Francesca Terzoni - Casa della Cultura
Transcript
Francesca Terzoni - Casa della Cultura
16 marzo 2011 65° della Casa della Cultura Un’inchiesta tra intellettuali milanesi e italiani sulla crisi del rapporto tra cultura e politica L’INTERVENTO DI FRANCESCA TERZONI Mi piacerebbe affrontare l’invito di Ferruccio Capelli a celebrare il 65° della Casa della Cultura discutendo insieme di politica e cultura, mettendo in luce in particolare due aspetti: il punto di vista della mia generazione e l’attuale “cultura” politica in tema di immigrazione. Ho 38 anni, la mia coscienza politica è figlia di un fritto misto di culture familiari e del periodo (tardo) in cui si è formata. I miei genitori hanno bandito la politica in famiglia sino al raggiungimento della maggiore età dei figli. Compiuti 18 anni, ho saputo che papà votava DC e mamma PCI, ma anche che avrei avuto la possibilità di formare liberamente la mia coscienza critica e il mio personale pensiero politico. Che dai miei genitori, in altre parole, non sarebbe arrivato alcun condizionamento, cosa per cui sarò sempre loro grata. Sono nata nel 1972 e ho iniziato a guardare il mondo negli anni ’80, il peggiore periodo, dopo l’attuale, di decadenza culturale per i giovani italiani. Erano anni di vuoto ideale, erano anni appena successivi ai grandi movimenti da poco sopiti, erano anni in cui le ideologie non lambivano neanche da lontano noi ragazzi disinteressati, con gli occhi persi in un Moncler o in un paio di Timberland. Il muro di Berlino è caduto quando frequentavo la seconda liceo, non conosco la “guerra fredda” se non per averne letto. Ma soprattutto sono cresciuta senza maturare alcuna ideologia, senza influenza di quelle del passato e con la convinzione che il mondo stia cambiando troppo velocemente per riflettere con la tara di una preconvinzione. Cosa che io preferisco chiamare preconcetto e che valuto negativamente in ogni occasione in cui un problema dell’oggi vorrebbe essere affrontato con concezioni ideologiche – a parer mio – superate. Questa precisazione sull’ideologia è necessaria perché in politica, oggi, ideologia e cultura sono inversamente proporzionali. Assistiamo ad un ritorno bieco dell’ideologia e, infatti, la cultura è sparita. Non è la cultura che si è allontanata dalla politica, è quest’ultima che sembra disdegnare la cultura, forse perché ai fini della politica elettorale sembra pagare più l’ideologia. L’assenza di cultura apre spazi ai populismi, mira a valersi dell’ignoranza della propria ignoranza. Ecco allora che l’ignoranza della popolazione e, in particolare delle ultime generazioni, è perseguita ferocemente con tagli alla scuola, all’università, alla ricerca, allo spettacolo. E il tentativo, ormai chiaro, di allontanare i cittadini dalla cultura. E’ un processo che prosegue crescendo di potenza da tempo. Vent’anni di anti-cultura hanno prodotto effetti devastanti: basta guardare quanto oggi è considerato ammissibile o addirittura legittimo. Ce l’ha dimostrato Mao mezzo secolo fa con la “Rivoluzione culturale” cinese, che distruggere la cultura di un paese millenario è possibile. La mattanza dei professori e degli intellettuali, le scuole e i libri incendiati, aiutarono il controllo del paese per averlo ridotto all’ignoranza, alla perdita dei punti di riferimento ideali del passato e del senso critico. D’altronde, la cultura è nemica dei populismi. E c’è di più. Le due ore di lezione di religione cattolica a fronte di una sola ora di inglese (ciò che permette, nella moderna società globalizzata, di essere in comunicazione col mondo), evocano un antico oscurantismo in “difesa delle tradizioni”. Ancora una volta qualcosa che sostituisce la cultura: la difesa delle cosiddette tradizioni, che con un po’ di malizia fa venire alla mente una famosa frase di Samuel Johnson: “Il falso patriottismo è sempre l’ultimo rifugio dei mascalzoni”. Vorrei aggiungere qualche riflessione sul cambiamento del ‘senso’ della cultura che sta avvenendo oggi insieme al venire delle generazioni nuove e ai grandi cambiamenti mondiali del presente. Le intelligenze, storicamente, hanno approfondito lo studio del passato per meglio interpretare il presente. Per comprendere questo cambiamento radicale bisogna innanzitutto avere consapevolezza dei grandi cambiamenti che stanno mutando le prospettive future. I cardini del pensiero e molti punti di riferimento del passato stanno saltando. Grandi epidemie e focolai di infezioni resistenti agli antibiotici, cambiamenti climatici, riscaldamento globale e aumento delle temperature che cambiano la geografia che abbiamo studiato e che producono grandi migrazioni di ‘profughi climatici’, fallimento della finanza mondiale e dei modelli economici sui quali è cresciuto lo sviluppo, divaricazione spaventosa della ricchezza, rivolte magre dove si chiede pane, libertà e cultura, flussi migratori che muovono dalle aree povere del pianeta, superamento ideale delle frontiere, modelli mediatici e di comunicazione nuovi e potenti, crescita economica e benessere che appaiono, sempre più, veri e propri miraggi. Le nuove generazioni percepiscono tutto ciò molto più naturalmente, direi quasi fisiologicamente, e si sentono spaesate, private di un futuro che sembrava già scritto: per la prima volta devono volgere le proprie riflessioni verso il futuro. Per questo è oggi, forse, necessario rivolgere lo sguardo al presente, al momento attuale, così diverso dal passato e dalle certezze e dai punti di riferimento che poteva portare. Per queste ragioni, diventa necessario spostare la propria attenzione e il proprio studio al presente, per trovare la strada che eviti al futuro di essere così peggio del passato, come oggi sembrerebbe accadere. La stessa cultura, nel passaggio generazionale, si inserisce in quadro diverso, dettato dalla necessità di riprogettare il domani. Di renderlo sostenibile sia sul piano dei diritti (umani e del lavoro in particolare) che su quello economico. I giovani, tra i quali è sbagliato includere i trenta-quarantenni che giovani non sono più, percepiscono la privazione del cammino atteso e stanno reagendo: negli ultimi anni, infatti, si sono fatti sentire e hanno imboccato la via di forme aggregative di protesta e di proposta molto forti. Credo che per completare il ragionamento, a ‘cultura’ e ‘politica’ debbano essere aggiunte altre due parole: ‘coraggio’ e ‘capacità di prospettiva’, due qualità che i giovani stanno mostrando e che, oggi più che mai, dovrebbero contagiare anche le generazioni precedenti, in uno sforzo di generosità che accompagni e sostenga, come farebbe un genitore, il ricambio naturale tra generazioni, che oggi pare bloccato, e la formazione di una nuova cultura. Servirà molto coraggio per accettare il cambiamento, così radicale e già in atto, dei punti di riferimento culturali storici. Non dobbiamo abbandonare la cultura tradizionale, ma se non ci apriamo alla diversità di oggi, la nostra sarà una battaglia persa in partenza, perché significherebbe non riuscire a comunicare – già oggi – con i responsabili del domani, i nostri figli, appunto. Anche perché, volenti o nolenti, la ‘nuova cultura’ tornerà ad avvicinare e influenzare la politica. E aggiungerei per fortuna, perché anche a sinistra si fa poca cultura, si tende a mangiarsi gli uni con gli altri e non si producono contenuti apprezzabili (perché mal comunicati, troppo lunghi, poco chiari e spesso contrastanti). Sembra che siamo tornati alla politica figurativa, dove l’iconografia ha sostituito il pensiero. Si comunica per immagini ‘pubblicitarie,’ di facile impatto mediatico ma di bassissimo livello sul piano dell’approfondimento (anzi, forse proprio col fine di impedire che i destinatari – apprenditori passivi – si pongano gli interrogativi che smonterebbero quelle immagini). Penso alla cartina dell’Italia con tracciati di future autostrade che non verranno mai realizzate, alla bilancia della giustizia che oggi sarebbe sbilanciata, ad accostamenti temerari tra terrorismo e magistratura. E anche all’esposizione del ‘corpo’ del capo (ferito, pelato, coi capelli, con la bandana, col colbacco insieme a Putin, baciamano ai dittatori, ecc.). Ma penso anche all’opposizione politica che insegue la maggioranza nella personalizzazione dei partiti, visibile a partire dai manifesti e dai simboli elettorali rappresentativi dei ‘capi’ partito. La recente politica iconografica, evoca metodi di gestione a cui ci stiamo, purtroppo abituando. Familismi, nepotismi, cooptazione: tutti nemici del merito e della cultura. *** La “cultura” politica in tema d’immigrazione è tutta così: strumentale, scollata dalla realtà e dalla conoscenza (figuriamoci, quindi, dall’approfondimento) delle circostanze reali. E’ la non cultura, dovuta soprattutto alla mancanza di conoscenza del tema. Non si raccontano le storie degli uomini e delle donne, non si distingue alcuna differenza così che oltre cinque milioni di persone, di provenienze diversissime, con storie di partenza e di arrivo lontane tra loro, sono trattate a mezzo della sola parola “immigrazione” come un unico fascio. Sempre negativo. L’immigrazione è un problema. Mai una risorsa. Gli immigrati devono tornare a casa loro, anche quando sono nati qui e la loro casa è in Italia. Gli immigrati non sono più persone, ma ospiti mal graditi che rubano le nostre case, il nostro lavoro, le nostre risorse pubbliche. Niente di più scorretto, a voler esaminare i dati di realtà, eppure … Le parole pesano come macigni e l’approccio culturale di massa è viziato da campagne di comunicazione mediatica feroci. Nuovi termini si sono aggiunti via via, negli ultimi anni, con l’aumentare della presenza migrante nel Paese. Siamo stati abituati a collegare all’immigrazione un nuovo concetto, quello di “deriva securitaria”, promosso dalla politica (soprattutto) di destra che ha fatto e fa della paura il motore, altrimenti spompato, della propria azione priva di etica e di lungimiranza. Ed è così successo che a forza di parlare di sicurezza in modo ossessivo, e a forza di equiparare “immigrato” e “criminale”, si è di fatto impedito il formarsi di una cultura comune basata sulla conoscenza esatta della situazione, frenando ogni spinta politica al cambiamento e all’inversione di tendenza culturale verso l’apertura e l’inclusione. In altre parole, gli immigrati sono diventati, loro malgrado, strumento di lotta politica negativa: sono un cancro da combattere, figlio di pregiudizi etero-indotti e stilizzato in stereotipi sbagliati che, quasi mai, hanno attinenza con la realtà. E’ la vittoria del pregiudizio sul buon senso, la supremazia di ciò che ci viene raccontato sulla percezione che ognuno di noi apprende direttamente, senza il filtro di giornali e telegiornali. Il prevalere del filtro, appunto, sull’occhio nudo. Delle parole altrui rispetto alle proprie. L’immigrazione nel nostro Paese è un fenomeno strutturale, è in crescita costante da anni e non si fermerà. Essere contrari all’immigrazione, oggi, equivale a vivere in Alaska ed essere contro la neve (Faulkner). Le ragioni sono molteplici: il naturale migrare delle popolazioni dalle regioni povere del pianeta verso i paesi più ricchi nei quali potrebbero migliorare le proprie condizioni di vita e coltivare la speranza di dare ai propri figli maggiori possibilità di crescita intellettuale e opportunità di lavoro. Oggi, in Italia, risiedono oltre 5,3 milioni di immigrati regolari, ma l’integrazione di italiani e stranieri e la formazione di una nuova (multi)cultura sono ancora lontani. Non basta essere, come ora, un paese multietnico. Serve che si compia il passaggio verso un paese realmente multiculturale. Integrazione, infatti, non deve significare “assimilazione” del diverso alla nostra cultura, ma mescolanza, arricchimento delle reciproche diversità e, quindi, apertura verso l’arricchimento della cultura italiana grazie ai nuovi apporti delle diverse culture oggi presenti sul territorio. Il rischio di un percorso diverso dall’integrazione porterebbe la società del futuro ad essere un arcipelago di isole separate, più facilmente portatrici di conflitti sociali: gruppi e clan uniti dall’identità di origine o dalla propria confessione religiosa. Per raggiungere, invece, l’obiettivo di una civile e armoniosa convivenza, dobbiamo iniziare – da subito – a progettare la cittadinanza coesa del futuro. E poiché questa prospettiva ci vede necessariamente “mescolati”, dobbiamo costruire questo processo insieme, italiani e stranieri, comportandoci già oggi come se fossimo il futuro che abbiamo in mente. La non-cultura in tema di immigrazione è talvolta propagata, con gravissima irresponsabilità, anche dai dirigenti mondiali. Ad esempio, David Cameron, premier britannico e leader dei conservatori, ad una conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera tenuta il 5 febbraio 2011, ha dichiarato fallita la politica del multiculturalismo: “E’ tempo di voltare pagina sulle politiche fallite del paese (…).Sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l’una dall’altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società alla quale le minoranze etniche o religiose sentissero di voler appartenere (…)”. Cameron commette, non si può credere inconsapevolmente, un errore micidiale di valutazione e di comunicazione politica. La “Cool Britannia” nella quale tutte le etnie, tutte le razze e le religioni del mondo potessero convivere con gli Inglesi, con pari diritti, senza rinunciare ai propri valori e tradizioni, non ha reso l’Inghilterra un paese multiculturale, ma l’ha fermato al piano della multietnicità, cosa ben diversa e foriera delle difficoltà di cui oggi si lamenta Cameron. La strada vincente, invece, è proprio quella che conduce un paese multietnico ad essere un paese multiculturale. Ce lo dimostra l’esperienza statunitense del ‘melting pot’, il calderone dove le razze e le culture tradizionali si fondono producendo, appunto, una nuova cultura: quella americana. Il melting pot, infatti, è un fenomeno complesso e, forse, lento a realizzarsi proprio perché capace di produrre risultati definitivi. Consiste nell’amalgama riuscita di diversissime culture che non contrasta con il senso individuale di appartenenza al Paese. Questa cultura arricchita e mescolata per l’arrivo di flussi migratori di diversa provenienza, sarà la nostra cultura del futuro. Quella che finalmente non proporrà distinzioni tra le persone se non per le loro azioni individuali. Francesca Terzoni