la prova dei “diritti di affidamento”

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la prova dei “diritti di affidamento”
AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 LA PROVA DEI “DIRITTI DI AFFIDAMENTO” E DELLA “RESIDENZA ABITUALE” NEL PROCEDIMENTO DI SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DEL MINORE Manuela Tirini
Avvocato del Foro di Bologna
Sommario: 1. Premessa. – 2. I presupposti applicativi della Convenzione Aja 1980. La prova dei “diritti di affidamento”. – 3. La prova della “residenza abituale”. – 4. I più recenti orientamenti giurisprudenziali. – 5. La prova
delle condizioni ostative al rientro del minore ai sensi dell’art.13 della Convenzione Aja 1980.
1. Premessa La sottrazione internazionale di minore rappresenta uno dei più attuali disagi sociali che attanagliano la nostra epoca. Con il termine “sottrazione di minore” si intende l’ormai noto fenomeno rappresentato dall’atto mediante il quale un genitore decide volontariamente e unilateralmente di sottrarre il figlio all’altro genitore con l’intenzione di nasconderlo, o di tenerlo con
sé, in modo permanente. L’illiceità della condotta è intrinseca nell’arbitrarietà della scelta del
genitore che, senza il consenso dell’altro, trasferisce o trattiene il figlio oltre confine, allontanandolo dal luogo della sua “residenza abituale” e nel quale è da sempre cresciuto, sottraendolo
all’affetto del padre o della madre titolari entrambi dei diritti di affidamento.
L’esponenziale aumento di casi tipici di sottrazione hanno reso evidente l’inadeguatezza della
disciplina nazionale di riferimento in tema di controversie in materia di filiazione, facendo risaltare, al contrario, la decisa affermazione del ruolo delle Convenzioni internazionali.
A tal fine il quadro normativo di riferimento viene fornito a livello sovranazionale dalla Convenzione Aja 1980 sugli aspetti civili della sottrazione, ratificata dall’Italia con la l. n. 64/1994,
integrato per i soli Paesi facenti parte della UE dal Reg. 2201/2003.
La Convenzione Aja, in quanto strumento convenzionale di natura cautelare, aspira a ripristinare
la situazione di fatto, legalmente giustificata, relativa all’affidamento del minore ed al diritto di visita attributo ai genitori, in particolare mirando ad assicurare l’immediato ritorno di un minore
degli anni 16 nello Stato richiedente (accertato quale Stato di “residenza abituale” dello stesso),
qualora questi sia stato trasferito o trattenuto illecitamente in altro Stato membro (art. 3).
L’art. 1 della Convenzione ne indica le finalità applicative: a) assicurare l’immediato rientro del
minore illecitamente trasferito o trattenuto in altro Stato membro; b) assicurare che i diritti di
affidamento e di visita previsti in uno Stato membro siano effettivamente rispettati negli altri
Stati contraenti.
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EUROPA 2. I presupposti applicativi della Convenzione Aja 1980. La prova dei “diritti di affidamento” I presupposti alla presenza dei quali si applica la Convenzione, integrata dalle disposizioni del
Reg. UE 2201/2003 che sulla stessa prevalgono, restano secondo l’art. 3 la «violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, istituzione o ente, congiuntamente o individualmente, in base
alla legislazione dello Stato dove il minore aveva la “residenza abituale” prima del trasferimento».
Appare pertanto evidente che, al fine di poter chiedere l’applicazione della Convenzione Aja
1980 e del Regolamento (CE) 2201/2003 meglio noto come Bruxelles II bis, gravi sul ricorrente l’onere di provare il proprio diritto di custodia effettivamente esercitato e che il minore
avesse la “residenza abituale” nel Paese in cui viene chiesto il rientro.
Secondo la Convenzione, il concetto di custodia ricomprende tutti i diritti concernenti la cura
della persona del minore, ed in particolare il diritto di decidere riguardo il suo luogo di residenza.
Pertanto, la nozione di diritto di affidamento (o di “custody”), accolta dalla Convezione Aja, è
decisamente ampia e ricomprende essenzialmente tutti i diritti inerenti la cura del minore.
Tale diritto di custodia può essere fondato su di un provvedimento, inerente ovviamente ai diritti di affidamento del minore conteso dai genitori, emesso dall’Autorità Giudiziaria competente a decidere in base alla “residenza abituale” del bambino, o ex lege.
A tal proposito, in regime di affidamento esclusivo, la Suprema Corte ha ribadito a più riprese che
non è illecito il trasferimento del minore all’estero compiuto dal genitore titolare dell’affidamento 1, che non può, senza reale giustificazione, essere leso nel diritto di poter scegliere liberamente la propria residenza anche se distante dalla precedente e nonostante renda più complicato l’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore. Pertanto, quest’ultimo, trattandosi di
trasferimento legittimo, non avrà titolo per richiedere il rientro del minore ex Convenzione Aja
1980 2 ma soltanto una modifica delle condizioni relative al diritto di visita.
La violazione descritta all’art. 3 della Convenzione richiede inoltre un ulteriore elemento di natura fattuale al fine di poter considerare illecito il trasferimento, ovvero è necessario che l’esercizio dei diritti di affidamento sia “effettivamente” esercitato dal titolare, nel momento della
materiale sottrazione del minore (art. 3, lett. b). Tuttavia, secondo una recente sentenza della
Cassazione 3 il presupposto applicativo della Convenzione Aja 1980 si riscontra «nella circostanza che il trasferimento o il mancato rientro del minore sia avvenuto in violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, ente o istituzione», se tali diritti siano materialmente esercitati o
avrebbero potuto esserlo se non si fosse verificato il trasferimento (anche se è vero che l’assenza dell’effettivo esercizio rappresenta, ai sensi dell’art. 13 Conv., uno dei fattori che possono
giustificare il diniego dell’ordine di rientro del minore, ma di ciò si parlerà più oltre).
1
Secondo Cass., S.U., n. 22238/2009: «il trasferimento all’estero, o il mancato rientro in Italia, di minori figli di genitori separati non è qualificabile come illecita sottrazione all’altro genitore, allorché l’allontanamento avvenga ad opera dell’affidatario, con
la conseguenza che risulta inapplicabile la Convenzione Aja 1980. (...) Tuttavia, qualora la mobilità internazionale e la mutabilità della residenza abituale sia stata convenzionalmente esclusa dai coniugi nelle condizioni di separazione, si applica l’art. 10
Reg. 2201/2003, con la conseguenza che competente a decidere della responsabilità genitoriale resta il giudice della pregressa residenza abituale, finché non sia decorso un anno da quando chi aveva diritto a chiedere il ripristino del diritto di visita o il rientro
ha avuto conoscenza del cambio di residenza» (vedi anche Cass. n. 16092/2006).
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Al contrario, in caso di affidamento condiviso, la decisione relativa al luogo di residenza del minore deve essere presa di
comune accordo tra i coniugi. A tal proposito il Tribunale di Venezia, ord. 19 gennaio 2008, ha ritenuto che la decisione
relativa al luogo di residenza del figlio minore debba essere adottata dai genitori affidatari nel pieno accordo di entrambi,
con la conseguenza che l’espatrio del minore senza il consenso dell’altro coaffidatario, e il trattenimento all’estero, integrano il suo illecito trasferimento. Altro esempio, Tribunale per i Minorenni di Palermo, decreto 8 luglio 2008, prendendo atto dell’incapacità del sottrattore di svolgere responsabilmente il suo ruolo genitoriale, ha modificato il regime di affidamento, da condiviso a monogenitoriale, ravvisandone le ragioni eccezionali ex art. 155 bis.
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Cass., Sez. I, n. 252/2010.
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AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 In particolare, si ricorda che la Convenzione non si preoccupa di incidere e modificare provvedimenti riguardanti la custodia del minore, o il suo affidamento alla luce delle circostanze sopravvenute, ma, essendo un rimedio di natura cautelare ed urgente, il suo obbiettivo risulta essere quello di ripristinare la situazione antecedente l’avvenuta sottrazione illecita, ed arbitraria,
del minore avvenuta ad opera di uno solo dei genitori in danno dei diritti dell’altro.
Successivamente, il Regolamento (CE) 2201/2003, ad integrazione di quanto sostenuto, ha
ritenuto come “illecito” il trasferimento effettuato «in violazione dei diritti di affidamento derivanti da una decisione, dalla legge, o da un accordo vigente in base alla legislazione dello Stato membro nel quale il minore aveva la sua “residenza abituale” immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro», precisando che «l’affidamento si considera esercitato congiuntamente da entrambi i genitori quando uno dei due titolari della responsabilità genitoriale non può,
conformemente ad una decisione o al diritto nazionale, decidere il luogo di residenza del minore senza il consenso dell’altro titolare della responsabilità genitoriale» (art. 2 Reg.).
Nel caso in cui, invece, il diritto di custodia del minore non si basi su di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria, il genitore leso nel proprio diritto da parte dell’altro genitore “sottrattore”
dovrà provare che, secondo la propria legge nazionale, egli era titolare del diritto di affidamento, ancorché eventualmente esercitato in via congiunta e/o condivisa. In questo caso, anche attraverso l’ausilio delle Autorità Centrali eventualmente incaricate, il ricorrente dovrà fornire
all’Autorità Centrale omologa, e quindi all’Autorità giudiziaria competente in materia di rientro, la documentazione (articoli di legge) relativa al regime di affidamento previsto dalla legislazione nazionale. Tale documentazione dovrà essere tradotta nella lingua nella quale verrà
eseguito il procedimento di rientro.
Secondo quanto prescritto dal suindicato Regolamento, il Paese competente nel merito dei diritti
di affidamento del minore è il giudice dello Stato in cui lo stesso risiedeva abitualmente, mentre
per la decisione circa la domanda di rientro è competente il giudice dello Stato ad quem, ovvero
quello dove il minore è stato illecitamente condotto. Il Regolamento si ispira ad una sorta di perpetuatio iurisdicionis, per il quale il giudice dello Stato di “residenza abituale” del minore, più vicino agli interessi e più consapevole dei trascorsi di vita dello stesso, deve conservare la competenza a decidere nel merito della controversia successivamente all’avvenuta sottrazione.
Tuttavia, la decisione sul rientro e quella sull’affidamento sono oggetto di procedimenti autonomi: la prima non deve pregiudicare nel merito i possibili provvedimenti sui diritti di custodia
(art. 19 Conv.) e, qualora nello Stato ad quem o in quello di “residenza abituale” vengano adottate decisioni sull’affidamento favorevoli al genitore sottrattore, tali pronunce non possono
fondare il rigetto dell’istanza di rientro (art. 17 Conv.). Il procedimento di rientro prevale, in
quanto urgente, sui procedimenti di merito pendenti e questi possono, su istanza di parte, essere legittimamente sospesi, ex art. 16 Conv., fino alla decisione sul rientro del minore.
Ai sensi dell’art. 8 del Regolamento (CE) 2201/2003, le Autorità giurisdizionali di uno Stato
membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su di un minore, solo se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro nel momento in cui sono adite. Il citato articolo detta, quindi, una regola di competenza generale sulla quale prevalgono,
tuttavia, le previsioni dei successivi artt. 9, 10 e 12.
Tuttavia, pare importante sottolineare nuovamente che l’onere della prova, nel momento processuale relativo alla presentazione del ricorso ex Convenzione Aja 1980 riguardo ai casi di sottrazione internazionale di minore, si rinviene in capo al ricorrente medesimo, il quale deve provare la violazione dei diritti di custodia relativi al minore sottratto illecitamente ed il fatto che
sia stato trasferito senza il suo consenso lontano dal suo Paese di “residenza abituale”.
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EUROPA 3. La prova della “residenza abituale” Né a livello interno, né a livello internazionale, le fonti hanno provveduto a fornire una specifica e
chiara nozione di ciò che si intenda per “residenza abituale”, benché dalla determinazione di tale
definizione normativa dipenda l’applicazione delle norme introdotte dalla Convenzione Aja e dal
Regolamento (CE) 2201/2003, nonché la stessa nozione di trasferimento illecito che, all’art. 3
Conv., si determina dalla violazione dei diritti di affidamento attribuiti dall’ordinamento dello
Stato «nel quale il minore aveva la “residenza abituale” immediatamente prima del trasferimento».
In particolare, il criterio della “residenza abituale” del minore è adottato per l’individuazione
del foro più idoneo a pronunciarsi sulla questione, quale unico giudice competente a decidere
nel merito dei diritti di affidamento e della responsabilità genitoriale. In sostanza, considerando il rapporto di vicinanza del giudice del luogo di “residenza abituale” del minore con i trascorsi di vita dello stesso, si statuisce che sia l’unico in grado di poter valutare le misure da adottare nell’esclusivo interesse del minore, in rapporto all’allontanamento dai suoi affetti e dalla
vita che ha trascorso fino a quel momento in quei luoghi.
Non si rinviene una definizione unanime dell’istituto neppure a livello nazionale. La Corte di
Cassazione ha, infatti, definito il concetto di “residenza abituale” riferendosi «al luogo in cui il
minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami
affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazioni» 4. Con la nozione di centro stabile dei suoi legami affettivi si intende «la residenza affettiva, vale a dire il luogo in cui il minore custodisce e coltiva i suoi più radicati e rilevanti legami affettivi ed i suoi reali interessi» 5.
Si è, così, ritenuto necessario un intervento chiarificatore da parte della Corte di Giustizia Europea che, con la sentenza 2 aprile 2007 – Causa C-523/07 – ha dato una profonda svolta interpretativa. Secondo la Corte di Giustizia, infatti, nel delimitare il concetto di “residenza abituale”, si deve intendere «quel luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente
sociale e familiare. A tal fine, si deve tener conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle
ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato,
della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenza linguistiche, nonché delle relazioni familiari e sociali del minore in detto Stato». In sostanza,
quindi, è necessario che «il giudice nazionale stabilisca la “residenza abituale” del minore, tenendo
conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie». Secondo la Corte
europea, i giudici nazionali devono tener conto di quei fattori che mirino a soddisfare quel carattere di stabilità che distingue la “residenza abituale” dalla mera presenza su quel territorio,
che, tuttavia, non si esaurisce nella sola durata della relativa presenza del minore in quel Paese,
ma che viene valutata sulla base dei requisiti suindicati («della cittadinanza del minore, del luogo
e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenza linguistiche (....)»).
Rimangono tuttavia confuse situazioni particolarmente complesse, dove l’individuazione della
“residenza abituale” dei minori risulta particolarmente ardua. Ciò si verifica, ad esempio, nei casi
4
Cfr. Cass. n. 22507/2006; Cass. n. 27593/2006; Tribunale per i Minorenni di Milano, ordinanza del 27 aprile 2010. Molte sono state le pronunce di legittimità sul tema, tutte unanimi nel definire la “residenza abituale” del minore come il luogo
in cui lo stesso, grazie ad una durevole e stabile permanenza, da qualsiasi regione determinata, riconosce il centro dei suoi
legami affettivi e parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione, ed hanno precisato che la sussistenza di detto
presupposto fattuale è di per sé sufficiente a determinare la reazione dell’ordinamento di ordinare l’immediata restituzione
del minore, a prescindere dall’esistenza di un titolo giuridico di affidamento valido a livello internazionale (Cass. n.
15145/2003; Cass. n. 19544/2003; Cass. n. 2093/2005; Cass. n. 397/2006; Cass. n. 16831/2006).
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Cass. n. 3798/2008.
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AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 in cui la vita familiare è caratterizzata da un’elevata mobilità dei genitori da uno Stato all’altro,
causata da vari motivi (in particolare quelli lavorativi); ovvero nei casi in cui la sottrazione avviene in danno ad un neonato di pochi mesi di vita, difficilmente legato ad uno Stato piuttosto che
ad un altro. I neonati, per l’appunto, sono troppo piccoli per aver la possibilità di stringere legami
solidi con il contesto sociale che li circonda (ad eccezione dei propri genitori) e difficilmente potrà individuarsi un luogo, tale da essere identificato come loro “residenza abituale”, diverso da
quello del genitore che principalmente provvede a loro (di solito la madre). Pertanto, in tali casi,
si supera inevitabilmente il criterio (prevalente in giurisprudenza) della stabilità e della durata
della presenza del minore in quel territorio, lasciando spazio all’analisi di altre circostanze, quali la
comune intenzione dei genitori di stabilirsi in uno Stato per farne la loro “residenza abituale”, anche se di fatto non ne hanno protratto a lungo la permanenza, o le ragioni del loro trasloco 6.
Si intuisce, pertanto, che la regola prevista a livello europeo, ed utilizzata come discrimine al
fine di individuare il Paese di “residenza abituale” del minore, in cui farlo immediatamente rientrare, va ricercata nell’opportuna valutazione di tutte le circostanze fattuali che caratterizzano la fattispecie concreta, che diano una qualche certezza ai legami che il minore ha creato in
quel determinato contesto affettivo e sociale, tramite un’analisi di elementi qualitativi e quantitativi, sulla base del criterio della prevalenza e non solo della durata. Ciò a differenza di quanto
sostenuto dalla nostra giurisprudenza di legittimità che continua a dare rilievo ad un unico elemento, quello della stabilità e della durata dei rapporti affettivi e parentali del minore creati
nel Paese in questione.
4. I più recenti orientamenti giurisprudenziali Per quanto riguarda il quadro di riferimento europeo, secondo le linee dettate dalla sentenza
C-523/07, la Corte di Giustizia si è mossa nel senso di definire il concetto di “residenza abituale” del minore come «il luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e
familiare. Tale luogo deve essere determinato dal giudice nazionale tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifiche di ciascuna fattispecie» 7.
La Corte ha precisato, nella citata sentenza, che tra i criteri che il giudice nazionale è tenuto ad
utilizzare a tal fine, occorre menzionare, in particolare, «le condizioni e le ragioni del soggiorno
del minore nel territorio di uno Stato membro, nonché la sua cittadinanza». Di fatto, altri elementi
supplementari, oltre alla sua presenza fisica su di un territorio, devono dimostrare che la presenza del minore in uno Stato membro non sia temporanea o occasionale, ma che abbia il carattere della stabilità o della regolarità.
Secondo quanto affermato dalla Corte, può costituire un indizio determinante al fine dell’individuazione del trasferimento della “residenza abituale” del minore «l’intenzione del titolare
della responsabilità genitoriale di stabilirsi con il minore in altro stato membro, determinata mediante determinate misure concrete, come l’acquisto o la locazione di un alloggio nello Stato membro ospitante», in sostanza deve essere chiara la volontà dell’interessato di fissarvi la propria
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Almeno questo risulta essere la linea difensiva seguita dai giudici della Corte di Giustizia Europea, mentre per la nostra
Cassazione importante rimane l’analisi dei legami affettivi stretti dal minore nel Paese de quo. Nella sentenza n.
6197/2010, la Cassazione ha ribadito esplicitamente l’indisponibilità a considerare determinante la comune intenzione
dei genitori a trasferirsi in quel Paese, poiché la valutazione dei giudici deve prescindere dall’analisi dei progetti di vita, eventualmente concordi, tra le parti, e dall’esistenza di un diritto soggettivo di un genitore di pretendere una sistemazione
diversa per il proprio figlio.
7
Corte di giustizia europea, sentenza 22 dicembre 2010, C-497/10.
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EUROPA residenza, facendolo diventare il centro abituale dei propri interessi.
Prendendo posizione anche sulla controversa situazione della sottrazione di un minore, nel caso in cui si tratti di un neonato, la Corte ha precisato che l’ambiente di un minore in tenera età
coincide con l’ambiente familiare determinato dalla persona di riferimento con la quale vive e
che si prende cura di lui. Pertanto, al fine di identificare la “residenza abituale” di un neonato
che soggiorna con la madre in altro Stato membro diverso da quello in cui è nato ed ha vissuto
per pochi mesi, possono essere presi in considerazione altri criteri, quali «le ragioni del trasferimento verso un altro Stato membro della madre del minore, le sue conoscenze linguistiche o le sue
origini familiari e geografiche», e ovviamente «la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del
soggiorno in tale Stato membro, (...) dell’età del minore, (...) dei rapporti familiari e sociali che la
madre e il minore intrattengono con quello Stato membro».
A livello nazionale, particolare interesse suscita la recente sentenza delle Sezioni Unite della
Cassazione n. 3680/2010 8 che, al fine di determinare il giudice dello Stato membro competente a decidere sulle questioni inerenti alla situazione relativa al divorzio o alla separazione dei
coniugi, ribadisce quale criterio da seguire quello della “residenza abituale”. La stessa viene intesa come «luogo in cui l’interessato ha fissato con carattere di stabilità il centro permanente o abituale dei propri interessi, con chiara natura sostanziale e non meramente formale o anagrafica, in
quanto rilevante il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, ed eventualmente lavorativa alla data della proposizione della domanda».
Ancora più recentemente la sentenza n. 6345/2011 della Suprema Corte ribadisce che la nozione di “residenza abituale”, per quanto riguarda la determinazione della competenza in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale (ai sensi della Convenzione Aja e del Regolamento (CE) 2201/2003), non coincide con quella di domicilio, così come espressa dall’art. 43
c.c., né con quella della residenza formale scelta di comune accordo tra i coniugi (art. 144 c.c.).
Deve invece intendersi come il luogo in cui il minore, a seguito di una stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi e parentali, dovuti allo svolgimento in quei
luoghi della sua vita quotidiana.
5. La prova delle condizioni ostative al rientro del minore ai sensi dell’art. 13 della Conven‐
zione Aja 1980 Alla luce delle disposizioni della Convenzione Aja 1980 e del Regolamento (CE) 2201/2003, il
rigetto dell’istanza di rientro è da considerarsi ipotesi eccezionale, subordinata al prodursi di
determinate e specifiche circostanze, previste in maniera tassativa dall’art. 13 della Convenzione Aja. Tali circostanze debbono essere debitamente provate dalla parte resistente.
Il diniego può fondarsi innanzitutto sulla prova che il genitore affidatario, al momento della
sottrazione, non esercitava di fatto il diritto di custodia o comunque aveva prestato, anche ex
post, il suo consenso al trasferimento o mancato rientro del minore (art. 13, 1° comma, lett. a).
È inoltre possibile addivenire ad un rigetto dell’istanza di rimpatrio qualora sia addotta la prova
(il cui onere grava in capo al/alla resistente) che il ritorno nella “residenza abituale” determinerebbe nel minore il fondato rischio di essere esposto a pericoli fisici o psichici o di trovarsi in
una situazione intollerabile (art. 13, 1° comma, lett. b). Si tratta dell’eccezione più invocata dal
genitore che si oppone al rimpatrio.
Nella prassi è assai frequente che il genitore che trasferisce o trattiene all’estero il figlio minore
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Cass., S.U., n. 3680/2010 riprende i temi della già citata sentenza Cass., S.U., n. 22238/2009.
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AIAF RIVISTA 2012/1 gennaio-aprile 2012 presenti, immediatamente prima della sottrazione, una denuncia per minacce o violenze ai
danni propri o del minore contro il genitore coaffidatario o i di lui prossimi congiunti. In diversi casi può trattarsi di argomentazioni pretestuose aventi l’unico obiettivo di impedire il rimpatrio del minore nel tentativo di legittimare la commessa sottrazione di fronte all’autorità, facendola apparire come un gesto estremo dettato dalla necessità di salvare se stesso e/o il figlio
dai gravi rischi e pregiudizi provocati dalla condotta irresponsabile dell’altro genitore.
Alla luce di tali circostanze, il Regolamento (CE) 2201/2003, ad integrazione di quanto stabilito
nella Convenzione Aja 1980, è intervenuto a limitare l’applicazione di tale eccezione al rimpatrio,
stabilendo che il giudice del rimpatrio è comunque obbligato a ordinare il ritorno del minore
(«non può rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore», secondo la dizione dell’art.11.4) qualora sia
dimostrato che nello Stato di “residenza abituale” del medesimo sono previste misure adeguate
per assicurare la protezione del minore dopo il suo rientro. In caso di eccezioni afferenti l’adeguatezza dell’esercizio della potestà genitoriale da parte del genitore vittima della sottrazione, è
sufficiente che, a mero titolo di esempio, quale misura protezione del minore nello Stato di “residenza abituale”, venga disposta un’attività di controllo da parte del Servizio sociale competente.
L’idoneità del genitore impedito all’esercizio dei diritti-doveri di responsabilità genitoriale è questione inerente il merito della controversia e sarà quindi trattata in separato giudizio di merito
senza poter avere alcun effetto sugli esiti del procedimento di rimpatrio.
L’art. 13.2 della Convenzione prevede che l’autorità giudiziaria competente possa non ordinare
il ritorno del minore se questi, nel corso del procedimento di rimpatrio, manifesti la sua opposizione al rientro nella “residenza abituale”. Alla previsione della Convenzione, rafforzata dall’art. 11.2 del Regolamento CE, che prescrive l’obbligo di ascoltare il minore nel corso della
trattazione della domanda di rientro, a meno che ciò risulti inopportuno in relazione all’età e al
grado di maturità da questi raggiunti, consegue che il mancato ascolto o il diniego dell’ascolto
non opportunamente motivato dal giudice sulla base di argomentazione relativa alla capacità di
discernimento raggiunta dal minore, possono costituire motivo di impugnazione della decisione di accoglimento o rigetto dell’istanza di rimpatrio.
Anche alla luce della Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo
(ratificata con l. n. 77/2003), nei procedimenti giudiziari che lo interessano, qualora il minore
sia ritenuto dotato di capacità di discernimento, questi ha diritto di essere consultato, di esprimere la propria opinione e di essere informato sulle conseguenze pratiche del suo parere e di
qualunque eventuale decisione (art. 3).
L’applicazione dell’art. 13 della Convenzione Aja 1980 e quindi il diniego dell’istanza di rientro
è diversificata a seconda dei Paesi in cui il procedimento viene aperto.
Si sottolinea che, diversamente da quasi tutti i paesi aderenti alla Convenzione Aja 1980 (ed al
Regolamento CE), l’Italia, con la previsione normativa contenuta nella l. n. 64/1994, non solo
prevede che il provvedimento di rientro di primo grado sia immediatamente esecutivo, ma che
tale provvedimento sia ricorribile solo per cassazione.
È ben comprensibile pertanto quanto sia “pericoloso” che la decisione circa argomenti così importanti (quali i rischi di cui all’art. 13 Conv. Aja) sia rimessa unicamente alla valutazione del
Tribunale per i Minorenni, senza sostanzialmente alcuna possibilità di impugnazione per motivi di merito. In altre parole contro la decisione del tribunale minorile volta a statuire circa
l’esistenza o meno dei rischi di cui all’art. 13 Conv. Aja, nessuna delle parti ha possibilità di
rendere la prova contraria e di vedere “rivista” e/o annullata la decisione assunta dal Tribunale
per i Minorenni.
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