verdini non sentisse): però, che
schifo? E se con gli amici del bar di Rignano il discorso cadeva sul conflitto d’interessi del
presidente del Consiglio, proprietario di tre tv e controllore del servizio pubblico, la
reazione di Renzi qual era? Che palle, non se ne può più?
E delle numerose leggi vergogna, e dei vari lodi Schifani e Alfano poi dichiarati
incostituzionali, il giovanotto Renzi cosa pensava esattamente? Che costituivano utili
innovazioni di un sistema giudiziario obsoleto? O che era un insopportabile uso del
governo e del Parlamento per consentire all’Imputato di farla franca dimostrando che la
legge non è affatto uguale per tutti?
Sappiamo invece da che parte stava quando il suo maestro Silvio cercò di smantellare a
proprio uso la Costituzione. Il discepolo non è da meno.
E quando (andiamo a memoria) nella campagna elettorale del 2006, Berlusconi attaccò
frontalmente Prodi dicendo che non poteva credere che “ci fossero in giro così tanti
coglioni pronti a votare contro i loro interessi”, possibile che il futuro premier stesse dalla
parte dei coglioni antiberlusconiani?
E quando all’apice del bunga-bunga, Dario Franceschini chiese agli italiani: “Fareste
educare i vostri figli da quest’uomo?”, Renzi cosa rispose: sì, no o forse? Oppure pensava
che il suo futuro ministro stesse parlando di Roman Polanski?
Infine (ma potremmo continuare a lungo), quando l’allora presidente Napolitano rifiutò di
firmare l’infame decreto del governo Berlusconi che avrebbe vietato l’interruzione
dell’alimentazione e idratazione artificiale di Eluana Englaro, Renzi rinunciò a provare
vergogna per non contribuire alla paralisi del Paese?
Verrebbe da pensare che un premier cresciuto nella cultura dei Telegatti rappresenti la
media di ignoranza (e di smemoratezza) vigente nel resto del Paese. Invece, il suo è puro
cinismo. Renzi conosce troppo bene i guasti prodotti dal ventennio berlusconiano ma non
gliene frega nulla. O meglio, ne fa un uso personale per azzerare tutto ciò che viene prima
di lui e per alimentare la conveniente leggenda dell’“uomo nuovo”, senza scheletri
nell’armadio e ignaro delle nefandezze di chi l’ha preceduto. Tutto già visto. Ne sanno
16
qualcosa Furio Colombo e chi scrive che ai tempi dell’Unità “antiberlusconiana” subirono lo
stalking della dirigenza Ds e successivamente Pd (da Fassino a Veltroni) che con
crescente irritazione ci andavano ripetendo: non si può dire solo no (slogan che fornì
anche il titolo a un libretto renziano ante litteram che andrebbe ripescato). Fummo persino
sottoposti a una sorta di mini-processo dai senatori diessini guidati da Franco De
Benedetti che garbatamente minacciava di toglierci il finanziamento pubblico di cui il
giornale si giovava. Rispondemmo: fate pure. Andò a finire che Colombo fu accompagnato
alla porta e che un paio d’anni dopo toccò a me. Felix culpa, visto che anche da quella
“spinta” nacque il Fatto. La differenza è che, allora, pur nella fregola di farsi benvolere dal
Sultano, quel gruppo dirigente agiva con un minimo di timore e di rispetto verso un
elettorato di sinistra che non poteva certo mandare giù l’inciucio con un personaggio che
aveva elogiato le “tante buone cose fatte da Mussolini”, che aveva definito l’Italia “un
paese di merda” e che della sua affiliazione alla loggia di Gelli diceva: “Essere stato
piduista non è titolo di demerito”. Mettendo sullo stesso piano Berlusconi e chi lo ha
combattuto per anni in Parlamento, sulle piazze e su alcuni giornali, quel rispetto Renzi lo
ha preso a calci. La storia, che lui fa finta di non conoscere, insegna che presto o tardi
sarà ricambiato della stessa moneta.
Del 27/08/2015, pag. 1-9
Renzi apre ad Ap: riscriviamo il ddl Cirinnà
Il senatore Lepri: serve una legge entro l'anno
Arturo Celletti
Giorgio Tonini, uno dei senatori del Pd più ascoltati dal premier, viaggia verso Milano e
disegna la svolta sul ddl Cirinnà: «Bisogna rimettere mano al disegno di legge sulle unioni
civili, bisogna distinguerle meglio dal matrimonio... Sono con il cardinale Bagnasco: la
famiglia è mamma, papà e i bambini; le unioni civili sono altra cosa». Rimettere mano? Il
senatore Pd annuisce. «Il testo attuale è confuso, ha zone di ambiguità. Sono troppi i rinvii
diretti al codice civile che riguardano il matrimonio». Tonini per qualche istante resta
silenzioso, poi, allargando quel ragionamento, cambia tema e manda un secondo segnale
ad Area popolare: «È ora di potenziare le politiche per la famiglia, è ora di garantire aiuti
veri per vincere una denatalità sempre più drammatica».
Dietro le parole di Tonini prende forma un possibile Grande Patto tra il capo del governo e
Area popolare. Matteo Renzi e Maurizio Lupi hanno aperto il confronto vero in una saletta
riservata al meeting di Rimini. L’ex ministro dei Trasporti, oggi capogruppo di Ap a
Montecitorio, ha sfidato il premier a trovare una soluzione «costruttiva che eviti lacerazioni
nella maggioranza » e ha indicato un’ipotesi di lavoro: «Tutte le leggi sono passate
trovando un’intesa larga sul primo articolo. Partiamo da qui, dall’articolo uno del ddl
Cirinnà e mettiamo al lavoro persone capaci di correggerlo tenendo conto delle attese e
delle sensibilità del Paese».
Il capo del governo ha ascoltato in silenzio e anche Lupi è passato al punto due: «Non
basta dire la famiglia e le unioni civili sono cose diverse. Servono segnali veri che
dimostrino che su questo siamo tutti d’accordo».
La conclusione di quel 'faccia a faccia' è in due decisioni concrete. La prima: due
costituzionalisti, concordati da Renzi e Ap, sarebbero pronti a lavorare per riscrivere
l’articolo uno della legge sulle unioni civili. La seconda: Renzi e Area popolare si vedranno
17
la prossima settimana per ragionare su come aiutare la famiglia già nella prossima legge
di stabilità.
C’è un lavorio silenzioso per unire le varie anime del Pd e, poi, l’intero Pd con l’alleato di
Area popolare. Una missione complicata perché restano differenze e diffidenze. Giuseppe
Fioroni, uno dei leader dell’area cattolica dei Democratici, dice senza giri di parole di non
fidarsi fino in fondo. «Vedo troppe furbizie e troppe ipocrisie. Non è possibile scrivere a
riga quattro che alle coppie omosessuali non è concessa l’adozione e a riga cinque
indicare la strada per aggirare la norma spiegando che se un membro della coppia
omosessuale ha già un figlio l’altro può adottarlo».
Fioroni non si limita alla denuncia. C’è anche lui dietro l’emendamento (presto verrà
presentato a Palazzo Madama da un gruppo di senatori Pd e da costituzionalisti d’area) al
disegno di legge di riforma costituzionale. Fioroni lo riassume con un titolo: referendum di
indirizzo sui temi etici. Poi, senza aspettare domande, spiega, a grandi linee, qual è la
strategia che si agita dietro la proposta. «Non potrà essere Montecitorio a dire sì ai
matrimoni omosessuali, lo dovranno dire gli italiani. È questa la filosofia
dell’emendamento; è questa la rivoluzione che vogliamo 'regalare' al Paese».
Già, rivoluzione perché nella testa di quel gruppo di senatori Pd c’è un piano dettagliato:
arrivare prima di un ddl Cirinnà che «se saltasse il patto Renzi-Ap potrebbe nascondere
mille insidie» puntando su una maggioranza larga a sostegno dell’emendamento che
lascerebbe agli italiani l’ultima parola sui temi etici. Fioroni ci crede e batte l’ultimo colpo:
«Come può una forza politica negare ai cittadini la possibilità di pronunciarsi sulle grandi
questioni etiche? Come può farlo il Pd di Renzi, ma soprattutto come possono farlo i
Cinque Stelle?». Due temi e due strategie: referendum e Grande patto Renzi-Area
popolare. Renzi solo nelle conversazioni più private confida le sue convinzioni. «Solo il Pd
può fare una legge sulle unioni civili capace di distinguerle in maniera netta dal matrimonio
e, parallelamente, realizzare un piano vero di aiuti alla famiglia». Il premier ripete
sottovoce dieci parole che spiegano più di tanti titoli: «Abbiamo il dovere di sostenere il
peso economico della procreazione». Fioroni non si fida: «Le risorse sono poche e sulle
priorità non ci possono essere tentennamenti. Meno F35 e qualche favore in meno alle
banche e misure di sostegno vero alla famiglia». Musica per Alfano e soci che nei prossimi
giorni rilanceranno il loro Family Act.
Del 27/08/2015, pag. 19
Senato, sfida Pd-Grasso sull’elettività
Maggioranza del partito in allarme: l’apertura del presidente di Palazzo
Madama a far votare gli emendamenti mette a rischio il pilastro
dell’articolo 2. E spunta l’ipotesi di “spostare” la decisione nella Giunta
del regolamento
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA . A decidere sulla querelle che contrappone il presidente del Senato Pietro Grasso
e la maggioranza del Pd potrebbe essere un “tribunale”. Le parole della seconda carica
dello Stato dalla festa nazionale de L’Unità di Milano - con l’invito a trovare una soluzione
politica per superare “l’impasse”- scuotono gli animi del Nazareno. Parole che avrebbero
infastidito i maggiorenti del Pd in Senato. Il dilemma è sempre lo stesso: alla ripresa dei
lavori il presidente Grasso dovrà decidere se ammettere o no la mole di emendamenti
sull’articolo 2 della riforma del Senato. Tutto si gioca attorno all’articolo che costituisce il
18
cuore della riforma Boschi, quello che determina la composizione della futura Camera
Alta. Al momento la contesa è lessicale. La minoranza del Pd si appella alla sostituzione di
una preposizione - “nei” era diventata “dai” nel passaggio del testo dal Senato alla Camera
che - secondo i 26 senatori dem dissidenti - «rende la modifica sostanziale e rilevante».
Se così fosse, la maggioranza potrebbe non superare la prova del voto. In sostanza, il
testo - essendo emendabile- rischierebbe di essere seppellito dagli emendamenti delle
opposizioni, che hanno già superato quota mezzo milione. A difendere le ragioni della
minoranza è il senatore Pd, Federico Fornaro: «Come per tutte le leggi, essendo un
sistema bicamerale, il testo deve essere approvato alla stessa maniera sia alla Camera
che al Senato. Altrimenti si può ritenere emendabile». Una posizione che non fa certo
retrocedere la maggioranza renziana. «La modifica - dicono - non è sostanziale, quindi
l’articolo non è emendabile». «Grasso dovrebbe apertamente in aula contraddire la
decisione di Anna Finocchiaro », spiega un dirigente dem chiarendo il senso della sfida.
La presidente della I commissione, il 5 agosto, nel testo che sarà base per la discussione
della ripresa, aveva assicurato che non se ne parla «di rimettere la riforma di nuovo sulla
linea di prima partenza». Non perché l’art.2 non sia modificabile ma perché dopo due
letture non si può stravolgere l’impianto della legge. Debora Serracchiani, vice segretaria
nazionale del Nazareno, avverte: «Se siamo tutti d’accordo che bisogna superare il
bicameralismo perfetto - ha detto che bisogna ridurre il numero dei parlamentari, che
bisogna semplificare questo Paese con una riforma che la sinistra italiana aspettava da
troppo tempo. Non ci sta ha concluso - che il Partito democratico si divida e che metta in
pericolo la sicurezza di questo Paese». La partita è ancora aperta. L’uomo a cui tutti
guardano è Pietro Grasso, arbitro della riforma. Tocca a lui stabilire il calendario dei lavori
, e, soprattutto, decidere se accogliere le richieste di opposizione e minoranza, oppure
saltare gli esami degli emendementi portando la riforma in aula. Ma, secondo quanto
riferiscono dal Pd, Grasso avrebbe a disposizione una terza via. Quale? È nella sue
prerogative rivolgersi a un “tribunale”. «Per evitare di scontentare maggioranza e
opposizione - spiegano - Grasso potrebbe rimandare tutto alla Giunta per il regolamento».
Il match, dunque, si sposterebbe in Giunta per il regolamento, dove però l’area di governo
non può contare su una maggioranza certa. La resa dei conti si avvicina. I lavori d’aula
riprenderanno l’8 settembre, e in quella data si saprà che ne sarà dell cammino di una
riforma che l’esecutivo considera “decisiva” per la tenuta e le sorti di Palazzo Chigi.
Nell’attesa i dissidenti del Pd affilano le armi. E si preparano alla battaglia. Anche se al
Nazareno sono convinti che il drappello dei 26 senatori di minoranza si ridurrà. In ogni
caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze.
Del 27/08/2015, pag. 19
La tirata del 5 stelle al meeting Cl: siete la
lobby più potente
Il deputato Fantinati attacca dal palco di Rimini, Grillo lo «benedice»
pubblicando il discorso sul blog
RIMINI Un alieno sul Meeting. Che venisse a omaggiare Comunione e liberazione era
improbabile. Che fosse una sua iniziativa personale, impossibile. E infatti, appena ha
cominciato a parlare, si è capito che non solo l’alieno, alias Mattia Fantinati, aveva l’
imprimatur di Grillo e Casaleggio ma anche che la prima presenza di un deputato a
Cinque Stelle al Meeting si sarebbe trasformata in un violento atto d’accusa contro
19
Comunione e liberazione. Accolto dallo scarso, e attonito, pubblico con qualche sparuto
fischio. Dieci minuti di raffiche contro la «lobby». Poi Grillo ci mette il marchio di ufficialità,
pubblicando il discorso e twittando: «Deputato del M5s senza paura le canta a Cl».
La vigilia è tesa. Colleghi nervosi. Si chiedono chiarimenti via chat. I social ribollono: i duri
e puri chiedono la testa di Fantinati. Com’è possibile che finisca ospite di «Comunione e
Fatturazione» (copyright Grillo)? Che venga accolto amorevolmente dalla «setta cattoaffarista che sfrutta il brand di Dio»? .
Fantinati, considerato finora tra i moderati, all’entrata è agitato: «Sì, sono molto
emozionato. Se ho parlato con Grillo e Casaleggio? Eh, secondo te?». Ovviamente sì.
Quanto alle critiche, è addirittura ecumenico: «Tot capita tot sententiae (ce n’è per tutti,
ndr). Ma ora vedrai». Sul palco, all’inizio, pare un agnellino. Applaude i relatori, a
cominciare da Raffaello Vignali (Ap), coordinatore dell’intergruppo per la sussidiarietà. Poi
è il suo turno. E all’agnellino spuntano gli artigli. Avvisa che non è lì «per prendere
applausi». Che la «più potente lobby italiana ha trasformato l’esperienza spirituale morale
in un paravento di interessi personali». Che è diventata «un sottobosco senza senso
civico». Per il cattolico Fantinati, «non esiste la politica cristiana». Sguardo alla platea:
«Avete generato un potere capace di influenzare sanità, scuole private, università,
appalti». Fantinati prende fiato: «Avete applaudito gente come Andreotti, Berlusconi,
Formigoni, Lupi, Mauro». Ed eccoci a Renzi: «É venuto a ricevere la benedizione
baciando pantofole e anelli» di questa «Chiesa privata». Poi attacca gli sponsor, si
concede uno scalfariano «Io non ci sto» e conclude con una serie di domande retoriche,
l’ultima delle quali guarda dritta al Vaticano: «Quando la Chiesa caccerà i mercanti dal
tempio?». Gli altri relatori, attoniti, guardano l’alieno atterrato al Meeting. Vignali replica:
«Vieni a farti un giro nei padiglioni, vieni a vedere i duemila volontari». Poi conclude con
una smorfia: «Non si fa politica con la patente di purezza» .
Alessandro Finazzi
Del 27/08/2015, pag. 14
Gabrielli capo-Giubileo e “inviati” governativi
Marino va sotto tutela
Oggi la relazione di Alfano.Ecco i provvedimenti per bonificare
l’amministrazione da Mafia Capitale
FRANCESCO BEI
ROMA . «A Roma arriverà la Troika», scherzano a Palazzo Chigi nelle ore che precedono
il Consiglio dei ministri. Il richiamo agli “uomini in nero” che in passato hanno preso
possesso dei ministeri greci, esautorandone i legittimi titolari, calza bene. Perchè questo è
ciò che accadrà al termine di un mese di fughe in avanti, ripensamenti e bracci di ferro
dentro al governo e anche dentro il Pd tra fautori della linea dura commissariamento del
comune - e paladini di un approccio che salvasse almeno le forme. Benché abbiano alla
fine prevalso questi ultimi, il giudizio politico del premier su Marino resta pesantissimo.
Ormai comunque è fatta. «Qui non si tratta di salvare Marino - ha spiegato Renzi ai suoi ma di salvare Roma». E anche l’immagine dell’Italia nel mondo, messa seriamente a
rischio nel caso l’arrivo di milioni di pellegrini per il Giubileo fosse coinciso con lo
scioglimento per mafia della capitale. Un danno incalcolabile di reputazione.
Questo non vuol dire che l’opera di bonifica dell’amministrazione, che oggi il ministro
Alfano illustrerà nei dettagli, non sarà portata avanti con severità. Si parla infatti di un
20
«azzeramento» dei dipartimenti coinvolti nello scandalo Buzzi-Carminati. Non basta infatti
aver ruotato i dirigenti colpevoli - cosa che la giunta ha provveduto a fare in autonomia ma è necessario un intervento più radicale per costruire intorno al sindaco un «cordone di
salvataggio» che gli consenta di proseguire il mandato. Si tratterà dunque di un intervento
«chirurgico», con la possibile nomina di funzionari governativi a capo dei settori che si
sono dimostrati più permeabili al malaffare: emergenza abitativa, verde pubblico, politiche
sociali, patrimonio. Gli uomini indicati dal prefetto Gabrielli dovranno affondare il bisturi ed
esaminare tutte le carte nei cassetti. Ma c’è un’altra partita cruciale che si intreccia con
quella di Mafia Capitale: il Giubileo della Misericordia indetto dal Papa con inizio l’otto
dicembre. In termini operativi è come se iniziasse domani, dato che si tratta ancora di
assegnare tutti i lavori e di presentare al mondo una città che non sia quella con cui
quotidianamente hanno a che fare i romani. La corsa contro il tempo è scattata, con due
registi politici, all’interno e all’esterno della giunta: il commissario del Pd Matteo Orfini e il
vicesindaco Marco Causi. Proprio Causi ieri ha incontrato il ministro Delrio per stabilire
quali lavori realizzare subito (tra cui 40 chilometri di piste ciclabili) e quali più avanti. Il
giorno prima invece era stato a palazzo Chigi per limare con il sottosegretario De Vincenti
il “pacchetto Roma” che sarà approvato oggi dal governo. C’è bisogno infatti di varare
poteri speciali per consentire al comune di fare in quattro mesi quello che normalmente
andrebbe fatto in due anni: gare d’appalto, aggiudicazione dei lavori e apertura dei
cantieri. Con tempi che arrivano in alcuni casi a 15 giorni. Nelle 8 cartelle del pacchetto
Roma c’è di tutto. C’è un decreto del presidente del Consiglio che affida al prefetto di
Roma Franco Gabrielli il «raccordo operativo » sul Giubileo, fotocopiando quanto deciso
per l’Expo di Milano. C’è la delibera “tagliatempi” sulle opere pubbliche. E l’approvazione
del piano presentato dal comune con la riqualificazione dei lungotevere, dei parchi, delle
stazioni, la creazione di percorsi pedonali in centro, la manutenzione dello scalcagnato
parco pubblico circolante, i bagni pubblici. E tutto quello che si può fare con i cinquanta
milioni di euro ottenuti dal governo il 4 agosto. Poi la prossima settimana Causi (e forse
anche Marino, se nel frattempo sarà tornato dalle vacanze) sarà di nuovo a palazzo Chigi
per una riunione con Padoan e gli uomini del ministero dell’Economia. Un vertice per
provare a sbloccare un’altra tentina di milioni di euro allentando il patto di stabilità. Su tutti
gli appalti - visto che ci sarà una deroga sui tempi e la scusa della fretta di solito è il modo
migliore per inquinare le gare - vigilerà l’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione. Ci vorrà
insomma il bollino rosso di Raffaele Cantone prima di poter spendere un euro. E anche
questo, oltre al ruolo di «raccordo» del prefetto Gabrielli, la dice lunga sul grado di
autonomia politica di cui potrà godere da qui in avanti il sindaco.
Del 27/08/2015, pag. 18
L’offerta di Salvini a Berlusconi “Noi due in
ticket” Fi: così sei realista
La soddisfazione del Cavaliere Dai centristi no all’asse a guida Lega
“Patto con il Pd sola via dignitosa”
SILVIO BUZZANCA
ROMA . Alleati con Forza Italia per unire il centrodestra e battere Matteo Renzi. E un ticket
di governo con Silvio Berlusconi. Matteo Renzi lancia la sua ultima proposta dalle
montagne del Trentino e mette il silenziatore alle polemiche e agli scontri degli ultimi tempi
con il Cavaliere. «Se non si inventano il quarto esecutivo non eletto, l’anno prossimo si
21
vota. Il Pd, dopo la caduta del governo, sarà in macerie. E noi non possiamo fare più
errori: serve ‘unità del centrodestra », dice infatti il leader leghista in un’intervista a
Panorama . Un passo indietro rispetto all’idea di correre da soli e di fare a meno delle
alleanze. Ma una retromarcia ancora più clamorosa arriva rispetto ai proclami più o meno
recenti di non avere “bisogno” del Cavaliere e della sua presenza sia come “regista” della
coalizione o in un eventuale governo di cen-trodestra. Oggi Salvini parla di un ticket con il
leader di Forza Italia: «Sarebbe la soluzione migliore - dice - La sua esperienza per me
sarebbe molto utile. In politica estera, ad esempio, batte Renzi dieci a zero. Sono il giorno
e la notte. Con i governi Berlusconi l’Italia contava molto più di adesso. Africa, Israele,
Stati Uniti, Russia: il Cavaliere ha relazioni importanti in mezzo mondo ».
Salvini così sembra disegnare per Berlusconi il ruolo di futuro ministro degli Esteri nel
governo guidato da lui. Ipotesi che cozza molto con l’idea del Cavaliere sempre convinto di
essere lui e solo lui il leader del centrodestra italiano. Salvini però non approfondisce la
questione dei ruoli nel governo e preferisce applicarsi al programma. Perché, fa sapere
che con Forza Italia e Berlusconi c’è l’accordo «sul 90 per cento delle cose da fare». Le
elenca pure il leader dei leghisti questi sei punti oggetto di intesa: «Flat-tax, abolizione
degli studi di settore, via la legge Fornero, lotta all’immigrazione, famiglia tradizionale con
apertura alle unioni civili». Dall’accordo però, per il momento rimane fuori la questione
cruciale del rapporto con l’Unione europea. «Solo sull’Europa dobbiamo accordarci»,
ribadisce Salvini. Questione spinosa che implica anche il fatto che a Bruxelles i forzisti
stanno con i popolari che governano l’Unione e i leghisti stanno con tutti gli euroscettici
dell’Europa. Il problema però non sembra assillare più di tanto Renato Brunetta che dai
microfoni di Radio Radicale prende atto del ravvedimento del giovane leader leghista e
plaude. In fondo, ragiona il capogruppo forzista alla Camera, anche sull’Europa abbiamo
molti punti i comune con i leghisti. Anzi, spiega « sull’Europa c’è convergenza, e
soprattutto c’è la convergenza con il pensiero della stragrande maggioranza degli italiani».
La notizia della svolta raggiunge comunque Berlusconi nella sua residenza sarda di Villa
Certosa, da dove trapela la soddisfazione del Cavaliere. Soddisfazione che Maurizio
Gasparri prova a tradurre così: «E’ ovvio che non c’è alternativa all’unità del centrodestra.
Il realismo di Salvini non sorprende: del resto, quale strategia potrebbe avere la Lega
giocando allo sfascio?». Le parole di Salvini hanno però ben altra accoglienza nel Nuovo
centrodestra d Angelino Alfano. «Non vedo proprio come sia possibile un ritorno in un
centrodestra nel quale l’egemonia culturale prima che politica e numerica è di Salvini e nel
quale Forza Italia è un partito minoritario rispetto alla Lega », dice infatti Fabrizio
Cicchitto». Per noi, spiega, «l’unica via seria e dignitosa e quella di mantenere l’alleanza
politica e di governo con Renzi».
22
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 27/08/2015, pag. 1-6
Migranti, strage infinita 51 morti sul barcone
In arrivo 20mila profughi
Uccisi dalle esalazioni dei motori mentre attraversavano il Canale di
Sicilia Soccorsi 10 gommoni, salvati in 3 mila.Centri per rifugiati al
collasso
Alba di urla e disperazione nel Canale di Sicilia, per un’altra strage annunciata. Sono morti
tutti i 51 migranti che erano stati rinchiusi dai trafficanti di uomini nella stiva di un
peschereccio. Uccisi dalle esalazioni dei motori. «Chi tentava di uscire veniva picchiato»,
ha raccontato uno dei 439 che hanno viaggiato sul ponte, sono stati salvati dai marinai
della nave svedese Poseidon. È stata una corsa contro il tempo per soccorrere i 3.000
migranti individuati ieri mattina su dieci imbarcazioni malandate. Anche tre donne sono
morte, una era incinta. Non hanno resistito alla traversata.
Un esodo dal Nord Africa senza precedenti. Che non si fermerà: il Viminale prevede infatti
altri 20 mila arrivi entro fine settembre. Mentre la macchina dell’emergenza rischia di
entrare in crisi. E bisogna cercare al più presto altri spazi per ospitare i migranti.
Le ultime indagini dei magistrati siciliani dicono che i trafficanti di uomini in Libia si stanno
attrezzando velocemente per recuperare altri barconi. Intanto, i migranti vengono stipati
fino all’inverosimile, anche nelle stive. L’hanno confermato alla polizia di Ragusa alcuni
siriani sbarcati a Pozzallo: «Ci hanno chiusi nella stiva - dice un uomo- e quando abbiamo
capito che potevamo morire soffocati abbiamo sfondato la botola per potere prendere aria
e respirare». Così, è stata evitata un’altra strage. Anche alcuni minori arrivati a Catania
dopo essere stati salvati da una nave militare croata hanno raccontato le stesse scene agli
operatori di Save the children. «Per uscire dalla stiva e prendere un po’ d’aria dovevano
pagare». E chi si provava a protestare veniva picchiato. Così è accaduto anche ai 49
migranti morti nella strage di Ferragosto. Lo hanno rivelato in tribunale alcuni dei
sopravvissuti, che nell’ambito di un incidente probatorio hanno riconosciuto gli otto scafisti:
il comandante è un libico di 20 anni, gli altri hanno da 16 a 23 anni. Sono le nuove leve del
traffico di uomini, che continua a ritmo serrato.
Con una nuova tecnica, spiegano gli investigatori della squadra mobile di Palermo: gli
scafisti non arrivano quasi più a destinazione con il loro carico, sanno delle pesanti
condanne che rischiano in Italia. Così, abbandonano l’imbarcazione a metà viaggio,
lasciando i migranti al loro destino. Per il nuovo esodo che si prevede, in crisi rischiano di
andare anche le procure di Palermo e Catania, impegnate in prima linea in questa
emergenza. E pure le squadre mobili, che si occupano quotidianamente di lotta alla mafia.
Del 27/08/2015, pag. 7
Il retroscena.
Scatta l’allarme per l’aumento dei flussi: “Partiranno finché ci sarà bel
tempo”. Allo studio anche l’ipotesi di attrezzare aree industriali non
utilizzate
23
Anche ex carceri per l’accoglienza ecco il
piano del Viminale
VLADIMIRO POLCHI
ROMA. L’ondata d’arrivi non rallenta. La piena è prevista ancora per un mese. Il Viminale
suona l’allarme: «Fino al 30 settembre prevediamo l’ingresso di altri 20mila nuovi
profughi». Per questo si è pronti a tutto. Se la rete d’accoglienza dovesse collassare, si
apriranno vecchie caserme, aree industriali in disuso e perfino ex penitenziari, a
cominciare dal carcere di Morcone, in provincia di Benevento.
Da mesi i tecnici del ministero dell’Interno non nascondono le preoccupazioni. Le cifre
vengono aggiornate quotidianamente. A ieri i migranti giunti in Italia nel corso dell’anno
hanno raggiunto quota 111.354: per lo più eritrei (29.019), nigeriani (13.788), somali
(8.559), sudanesi (6.745) e siriani (6.324). Dunque in gran parte migranti che hanno diritto
a una qualche forma di protezione internazionale. Il sistema d’accoglienza è già al limite:
attualmente ospita 93.608 profughi, tra centri governativi e strutture temporanee regionali.
Le regioni sostengono il carico maggiore con ben 64.224 migranti ospitati sul loro territorio.
Le più investite sono la Sicilia (che accoglie il 16% dei migranti), la Lombardia (13%), il
Lazio (9%), la Campania (8%), il Piemonte (7%) e il Veneto (7%).
Ma ciò che allarma maggiormente è la tendenza degli ultimi giorni. «Dopo i 4mila profughi
soccorsi in mare pochi giorni fa — ragionano dal Viminale — si pensava che il flusso
avrebbe cominciato a rallentare, invece no. Assistiamo anche oggi (ieri, ndr ) a nuove
ondate di arrivi. Non solo. Aumentano le vittime e i trafficanti si fanno sempre più feroci,
anche senza apparenti spiegazioni, come se avessero fretta di liberarsi del grosso del
“carico” entro l’estate». In autunno infatti, col peggioramento delle condizioni atmosferiche,
gli arrivi via mare solitamente rallentano. «Ma nel prossimo mese la pressione non
dovrebbe alleggerirsi ». Non è tutto.
Il Viminale monitora con attenzione altri due fenomeni, che stanno caratterizzando gli
ultimi arrivi. Primo, il flusso via mare di cittadini marocchini: migranti economici, che
solitamente non hanno diritto all’asilo. «È da tempo che non accadeva — confermano dal
ministero — probabilmente la chiusura della frontiera con la Spagna li ha spinti su una
nuova rotta verso l’Italia. Ma i marocchini li rimandiamo tutti a casa, abbiamo infatti un
buon accordo di riammissione con il Marocco». Ancora più allarmante è l’altro fenomeno,
che impegna il sistema d’accoglienza: il flusso imponente di arrivi di minori stranieri non
accompagnati. Per lo più 16-17enni egiziani. Nazionalità solitamente soggetta a
espulsione. «Ma i minori sono soggetti vulnerabili, la legge ci impedisce di rimandarli
indietro fino al raggiungimento della maggiore età».
Di fronte a questo flusso costante di arrivi, il nostro Paese resta in attesa delle decisioni
che dovrebbero essere prese la prossima settimana con riunioni a livello tecnico a
Bruxelles, proprio per andare incontro alle difficoltà di Italia e Grecia. Dal Viminale
esprimono poi «grande apprezzamento per la decisione presa dalla Germania di
sospendere il regolamento di Dublino per i siriani in arrivo», ma sanno che ancora per un
po’ dovranno farcela da soli. «Non possiamo fare sconti a nessuno, sindaci, prefetti,
governatori di regione dovranno fare la loro parte, secondo il sistema delle quote
approvato nel 2014».
All’orizzonte resta la possibilità di attivare immobili pubblici inutilizzati. «Non solo quelli
messi a disposizione dal ministero della Difesa, come ex caserme — precisano dal
ministero dell’Interno — ma anche strutture degli enti regionali, come centri di sviluppo
industriale fermi o mai utilizzati». E ancora: beni confiscati alla mafia, soprattutto in
Calabria. E poi, immobili di proprietà del ministero della Giustizia. Un esempio? «Potrebbe
24
essere presto utilizzata la struttura dell’ex carcere di Morcone, in provincia di Benevento,
mai entrata veramente in funzione».
Del 27/08/2015, pag. 2
Sottocoperta «solo» 500 euro
Nel prezzario dei trafficanti sconti per chi
rischia di più
Soccorsi In alto decine di migranti al porto di Catania dopo essere stati
salvati in mare aperto. Sopra il trasporto d’urgenza a Lampedusa di un
profugo (foto Azzaro/Afp, Marina militare italiana)
Non siamo al porto di Amburgo e il tariffario non è propriamente una preisliste , fissa e
indiscutibile. Per i trafficanti libici di Zuwara conta anche il colore della pelle e se è nera il
destino è segnato: stiva. La Squadra Mobile di Ragusa, la più esperta in tema di migranti
del mare con i suoi 98 scafisti arrestati nel 2015 e gli oltre 300 indagati in due anni, ha
elaborato una sorta di prezzario, molto elastico ma orientativo, che prende in
considerazione diversi parametri: tipo di imbarcazione, posto, equipaggiamento e origine
del migrante. Poco importa se fugge da guerre o carestie o se parte per un sogno.
I migranti dell’Africa nera devono fare i conti anche con un certo razzismo dei mercanti
costieri che riserva la «cambusa» ai disperati del Sud, eritrei, etiopi, sudanesi, somali,
nigeriani, ghanesi, ivoriani, senegalesi, uomini donne e bambini dell’area subsahariana
che prima di attraversare stremati il mare di Sicilia hanno attraversato quello di sabbia.
Prezzo? Dai 750 ai 1.500 dollari. Dipende da vari fattori: il momento, il peschereccio, i
rischi, l’umore del trafficante, quello più indefinito della sua organizzazione e dal
connection man , da colui cioè che si occupa di mettere in contatto la gente di un certo
paese con i signori del mare. Costoro finiscono sottocoperta, nel posto dove i pescatori
libici gettano normalmente il pesce. Posto assai rischioso per via dell’aria che manca e
delle esalazioni di idrocarburi che possono trasformare l’ambiente in una trappola senza
via di scampo. «Stiamo parlando di imbarcazioni in legno, con uno spazio vitale di circa 16
metri quadri. Le autopsie effettuate in questi mesi parlano chiaro: asfissia per carenza di
ossigeno. Nel 2014 solo a Pozzallo sono arrivati in 73, intendo cadaveri», faceva
recentemente il quadro Nino Ciavola, il Capo della Mobile di Ragusa che si occupa di
migranti da tre anni e mezzo. Ma i disperati delle stive, secondo lui, non sono nemmeno
l’ultima categoria di chi tenta la traversata della vita. Ci sono infatti quelli dei gommoni per
il trasporto fluviale e mercantile, qualche Zodiac. Qui il rischio è l’inabissamento per il peso
eccessivo. Elemento che viene scontato nel prezzo: dai 500 ai 600 dollari.
Attenzione: in questo panorama ci sono delle eccezioni. Alcune di carattere «orientale»
che mescolano i giovani bengalesi agli africani e altre dovute a fattori imprevedibili, per cui
nei posti peggiori finiscono talvolta anche i maghrebini. Come testimonia Giovanna Di
Benedetto, volontaria di Save the children, che ieri a Catania ha avuto modo di parlare con
33 ragazzi egiziani appena sbarcati: «Erano minori non accompagnati. Hanno raccontato
di aver fatto la traversata nella stiva e che se volevano uscire per prendere una boccata
d’aria dovevano pagare».
Nel mare dantesco i «privilegiati» sono i siriani. Loro normalmente hanno studiato,
conoscono i pericoli dell’acqua e, soprattutto, hanno più dollari a disposizione. Viaggiano
così sopra coperta, anche perché il prezzo è decisamente più alto. Il tariffario si fa quindi
25
più articolato. «Si va dai 2.500 ai 3.000 dollari in media a persona. Si tratta di famiglie
allargate, anche di 20-25 persone. Se possono si muovono così, i siriani. I prezzi vanno
dai 500 euro per il bambino ai 3.000 del capofamiglia». È compreso il necessaire per
sopravvivere: acqua pane e biscotti. Esistono gli optional: «Il life jacket viene 200 euro, il
satellitare 1.000». C’è un top: «Alcuni siriani, per ragione di sicurezza, prendono lo yacht
in Turchia, verso Antalya. In questo caso il costo va dai 6 agli 8 mila euro».
Mentre nelle stive, ammassati come gli schiavi dell’Ottocento che lasciavano l’Africa per le
Americhe, ondeggia la folla dei dannati. Se va bene trovano una nave salvifica che li porta
in Sicilia. Se va male, bussano sopra coperta, ribussano. Poi iniziano a urlare. E muoiono.
Del 27/08/2015, pag. 21
“Bracciante morto,il corpo fatto sparire”
Giallo a Foggia dopo la denuncia shock
“È annegato in una vasca di irrigazione. Gli altri lavoratori non parlano
perché minacciati”
La raccolta estiva dei pomodori
IL CASO / ACCUSE AI CAPORALI. MA NON CI SONO RISCONTRI
GIULIANO FOSCHINI
BARI. Mentre il governo si prepara oggi a presentare un nuovo pacchetto di norme, dalla
Puglia del caporalato arriva un nuovo giallo. La Cgil ha denunciato infatti che un altro
bracciante, il quarto dall’inizio della stagione, sarebbe morto al lavoro, annegato in una
vasca dell’irrigazione. «È successo — sostiene Yvan Sagnet, del dipartimento
Immigrazione della Flai — una quindicina di giorni fa. E non se n’è saputo nulla. È difficile
avere informazioni perché i caporali hanno spaventato a morte i lavoratori». Quanto al
corpo, non è da escludere che possa essere «stato sepolto dai caporali nel ghetto, oppure
nascosto con qualche altro espediente». Un’accusa durissima che non a caso ha
provocato la reazione della politica che ha chiesto (partendo dal sottosegretario al Lavoro,
Teresa Bellanova) di fare «chiarezza su quanto accaduto».
In realtà la denuncia della Cgil al momento non trova alcun riscontro. La Prefettura di
Foggia si è immediatamente attivata e nulla risulta alla Asl, né con i pronto soccorso né
con i 118 della zona. La notizia girava da giorni all’interno del ghetto da Rignano ed era
stata pubblicamente denunciata nel corso della riunione della rete Campagne occupate,
che ieri è tornata sull’argomento confermando la notizia: «Per dovere di cronaca — hanno
ribadito — il lavoratore, di origine maliana, è deceduto in ospedale dopo essere stato
portato via dal ghetto, dove abitava, a seguito del massacrante lavoro sui campi». Una
notizia che però le associazioni che lavorano all’interno del ghetto — da Emergency alla
Caritas — ancora nella serata di ieri smentivano: «Non abbiamo saputo nulla di questo
genere ». In ogni caso anche le forze di polizia faranno nelle prossime ore alcuni
accertamenti per capire, esattamente, cosa è successo.
Certo il ghetto di Rignano continua a essere un’incredibile anomalia nel sistema di
accoglienza dei lavoratori stranieri nel foggiano. Duemila persone, tutti africani, vivono in
una baraccopoli legalizzata. Seppur sono poi sfruttati in campagna oppure nella tratta
della prostituzione. In questi anni si è cercato di dare uno schermo di regolarizzazione con
scarsissimi risultati: i rappresentanti sono stati persino invitati ai tavoli istituzionali, ma
26
continua a regnare l’illegalità. Tanto che il Governatore, Michele Emiliano, ha messo tra le
priorità assolute la risoluzione della vertenza.
Intanto oggi, dopo la lettera a
Repubblica dei ministri della Giustizia e dell’Agricoltura, Andrea Orlando e Maurizio
Martina, il vertice nazionale sul caporalato. All’ordine del giorno un pacchetto di misure
che prevedono, tra l’altro, la confisca per le aziende che sfruttano il lavoro nero.
Del 27/08/2015, pag. 23
Il dossier
Africani ed europei I nuovi schiavi: un euro a
quintale
15 Le province italiane che assorbono il 50,6% della manodopera
agricola straniera (Foggia è al primo posto)
dal nostro inviato Carlo Vulpio
FOGGIA Lavorare in nero, cioè senza uno straccio di contratto, o in grigio, con un
contratto finto, da cui risulti un salario doppio o triplo di quello reale è una pratica molto
ben collaudata nei grandi lavori stagionali agricoli. Specialmente nel Sud Italia.
Nelle campagne questo sfruttamento grigio-nero è molto più «nero» che grigio. Per il
colore della pelle della maggioranza dei lavoratori. Per la fatica bestiale che richiede, non
meno di 10-12 ore sotto il sole cocente, con paga «a cottimo», 3 euro per ogni cassone di
3 quintali di pomodori. Per gli abusi d’ogni tipo sulle persone, che nei confronti delle donne
sono ovviamente abusi sessuali. Per il taglieggiamento continuo sui lavoratori: la
percentuale di 50 centesimi per ogni cassone di pomodori; il «biglietto» di 5 euro a cranio
per il trasporto sul luogo di lavoro, stipati anche in quindici in furgoni e in utilitarie; il
«contributo» di un euro su ogni bottiglia di acqua per dissetarsi.
Secondo i dati dell’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, 15 province italiane
assorbono il 50,6 per cento della manodopera agricola straniera e, tra queste, la provincia
di Foggia è al primo posto, con il 6,4 per cento. Il Tavoliere è dunque soltanto il picco più
alto di questo infinito dramma, che nonostante i proclami è l’unica «filiera» agricola che
funzioni davvero. Una «filiera» in cui vengono triturati non solo i neri africani concentrati in
ghetti come quello di Rignano Garganico, che è solo il più grande e il più mediaticamente
efficace, ma anche i bianchi europei della ex Europa dell’Est — romeni e bulgari su tutti —
, che fanno i «pendolari» e terminata la stagione «da neri» tornano in patria, con qualche
euro e molte umiliazioni in più.
L’emergenza quindi è stabile, endemica, aggravata dall’aumento di offerta di manodopera
dovuta ai sempre più numerosi arrivi di clandestini e di rifugiati richiedenti asilo in cerca di
lavoro. Tutto questo è manna per i «caporali» e per la grande distribuzione
agroalimentare. Anche per i produttori, certo, ma questi, se non sono latifondisti, sono in
qualche modo anch’essi vittime della «filiera», perché i prezzi del prodotto li fa la
distribuzione, e il produttore, «per stare nei costi», si risolve a impiegare la manodopera
arruolata dai caporali. Non solo. C’è poi la burocrazia, che spesso e volentieri, per
concedere agli immigrati il permesso di soggiorno si ostina a chiedere loro «la residenza»
(che non c’entra nulla), così da alimentare tutta una compagnia di giro — composta da
avvocati, consulenti, cooperative di servizi vari — che procaccia e vende contratti di affitto
e documenti di varia natura che gli immigrati comprano per non diventare «fuorilegge».
27
E così un altro giro di giostra ricomincia. Fino al prossimo «caso umano», alla «scoperta»
del prossimo ghetto, alla solenne istituzione del prossimo «Tavolo istituzionale interforze
permanente contro l’illegalità e il lavoro nero» (nientedimeno). Ma strutture da campo
mobili e temporanee per i lavoratori stagionali, con permesso di soggiorno e garanzia del
diritto alla salute, con costi di residenza e trasporto anche a carico della grande
distribuzione e delle organizzazioni dei produttori, no? Una cosa del genere, la fece Jacob
Fugger ad Augusta, nel 1516. Non era Mao Zedong, ma uno dei più grandi capitalisti
dell’età moderna.
Del 27/08/2015, pag. 3
Cani e soldati sotto il Muro d’Ungheria
Szeged è una piccola Lampedusa: ci sono afghani, curdi, siriani Ora anche prefetti,
jeep e ufficiali Frontex
DAL NOSTRO INVIATO
SZEGED (Ungheria) Il fiume, qualcuno pensi al fiume. «Stanotte ne sono arrivati venti a
nuoto». E le cascine di Mòrahalom, chi le controlla? «Ci sono vecchietti che vivono isolati,
col buio si sbarrano in casa e telefonano per ogni rumore». E poi bisogna trovare gente
che parla inglese. E comprare il fieno per i cavalli delle guardie di confine. E magari tenere
un po’ alla larga tutti questi giornalisti, via, sciò, i corridoi vanno lasciati liberi... A Szeged,
fa ridere che il governo abbia deciso di farne adesso il quartier generale della guerra ai
migranti. L’emergenza la maneggiano da mesi, qui. Sulla porta del municipio sventola una
strana bandiera blu con la mezzaluna gialla (vi sarete mica già arresi al mamma li turchi?
«Boh, è lì da anni...»), ma pochi hanno tempo per contemplare. Negli uffici si corre. Il
sindaco non riceve. La sala operativa è da allestire: lunedì calano i prefetti da Budapest,
s’è deciso che arriva la cavalleria, un corpo speciale di 2.106 poliziotti e poi altri 1.494, e si
porta dietro i mezzosangue che galoppano veloci e i cani col fiuto buono e cinquanta
ufficiali Frontex dell’Unione Europea e i gipponi blindati e gl’idranti e i rilevatori per le
impronte digitali da piazzare ai sette valichi di frontiera con la Serbia...
«È evidente a tutti meno che alla sinistra — dice in Parlamento il capogruppo del premier
Viktor Orbán — che questa situazione può trascinarci in un disastro sanitario, di sicurezza,
amministrativo». Ergo: Budapest non s’accontenta del Muro e da settembre, probabile,
manderà sul fronte meridionale pure l’esercito. Con licenza di fare qualunque cosa, meno
che sparare. Szeged è la Lampedusa d’Ungheria. I siriani ce l’hanno nella memory card,
gli afghani nella memoria, i curdi sulle mappe di carta. Nessuno la conosceva: ora sanno
tutti che è di qui che bisogna passare. C’è un parco che si chiama Europa, ma non sono lì
i giardini del paradiso. Binario 1, Budapest, ore 4.36. Binario 2, Graz-Monaco di Baviera,
ore 5.05. Ci s’attacca ai treni quand’è scuro. Ci sale chi è bravo. Oppure ha il braccialetto
verde: il lasciapassare concesso dalle autorità, tre giorni per attraversare e abbandonare
l’Ungheria. Chi resta a Szeged, va dai volontari di Migszol per un panino, un succo di
frutta, un consiglio. «Nei campi profughi però no», dice l’unico africano d’un gruppo di
siriani, Denis Ngouabi, 22 anni, congolese. Sa che in Macedonia o in Serbia può rimanere
quanto vuole, tanto lì non è Ue, ma nei campi ungheresi gli prenderebbero le impronte e
addio Germania: «L’asilo politico potrei chiederlo solo in Ungheria», e lui non vuole starci
nell’Europa povera e magiara. A Röszke, all’alba di ieri han dovuto usare i lacrimogeni: la
polizia chiedeva i polpastrelli a 200 migranti, è scoppiata una rivolta, lacrimogeni, botte, le
immagini sono finite su Hir-tv e la spaventata Ungheria è diventata subito la spaventosa
immagine di un’Europa inadeguata. Oggi a Vienna si riuniscono i ministri d’ex Jugoslavia e
28
Paesi vicini. Tutti quanti: un miracolo politico mai riuscito dalla pace di Dayton, raggiunto
con la più grande emergenza umanitaria dai tempi delle guerre balcaniche. A Banja Luka, i
servizi segreti dell’area si sono già incontrati: c’è un rapporto che teme infiltrazioni Isis,
soprattutto in Serbia e Bosnia. «Non è un rischio da sottovalutare», dice il capo degli 007
di Sarajevo, Izet Nizam. Una deputata serba la butta sull’umorismo nero: la sporcizia
etnica al posto della pulizia etnica, «perché non usiamo i migranti per ripopolare le zone
ad alta denatalità?». Neanche fossero tornati gli Avari, invece, l’Ungheria è al panico. E
non solo quella avara: la destra vuole cambiare perfino la Costituzione, carta bianca alle
forze armate nella difesa dei confini, sapendo che l’opposizione può poco e che l’ultima
volta, quando Orbán finanziò i 20 milioni d’euro per il Muro, alla marcia di protesta per le
vie di Budapest c’erano 800 persone. «È da giugno che avvertiamo l’Ue di quel che
succede qui — denuncia un ministro magiaro, Zoltán Balog —, da Bruxelles non ci hanno
risposto nemmeno con un’email». E ora che hanno stanziato ben un milione e mezzo
d’euro per sostenere Serbia e Macedonia? «Grazie, facciamo da noi».
Francesco Battistini
Del 27/08/2015, pag. 9
Il pugno della Merkel contro i razzisti
Duro discorso della cancelliera a Heidenau dopo gli scontri antiprofughi: “Contro gli stranieri violenza abietta” Ma è tensione con un
gruppo di abitanti del luogo: “Sei una traditrice”. Contestazione della
destra xenofoba
DAL NOSTRO INVIATO
GIAMPAOLO CADALANU
BERLINO. Per una fetta di Germania, la cancelliera è una «traditrice»: così l’hanno
chiamata, adottando uno slogan del movimento anti-islamico Pegida, alcuni abitanti di
Heidenau, dove Angela Merkel è voluta andare ieri per ripetere che non ci sarà tolleranza
per gli «atti di abietta xenofobia». Nel momento più caldo della crisi dei profughi, dopo aver
appena bacchettato insieme con il francese Hollande i partner europei che non fanno la
loro parte, e dopo aver ieri mattina varato un pacchetto finanziario pari a un miliardo di
euro per gli enti locali, perché affrontino adeguatamente l’emergenza, la Merkel ha deciso
di sottolinearlo senza esitazioni: la Germania ha preso impegni robusti, legati al suo ruolo
economico-politico ma anche alla sua storia, e dunque nessun rigurgito di razzismo verrà
tollerato. E non ci poteva essere miglior tribuna che la cittadina dove alcune centinaia di
neonazisti ubriachi hanno ingaggiato una battaglia con la polizia per le strade per impedire
l’arrivo degli autobus di profughi. Alla cancelliera i nostalgici gridavano: «Noi siamo il
branco», in riferimento ironico alle parole di condanna usate nei giorni scorsi dal
vicecancelliere Sigmar Gabriel. La Merkel non si è fatta intimorire: «Non ci sarà tolleranza
per quelle persone che offendono la dignità degli altri, né per quelli che non vogliono dare
una mano quando aiuto legale e umano è richiesto», ha detto alla gente di Heidenau: «Più
lo sottolineiamo, più saremo forti».
Ma la crisi dell’estate 2015, mettendo a dura prova anche la capacità di accoglienza
tedesca, sta stimolando anche la parte peggiore del Paese.
L’estrema destra xenofoba ha deciso di approfittare del disagio e sta rilanciando le sue
offensive violente. Nella notte di martedì uno sconosciuto ha cercato di appiccare il fuoco
29
a un ostello per stranieri a Lipsia. A Parchim la polizia ha arrestato due persone armate di
coltello penetrati in un’altra struttura di accoglienza.
Gli stessi profughi accolti ad Heidenau hanno confessato alla stampa di voler andar via
quanto prima, magari per cercare una sistemazione nella Germania ovest: «Lì ci sono
meno pericoli di attacchi razzisti».
Del 27/08/2015, pag. 5
Cambiare Dublino
Perché il regolamento del diritto d’asilo in Europa è superato dagli
eventi. Le debolezze della Ue, il piano tedesco per sanarle
Quando in Notre-Dame de Paris il campanaro Quasimodo strappa Esmeralda
all’impiccagione, la porta in cima alla cattedrale e la solleva sul mare di folla gridando
«Asilo». Esmeralda è salva. Sulla soglia di Notre-Dame, scrive Victor Hugo, «cessava ogni
giustizia umana».
Da sempre rifugio degli ultimi e dei perseguitati, l’asilo è un pilastro del diritto
internazionale, regolato da un ampio corpo di convenzioni e protocolli. L’istituto giuridico
che nella recente storia europea ha soccorso figure come Thomas Hobbes, Cartesio e
Voltaire, oggi torna al centro del dibattito sulle norme Ue incapaci di fare ordine e garantire
la dignità dei rifugiati. La Germania di Angela Merkel ha appena fatto ricorso alla «clausola
di sovranità» per sospendere in stato d’emergenza e limitatamente ai cittadini siriani
l’applicazione del Regolamento di Dublino, pietra angolare del sistema d’asilo europeo.
L’urgenza di ripensare Dublino è stata riaffermata ieri dal ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni intervistato dal Corriere . «Dublino III» ed «Eurodac II» sono i regolamenti del
2013 che rappresentano la versione più aggiornata di un’architettura nata con la
Convenzione del 1990 e modificata con «Dublino II» nel 2003. Si tratta in sostanza di un
insieme di norme e meccanismi con il quale l’Unione Europea stabilisce su quale Stato
ricada la competenza per l’esame delle richieste di protezione internazionale. «Eurodac» è
un database comunitario di impronte digitali.
Il controverso principio base è quello del Paese di primo accesso: salvo eccezioni, l’onere
spetta «in primis» allo Stato che abbia svolto il maggior ruolo rispetto all’ingresso e al
soggiorno del richiedente asilo in territorio Ue. L’obiettivo principale è evitare che più Stati
si ritrovino a trattare una stessa domanda. In questo modo però il sistema scarica una
pressione insostenibile sulla «prima linea»: Italia e Grecia, alle quali nelle ultime settimane
si è aggiunta anche nelle dichiarazioni ufficiali di Bruxelles l’Ungheria del premier
nazionalista Viktor Orbán, che forte di un implicito ruolo di «baluardo» sta alzando un muro
di filo spinato al confine con la Serbia. Paese di primo accesso teme di diventare ora
anche la Bulgaria che ha appena schierato blindati e guardie di frontiera. Dublino si fonda
su presupposti astratti che hanno subito ceduto al peso della realtà. Pur ampliando i
dispositivi per una maggiore tutela dei diritti, soprattutto dei minori, «Dublino III» ha
mantenuto tutti i limiti che rendono la gestione delle pratiche disfunzionale e inumana.
Nell’Unione non esistono infatti livelli omogenei di protezione: tempi e condizioni di
accoglienza variano da Stato a Stato e i criteri «oggettivi» fissati non tengono conto delle
esigenze dei migranti, spesso decisi a raggiungere familiari già in Europa, in alcuni casi
trattenuti in veri centri di detenzione. Da anni Italia e Grecia sono accusate da Paesi come
Germania e Svezia — che mantengono il record d’accoglienza perché la maggior parte dei
rifugiati finora arrivava con «tradizionali» viaggi in aereo — di non registrare i migranti e
lasciarli proseguire verso il Nord. Proprio per dare sollievo agli Stati di primo accesso è
30
stato pensato il «sistema hotspot» dell’Agenda Immigrazione Ue: una serie di centri per il
controllo e la registrazione gestiti dalle forze nazionali in cooperazione con le agenzie
comunitarie. Soluzione parziale e già superata dagli eventi. Un ulteriore passo verso la
revisione di Dublino è il piano tedesco in dieci punti «per una nuova integrazione della
politica europea dell’asilo» appena presentato dal vice cancelliere Sigmar Gabriel e dal
ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Ancora uno strappo della Germania ormai
leader nella gestione di una crisi che è una corsa contro il tempo. L’ultima tragedia è
quella di un 15enne somalo soccorso da una nave di Medici senza frontiere. Prima di
prendere il mare era stato torturato, non ce l’ha fatta.
Maria Serena Natale
Del 27/08/2015, pag. 4
I contadini asylanten esperti in bio
In controtendenza. A Canelli (Asti), un progetto internazionale collettivo
per l’agricoltura
2.0. Uno sguardo alto che connette i fuoriusciti africani ai tormenti delle nostre esistenze
La famosa società liquida ci mette pochissimo a diventare solida se qualcuno decide di
approdarvi. I confini sono una linea a presa rapida.
Chi viene in Europa scopre che andarsene da casa sua è una necessità, ma non un diritto.
Sente, con triste meraviglia, com’è la sua vita di fronte ad una muraglia che ha in cima
cocci aguzzi di bottiglia. Non sa di essere la versione in prosa vivente di una nota poesia
italiana del Novecento. L’Italia pullula di italie. Ce n’è per tutti i gusti. Crema, pistacchio,
tuttifrutti. Una vicenda ha sempre il suo contrario a poca distanza. Dritto, rovescio. La
paura di chi ha lasciato la sua terra si scontra con quella di chi sta sulla terra di qui. Sangue e terra, Blut und Boden, di nuovo. Prendi il Piemonte. A Carmagnola, in provincia di
Torino, un bracciante in nero, romeno, crolla a terra in una serra ortofrutticola a 50 gradi.
Viene pulito, rivestito, trasportato a casa. Da morto. La magistratura indaga. A Garessio,
provincia di Cuneo, una casa di accoglienza con diciotto giovani rifugiati viene nottetempo
attaccata a pietrate con un tentativo di incendio. La magistratura indaga.
A Canelli, in provincia di Asti, una azienda agricola mette assieme colture bio e richiedenti
asilo. Il rovescio degli episodi precedenti. Questo vorrei raccontare, anche se, forte della
mia ignoranza, bio/non-bio mi suona un po’ enigmatico.
Ho detto azienda e avrei dovuto dire start up, per essere all’altezza dei tempi. Siamo in
fase prova d’orchestra, ma sul campo contadini internazionali provenienti dall’Africa subsahariana trattano come si deve la terra. Mohammed, che parla più con le pause che con
le parole, viene dal Mali. «Non c’è la guerra da voi», gli ha detto il giudice negandogli per
la seconda volta il permesso di «soggiornare». Dovrà tornarsene in Africa se anche
l’ultimo ricorso verrà bocciato. Qualcuno dovrà spiegare al giudice che esistono anche le
guerre economiche e in Mali la moneta è il franco Cfa (Colonie Francesi d’Africa!) che
segue obbligatoriamente i destini dell’euro. Se l’Italia, la Grecia, la Francia, ecc. sono
messe in seria difficoltà dalla moneta europea, non dovrebbe essere difficile per il giudice
capire la situazione del Paese subsahariano. Non dovrebbe essere particolarmente complicato neppure per noi. Il ragazzo eritreo che raccoglie i peperoni restituisce un quadro
agghiacciante dell’ex colonia italiana, l’Eritrea, e racconta la sua dolorosa odissea con una
intonazione ritmica della voce che ricorda Reesom Haile, un grande poeta eritreo da poco
scomparso. Altri ragazzi provenienti dal Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio, dunque «moru»
— cioè negri, come dispone l’arrogante linguistica locale — raccontano altre storie,
31
archeologie felici e infelici dell’infanzia e del viaggio di attraversamento. Tra di loro parlano
italiano, non sono nati emigranti e portano dentro di sé lingue e culture diverse oltre al
dolore di essere persone non grate. Con loro lavora Davide Colleoni che, dopo esperienze
professionali in Belgio e in California, fa un po’ da capofila, come esige il suo cognome.
Tutti insieme però sono stati e continuano a riceve formazione sulla produzione agricola
biologica, loro che biologici lo sono per esperienza diretta, avendo sperimentato la nuda
vita, il puro bios. A far partire il progetto hanno contribuito finanziamenti diversi, della Fondazione Social di Alessandria, dello Spras per minori non accompagnati, dell’Associazione
italiana di agricoltura biologica e, naturalmente, la disponibilità di più di dieci ettari di terreno agricolo dati in comodato gratuito da una signora garbata e intelligente. Lo sguardo
sospettoso dei vicini si è attutito, qualche terreno incolto da salvare dalla definitiva rovina
si è anzi aggiunto al progetto dando così respiro alla produzione di generi di prima necessità, come la dignità delle persone, il loro benessere, le relazioni di fiducia, diversi tipi di
ortaggi, cereali, tra cui il farro, nocciole e, con la imminente vendemmia, uva e vino. Nella
vasta area langarola e dintorni, se domani bulgari, macedoni, romeni decidessero improvvisamente di tornarsene a casa, ciao vendemmia. Resterebbe anche inattivo, forse, il
caporalato, che non è un’invenzione meridionale, come sa chi abbia letto «Il mondo dei
vinti» di Nuto Revelli. Se poi fossero le donne badanti ad andarsene scoppierebbe una
enorme bolla di sofferenza. Siamo a Canelli, cioè Asti Spumante, Moscato d’Asti e altre
preziosità enologiche, in un paesaggio che è patrimonio dell’umanità, come decreta
l’Unesco, che deve aver l’abitudine allo sguardo alto dove effettivamente il mare verde di
vigne collinari lo diresti dipinto da un artista fiorentino del rinascimento. Lo sguardo basso
incappa invece nei mille capannoni disseminati a caso, nei centri commerciali a gogò,
nella schiuma posturbana che caratterizza la mostrificazione del territorio italiano. Il patrimonio dell’umanità soddisfa vista e palato e sembra invece infastidire certe forze locali di
bassa lega che hanno introiettato, in versione ventunesimo secolo, le leggi razziali del ’38
e quelle di Norimberga, e se ne fanno un vanto. «Ogni tempo ha il suo fascismo», scriveva
Primo Levi nel 1974. Ma i ragazzi e la onlus che gestisce il progetto, Crescereinsieme di
Acqui, hanno la testa dura e sono equipaggiati di non poca ironia.
La costituenda «azienda agricola sociale biologica» si chiamerà, e già si chiama, Maramao. A questo punto si aprono diverse porte. Una fa ingresso nella memoria, «Maramao,
perché sei morto, pane e vin non ti mancava», canzone foxtrot del 1939, trio Lescano,
suscettibilità dei gerarchi fascisti, suscettibilità del potere pontificio, due secoli fa, come
racconta Gioacchino Belli o ancora Ninco Nanco, brigante lucano, o Fabrizio Maramaldo,
capitano di ventura. Una canzonetta sconclusionata che è un insaccato misto di storia.
Un’altra porta introduce alla contemporaneità: nella parlata piemontese sono stati a lungo
indicati come «i maramao», gli immigrati meridionali di un tempo poi debitamente rimpiazzati con gli «extracomunitari», soprattutto «moru».
Uno scatto autoironico, dunque. A me piace attraversare ancora un’altra porta e fare
maramao a chi si è asserragliato dentro l’incubo immigrazione e non vede che a Canelli si
propone uno sguardo alto in cui i fuoriusciti africani sono strettamente connessi con i tormenti delle nostre esistenze: un lavoro degno, un cibo appropriato, un’agricoltura non
siringata, un territorio e un paesaggio rigenerati, relazioni sociali non ottenebrate. Welfare
lo si chiamava un tempo. Chiamiamolo patrimonio dell’umanità.
32
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 27/08/2015, pag. 9
La rivolta anti-trivelle sbarca sulle Tremiti
Adriatico . Oggi la catena umana in acqua dei "no-oil". Ambientalisti e
amministratori da tutto il paese per "abbracciare" il Cretaccio
Serena Giannico
Grotte, calette, insenature da sogno e scogliere: pronte all’invasione. Ambientalisti, amministratori, cittadini e associazioni «no oil» da tutta Italia oggi “abbracceranno” il Cretaccio,
isolotto delle Tremiti. Una lunga catena umana, in acqua, davanti a San Domino e a San
Nicola, le due principali isole dell’arcipelago delle Diomedee (Foggia) per opporsi alle piattaforme petrolifere offshore, decise a deturpare scenari di incomparabile bellezza.
L’iniziativa è dell’associazione Punto a Capo che raggruppa ristoratori, albergatori e operatori turistici delle Tremiti e dei «No triv» della Puglia. Vi hanno aderito anche diversi
Comuni del Molise, dell’Abruzzo e della Puglia. C’è il patrocinio della Lega navale e del
Wwf . «E non mancheranno – spiega Raffaele Vigilante, dei No triv della Puglia, uno dei
promotori della manifestazione – rappresentanti delle Regioni Puglia, Molise, Basilicata
e di varie province». L’obiettivo è focalizzare l’attenzione «sul tema della tutela del mare
e ribadire un no chiaro e deciso a nuove perforazioni dei fondali marini per la ricerca
e l’estrazione di idrocarburi», previste e approvate a raffica dal governo Renzi. Riempite
motonavi e traghetti e le corse speciali previste per l’occasione. A mezzogiorno tutti sulla
banchina del porticciolo di San Domino, dunque, per poi raggiungere il Cretaccio e disporvisi attorno. La protesta arriva dopo quelle di Peschici, Vieste, Manfredonia, Lanciano nel
maggio scorso e Termoli del 2011: quest’ultima vide in prima linea anche un testimonial
d’eccezione, Lucio Dalla, schierato in difesa dell’Adriatico.
«Questa — afferma il sindaco di Termoli, Angelo Sbrocca – è una delle zone più pulite
e incontaminate. È dunque un bene da tutelare da ogni tipo di abuso. L’appello è per tutti:
bisogna aver cura del mare, del nostro mare, della fauna e dell’ecosistema che ha un
equilibrio particolarmente fragile». «Abbiamo ricevuto una valanga di adesioni – riprende
Vigilante, ex forzista -: occorre battersi per la salvaguardia di luoghi unici. Bisogna fare
pressione affinché il governo apra, su queste questioni, un tavolo nazionale di trattative.
Dobbiamo premere per il ripensamento e la modifica degli articoli 35 e 38 dello Sblocca
Italia, che agevolano le multinazionali del greggio e tolgono potere alle Regioni».
Sono diverse le aziende intenzionate a mettere gli artigli sulle acque cristalline di queste
isole. «Nel 2012 – ricorda Vigilante -, nonostante i pareri favorevoli dei ministeri
dell’Ambiente e dello Sviluppo economico, abbiamo “cacciato”, ricorso dopo ricorso, la
Petroceltic Elsa, che aveva in progetto di sondare ed estrarre in area parco».
C’è la questione ambientale. C’è quella della salute. E c’è pure quella economica. «Nel
solo Gargano – spiega Vigilante – lavorano 27 mila operatori turistici e 4–5 mila famiglie
tirano avanti con la pesca. Sono attività che verrebbero condotte lentamente e inesorabilmente al collasso e alla morte. Del resto ricordiamo che la Basilicata ha il suolo più trivellato di tutta la penisola ed è una delle realtà più povere del Paese, con un reddito pro
capite misero. Dobbiamo opporci, dunque, a una logica di sviluppo che non tiene conto
delle vere ricchezze dei territori, imponendo decisioni dall’alto che portano solo ingenti profitti nelle tasche delle grandi imprese». La contestazione e la mobilitazione contro il proliferare di impianti petroliferi, nel centro-sud, si sta intanto allargando… a macchia d’olio, è il
caso di sottolinearlo. E’ appena stato costituito, infatti, il coordinamento “Trivelle zero
Molise”. “Oggi i 2/3 del Molise sono interessati da richieste o concessioni di estrazione
33
e ricerca di idrocarburi, e lo stesso vale per quasi tutto l’Adriatico: la sola concessione di
prospezione alla Spectrum Geo, che va dall’Emilia Romagna al Gargano, ricopre oltre un
milione di ettari di mare – fanno presente i componenti del sodalizio -. Il petrolio del nostro
mare è pessimo, e viene tirato fuori a prezzo di rischi ambientali elevati, tanto più alti
quanto più bassa è la qualità del prodotto estratto. Nessun beneficio per le comunità locali.
La tassazione per le compagnie è ridicola e le prime 50.000 tonnellate di greggio per ogni
pozzo, ogni anno, vengono regalate ai petrolieri!”
Del 27/08/2015, pag. 38
Tav, Delrio a Torino incontra i sindaci
Il ministro garantirà sui fondi per le compensazioni: nel pomeriggio la
visita al cantiere francese
Alessandro Mondo
Una visita, dossier diversi. In primis il tema delle compensazioni, segnato in rosso
sull’agenda del ministro Graziano Delrio, protagonista di un «tour de force» tra Torino e la
Francia.
Le compensazioni
Obiettivo: rassicurare le istituzioni, e soprattutto i sindaci Sì Tav della Valle di Susa,
sull’impegno del Governo nel tenere fede agli impegni: questione dirimente dopo che i 112
milioni previsti per le compensazioni sono misteriosamente scesi a 32 nell’ultima delibera
approvata dal Cipe. Nell’incontro in Regione il ministro ribadirà ai primi cittadini la volontà
del Governo. Il «come», invece, è oggetto di valutazione. Stando alle indiscrezioni, pare
che l’idea di correggere la delibera in questione - scrivendo nero su bianco la cifra corretta
- stia cedendo il passo ad un’altra ipotesi: quella di lasciarla com’è e garantire la cifra
mancante con una seconda delibera-quadro. Oppure erogando le cifre relative ai progetti
presentati volta per volta dal territorio attingendo nel bilancio statale dai capitoli di spesa di
riferimento (lavoro, trasporti, idrogeologico, energia, etc.). Soluzioni, queste ultime, che
permetterebbero di raggiungere comunque il risultato evitando uno scontro frontale con il
Cipe, e con il ministero dell’Economia e delle Finanze. Stando ad altre interpretazioni,
riscrivere la delibere del Cipe creerebbe a livello nazionale un precedente che potrebbe
essere sollevato da altri interlocutori per altri progetti oggetti di finanziamento.
Blitz in Francia
Parola d’ordine: «affidabilità». La stessa che nel pomeriggio porterà Delrio in Francia, - a
Saint Martin de la Porte, dove si sta scavando la «discenderia» della Tav - per fare il punto
della situazione con il segretario di Stato ai Trasporti Alain Vidalies.
Fondi e progetti a rilento
Con una premessa. Se sui 112 milioni Delrio ci mette la faccia, il ministro - e con lui il
Governo - si aspettano un’accelerata sui progetti che rientrano nel perimetro di «Smart
Susa Vallley»: il piano di sviluppo sostenibile integrato che superando la mera logica delle
compensazioni punta a rilanciare la Valle di Susa. Sarà compito dell’Osservatorio tecnico
guidato da Paolo Foietta, d’intesa con i sindaci, a dare senso compiuto e tempi veloci con priorità ai temi del lavoro e dell’occupazione - a quelli che in molti casi sono ancora
assi di intervento a loro volta suscettibili di sviluppo. Roma ci mette del suo. Un dato per
tutti: si è ancora in attesa del trasferimento della prima quota di finanziamento, pari a 2
milioni, impegnati con decreto ministeriale a favore di Rfi anziché della Regione.
Confronto con i No Tav
34
Disponibilità del Governo al confronto con i Comuni No-Tav, nella persona di Foietta, dopo
la richiesta d’incontro del sindaco di Susa Sandro Plano: un confronto «sul merito del
progetto definitivo e delle infrastrutture complementari», precisa Foietta. Il messaggio è
chiaro: la Tav si può migliorare, ma non si (ri)discute.
SCUOLA E UNIVERSITA’
Del 27/08/2015, pag. 21
L’esodo dei prof su dieci cattedre sette sono
al Nord
Prima ripartizione dei posti a livello nazionale Sedicimila nuovi
posti,solo il 9 per cento al Sud
CORRADO ZUNINO
ROMA. La seconda tranche di assunzioni degli insegnanti della scuola italiana — sono
16.210 quest’ultime immissioni in ruolo, dopo le 29.000 cattedre assegnate a metà agosto
dagli Uffici scolastici regionali — conferma quello che si scrive da quando il piano di
assunzioni straordinario della Buona scuola è partito: le cattedre da riempire sono al
Settentrione, la maggior parte delle richieste arriva però dal Meridione, come da storia del
paese. Lo spostamento di massa ci sarà e i primi dati sui “posti nazionali” lo confermano.
Per questo secondo spezzone — sono le disponibilità residue dopo le assegnazioni dirette
dei provveditori, i posti fin qui non assegnati per mancanza di aspiranti e di figure adatte al
ruolo richiesto — il 70,7 per cento delle cattedre da occupare sono nelle sei regioni del
Nord (Trentino e Val d’Aosta escluse) dove risiede il 46 per cento della popolazione
italiana e da dove è partito solo un quarto delle domande: il 25,7 per cento. Il calcolo
geografico delle cattedre che saranno assegnate non è immediatamente eseguibile
perché bisogna attendere le assegnazioni dei 55 mila posti del potenziamento (arriveranno
a novembre) e capire quali classi di concorso (italiano, matematica) sono state le più
richieste, ma si comprende già ora che per i due terzi degli 11.464 posti disponibili al Nord
serviranno docenti del Centro e soprattutto del Sud.
Le quattro regioni del Centro Italia hanno presentato 14.287 domande e ora si scopre che
hanno a disposizione 3.232 posti (il 20 per cento del totale, un quinto). Le otto regioni del
Sud e delle Isole hanno presentato 38.950 richieste di assunzioni (il 55,2 per cento), ma le
cattedre al Sud sono solo, per questa fase, 1.514, il 9,3 per cento.
Dalla Sicilia e dalla Campania sono arrivate oltre 23 mila richieste, un terzo del totale. Ma
nelle due regioni i posti disponibili (per questo secondo passaggio) sono solo 583. Come
si vede, insoddisfacenti a mantenere il grosso dei precari meridionali — più avanti con l’età
e con punteggi alti — nelle loro province e nelle loro regioni. A Palermo per questa fase ci
sono 35 cattedre disponibili, a Napoli 142. Solo a Milano i posti sono invece 2.290, a
Roma 1.540 e 969 a Torino. Ci sono poi città minori come Bergamo, Brescia e Varese che
hanno fame di docenti: 628, 623 e 429 rispettivamente i posti disponibili, saranno calamite
per i precari del Sud. Dei 16.210 posti, 8.797 sono per il sostegno, il resto su materie
comuni. Quando scatterà la fase C delle assunzioni, quelle sulle materie potenziate, è
probabile che i precari con punteggi più bassi possano essere nominati vicino a casa.
35
La prossima tappa di questo lungo viaggio assunzionale dei precari delle Graduatorie a
esaurimento e degli idonei al concorso 2012 arriverà il prossimo 2 settembre, quando per i
16.210 posti disponibili il computer ministeriale (al lavoro da giorni) invierà per posta
elettronica ai singoli candidati la sede individuata. Non saranno 16.210 proposte, alcune
migliaia di posti — per il problema atavico della troppa offerta umanistica e della poca
offerta scientifica nella scuola italiana — resteranno vuote. I precari che riceveranno la
mail avranno dieci giorni di tempo per accettare. Alcuni di loro, se entro l’8 settembre
avranno ricevuto dal provveditorato locale una proposta di supplenza annuale, potranno
accettarla restando nella loro città: a giugno 2016 saranno automaticamente assunti nella
provincia scelta dal cervellone. Chi non riceve proposta di supplenza e non accetta la
destinazione del posto fisso entro il 12 settembre, uscirà dalle liste provinciali dei precari e
dovrà fare il concorso 2016 per ambire al ruolo. Negli ultimi tre giorni disponibili a
settembre — 12, 13 e 14 — i provveditorati assegneranno formalmente la scuola di
destinazione a coloro che avranno accettato la proposta. Per i 55.258 posti del
potenziamento se ne riparla a novembre, quandol i singoli istituti avranno indicato i loro
bisogni e le loro volontà didattiche. Come ha anticipato “Repubblica”, il ministero
dell’Istruzione non riuscirà a garantire nel primo anno tutte le assunzioni promesse:
103.000. Quindici-ventimila posti non potranno essere assegnati per mancanza di profili. Il
Miur ha sempre sostenuto che quei posti saranno dati in supplenza annuale, ma riviste
specializzate (“Tuttoscuola”) e sindacati (l’Anief) hanno contestato l’indicazione: «Per
legge non è possibile dare posti di ruolo in supplenza, lo dice la stessa legge 107. Al
ministero danno notizie e numeri in libertà, bisogna cambiare il comma 95 con un
emendamento», così l’Anief. Dopo una settimana di contestazioni ieri il ministero ha voluto
chiarire la questione ribadendo: «L’organico potenziato sarà interamente coperto. Il
comma 95 della Buona Scuola prevede che sui posti dell’organico del potenziamento non
si possano nominare supplenti brevi. Sarebbe un paradosso continuare a incrementare
supplenze brevi per una riforma che le vuole ridurre. Questo vale per il presente anno
scolastico e per quelli a venire. Per quanto riguarda il 2015-2016 l’organico sarà, però,
interamente coperto. Nessuna partenza azzoppata. Una volta che saranno state fatte le
nomine in ruolo su questi posti, quelli rimasti vuoti potranno essere dati a supplenza per
tutto il resto dell’anno scolastico».
Del 27/08/2015, pag. 22
Università, sono arabe le più antiche
Le istituzioni universitarie, considerate un’innovazione fondamentale alla base della cultura
europea moderna, si andarono diffondendo a partire dall’XI-XII secolo non tanto sulla base
di uno sviluppo degli studia abbaziali e vescovili altomedievali, quanto su quella di una
considerazione nuova della cultura: una considerazione, per così dire, “commerciale”, che
considerava il sapere come una qualunque merce pregiata. In particolare,
l’universitas studiorum si comportava come una qualunque organizzazione corporativa
(tale il significato del termine universitas) costituita da “operatori commerciali” sui generis,
che vendevano (i magistri) o compravano (gli scholarii) il sapere come si acquista un bene
al mercato. Ora, nulla di tutto ciò somiglia alle istituzioni scolastiche greche o latine, che
ignoravano un principio del genere del resto disadatto alla loro organizzazione civile (e
straordinariamente opportuno invece nelle strutture dell’Europa medievale). Fu nella
36
Baghdad califfale del secolo IX che una tale istituzione, detta Bayt al-Hykma (“Casa della
Sapienza”) – originariamente una biblioteca pubblica – si andò affermando, mentre le
prime istituzioni in tale senso chiaramente documentabili si hanno a al-Qarawiyyin
nell’attuale Marocco nonché in quella cairota, famosissima, di al-Azhar. Questo tipo
d’istituzione, celebre e fiorente in tutto il mondo musulmano, fornì l’idea di base alla quale
attinsero i primi studiosi che sistematicamente importarono il sapere musulmano: primo fra
tutti un monaco benedettino che avrebbe studiato nella Spagna meridionale saracena
nella seconda metà del X secolo prima di divenire collaboratore del giovane, dotto
imperatore Ottone III di Sassonia e alla fine papa col nome di Silvestro II. Si tratta del
grande Gerberto di Aurillac, una mente geniale di altezza leonardesca.
Oggi, su questi temi esiste anche una letteratura non esclusivamente scientifica eppure
affidabile che potrebbe essere utilmente consultata. Mi limito a citare, tra le cose più recenti, il libro Aladdin’s Lamp dell’americano John Freely (edito a New York dalla A.A.
Knopf nel 2009) che porta il significativo sottotitolo, che qualcuno troverà sconvolgente,
“Come il sapere dell’Antichità tornò all’Europa”. E ci tornò attraverso l’islam. Si è tornati di
nuovo ai giorni d’oggi, e a quel che sembra senza la serenità e la preparazione che
sarebbero necessarie, a parlare di “conflitto di civiltà”: e a sopravvalutare invasioni,
incursioni e scontri militari dimenticando invece (o, spesso, semplicemente nascondendo)
quel che in passato ha unito civiltà troppo sbrigativamente considerate diverse quando
non addirittura “nemiche” e il loro debito reciproco nella rispettiva definizione. In tale
contesto, si è tornati a tracciare una storia divulgativa e demagogica dei rapporti tra
Europa e islam come tessuta di una serie infinita ed esclusiva di scontri: Poitiers nel 732,
poi le crociate, quindi Lepanto nel 1571, e infine Vienna nel 1683. Episodi guerrieri volta
per volta isolati dal loro contesto e presentati come tappe di un duello permanente, di una
lotta senza quartiere. Se vivessimo ancora in un tempo nel quale la cultura seria, quella
sostanziata di ricerche metodologicamente fondate, valesse qualcosa – un tempo che ha
pur presieduto, tra Otto e Novecento, alla costruzione di quell’identità europea nella quale
le università e le accademie rivestivano un pubblico ruolo che gli stati valorizzavano e
sostenevano –, la volgarità di certe mistificazioni pseudostoriche sarebbe stata messa da
tempo a tacere, con vantaggio non solo per la nostra vita intellettuale, ma anche per il
dibattito politico. Ma dal momento che ciò è al giorno d’oggi improponibile, noi assistiamo
a una tragicomica dicotomia: a livello della storia scientificamente indagata e seriamente
ricostruita è notissimo non solo che le civiltà cristiane, sia euro-occidentale che bizantina,
molto si giovarono dei rapporti economico- commerciali, culturali e diplomatici con le
potenze musulmane finché l’espandersi del colonialismo europeo non travolse lo stesso
islam; mentre a livello mediatico e nelle varie vulgate storico-politiche circolanti,
scompaiono i rapporti commerciali, le reciproche influenze nel campo delle scienze, delle
lettere e delle arti, gli stretti legami diplomatici e umani che pur tante tracce hanno lasciato
perfino nei monumenti e nei linguaggi (basti pensare agli arabismi nei dialetti italici e
iberici), sostituiti da un’immagine di scontri costanti e continui che non hanno
giustificazione alcuna nella storia concretamente ricostruita la quale ci parla invece il
linguaggio di una costante convivenza punteggiata di episodi guerrieri magari feroci e
frequenti, mai comunque tali da veramente comprometterla. Tale verità risulta con
speciale evidenza quando si consideri il valore dei rapporti scientifici e culturali, rispetto ai
quali – non diversamente di quanto accadeva per le merci – la bilancia commerciale
continuò molto a lungo, tra X e XV secolo, a pendere dalla a favore dell’Oriente
musulmano. In particolare, il grande pubblico continua a ignorare quel che invece ormai da
molti decenni è chiaro al livello della ricerca: il sapere dell’antichità romano-ellenistica, che
nel mondo occidentale del medioevo era andato perduto tra VI e VIII-IX secolo, fu
gradualmente recuperato tra X e XIII grazie ai rapporti tra islam ed Europa. In particolare
37
furono i testi filosofici e scientifici redatti nell’Antichità in greco e tradotti dall’arabo, dal
persiano e dall’ebraico, che penetrati nel mondo soprattutto iberico (ma, in misura minore,
anche in Sicilia e nella Siria-Palestina crociata) a riportarci la cultura classica cui si
aggiunsero i portati del sapere astrologico-astronomico, chimico-alchemico, geografico e
medico di provenienza indo-persiane e perfino cinese, che in tali campi disponevano di
conoscenze migliori che non gli antichi Greci. E tutto ciò risalta, in modo speciale, nella
storia delle università.
CULTURA E SCIENZA
Del 27/08/2015, pag. 14
Hawking cambia la sua teoria “Dai buchi neri
si può uscire”
Alessandra Rizzo
Lo scienziato più famoso del mondo, Stephen Hawking, ha una nuova teoria sui buchi neri
e sul dilemma su cui si arrovellano gli studiosi di fisica: cosa accade alla materia che
finisce in un buco nero? «Non disperate», dice Hawking. «Esiste una via d’uscita».
Hawking ha presentato la sua teoria nel corso di una conferenza a Stoccolma, sostenendo
che i buchi neri non sono delle «eterne prigioni» e che non tutto è perduto. Il professore di
Cambridge ha dedicato la vita allo studio dell’origine dell’Universo e al fenomeno dei buchi
neri, spazi nella galassia dove la forza gravitazionale è così potente da rendere
impossibile a qualunque cosa risucchiata al loro interno di uscirne, perfino la luce.
La conferenza del Kth Royal Institute of Technology nella capitale svedese era dedicata al
cosiddetto «paradosso dell’informazione»: da una parte si ritiene che le informazioni
relative a qualunque materia finisca in un buco nero vadano perdute; dall’altra le
informazioni non possono andare perdute, nemmeno se finiscono in un buco nero.
Il dilemma
Dunque, dove vanno a finire? Hawking ha studiato il problema con il collega di Cambridge
Malcolm Perry e il professore di Harvard Andrew Stromberg. Secondo quanto riportato dal
blog della conferenza, la teoria di Hawking è che queste informazioni non finiscano affatto
nel buco nero, ma in una sorta di linea di confine. «La mia ipotesi è che queste
informazioni non vadano a finire all’interno del buco nero, ma nell’orizzonte dell’evento»,
una specie di ologramma sul ciglio del buco nero che conterrebbe le informazioni, anche
se in maniera «caotica». Ma Hawking ha anche proposto l’ipotesi che le informazioni
possano finire in un Universo alternativo. «Il buco nero avrebbe bisogno di essere largo e,
se ruotasse, potrebbe offrire un passaggio in un altro universo», ha detto il professore.
«Ma non sarebbe possibile tornare indietro al nostro Universo. Quindi, anche se sono
entusiasta all’idea dei voli spaziali, non metterò alla prova la teoria».
Hawking, che comunica attraverso un sintetizzatore vocale a causa di una malattia
neurodegenerativa, ha concluso dicendo: «Il messaggio di questa mia lezione è che i
buchi neri non sono tanto neri quanto si dipingono, non sono le prigioni eterne che una
volta si riteneva fossero. Le cose possono uscire da un buco nero e, possibilmente, finire
in un altro universo».
38
ECONOMIA E LAVORO
Del 27/08/2015, pag. 1-5
Ministero buffo
Di Marta Fana
Dalle pagine di questo giornale ci si interrogava ieri sulla discrepanza dei dati pubblicati
nella tabella riepilogativa del ministero e quelli che era possibile ricostruire attraverso le
note mensili, notando come già solo per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al netto
delle cessazioni, si riscontrava una differenza di circa 303mila contratti.
A guardare la nuova tabella pubblicata ieri si evince che al netto di alcune revisioni, avevamo fornito una stima corretta dell’errore e quindi un calcolo della situazione consistente
con la realtà. I contratti netti a tempo indeterminato tra gennaio e luglio di quest’anno sono
117.498 (non oltre i 420mila come pubblicato ieri). Guardando il totale relativo a tutte le
tipologie contrattuali si nota che i nuovi rapporti netti di lavoro sono 1.136.172 e non
2.331.853. L’errore stava dunque nei calcoli, non nelle operazioni di revisione (che separano lievemente le stime fornite ieri sul manifesto dai dati effettivi).
Secondo la composizione per tipologia si nota che solo il 10% dei contratti sono a tempo
indeterminato, l’87.3% a termine, l’apprendistato e i contratti classificati come «altro» rappresentano rispettivamente il 3.4% e il 2.2% dei contratti. Il giudizio sulle riforme del
governo rimane stabile. La notizia quindi sta nell’errore considerevole commesso dallo
staff del ministero del lavoro pubblicando una tabella completamente errata. Distrazioni ed
errori di calcolo sono possibili, ma è inammissibile che un ufficio statistico non controlli
prima di dare notizie in pasto alla stampa. L’entità dell’errore avrebbe dovuto far sobbalzare chiunque in questi mesi abbia seguito le dinamiche del mercato del lavoro, tecnici del
ministero o giornalisti che siano. Nel frattempo, se è vero che l’ufficio stampa del ministero
ha inviato nel pomeriggio di ieri un’agenzia alle redazioni allegando la tabella corretta,
è altrettanto vero che inizialmente la giustificazione a tali discrepanze, fornita sulle pagine
di Repubblica in un articolo a firma di Valentina Conte, è stata del tutto inadeguata. Inizialmente il dato non è stato smentito ma giustificato in base al fatto che le informazioni contenute nel sistema vengono costantemente aggiornate. Ma le revisioni non possono certo
stravolgere i dati seppure provvisori forniti a venti e quaranta giorni dalla chiusura del
mese di riferimento, altrimenti significherebbe che le imprese possono comunicare avviamenti e cessazioni di rapporti di lavoro con dilazioni temporali che non permettono nessuna valutazione dell’andamento del mercato di breve periodo e quindi delle riforme, rendendo il sistema statistico semplicemente inutile. Nella stessa dichiarazione non emerge
mai il beneficio del dubbio: «Fa così anche l’Istat, ma nessuno obietta mai», la difficoltà
a capire i dati da parte dei cittadini è il prezzo da pagare, spiegava ancora il ministero,
«per aver voluto diffondere gli aggiornamenti una volta al mese, anziché ogni trimestre».
Falso! L’Istat pubblica ogni mese i dati e si premura di fornire il mese successivo le eventuali revisioni. Il ministero del lavoro potrebbe prendere esempio dal metodo Istat. Senza
lamentarsi della frequente pubblicazione dei dati, che servono ai cittadini proprio per rintracciare gli errori ingiustificabili di calcolo. E diradare un po’ la nebbia provocata da mesi
di propaganda.
39
Del 27/08/2015, pag. 24
Sbanda il Jobs act
Controlli, congedi e Cig ultimi scogli
I decreti già pronti fuori dal Cdm dopo una telefonata Renzi-Poletti
VALENTINA CONTE
ROMA. Annunciati per oggi in Consiglio dei ministri, rinviati alla prossima settimana. Il
destino degli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act sembra appeso a un calendario
troppo fitto per il primo Cdm dopo la pausa estiva. «Ho parlato con il premier, non c’è
alcun problema di merito, ma c’erano troppi provvedimenti all’ordine del giorno ed altri temi
con scadenze più stringenti», rivela il ministro Giuliano Poletti. Con una palese
retromarcia, solo poche ore dopo aver assicurato, dal palco del meeting di Rimini, il varo
per oggi dei provvedimenti. Cos’è successo nel frattempo? I tecnici chiamano il ministro da
Roma, mentre è in corso il preconsiglio, la riunione chiave che precede il Cdm. Dopodiché
tutto salta. Nel mezzo una telefonata Poletti-Renzi.
A scorrere l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, i punti non sembrano però né
numerosi né incompatibili con i decreti sul lavoro. La ratifica degli accordi bilaterali fiscali
con Svizzera, Monaco, Vaticano, Liechtenstein. E un decreto del presidente della
Repubblica sul regolamento per individuare gli aeroporti di interesse nazionale. Poi certo
c’è il verdetto su Roma dopo Mafia Capitale. «Porterà via molto tempo e non volevamo
svilire l’importanza della chiusura del Jobs Act», fanno sapere dal ministero del Lavoro.
Con questi quattro decreti attuativi, già approvati dal Consiglio dei ministri di giugno e poi
licenziati ai primi di agosto dalle commissioni parlamentari con parere consultivo non
vincolante, in effetti la legge delega sul lavoro nota come Jobs Act è completata. Ma la
mancata approvazione definitiva di oggi autorizza qualche dubbio sui nodi lasciati aperti. A
partire dal discusso controllo a distanza sui lavoratori. Per finire con il congedo parentale
ad ore da rendere strutturale, come più volte ribadito dallo stesso ministro. Passando per
le nuove regole sulla cassa integrazione, in parte contestate dai sindacati. Alle altre sui
disabili che consentono l’assunzione nominativa, senza rispettare la graduatoria
predisposta dai centri per l’impiego e stilata anche tenendo conto della gravità
dell’handicap. Senza trascurare le norme volute per impedire l’odiosa pratica delle
dimissioni in bianco. «Spero proprio che il governo tenga conto dei punti di accordo trovati
con le commissioni parlamentari su tante questioni importanti, a partire dai controlli a
distanza», chiede Cesare Damiano, ex ministro e presidente della commissione Lavoro
della Camera. In questo caso, il tema non è solo la privacy del lavoratore che può essere
sorvegliato da remoto tramite videocamera, ma anche seguito via tablet, smartphone,
badge, computer, portatile, mail. La questione sensibile riguarda piuttosto l’uso dei dati
raccolti anche a fini disciplina- ri, cioè per licenziare il lavoratore. La soluzione trovata dalle
commissioni Lavoro è quella di distinguere tra strumento che si installa e dispositivo che si
mette in tasca. Nel primo caso la telecamera - si chiede di tornare alle norme originarie
dello Statuto dei Lavoratori del 1970. E dunque consentire la ripresa dei lavoratori per la
salvaguardia del patrimonio aziendale o la sicurezza degli impianti. Ma solo dietro accordo
sindacale ed escludendo l’uso dei filmati come causa di licenziamento. Nel secondo caso tablet e smartphone - si lascia la norma nella versione del governo: controllo sì, senza
accordo, ma con informativa al dipendente e possibilità anche di licenziare, utilizzando i
dati raccolti. Tra le modifiche quasi certe ai decreti c’è la conferma del congedo parentale
ad ore, in scadenza a dicembre, reso strutturale. E dunque per sempre. Poi lo slittamento
al 2016 dell’Anpal, la nuova agenzia di collocamento così attesa, ma penalizzata dal caos
40
sui dipendenti delle Province cancellate che lavorano nei centri per l’impiego. Sulla cassa
integrazione, la Uil con Guglielmo Loy chiede di rivedere l’ipotizzata riduzione nella durata.
«Troppo flebile la ripresa».
41