Viviamo in un paese socialmente e culturalmente

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Viviamo in un paese socialmente e culturalmente
Viviamo in un paese socialmente e culturalmente devastato in cui i lavoratori sono sempre più
poveri e privi di diritti, e 7 milioni dei quali – giovani, donne, migranti, di ogni categoria e
professione – vivono di impieghi temporanei, flessibili e provvisori a salari bassissimi. Un paese
dove la precarietà è la condizione di vita e di lavoro più diffusa. Dove la legge Bossi-Fini
istituzionalizza i campi di concentramento per gli immigrati. Dove la guerra è giusta e la continua
menzogna e ogni tipo di macelleria sociale la fanno da padroni.
Un paese ostaggio di mafiosi, riciclatori, faccendieri, fascisti vecchi e nuovi, intenti a depredare,
privatizzare, saccheggiare e sfruttare vite ed emozioni, instaurando nella società paura, diffidenza,
ricatto, egoismo. Intenti, soprattutto, a realizzare il “Programma di rinascita democratica”, della
loggia massonica P2, attraverso la sistematica delegittimazione e il controllo della magistratura, e il
monopolio degli organi d’informazione.
Un paese in cui le aberrazioni di un governo/regime sono sotto gli occhi di un cieco; ma dove la
sinistra non si oppone, perché nella forsennata corsa al consenso moderato, sfiancatasi nell’opera
d’immolazione dei lavoratori agli interessi del capitale, ha perso ogni identità storica e culturale:
dall’intellettuale organico al ragioniere dall’orizzonte fisso sugli indici di borsa. Un paese dove con
intolleranza inquisitoriale, un clero oscurantista e integralista ingerisce pesantemente nella vita
civile: moderno ritorno al basso medioevo desideroso di un futuro scontro di civiltà.
In questo paese proteso verso il baratro economico e sociale, civile e culturale, voi uomini di
cultura, scrittori, pittori, cineasti, giornalisti, intellettuali tutte e tutti dove cazzo siete? Perché questo
silenzio? Perché con l’unica eccezione di Dario Fo – meschinamente vista solo attraverso il buco
dell’urna – nessuno ascolta le ragioni dei conflitti che agitano l’Italia e Milano? Il processo di Calas
era forse affare di Voltaire? La condanna di Dreyfus affare di Zola? L’amministrazione del Congo
affare di Gide?
Intellettuali? Ma se non sentite il fiato della bestia sul collo. Drogati di classifiche di vendita e
consumo immediato. Depositari dello stile e dell’arte pura di un mondo visto attraverso il buco della
serratura. Siete la neve che cade e addomestica.
Perché le vostre parole non gridano, non negano, non offrono più elementi che facciano appello al
coraggio e alla dignità del vivere? Perché nessuna istanza di libertà sociale, politica e culturale?
Nessuna critica a questa normalità autoritaria? Nessuna resistenza al pensiero unico? Nessuna
sincerità d’espressione né aderenza alle cose?
Perché nessuna denuncia della devastante mutazione antropologica in corso? Perché nessun
antagonismo filosofico? Nessuna radicale innovazione culturale? Perché questa riproduzione di
posizioni pavide e qualunquiste sui lavoratori della Scala, i tranvieri di Milano, gli studenti che
occupano e i precari che si ribellano?
Perche assistiamo al deprimente spettacolo di uomini di cultura senza amore né passione, aggrappati
alla carriera universitaria, alle pubblicazioni, ai rendiconto della Siae? Affaccendati a frequentare
salotti o autoesiliati negli archivi fra antichi codici e manoscritti. Oracoli della debolezza, sacerdoti
zen del centro commerciale, che disertano la realtà, abiurando ogni mandato sociale importante o
urgente che sia, e non pronunciano mai una parola mordace, ma solamente frasette stagnanti e
narrazioni superficiali. “Se siete così ipocriti, che come l’ipocrisia vi avrà ucciso, sarete all’Inferno
e vi crederete in Paradiso.”
Ma forse oggi l’intellettuale non esiste più. Le trasformazioni tecnologiche e culturali lo rendono
obsoleto, come hanno reso obsolete le tute blu e i colletti bianchi? Forse l’intellettuale è morto per
dar vita all’intellettuale collettivo? Forse l’elitismo culturale cede il passo all’accesso di massa
all’informazione e alla conoscenza? Forse l’intelligenza dei molti può straripare e travolgere
l’arroganza dei pochi, fondata sul dominio spietato e su privilegi indifendibili?
In un simile frangente arte e letteratura devono tornare a esprimere chiarezza. Navigare le acque
agitate del sociale e non galleggiare placidamente nella Jacuzzi della seconda casa. Ogni parola ha
degli echi. Ogni silenzio anche. L’intellettuale non appartiene forse al suo tempo? Non deve viverne
la cultura, le abitudini e le trasgressioni, le concezioni consolidate e le mutazioni nascoste, la
protesta sotterranea e i conflitti aperti? “Il poeta crea per il pubblico e, in primo luogo per il suo
popolo e la sua epoca, i quali hanno diritto di chiedere che un’opera d’arte sia comprensibile al
popolo e vicina ad esso.”
La cultura fa paura, e in questo silenzio dell’abisso l’ignoranza scava il suo tornaconto.
Il nostro libero pensiero ha il torto di non schierararsi dalla parte dei mercanti, ma non vogliamo
perdere niente del nostro tempo. Abbiamo una sola vita e vogliamo viverla da vivi.
E Milano? “Milano era lontana, su oltre il Po, vicino alla Svizzera… Gli intellettuali lassù sparivano
dietro a un grosso nome, e diventavano funzionari di un’industria, tecnici della pubblicità, delle
Humans Relations, dell’editoria, del giornalismo. Cessavano di esistere come clan, come
corporazione, come grande famiglia. Non erano più il sale della terra, i cani da guardia della libertà,
i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima. No, non c’era altra possibilità: bisognava lavorare
da noi, in provincia, nella nostra città.”