LA “NATURA” UMANA

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LA “NATURA” UMANA
LA “NATURA” UMANA? NON ESISTE: E’ L’UOMO CHE
DEVE “INVENTARLA”.
IL MONDO E’ AL DI FUORI DELLA COSCIENZA? UNA
DOMANDA SENZA SENSO.
Introduzione a Martin Heidegger 1
Heidegger è sulla stessa lunghezza d'onda della cultura anti-positivistica contemporanea:
l'uomo non è una "cosa" da studiare, ma è radicalmente altro dalle cose. Le cose sono belle
fatte, compiute, mentre l'uomo non ha nulla di compiuto: è lui che si fa, che si inventa, che
sceglie se stesso. Cosa ne dici?
Non mi convince: l'uomo è di sicuro diverso dall'animale, ma è pur sempre un animale evoluto
per cui non vedo come non possa essere studiato come si studia qualsiasi oggetto. Come si
può spiegare la coscienza dell'uomo senza studiare quel supporto essenziale che è il cervello?
Un'osservazione pertinente. Tieni, comunque, presente che la coscienza dell'uomo (e quindi
anche la coscienza dello studioso del cervello) è radicalmente diversa da quella "cosa" che
studia: si tratta - secondo Husserl, maestro di Heidegger - dell'orizzonte entro il quale si
mostrano tutte le cose.
L'uomo - dicevamo - non ha nulla di compiuto, ma è lui che sceglie se stesso. Quale uomo? Per
Heidegger - come per Kierkegaard - è il "singolo”. "Esistente" non è l'uomo in generale, ma
l'individuo. Kierkegaard e Husserl hanno indubbiamente influenzato Heidegger. Noti qualche
altro influsso?
Mi pare di vedere Nietzsche: non è Nietzsche che afferma che l'oltre-uomo deve inventarsi i
valori e non considerarli come dei dati?
E' vero. Nietzsche teorizza un "oltre-uomo" che non accetta nessun valore come un valore
assoluto, come un valore che gli si impone dall'esterno come qualcosa di eterno: è l'oltre-uomo
che deve inventare i suoi valori (è quella che viene chiamata la "trasmutazione dei valori").
Il capolavoro di Heidegger è “Essere e tempo” (Sein und Zeit) del 1927. Questo lo scopo che si
propone Heidegger: scoprire il senso autentico dell'essere. Come scoprirlo? Occorre in primo
luogo indagare chi si pone la domanda sull'essere, cioè l'uomo. E' in questo contesto che si
colloca la tesi secondo cui l'uomo non ha una sua natura già definita, ma la sua natura la
inventa egli stesso. Heidegger introduce una terminologia originale. Chiama l'uomo "Da-sein",
cioè letteralmente "Esser-ci". La filosofia occidentale ha definito l’"essere" come "qualcosa che
è presente", come "oggetto" del pensiero". Ora il “Da-sein” non è di sicuro una semplice
presenza come le cose per il fatto che è proprio la condizione per cui le cose stesse sono
presenti.
Qui siamo sulla lunghezza d'onda di Husserl: l'essere-uomo è radicalmente diverso dall'esserecosa in quanto è l'orizzonte in cui possono mostrarsi tutte le cose. Che significato ha il "ci"
(“Da”, in tedesco) dell’"Esser-ci"? Per Heidegger l'uomo è "Esser-ci" nel senso che si trova
"gettato" in una situazione, gettato nel mondo. L'uomo è "l'essere-nel-mondo" (“in der-Weltsein”, in tedesco). Per Heidegger è letteralmente senza senso il problema "gnoseologico" che è
scoppiato nell'età moderna con Cartesio e che ha prodotto l'idealismo: l'uomo è aperto
strutturalmente al mondo (non vi è un interno - la coscienza - ed un esterno cioè il mondo).
Cosa ne dici?
Mi pare che Heidegger by-passi il problema gnoseologico senza affrontarlo: come si può
dichiarare senza senso un problema che ha tormentato i più acuti cervelli dell'età moderna? E'
1
Nasce a Messkirch nel 1889. Discepolo di Husserl, dedica al suo maestro il suo capolavoro "Essere e tempo" del
1927. Insegna prima a Marburgo e poi a Friburgo (dove diviene anche, per un breve periodo, rettore). Nel 1929
pubblica "Kant e il problema della metafisica" e "Che cos'è la metafisica". Nel '33, in qualità di rettore dell'Università
di Friburgo pronuncia un discorso ("L'autoaffermazione dell'università tedesca") in cui appare la sua simpatia per il
nazismo. Altre opere (le opere della "svolta"): "La dottrina platonica della verità", "Lettera sull'umanesimo”, "Sentieri
interrotti", "Introduzione alla metafisica". Muore nel 1976.
noto che noi percepiamo delle immagini (forse che le "cose" entrano nella nostra retina?) per
cui rimane aperto il problema se dietro queste immagini vi sia qualcosa o no.
Vedo che hai presente il travaglio di Cartesio & C. Tieni comunque presente quanto afferma
Husserl: ciò che si mostra (il "fenomeno") non è una rappresentazione, una semplice
apparenza, ma la cosa stessa (io non percepisco la rappresentazione, l'apparenza di un suono,
ma il suono stesso).
L'uomo - lo ripetiamo - non ha una natura già definita come le cose, ma è lui che sceglie la sua
natura, è lui che sceglie se stesso. L'uomo, quindi, è essenzialmente "progetto" e, dunque,
poter essere. Le cose del mondo sono viste originariamente da lui come strumenti per
realizzare i suoi progetti. L'uomo non è uno spettatore del mondo, ma è coinvolto in esso e
comprende le cose nel momento in cui si rende conto di come usarle per i suoi fini. Cosa ne
dici?
Mi pare un discorso non del tutto convincente: perché mai l'uomo non potrebbe guardare il
mondo per il piacere di scoprirlo e quindi contemplarlo in modo disinteressato? Del resto la
filosofia non è nata come una ricerca del tutto disinteressata?
La tua è un'osservazione pertinente. Sicuramente una lunga tradizione occidentale che arriva
fino a Husserl ha questa ottica "disinteressata". Questo, per Heidegger, vuol sempre dire che
l'uomo vede le cose alla luce di un suo piacere estetico, vede quindi le cose come degli
"strumenti". L'atteggiamento disinteressato, per lui, non è che un modo di vedere l'utilizzabilità
delle cose.
L'uomo è un essere "gettato" nel mondo, in una situazione, ma è anche "trascendenza"
rispetto a questa situazione nel senso che, in quanto "progetto", va oltre la situazione stessa,
va oltre il dato (in direzione del possibile, di qualcosa che non è reale). Cosa ne dici?
Mi pare eccessivamente ottimistico il discorso di Heidegger: è noto che sono molte le persone
che non si possono permettere dei progetti di vita, di scegliere se stessi in quanto si trovano
oggettivamente in condizioni alle soglie della sopravvivenza. Si tratta di persone inchiodate alla
loro situazione. E ci sono, pure, persone che non si pongono nell'ottica di "andare oltre" le
cose, ma sono schiavi delle cose stesse viste come feticci.
Che l'uomo sia condizionato dalla situazione è un fatto per Heidegger. Questi, tuttavia, è
convinto che l'uomo, proprio in quanto "poter essere", può sempre andare oltre la situazione di
fatto. I progetti dell'uomo, naturalmente, non possono che tener conto dei dati oggettivi che
sono a disposizione. La libertà dell'uomo non è la libertà di un angelo, ma di un uomo concreto
gettato in questo concreto mondo. Non ci sono uomini schiavi delle cose (ad esempio degli
oggetti-feticcio della pubblicità)? Sì. Heidegger parla di "deiezione", cioè di caduta dell'uomo a
livello delle cose (una forma di alienazione), deiezione che indica uno stato di vita
"inautentica".
Per Heidegger la caduta dell'uomo a livello delle cose è data anche dalla "chiacchiera", dalla
logica del "si dice". Cosa ne pensi?
Mi pare un'osservazione intelligente: ce ne sono di persone che rinunciano ad effettuare una
ricerca personale (la ricerca è sempre faticosa anche perché potrebbe mettere in crisi certezze
granitiche) per accettare le mode, ciò che pensa e fa in generale la gente o ciò che pensano e
fanno i personaggi del cuore.
Un'opinione, mi pare, con una forte capacità persuasiva. Un'opinione che è stata con forza
sostenuta, ad esempio, da Socrate.
La vita inautentica, per Heidegger, è l'esistenza anonima (appunto, del "si dice", del "si fa"),
caratterizzata, tra l'altro, dalla "curiosità" (un interesse superficiale per qualsiasi cosa,
problema) e dall’"equivoco" (dato che tutto è equiparato, non si sa neppure di che cosa si
parla). E qual è in concreto l'esistenza "autentica"? Per Heidegger ogni singolo può scegliere un
tipo di vita o un altro, può scegliere una "possibilità" o un'altra. Vi è, però, una possibilità a cui
nessuno può sfuggire: la morte che è la possibilità che annulla tutte le altre possibilità. L'uomo
autentico è "essere per la morte". Cosa ne dici?
Mi pare che qui Heidegger rovesci il suo ottimismo in una concezione drammatica dell'uomo.
Perché mai l'uomo dovrebbe vivere per la morte? Perché dovrebbe essere così masochista da
pensare sempre alla morte? E' vero che la morte è la possibilità che minaccia ineluttabilmente
ciascuno di noi, ma è anche vero che sarebbe da sciocchi non vivere la vita (non goderla) per
la morte che verrà.
Un punto di vista legittimo. Heidegger, tuttavia, non intende dire che l'uomo non debba vivere.
L'uomo autentico, per lui, è un "essere per la morte" nel senso che deve avere il coraggio di
andare oltre la visione anonima della morte (il "si muore") per vederla come "propria": è in
questa luce che può vedere tutte le altre possibilità nella loro giusta dimensione, cioè nel loro
non essere qualcosa di stabile, di definitivo.
L'uomo autentico, quindi, è chi scopre la sua finitezza, la sua precarietà proprio alla luce di
quella possibilità ineluttabile che annulla tutte le altre possibilità, cioè della "propria" morte. E
scopre, quindi, la precarietà di ogni suo progetto. E' in questo atteggiamento che riesce in
qualche misura a staccarsi dalle cose, dai feticci di cui parlavamo prima.
Ed è in questa ottica che l'uomo prova l’"angoscia”: non si tratta di "paura" (la paura è sempre
paura di qualcosa di determinato), ma di un sentimento che ha per oggetto proprio il nulla, un
sentimento da cui l'uomo inautentico fugge. Cosa ne dici?
Mi pare un discorso analogo a quello di Pascal: secondo questi l'uomo fugge da se stesso (nel
senso che si rifiuta di pensare alla propria precarietà) tuffandosi nelle cose, nel
"divertissement".
Vi è di sicuro un'analogia: per Pascal per sfuggire al pensiero della morte, si butta in mille
attività (il cosiddetto "divertissement").
Siamo arrivati, dunque, a scoprire una dimensione tutt'altro che ottimistica nella visione di
Heidegger. Possiamo vedervi una dimensione tragica: l'uomo prova l'angoscia di fronte al
"nulla", alla possibilità incombente di annullamento di ogni progetto. Come spiegare questa
concezione? Indubbiamente ogni autore vive e pensa in un determinato contesto storico che
non può non influenzarlo. Heidegger comincia ad elaborare le sue riflessioni poco dopo il primo
conflitto mondiale. Certo è difficile cogliere un nesso causale. Ma non è improbabile che la
tragedia della prima guerra mondiale abbia in qualche modo creato le condizioni di tale visione
del mondo.
L'uomo: esserci, trascendenza, essere nel mondo, essere per la morte. E l'uomo è anche
"l'essere-con-gli altri”. In che senso mai?
Non vedo come possa essere spiegata questa caratterizzazione dell'uomo. Se vogliamo essere
fedeli al principio fenomenologico, gli altri non si manifestano certo come persone, come
individui che pensano: come si potrebbe percepire la mente degli altri?
Non hai torto: se si ricorre rigorosamente al principio fenomenologico, non è possibile
affermare l'esistenza di altri "io". La coscienza è sempre un fatto "privato": non è consentito a
nessuno entrare nella coscienza degli altri. Nonostante tale principio, comunque, già Husserl nelle "Meditazioni cartesiane" - afferma sostanzialmente che gli altri "io" non sono dimostrati,
ma dati proprio come "io".
Come non vi è un soggetto senza il mondo, così - per Heidegger - non vi è un "io" isolato (da
solo) senza altri "io". L'essere con gli altri è qualcosa di "originario", non qualcosa di
dimostrato. E come essere con gli altri? Si è con gli altri in modo inautentico quando si cerca di
procurare loro solo delle cose e lo si è in modo autentico quando li si aiuta ad essere liberi, a
scegliere se stessi.
"Essere e tempo”. Abbiamo esaminato l’"essere”. E il tempo? Il "Dasein" proprio perché è poter
essere, è progetto, è orientato verso il "futuro". Il futuro, quindi, è la dimensione fondamentale
del tempo. Per Heidegger il tempo può essere - come l'esistenza - autentico e inautentico. Il
"presente" inautentico vi è quando l'uomo è tutto assorbito dalle cose da fare, quello autentico
(l’"istante"), invece, c'è quando l'uomo non si lascia travolgere dalle cose e sceglie il suo
destino. Così il "passato": è inautentico il passato quando si accetta passivamente la
tradizione, è autentico quando nella tradizione si coglie l'opportunità di rivivere le possibilità
dell'uomo che è già stato.
A sua volta il futuro – secondo Heidegger - è inautentico quando l'uomo è preoccupato solo del
successo, autentico quando vive alla luce della morte, un orizzonte che gli impedisce di essere
catturato dai progetti mondani. Fermiamoci un attimo. Cosa dici del discorso di Heidegger?
Non mi convince non solo perché non tiene conto della nozione scientifica (nonché dell'uomo
comune) del tempo cioè della sua misurabilità, ma anche perché si tratta di una concezione
che drammatizza la vita umana togliendo ad essa qualsiasi valore al successo, ai progetti
mondani: l'uomo vive questa vita, non la vita di un angelo!
Un punto di vista legittimo. A proposito del "tempo" presente nella concezione dell'uomo
comune e nella scienza, Heidegger lo considera "inautentico". Una precisazione. Non è che
Heidegger proponga all'uomo una vita ascetica: l'uomo autentico vive la vita di tutti i giorni
(come tutti), ma la vive col distacco caratteristico di chi - alla luce della morte - vede la
precarietà, l'insignificanza, la nullità dei progetti umani.
Con "Essere e tempo"
Heidegger si è posto l'obiettivo di ricercare il senso autentico
dell'essere. A tal fine ha iniziato ad indagare quell'ente - l'uomo - che si pone l'interrogativo.
Ha trovato l’"essere"? No. Ha trovato un "Esser-ci” che in ultima analisi è "essere per la
morte", che prova l'angoscia di fronte al nulla, che vede la nullità, la precarietà di tutti i
progetti mondani.
L’"essere" non è l'essere di un ente. E allora? Nella "Introduzione alla metafisica " del 1956
riprende la ricerca. La sua tesi di fondo: la metafisica - da Platone ad Hegel, allo stesso
Nietzsche - ha perso il senso dell'essere in quanto ha cercato l'essere indagando gli enti.
Risultato? Ha concepito l'essere come un "dato", come "qualcosa di presente", come un
"oggetto" per cui l’"ontologia” (la scienza dell'essere) è decaduta in "fisica". Cosa ne dici?
La tesi di Heidegger mi pare ingiusta di fronte ai classici. Aristotele non ha proprio studiato
l'"essere in quanto essere" (con le sue modalità di potenza, atto, sostanza, accidente...)? Lo
stesso Aristotele non ha poi introdotto l'Essere sommo che è l'Atto Puro, qualcosa che non ha
nulla a che fare con gli enti che si presentano come dei dati?
Le tue puntualizzazioni sono pertinenti. Heidegger vuole dire che quando si è studiato l'essere
in quanto essere, si è di fatto considerato questo essere come sfondo essendo gli "enti"
concreti l'oggetto dell'attenzione, approdando ad una vaga metafisica generale. Il Dio
introdotto da Aristotele? Heidegger dice che in questo modo l'ontologia è diventata "teologia",
smarrendo così il senso dell'essere.
Chi è - secondo Heidegger - il responsabile dell'oblio dell’"essere"? Platone. Per i filosofi
precedenti la verità era il “dis-velarsi dell’essere”: il termine greco che indica la "verità"
significa etimologicamente "dis-velamento", "non-nascondimento". Platone, per primo,
capovolge il rapporto tra verità ed essere: non è più la verità che si fonda sull'essere, ma è
l'essere che si fonda sulla verità (verità intesa come un rapporto stabilito dal pensiero umano
che esprime un giudizio). L'essere, quindi, decade a prodotto mentale, viene finitizzato e viene
espresso tramite il linguaggio. Ma il linguaggio dell'uomo è in grado solo di parlare di enti, non
dell'essere.
L'uomo, dunque, non è capace di svelare il senso dell'essere. E allora? Allora, per Heidegger perché l'uomo possa scoprire il senso dell'essere - occorre che sia lo stesso "essere" a svelarlo.
Cosa ne dici?
Mi pare che qui Heidegger cada nel misticismo: qui si nega di fatto la capacità dell'uomo di
ricercare e si auspica che sia lo stesso "essere" a svelarlo. Ma cos'è questo essere? Dio?
Heidegger attende forse una nuova "rivelazione" divina?
Vi è chi ha proprio visto in quest'ultimo Heidegger (una fase in cui lo stesso Heidegger
ammette di aver effettuato una "svolta”) una vena di misticismo e di irrazionalismo. Heidegger
ha risposto che tale critica rivela l'incapacità della cultura moderna di pensare al di fuori di una
concezione antinomica, concezione secondo la quale se si nega una tesi, bisogna per forza
sposare la tesi opposta.
Siamo proprio di fronte ad una "svolta", una svolta in qualche modo anti-umanistica: l'uomo è
solo il "pastore" dell'essere, non il padrone. Ma dove si svela l'essere? Nel linguaggio della
Poesia: è questo la "casa dell'essere". Nel linguaggio della Poesia non è l'uomo che parla, ma
l'essere stesso: da qui l'atteggiamento di "abbandono" all'essere, di ascolto in silenzio
dell'essere. Cosa ne dici?
Siamo a che fare con un discorso che conferma in modo inequivocabile l'accusa di misticismo,
di razionalismo: come si può ragionevolmente credere che la poesia riveli l'essere? E poi cos'è
questo "essere" di cui parla Heidegger? Finché questi parlava di "Esserci" o di "enti" il senso
era chiaro: ma cos'è questo "essere" se non il tratto comune a tutti gli enti (Dio compreso)?
Sono osservazioni e quesiti pertinenti. Per Heidegger il linguaggio della poesia svela il
significato dell'essere perché va oltre le cose, allude a qualcosa che trascende l'orizzonte
puramente mondano.
Ma cos'è questo "essere" che il linguaggio poetico sarebbe in grado di svelare? Il "mistero" che
circonda l'uomo, il mondo? Dio? Secondo l'interpretazione di Emanuele Severino l’"essere” inteso come "disvelamento", come "non-nascondimento" non sarebbe altro che l'apparire
stesso, come la coscienza trascendentale di Husserl. In altre parole l’"essere" non è che il
manifestarsi originario degli enti, un manifestarsi che non è un produrre, ma è, appunto, un
lasciar essere gli enti. Si tratta di un "essere" che non è un "ente", ma non è neanche un nulla
assoluto: è la "luce" in cui tutti gli enti si mostrano.
La metafisica occidentale - dicevamo - ha dimenticato il senso dell'essere: il primato della
tecnica del mondo di oggi non è che un frutto di tale oblio. Cosa dici?
Mi pare un po' troppo forzata questa tesi: è noto a tutti che la scienza intesa come dominio
dell'uomo sulla natura è stata teorizzata da Bacone prescindendo da qualsiasi riferimento alla
metafisica o a qualsivoglia senso dell'essere.
Un'osservazione pertinente. Per Heidegger è proprio perché la metafisica è scaduta a fisica, è
proprio perché l'uomo ha scambiato l'essere per l'ente, per "oggetto”, che è nata la cultura del
dominio, della manipolazione, appunto della tecnica.
La tecnica, quindi, è figlia legittima della metafisica classica. Si tratta di una tesi che è stata
ripresa - in un altro contesto - dal prof. Emanuele Severino. Puoi intuire la ragione di questa
ripresa?
Per Severino l'essere (tutto l'essere) è eterno, immutabile, necessario: l'uomo occidentale,
figlio di una cultura filosofica che sostiene il nascere e il morire dell'essere, è arrivato a
teorizzare con la scienza e la tecnica il dominio dell'uomo sull'essere, la facoltà dell'uomo di
creare - con la tecnica - dell'essere (qualcosa di nuovo che prima non c'era).
E' sostanzialmente questa la tesi di Severino che fa risalire a Platone la teorizzazione degli enti
(non dell'essere divino) come enti che nascono dal nulla e ritornano nel nulla. La tecnica,
quindi - che punta a manipolare gli enti, a creare oggetti nuovi -, è figlia legittima della
metafisica classica che suddivide l'essere in essere immutabile (quello divino: dalle Idee
platoniche all'Atto Puro di Aristotele) ed in essere mutevole, contingente (che nasce e muore,
che non ha l'esistenza per sua natura).