Intervento di S.E. Mons. Luciano Monari

Transcript

Intervento di S.E. Mons. Luciano Monari
Intervento di S.E. Rev.ma Mons. LUCIANO MONARI
Amministratore apostolico di Piacenza-Bobbio, Vescovo eletto di Brescia,
Vice-Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
al Dantis Poetae Transitus
in occasione del 686° annuale della morte di Dante Alighieri
Ravenna, Basilica di S. Francesco, 13 settembre 2007
Era naturalmente da attendersi che l’esame sulla carità fosse proposto a Dante
dall’evangelista Giovanni. È lui, infatti, che nella sua prima lettera, per due volte fa l’affermazione
straordinaria: “Dio è amore.” É lui che interpreta l’incarnazione come atto di amore: “Dio ha tanto
amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito...”. E’ lui, infine, che riassume tutta l’etica, tutti i
comandamenti, in una sola esigenza, ancora l’amore. “Vi do un comandamento nuovo – dice Gesù
ai discepoli durante l’Ultima Cena – che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati così amatevi
anche voi gli uni gli altri.”
L’esame sulla carità che san Giovanni fa a Dante si articola in tre momenti: tre le domande
dell’apostolo e tre le risposte del poeta. Forse vale la pena notare che questo esame è subito da un
Dante accecato: lo ha accecato la vista di Giovanni, il fulgore che scaturisce da lui, dalla rivelazione
dell’amore di Dio che Egli trasmette. La cecità, però, non blocca il poeta che viene sollecitato a
compensarla (la cecità) attraverso la riflessione: è anche questo un modo di ‘vedere’, di conoscere la
realtà. Certo, all’inizio di tutto ci sono i dati dei sensi, ma, supposti questi dati, la mente dell’uomo
può ragionare, confrontare, intuire, esprimere. L’apostolo Giovanni invita allora Dante a far sì che
“sia la vista in te smarrita e non defunta” e cioè che la perdita della vista esterna non sia totale e
definitiva; per questo bisogna che Dante abbia una corretta conoscenza dell’amore. Solo a questa
condizione la vista potrà tornargli e il poeta potrà procedere nella visione e conoscenza del
Paradiso.
2
Dunque, prima domanda: “Comincia dunque; e dì ove s’appunta / l’anima tua” ossia verso
che cosa s’indirizza il tuo desiderio. Vengono in mente le parole famose di Virgilio che Agostino
ripete più volte e che hanno un posto centrale nella teologia agostiniana: trahit sua quemque
voluptas, ciascuno è attirato da ciò che desidera; l’oggetto del desiderio diventa allora la definizione
stessa della persona, del suo valore. Se l’uomo desidera cose grandi, tende a essere grande lui
stesso, e viceversa se il desiderio dell’uomo s’immiserisce nella ricerca di cose banali. Da qui
l’importanza nella vita spirituale di un’educazione del desiderio: bisogna imparare a decifrare i
desideri, anche quelli materiali, immediati, perché dentro di essi si nasconde un desiderio più
profondo, il desiderio di Dio. Pensate alla Samaritana: “Se tu conoscessi il dono di Dio…” Se Dante
darà la risposta corretta, promette Giovanni, Beatrice potrà sanare la sua cecità come Anania sanò la
cecità di san Paolo che era stato accecato sulla via di Damasco. Risposta di Dante:
Io dissi: “Al suo piacere e tosto e tardo
vegna rimedio a li occhi, che fuor porte
quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo.
Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte.”
Dante afferma dunque di avere dentro di sé un fuoco che lo fa ardere continuamente. E già
questo è prezioso: Dante non è insensibile, indifferente, freddo; al contrario la sua vita è bruciata da
un fuoco che arde dentro di lui, inestinguibile. Questo fuoco gli è entrato dentro attraverso gli occhi
quando con i suoi occhi egli ha visto Beatrice. La bellezza di lei ha segnato il poeta e ha prodotto
dentro di lui la ferita di un desiderio che non si estingue. Ma qual è questo desiderio? Desiderio di
Beatrice? del suo corpo attraente? No: inizio e fine di questo movimento che è il desiderio bruciante
di Dante è “lo ben che fa contenta questa corte”, il bene che produce felicità eterna e completa nella
corte celeste, cioè Dio stesso e Dio solo. Questa affermazione è chiara; più oscure sono le altre
parole: “Alfa e O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte.” Qui le spiegazioni
sono due: Dio è l’inizio è la fine di tutto quanto l’Amore – pensato come maestro interiore –
m’insegna (mi legge; la lectio era la forma normale dell’insegnamento universitario). E cioè:
l’Amore non insegna altro che Dio. L’Amore può insegnare la natura perché la natura è bella e
amabile; può insegnare le creature perché anch’esse sono belle e amabili. Ma in ogni modo
l’insegnamento dell’Amore ha sempre come contenuto primo e ultimo Dio stesso. Pensate a san
Francesco e al suo Cantico delle Creature che in realtà è cantico a Dio. O pensate a san Bonaventura
per il quale le diverse creature costituiscono una scala che, percorsa correttamente, fa salire l’uomo
3
fino a Dio stesso: Itinerarium mentis in Deum1. Una seconda parafrasi è possibile: Dio è principio e
fine di tutta la sacra scrittura che insegna a Dante (mi legge) l’Amore. Anche qui possiamo riferirci
a sant’Agostino e al suo de Doctrina Christiana dove viene esposta una teoria completa
sull’interpretazione delle Scritture e si afferma chiaramente che il contenuto di tutte le Scritture non
è altro che l’amore di Dio: “Di tutte le idee esposte…l’idea capitale è comprendere che la pienezza
e il fine della legge, come di tutte le divine scritture, è l’amore: l’amore dell’Essere, di cui
dobbiamo gioire (fruendum est) e dell’essere che può gioirne con noi.” (xxxv,39) Le due letture
sono evidentemente diverse: nella prima è l’Amore che insegna Dio, nella seconda sono le Scritture
che insegnano l’Amore. Ma per quanto ci interessa abbiamo un’affermazione di fondo precisa e
chiara: l’Amore di cui stiamo parlando, l’amore di carità, ha la sua origine in Dio e tende
ultimamente a Dio. Anche quando si rivolge alle creature – e deve rivolgersi anche alle creature –
parte da Dio, è quindi partecipazione dell’amore originario e creativo di Dio; e tende a Dio, porta
quindi a percepire le creature come indicazione verso Dio.
Seconda domanda. La risposta di Dante è perfetta, ma è ancora a un livello troppo elevato e
generale. Giovanni chiede al poeta di far passare il suo pensiero attraverso un vaglio più fine in
modo che la chiarezza sia maggiore. La domanda precisa, dunque, è: “chi drizzò l’arco tuo a tal
bersaglio?” chi ha fatto sì che il tuo desiderio si innalzasse così tanto? Dio sta per definizione al di
là di ogni idea dell’uomo; come è possibile, allora, che il desiderio dell’uomo tenda realmente a
Dio? Dante risponde che due sono le vie attraverso cui il desiderio si innalza fino a Dio: la ragione
(i filosofici argomenti) e l’autorità che scende dal Paradiso, da Dio (la rivelazione). Ragione e fede,
insieme, imprimono nell’animo dell’uomo l’Amore di Dio, gli danno questa forma in modo che
l’animo umano non si accontenti di meno. È interessante questa formula, soprattutto per coloro che
ritengono il medioevo un’epoca di latenza della ragione. È vero il contrario: il medioevo lancia la
ragione nell’esplorazione della totalità dell’essere. È piuttosto la nostra cultura che sembra colpita
da scotosi, per cui ha delle zone nere che evita di esplorare il qualsiasi modo.
Argomento filosofico: ogni bene, quando viene percepito come bene, comincia ad attirare il
desiderio dell’uomo e quindi accende il fuoco dell’amore dentro di lui. E, naturalmente, quanto più
grande è il bene, tanto più intenso il fuoco e tanto più forte il desiderio. Ma allora è inevitabile
affermare che il termine ultimo del desiderio e dell’amore (di ogni desiderio e di ogni moto di
amore) è Dio stesso. Infatti Dio supera infinitamente in bontà tutte le creature, tanto che ogni altro
1
Le creature irrazionali sono vestigio, le creature intellettuali sono immagine e quelle deiformi sono somiglianza della
Trinità. Per raggiungere la meta della sua esistenza l’uomo deve salire attraverso la scala costituita dalle diverse
creature. Il mondo è pieno di segni analogici della Trinità: bisogna decifrare questi segni per nutrire lo spirito: “Chi non
è illuminato dagli splendori così grandi delle cose create, è cieco; chi non è svegliato da tanti clamori, è sordo; chi da
tutte queste cose non è mosso a lodare Dio, è muto; chi da indizi così evidenti non rivolge la mente al primo principio, è
stolto.” (Itin.)
4
bene presente nel mondo non è che un lume suscitato dalla luce che è Dio. È allora inevitabile che
ogni mente che sappia cogliere questa verità si rivolga sopra tutto a Dio e cerchi proprio in lui il
compimento del suo desiderio. La verità (cioè la percezione chiara che ogni bene non è che
partecipazione del bene infinito che è Dio) indirizza il desiderio dell’uomo verso la sua meta vera,
cioè verso Dio stesso. Ma in che modo, per quali sentieri Dante ha raggiunto la conoscenza di
questa verità? Perché non si può pensare che la percezione di Dio come valore supremo e
perfezione del bene, la percezione delle creature come partecipi del bene che è Dio, che tutto questo
appaia alla mente dell’uomo come evidente. Chi dunque ha aiutato Dante a formarsi questa
convinzione della verità? Aggiunge Dante: “colui che mi dimostra il primo amore / di tutte le
sustanze sempiterne.” Si tratta, dicono i commentatori, probabilmente di Aristotele che nel Liber de
Causis a lui attribuito presenta Dio come desiderio di tutte le creature spirituali. Siamo dunque nel
campo della filosofia e la filosofia ha disteso davanti a Dante come un tappeto su cui camminare
con facilità: la conoscenza dell’amore di Dio.
Ma accanto ad Aristotele Dante colloca altre fonti della sua conoscenza. Nel cap. 33 del
libro dell’Esodo Mosè, incaricato di guidare Israele verso la terra promessa, si rivolge a Dio
chiedendogli di essergli accanto in modo da potere compiere un’opera che appare superiore alle sue
sole forze. Mosè chiede a Dio: “mostrami la tua gloria.” E Dio gli risponde: “Io ti mostrerò ogni
bene e invocherò nel nome del Signore davanti a te; avrò misericordia di chi vorrò e sarò clemente
verso chi mi piacerà di esserlo.” (così la traduzione della Volgata; il testo ebraico dice: io farò
passare tutta la mia bontà davanti a te.) Dunque Dio, che sta per mostrarsi a Mosè, si presenta come
‘ogne valore’ e cioè: ogni bene. Come a dire che ogni bene reale o possibile ha in Dio il suo
compimento e la sua pienezza. Chi desidera un qualunque bene, se cerca con attenzione dentro al
suo desiderio, può vedere che questo lo conduce verso la pienezza del bene e cioè verso Dio stesso.
Terzo maestro che fa comprendere a Dante Dio come bene assoluto è Giovanni stesso e lo fa
“incominciando / l’alto preconio che grida l’arcano / di qui là giù sovra ogne altro bando.” Il
mistero di Dio che risplende con chiarezza nel Paradiso è stato gridato, manifestato giù nel mondo
soprattutto dall’evangelista Giovanni attraverso la sua opera che appare un annuncio
straordinariamente elevato che si pone al di sopra di ogni altro insegnamento (ogni altro bando).
Probabilmente Dante allude al vangelo di Giovanni e al solennissimo prologo del vangelo. Tutta la
tradizione vede Giovanni nel simbolo dell’aquila che, dotata di vista acutissima, si leva nel cielo
altissimo e nel prologo del Vangelo il culmine della sua rivelazione. Qui si dice che tutto quanto è
stato fatto è stato fatto attraverso il Verbo di Dio; che in questo Verbo è la Vita e che la Vita è la
luce degli uomini. Non esiste dunque nulla che non tragga il suo valore da Dio creatore attraverso il
suo Verbo e non esiste vita autentica per gli uomini se non in Dio.
5
Dunque l’intelligenza umana (Aristotele) e le autorità della rivelazione (Mosè, Giovanni)
concordano nel manifestare Dio come valore supremo dal quale trae valore ogni altra creatura;
istruito da queste luci, l’amore supremo di Dante si rivolge verso Dio spontaneamente. Ma
L’esaminatore continua; vuole che Dante completi il discorso e dica se sente altre forze che lo
attraggono verso Dio (se senti altre corde / tirarti verso lui), che dica ancora meglio (che tu suone)
con quanti stimoli l’amore di Dio lo sollecita (con quanti denti questo amor ti morde). Dante
comprende perfettamente l’intenzione di Giovanni, dove Giovanni vuole guidare la sua riflessione e
ricomincia: “Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
ché l’essere del mondo e l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’io viva,
e quel che spera ogni fedel com’io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
e del diritto m’han posto alla riva.
Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
De l’ortolano etterno am’io cotanto
Quanto da lui a lor di bene è porto.”
Dunque Dante ha sperimentato una vera conversione nell’esperienza dell’amore. Si è trovato
nel grande e pericoloso mare dell’amor torto e cioè dell’amore deviato, rivolto verso un obiettivo
falso2; da questo mare è stato salvato ed è stato deposto invece sulla riva dell’amore diritto e cioè
dell’amore retto, orientato verso il giusto obiettivo. Questa conversione non è stata una decisione
autonoma di Dante, non è effetto della sua virtù, ma piuttosto è il prodotto di diverse grazie che,
come denti affilati, hanno prodotto in lui morsi così vivi e profondi da spingerlo a rivolgere il cuore
verso Dio. Ricordiamo il testo famoso delle Confessioni dove sant’Agostino si rivolge a Dio
dicendo: “Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te; et inquietum est cor nostrum,
donec requiescat in te.” (Conf I,i,1) C’è un’inquietudine che abita il cuore umano e non lo lascia
tranquillo; attraverso questa inquietudine Dio suscita il desiderio della lode di Dio, dell’amore per
Dio. Dante enumera le realtà che lo portano a cercare e amare Dio.
La prima via è quella dell’essere del mondo e dell’essere dell’uomo. Il mondo, a motivo
della sua contingenza (è questo e può essere quello; è ma potrebbe anche non essere) rimanda
all’Essere necessario come condizione per la sua esistenza, cogliere la contingenza del mondo
2
Possiamo qui richiamare ancora la dottrina agostiniana dell’ordo amoris: DC xxvii,28
6
significa nello stesso tempo cogliere la verità e la diversità di Dio. Nella stessa linea sta la
considerazione dell’essere umano come essere finito ma aperto all’infinito; questa apertura, quando
viene riconosciuta, diventa invito a guardare a Dio e a riconoscerlo come traguardo e meta suprema
della vita. Insomma, la considerazione della causalità efficiente e quella della causalità finale
applicate al mondo e all’uomo aprono alla considerazione di Dio. Se il mondo viene riconosciuto
come ‘non tutto’, se l’uomo viene riconosciuto come desiderio che va oltre se stesso, nel mondo e
nell’uomo è possibile cogliere un indirizzo a Dio.
A questo s’aggiunge la considerazione della “morte ch’el sostenne perch’io viva” e cioè la
considerazione della redenzione come rivelazione di amore. Qui i riferimenti biblici potrebbero
essere tantissimi. Da Paolo che esclama: “Mi ha amato e ha donato se stesso per me”, a Giovanni
che dice: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo figlio Unigenito perchè chiunque crede in
Lui non muoia ma abbia la vita eterna.” La redenzione è anzitutto opera di amore e rivelazione di
amore. Qui, in modo particolarmente forte dovrebbero applicarsi le parole che Dante mette sulla
bocca di Francesca: “Amor ch’a nullo amato amar perdona.” La rivelazione dell’amore di Cristo,
una volta che viene percepita come tale nella fede suscita necessariamente una risposta di amore. Ed
è quello che il poeta ha sperimentato come un dente che si è impresso profondamente nella carne
del suo spirito per non dargli tregua e costringerlo ad aprirsi all’amore di Dio.
L’amore di carità è poi suscitato in Dante dalla speranza che è comune a tutti i credenti (e
quel che spera ogni fedel com’io). Questa speranza è quella della vita eterna e quindi della
comunione con Dio. Non è speranza che si rivolga a cose del mondo per quanto elevate; è speranza
che si acquieta in Dio solo e suscita il desiderio, l’amore per Lui.
Infine Dante dice che il suo amore non si rivolge solo a Dio; si rivolge anche alle sue
creature ma in modo ordinato, secondo un corretto ordo amoris. È qual è la misura corretta di
questo amore? È la misura di bene che Dio ha posto in ciascuna di esse. Amarle di meno
significherebbe negare il bene della creazione, il bene che Dio stesso ha posto; amarle di più
significherebbe collocarle là dove Dio non le ha collocate e quindi in un contesto falso, creato dal
desiderio dell’uomo e non dalla verità dell’azione creatrice di Dio.
Siamo così al termine della riflessione dantesca e potremmo raccogliere gli elementi sparsi
nel cammino. Carità è amare Dio sopra ogni cosa come origine e termine di tutto il bene che esiste;
sono oggetto di amore anche le creature, ciascuna per quella misura di bene che Dio ha posto in
esse. Ma proprio perché il bene delle creature viene da Dio e questo bene è limitato, l’amore delle
creature, quando è ben ordinato, si apre alla ricerca e all’amore di Dio. Le creature diventano allora
una scala attraverso la quale l’uomo sale verso Dio stesso. Questa visione del mondo può essere
chiarita attraverso la riflessione razionale – ed è quello che è avvenuto attraverso la filosofia di
7
Aristotele e di Platone. Ma può essere raggiunta attraverso la rivelazione divina che concorda con la
ragione: Mosè, Giovanni ci permettono di cogliere in Dio la somma di tutti i beni e la radice della
verità del mondo. E soprattutto la redenzione apre il cuore dell’uomo a ricevere con gratitudine
l’amore di Dio e a rispondere a questo amore con la sua dedizione. “Amerai il Signore Dio tuo con
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze: questo è il primo e il massimo comandamento.”
Permettetemi di terminare con le parole stupende di sant’Agostino: “Sero te amavi pulcritudo tam
antiqua et tam nova, sero te amavi. Et ecce intus eras, et ego foris, et ibi te quaerebam, et in ista
formosa quae fecisti, deformis irruebam. Mecum eras et tecum non eram. Ea me tenebant longe a
te, quae si in te non essent, non essent. Vocasti et clamasti, et rupisti surditatem meam. Coruscasti,
splenduisti, et fugasti caecitatem meam. Fragrasti, et duxi spiritum, et anhelo tibi. Gustavi et
esurio, et sitio. Tetigisti me, et exarsi in pacem tuam.” (Conf. X,xxvii,1)