Caratteristiche cliniche delle sindromi da dolore non spiegabile

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Caratteristiche cliniche delle sindromi da dolore non spiegabile
Caratteristiche cliniche delle sindromi da dolore non spiegabile
esclusivamente su base somatica (DSM-IV Pain disorder)
Clinical features of the DSM-IV Pain disorder
MASSIMILIANO ARAGONA, DONATELLA PERINELLI, LARA BANCHERI, ALESSIA PIZZIMENTI,
ANTONELLA CONTE, MAURIZIO INGHILLERI
Ambulatorio del dolore, III Clinica Neurologica, Università di Roma, La Sapienza
RIASSUNTO. Scopo. Il “pain disorder” pone problemi clinici e diagnostici, anche a causa della scarsezza di dati sperimentali sulle sue caratteristiche. Lo scopo del presente lavoro è di valutare sperimentalmente le caratteristiche cliniche, fenomeniche e sociali del “pain disorder”. Materiale e metodo. Ad un gruppo di 37 pazienti con “pain disorder” sono stati somministrati il McGill Pain Questionnaire ed il Rome Pain Questionnaire. Risultati. L’età media è di 51 ± 16,15 anni, il rapporto
femmine/maschi è 3:1. Il 55,5% dei pazienti non supera gli 8 anni di studio. L’intensità del dolore, misurata tramite gli indici
PPI e PRI del McGill, è risultata rispettivamente 3,59 ± 1,01 e 37,14 ± 17,58 (corrispondenti ad un dolore intenso). La localizzazione più frequente è al cranio (54,05% dei casi), seguito dalla regione lombosacrale (40,54%). La maggioranza dei soggetti presenta una localizzazione multipla, ma nel 18,91% dei casi la localizzazione è unica. Nel campione il dolore è quasi
sempre di tipo continuo (67%), e al Rome Pain Questionnaire (range 0-5) la durata è 4,95 ± 0,93, la frequenza 4,48 ± 0,93,
l’interferenza sociolavorativa 3,10 ±1,30. Riguardo al tipo di dolore, il PRI sensitivo è 17,72 ± 9,36 e il PRI affettivo è 9,2 ±6,2,
e i due indici sono significativamente correlati (r=0,69; a= 0,05). I termini più usati per descrivere il dolore sono avvilente
(51,35%), sensibile al tocco (48,64%), lancinante (43,24%), insopportabile (40,54%). Discussione. Questi dati consentono
una caratterizzazione sperimentale del “pain disorder”, clinicamente utile. L’evidenza di una stretta correlazione tra componente affettiva e sensitiva del dolore spiega sia la difficoltà a riformulare in chiave psicologica questi dolori, sia la tendenza
all’abuso di terapie somatiche inutili e spesso iatrogene.
PAROLE CHIAVE: dolore idiopatico, dolore psicogeno, somatoforme, somatizzazione, dolore cronico, disturbo algico, psicopatologia
SUMMARY. Aim. The DSM-IV “pain disorder” presents clinical and diagnostic problems, mainly due to the few experimental data available on its characteristics. In the present study, the clinical, phenomenological and social features of the
“pain disorder” are investigated. Material and method. 37 patients with “pain disorder” completed the McGill Pain Questionnaire and the Rome Pain Questionnaire. Results. Mean age is 51 ± 16.15, the females/males ratio is 3:1. 55.5% of the
patients studied 8 years or less. Pain intensity, measured on the PPI and PRI McGill’s indexes, is respectively 3.59 ± 1.01
and 37.14 ± 17.58 (a quite intense pain). The most frequent localisation is on the skull (54.05% of the cases), followed from
the lombosacral region (40.54%). The most frequent is a multiple localisation, but the 18.91% of the cases showed a unique localisation. In the sample, pain is often continuous (67%). At the Rome Pain Questionnaire (range 0-5) pain duration
is 4.95 ± 0.93, its frequency 4.48 ± 0.93, the social-working interference 3.10 ±1.30. Respect to the type of pain, the sensitive PRI is 17.72 ± 9.36 and the affective PRI is 9.2 ±6.2, the two indexes being significantly correlated (r=0.69; a= 0.05).
The most employed words for pain description are wretched (51.35%), tender (48.64%), lancinating (43.24%), unbearable
(40.54%). Discussion. From these data a clinically-useful experimental characterisation of the “pain disorder” emerges.
The reported correlation between the affective and the sensitive components of the pain experience can explain: the difficulties arising when a psychological reformulation of the pain is made, and the tendency to abuse somatic therapies that
are often useless or iatrogenic.
KEY WORDS: idiopathic pain, psychogenous pain, somatoform, somatization, chronic pain, psychopathology
E-mail: [email protected]
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Caratteristiche cliniche delle sindromi da dolore non spiegabile esclusivamente su base somatica
INTRODUZIONE
Il DSM-IV (1) descrive, tra i disturbi somatoformi, il
“pain disorder”, in cui rientrano i soggetti la cui sintomatologia è caratterizzata essenzialmente da uno o più
dolori, per la cui genesi e/o persistenza si ritiene vi sia
l’implicazione di meccanismi psicologici. Benché apparentemente ben caratterizzati, una recente review (2)
ha messo in luce molteplici problemi diagnostici che si
riflettono sia nella clinica, sia nella ricerca. Tra l’altro,
in questa review è stato notato che il “pain disorder” è
mal differenziato da altre sindromi psicopatologiche
(rispetto a cui spesso si sovrappone, determinando il
fenomeno della apparente comorbidity); ha confini
troppo larghi, includendo molte patologie organiche in
cui la somatizzazione non è l’elemento discriminante;
ha una eterogeneità interna troppo elevata; è una categoria diagnostica poco usata dagli studiosi, i quali
preferiscono altre diagnosi (come il “chronic pain”),
anch’esse troppo vaghe ed eterogenee. È stata dunque
proposta una lieve modifica ai criteri per il “pain disorder” (che sarà applicata in questa sede), al fine di
rendere la diagnosi più omogenea, e si è sottolineata
l’importanza e la necessità di un lavoro di maggior precisazione delle caratteristiche fondamentali, cliniche e
psicopatologiche, delle sindromi caratterizzate da somatizzazioni dolorose.
CARATTERISTICHE CLINICHE DEI PAZIENTI CON
SOMATIZZAZIONI DOLOROSE
Pur con la necessaria avvertenza che i dati della letteratura al riguardo non sono del tutto sovrapponibili,
viste le differenze dei criteri seguiti per le varie diagnosi e nelle diverse edizioni del DSM, è comunque
possibile farsi una idea di alcune caratteristiche cliniche che accomunano i pazienti con somatizzazioni dolorose. In sintesi, i vari Autori hanno sottolineato i seguenti aspetti:
Età di esordio - il dolore può insorgere in qualunque
età della vita (1, 3), anche se è più frequente nella fascia di età tra i 30 ed i 40 (4) o 50 anni (3).
Distribuzione tra i sessi - le donne sarebbero circa il
doppio degli uomini (3, 4) e, inoltre, tenderebbero di
più alla cronicità (1).
Scolarità e attività lavorativa - non sono a noi note
informazioni sulla scolarità; per quel che riguarda il lavoro, spesso i soggetti hanno iniziato a lavorare presto
(3, 4), fanno un lavoro non specializzato (5), fisicamente pesante e/o monotono, e sono frequentemente molto attaccati al lavoro (3, 4).
Fattori predisponenti - non ci sono molte indicazioni
a riguardo, ma si è visto che spesso il dolore è preceduto da un trauma fisico (4).
Decorso - il dolore insorgerebbe improvvisamente,
aumentando di gravità nel giro di qualche settimana o
qualche mese (3, 4), con un decorso continuo (4). Come noto, fino al DSM III-R era richiesto che durasse
da almeno sei mesi, mentre il DSM IV distingue una
forma acuta da quella cronica, a seconda se la durata è
minore o maggiore di sei mesi. Il tipo acuto tenderebbe a risolversi in tempi abbastanza brevi, mentre il tipo cronico sarebbe caratterizzato da un decorso decisamente variabile (1). Entrambe le edizioni del DSM,
comunque, sottolineano che il dolore è di solito presente da molti anni, prima di giungere all’attenzione
dello psichiatra (1, 3). Nel recente studio di Aigner e
Bach (6), la durata media era di 69±88,8 mesi (il che
denota, oltre alla lunga durata, anche l’ampia variabilità). In uno studio di Jensen (5), effettuato però su pazienti psichiatrici, in 45 su 55 casi il dolore durava da
un anno o più. Nella ricerca di Anooshian et al. (7), infine, la durata media era di 7 anni.
Intensità del dolore - Il dolore è di norma intenso,
“severe”, per usare il termine di Williams e Spitzer (4).
Tra le poche misurazioni dell’intensità, essa è di almeno 5/10 nei pazienti psichiatrici non psicotici con sintomi dolorosi (5), mentre è di 7±1,7 (misurata con una
Visual Analog Scale il cui range è 0-10) nei soggetti
con diagnosi DSM IV di pain disorder (6).
Frequenza - Solo in Jensen (5) abbiamo trovato
qualche indicazione. Nei suoi pazienti psichiatrici non
psicotici il dolore si presentava almeno una volta a settimana in 45 pazienti su 55, e in 27 di essi era giornaliero.
Localizzazione - Anche qui gli studi sistematici sono
rari. Nel gruppo di Jensen (5) il dolore era nel 40% dei
casi localizzato alla testa, nel 20% all’addome, nel
12,7% lombare, nel 16,3% localizzato alle estremità,
mentre l’11% aveva altre localizzazioni. Da notare,
però, che in questo gruppo di pazienti psichiatrici con
dolore, era inclusa una significativa percentuale di dolori su base organica. Nel gruppo di soggetti con pain
disorder, invece, il dolore era nel 16,7% dei casi multifocale, nel 18,9% localizzato alla testa, nel 10% al rachide cervicale, nel 15,6% a livello lombare, nel 18,9%
lombare con irradiazione di tipo sciatico, nel 3,3% addominale, nel 6,7% toracico, nel 9% localizzato alle
estremità (6). In uno studio recente (7), infine, la localizzazione del dolore in sedi multiple è apparsa ancor
più frequente, interessando il 69% dei 101 pazienti esaminati (di cui l’88% aveva ricevuto diagnosi di pain
disorder).
Caratteristiche del dolore - Su questo punto vi sono
ben poche informazioni, mentre in realtà sarebbe mol-
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Aragona M, et al
to importante sia sapere che tipo di dolore il clinico
può aspettarsi, sia come il paziente vive, esperisce il
suo dolore. Si è sottolineato che il dolore a volte non
corrisponde alla distribuzione anatomica del sistema
nervoso, e che può anche mimare patologie conosciute
(3, 4). In alcuni casi può avere un valore simbolico (3),
e che comunque la presentazione enfatizzata delle
proprie sofferenze non è un criterio sufficiente per la
diagnosi (3, 4). Diversamente dalla classica isteria, di
solito manca la “belle indifference”, e anzi c’è preoccupazione per il dolore (4). Oltre al dolore, la sindrome può essere caratterizzata anche da altri sintomi:
“alterazioni localizzate di altre funzioni sensitive o
motorie, come parestesie e spasmi muscolari” (3), stanchezza (1), anedonia (4), insonnia (1, 4), tensione interna, sentimenti aggressivi e tensione muscolare (5).
La sintomatologia dolorosa, infine, sarebbe accompagnata più di frequente da sintomi di tipo ansioso nei
quadri acuti, da sintomi depressivi nelle forme croniche (1). In uno studio non specifico sul pain disorder,
ma piuttosto sulla “cefalea cronica non organica”, il
dolore era caratterizzato (in modo significativamente
diverso sia rispetto alle cefalee organiche, che rispetto
ai controlli sani) da drammatizzazione, vaghezza, abbassamento della soglia del dolore, scarsa tolleranza al
dolore (8).
Complicanze - sono soprattutto iatrogene, legate all’abuso di farmaci analgesici e a ripetuti tentativi chirurgici (3, 4). In alcuni casi si arriva alla dipendenza e
abuso di oppiacei e benzodiazepine (1).
Familiarità - sono state riportate incidenze maggiori
di quanto atteso per lesioni e malattie dolorose, soprattutto dolore cronico, depressione e dipendenza da
alcool (1, 3, 4). Il DSM IV sottolinea anche, nel dolore
cronico, la maggior frequenza di problemi familiari (1),
ma non sono a noi noti studi che esplorino nel dettaglio il tipo di problemi familiari, e la loro relazione con
la sintomatologia dolorosa.
Menomazione - oltre che soggettivamente penoso, al
dolore spesso conseguono invalidità (anche come assunzione del ruolo di invalido), inattività, perdita del
proprio lavoro e disoccupazione, isolamento sociale (1,
3, 4). In un recente lavoro sul pain disorder, l’11% dei
pazienti ha lasciato il lavoro proprio per il dolore, ed il
43%, pur non licenziandosi, non può più recarsi al lavoro (5).
In sintesi - nell’insieme molte delle caratteristiche
cliniche e socioanagrafiche che caratterizzano questi
pazienti sono note ma vi sono ancora molteplici lacune, anche clinicamente rilevanti, che attendono di essere colmate. Infine, è da sottolineare che gli studi sistematici sulla fenomenica clinica di queste sindromi
sono estremamente rari, e che gli stessi DSM, contra-
riamente al loro usuale stretto ancoraggio ai dati evidence-based, si basano in larga parte su dati non verificati da studi ad hoc; ad esempio, il DSM III-R fonda la sua descrizione sulle caratteristiche cliniche riportate da Williams e Spitzer (4), i quali però non
specificano la fonte da cui avrebbero desunto i loro
dati.
BREVI CONSIDERAZIONI SUL VISSUTO DOLOROSO
Nel paragrafo precedente si sottolineava come vi
fossero ben poche informazioni sulle caratteristiche
del dolore provato da questi pazienti, e come in realtà
sarebbe molto importante sia sapere che tipo di dolore il clinico può aspettarsi, sia come il paziente vive,
esperisce il suo dolore. Per quel che riguarda il vissuto
doloroso in generale, è oggi ampiamente ammesso che
esso, per essere ben caratterizzato, necessiti di una descrizione che tenga conto non soltanto dell’aspetto più
propriamente sensoriale, ma anche di quello patico, affettivo, che accompagna ogni percepito doloroso costituendone una parte essenziale. In base a queste premesse, diversi Autori si sono occupati dello studio del
dolore sotto il profilo della distinzione delle sue caratteristiche strettamente sensoriali da quelle più propriamente affettive. In una review sull’argomento, Fernandez e Turk (9) hanno illustrato che è possibile distinguere queste due componenti, anche se esse non
sono tra loro indipendenti, ma funzionalmente correlate. Negli studi considerati da questi Autori, è di rilievo che i soggetti esaminati sono spesso volontari sani
(nei quali il dolore viene provocato sperimentalmente), oppure soggetti con sindromi dolorose di vario tipo, più o meno specifiche. Per quanto di nostra conoscenza, non esiste a tutt’oggi alcuno studio che ha esaminato il ruolo delle due componenti (sensitiva ed
affettiva) in un gruppo di pazienti con dolori non spiegabili esclusivamente su base somatica (“psychogenic
pain disorder” secondo il DSM III, “somatoform pain
disorder” secondo il DSM III-R, “pain disorder” secondo il DSM IV, dolore “psicogeno” o “idiopatico”
secondo altre classificazioni). Eppure, uno studio di
questo tipo sarebbe importantissimo per almeno due
motivi: a) una migliore caratterizzazione del vissuto
doloroso di questi pazienti, nei quali sarebbe lecito
aspettarsi (ma ciò resta da dimostrare) una netta preponderanza della componente affettiva; b) una valutazione del tipo di cambiamento sintomatologico indotto dai farmaci che a vario titolo vengono usati per curare il dolore di questi pazienti (gli antidepressivi, ad
esempio, agiscono modificando la componente affettiva, quella sensitiva o entrambe?). Alla seconda que-
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stione è dedicato uno studio attualmente in corso,
mentre alla prima si risponderà nel presente lavoro,
traendone le conseguenti implicazioni per una migliore gestione clinica di queste sindromi.
MATERIALE E METODO
Il campione oggetto di indagine è costituito da 37 pazienti con diagnosi di “pain disorder”, consecutivamente
visitati presso l’Ambulatorio del Dolore della III Clinica
Neurologica, presso l’Università di Roma “La Sapienza”.
Tutti i soggetti erano sottoposti a un processo diagnostico a tre fasi: un neurologo esperto nella diagnosi delle
sindromi dolorose escludeva la presenza di una patologia
organica responsabile del dolore (oppure giudicava che
questa, qualora presente, fosse non correlabile al tipo di
sintomatologia dolorosa lamentata dal paziente). In una
seconda fase, uno psichiatra valutava se potessero esservi dei motivi psico(pato)logici correlabili all’esordio e/o
alle caratteristiche della sintomatologia dolorosa. In una
terza fase, ai pazienti venivano somministrati da esaminatori indipendenti dei test di valutazione che il soggetto
doveva compilare.
Tutti i pazienti inclusi nello studio hanno completato il
McGill Pain Questionnaire (10), somministrato nella versione italiana (11). L’attribuzione dei punteggi è stata
eseguita tenendo conto della scolarità, seguendo le indicazioni dello studio di valutazione della versione italiana
(11). Ai dati ottenuti dal McGill sono stati aggiunti quelli relativi alla frequenza e durata del dolore e alla interferenza sull’attività sociolavorativa del paziente, che sono stati desunti dal Rome Pain Questionnaire, un test elaborato dal nostro gruppo di cui è in corso la validazione.
RISULTATI
Aspetti socioanagrafici - l’età media dei pazienti valutati è di 51 ± 16,15 anni, con le donne che costituiscono la maggioranza del campione (rapporto femmine/maschi 3:1). Rispetto alla scolarità, il campione è
stato diviso in 3 gruppi: il 55,5% aveva frequentato fino a un numero di 8 anni di scuola, il 30,5% fino a 13
anni, l’11,1% fino a 17. Tra maschi e femmine non sembrano esserci differenze significative né per quanto riguarda i dati anagrafici, né per quanto concerne la scolarità.
Intensità del dolore - il McGill consente di ottenere
più indici di intensità del dolore. Abbiamo scelto di valutare il PPI (che dà un’indicazione veloce su una scala che varia da 1=modesto a 5=atroce) e il PRI (che è
un indice più fine, rappresentando la somma di tutti i
punteggi ottenuti dall’elenco delle caratteristiche del
dolore, e il cui range è tra 0 e 85,30). Il PPI medio è risultato essere 3,59 ± 1,01, mentre il PRI medio 37,14 ±
17,58. Entrambi gli indici non presentano differenze significative tra maschi e femmine per quel che riguarda
l’intensità della sintomatologia dolorosa.
Localizzazione - il McGill dà un’indicazione analogica delle sedi e dell’estensione del dolore (il soggetto
deve annerire le parti della figura umana disegnata, in
base a dove sente dolore) Per consentire una quantificazione nell’analisi dei dati, abbiamo trasformato questa figura in un elenco di 18 localizzazioni, e valutato
sia la frequenza di ogni localizzazione, sia la tendenza
dei pazienti a presentare localizzazioni multiple. La sede più frequentemente interessata è il cranio (54,05%
dei casi), seguito dalla regione lombosacrale (40,54%),
dall’arto inferiore sinistro (37,83%) e destro (35,13%)
e dal volto (35,13%). Nei soggetti si è evidenziata una
tendenza alla localizzazione multipla: in tre pazienti
(8,10% del campione) vi sono più di 10 sedi coinvolte
sulle 18 considerate, in sei soggetti (16,21%) le sedi interessate sono tra 5 e 10, mentre un numero di localizzazioni tra 2 e 4 si rileva in 21 pazienti (56,75%). Ci
sembra però che vada sottolineato che l’eccezione non
è infrequente: in 7 casi (18,91%) la localizzazione è
unica, con un dolore in un punto determinato, fisso e
costante nel tempo (in questi soggetti, diversamente
dalla tendenza spesso osservata negli altri, il dolore al
retest tendeva a non essere migrante ma fisso).
Durata del dolore - il McGill permette di distinguere
tra un dolore continuo, ritmico, o breve e transitorio.
Nei nostri pazienti il dolore è quasi sempre di tipo continuo (67% dei casi), mentre è ritmico nel 29,7% e breve solo in 1 dei 37 soggetti esaminati (0,02%). Utilizzando l’item del Rome Pain Questionnaire che misurava la durata su una scala da 0 a 5, il punteggio medio
è stato di 4,95 ± 0,93, ed il dolore è sempre a livello 5
negli uomini, mentre nelle donne il punteggio medio è
4,44 ± 0,89. Per rendere più comprensibile questo dato, un punteggio di 4 corrisponde a una durata tra 1 e
3 ore, il punteggio 5 ad una durata di “più di 3 ore oppure continuo per tutto il giorno”.
Frequenza - è stata valutata su un item del Rome Pain
Questionnaire che chiede “In un mese, quante volte le
viene (in media) il dolore?”, con un punteggio da 0
(=mai) a 5 (=praticamente ogni giorno). Nei nostri pazienti la frequenza ha un punteggio medio di 4,48 ±
0,93, senza differenze significative tra uomini e donne.
Interferenza sociolavorativa - misurata anch’essa da
un item del Rome Pain Questionnaire, con un range da
0 a 5, nel nostro gruppo il valore medio è 3,10 ±1,30
(senza differenze significative tra uomini e donne);
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il punteggio di 3 equivale alla definizione “riesco ancora a farcela, ma con efficienza diminuita”.
Caratteristiche qualitative del dolore - il McGill consente una valutazione accurata del vissuto doloroso
permettendo: a) di distinguere gli aspetti del dolore di
tipo “sensitivo” da quelli di tipo “affettivo”, e ciò è
molto importante perché nei nostri pazienti, non essendoci una lesione o disfunzione somatica che possa
spiegare il dolore, si è portati a ritenere che esso abbia
soprattutto caratteristiche affettive; b) di valutare quali sono i termini che questi pazienti usano più spesso
per descrivere il proprio dolore, alla ricerca di una specificità della presentazione clinica.
a) Per quel che riguarda la prima questione, il McGill permette di misurare separatamente gli aspetti
sensitivo e affettivo del dolore, con un punteggio che
varia da 0 a 43,30 per la parte sensitiva (PRI sensitivo)
e da 0 a 19,90 per quella affettiva (PRI affettivo). Nei
nostri pazienti, il PRI sensitivo è in media di 17,72 ±
9,36, senza differenze significative tra uomini e donne.
La media del PRI affettivo è di 9,2 ±6,2.
Il PRI sensitivo e quello affettivo risultano essere tra
loro significativamente correlati (r=0,69; a= 0,05), per cui
l’aumentare del vissuto affettivo di tipo doloroso coesiste con un aumento della sensazione fisica di dolore.
b) Per quel che riguarda i termini più usati per descrivere il proprio dolore, non ne esiste uno riportato
all’unanimità, ma c’è piuttosto una variabilità da paziente a paziente. Il termine più frequente è di tipo affettivo: avvilente (51,35%), seguito da sensibile al tocco (48,64%), lancinante (a fitte) (43,24%), insopportabile (40,54%), spossante (37,83%), che fa venire la
nausea (35,13%), caldo, dolente, che fa soffrire e torturante (32,43%).
CONCLUSIONI
Il presente lavoro è, a nostra conoscenza, il primo
che affronta in modo sistematico il problema della
obiettivazione scientifica delle caratteristiche cliniche
del dolore non spiegabile su base esclusivamente somatica. Le procedure di selezione del campione, per
renderlo più omogeneo di quanto la nosografia attuale non consenta, e quelle di valutazione standardizzata
delle caratteristiche fenomeniche studiate, ne costituiscono, a nostro avviso, i principali punti di forza. Il limite principale è invece la mancanza di un gruppo di
controllo, ma in questa sede ci premeva soprattutto cogliere le caratteristiche più importanti di questi pazienti, per poterle poi confrontare in modo più mirato
con quelle di un gruppo di pazienti con dolore neurogeno (studio attualmente in corso).
Alcuni dei dati riportati confermano e integrano
quanto già notato da altri Autori. Per quanto riguarda
l’età, è confermato che il dolore può presentarsi a qualunque età della vita; abbiamo potuto notare, soprattutto nelle donne, che a volte il dolore insorge in età
abbastanza avanzata, in persone che non ne avevano
mai sofferto prima. Ci sembra che in questi casi esso
sia di fatto l’unico modo possibile per richiamare l’attenzione e l’accudimento dei familiari. Rispetto ai dati
della letteratura, nel nostro campione le donne sono
ancora più numerose, circa il triplo rispetto agli uomini. Per quanto riguarda la scolarità sembra esserci la
tendenza ad un livello non troppo elevato, visto che
più della metà dei pazienti (55,5%) non supera gli 8
anni di studio.
Dall’insieme dei dati, emerge che il dolore di questi
pazienti è abbastanza intenso e, soprattutto, molto disturbante, anche a causa della sua lunga durata e della
sua elevata frequenza, che fa sì che alcuni pazienti ne
soffrano a lungo e in modo quasi continuo. Nonostante ciò, tuttavia, l’interferenza nelle attività sociolavorative non è così forte come atteso dai dati di letteratura: la maggior parte dei pazienti, infatti, pur riferendo
di avere una efficienza nettamente diminuita, tuttavia
riesce ancora a portare avanti le sue attività. In ogni
caso, pochi sono quelli che possono continuare come
prima la loro vita, la cui qualità è senz’altro nettamente scaduta.
Una caratteristica del dolore spesso riportata, e in
questo studio confermata, è la tendenza da parte di
questi pazienti a presentare localizzazioni multiple e
molto spesso difformi da quanto atteso in base all’irradiazione nervosa. Un altro dato non documentabile in
questo studio, ma che possiamo anticipare sulla base
dei risultati preliminari di uno studio longitudinale, è il
carattere “migrante” di questi dolori, che in valutazioni successive tendono a situarsi in sedi differenti. Rispetto a questo quadro generale, però, c’è un gruppo
più ristretto, ma a nostro giudizio piuttosto importante
(in quanto costituisce un sottogruppo distinto clinicamente e, forse, per etiopatogenesi), di pazienti che hanno un dolore cronico fisso, localizzato in un’unica sede.
Le caratteristiche cliniche del dolore sono abbastanza atipiche, anche se non ci sono aspetti formali patognomonici. Tra le descrizioni più frequentemente usate ce ne sono alcune che sottolineano la reazione al
sintomo (avvilente, insopportabile, spossante, dolente,
che fa soffrire, torturante, che fa venire la nausea),
mentre altre ne riportano l’aspetto più specificamente
sensitivo (sensibile al tocco, lancinante-a fitte, caldo).
Spicca il contrasto tra un dolore che ad un livello è descritto come di lunga durata, quasi continuo, e da un altro punto di vista è considerato “lancinante, a fitte”.
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Inoltre, pur non essendo sempre presente, la caratteristica di essere sensibile al tocco è clinicamente molto
significativa: molti pazienti con sintomi che ricordano
una lombosciatalgia, ad esempio, presentano un Lasegue completamente negativo, mentre urlano dal dolore se con un dito si preme sulla gamba.
Per quanto riguarda, invece, il valore simbolico dei
sintomi (aspetto spesso citato in letteratura), un simbolismo di questo tipo è chiaramente visibile in alcuni
pazienti (ad esempio, una donna anziana dice: “i miei
figli mi hanno abbandonato, e questo mi dà un grande
dolore”, senza però mettere in relazione quanto detto
con i suoi dolori fisici), ma il disegno di questo studio
non consente di valutarlo in modo approfondito.
Infine, un dato interessante ci sembra sia quello del
rapporto tra componente sensitiva ed affettiva del dolore. Diversamente da quanto atteso, infatti, dai nostri
dati non emerge una preponderanza della componente affettiva, mentre risulta una stretta correlazione tra
questi due aspetti del dolore. Questo significa che il
dolore di questi pazienti è sempre vissuto con caratteristiche fortemente fisiche, e questo può spiegare la
difficoltà estrema che si riscontra quando si cerca di
riformulare in chiave psicologica il disturbo: questi pazienti, infatti, sentono un dolore al corpo, e non riescono a comprendere come un problema psicologico ne
possa essere il responsabile. Di conseguenza, si sentono incompresi dal medico che non diagnostica una lesione organica (spesso pensano che il medico non creda loro, e che pensi stiano simulando la loro sofferenza o esagerino il sintomo), mentre sono pronti a seguire interpretazioni in chiave somatica, accettando di
sottoporsi anche a pratiche scientificamente non giustificabili (sono molti i nostri pazienti che hanno subito operazioni chirurgiche inutili e a volte dannose).
Tutto ciò ha una importanza prettamente clinica, perché indica: da un lato che il medico deve essere molto
accorto nella ridefinizione del sintomo, che necessita
di una certa gradualità (altrimenti il paziente abbandona la cura per rivolgersi a un altro medico, nella speranza che questi riconoscerà la sua patologia organica); dall’altro, che deve stare attento a non lasciarsi
fuorviare da ipotesi organiche fantasiose sottoponendo il paziente a trattamenti inadeguati e invasivi che,
nella nostra esperienza, sono tra i principali responsabili della cronicizzazione.
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