Segue PDF - Transeuropa Edizioni
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4 Kultur MERCOLEDÌ 20 GIUGNO 2007 Letterario InternazionaI lel Premio Isola d’Elba Raffaello Brignetti 2007 è stato assegnato a Bijan Zarmandili per aver con “L’estate è crudele” costruito un ponte tra Roma e Teheran, tra la cultura e l’atmosfera dell’Italia anni ’70 e quella del crepuscolo dello scià e dell’ascesa della più crudele delle teocrazie,per aver nella crudeltà del racconto quasi dimenticata l’idea di nazionalità trascendendo in quella di romanzo di letteratura, di amore e di morte, portatore di A ZARMANDILI IL PREMIO ELBA 2007 valori universali. Per aver costruito un ponte tra cronaca e storia riuscendo a distaccarsi dall’una e dall’altra per raccontare un amore senza speranze né familiare né storicopolitico; per aver raccontato la sua odissea di persiano errante che tanto sentiva la propria patria,con pagine di autentica identificazione letteraria e mai autobiografica celebrativa.Per essersi sottratto ad un facile per quanto perfetto lessico giornalistico e aver scritto lui,persiano in Italia,in una prosa splendida e ricca di classici riferimenti, per aver suggellato un libro senza speranza con le memorabili pagine dell’epilogo dove resta la speranza tutta intrisa di involontarie reminiscenze foscoliane legate alla continua prosa delle lapidi di Maryame Parviz. Per aver infine avuto il coraggio di attraversare il ponte della propria identità “farsi” portandosi dietro quella inquietudi- Capri espiatori e persecutori Nell’antologia post-tondelliana la qualità dell’aria è elettrica e animale DI LUCA MASTRANTONIO Q uasi vent’anni fa usciva la mitica antologia di Pier Vittorio Tondeli, «Under 25, belli e perversi» che, svecchiando la letteratura con innesti vitalistici e pop, ne segnava anche una direzione che via via ha preso con l’appiattire la dimensione letteraria. Dal criterio anagrafico (sarà per questo che Transeuropa farà presto una divertente antologia over 65, è la vita che si allunga), si è passati a quello cultural-antropologico, a tratti alimentare, dei «Cannibali», un’operazione editoriale così riuscita da tenere ancora banco al punto che un suo ex, Niccolò Ammaniti, con un libro pulpeggiante, vincerà il prossimo premio strega. Ci sono state antologie territoriali, come «Disertori», sempre Einaudi, incentrata su autori del sud e su un certo modo di raccontarlo; infine ebbe grande successo l’antologia eco-letteraria «La qualità dell’aria» (qualità che per Prodi oggi è pessima), firmata Minimumfax, che sanciva un decennio di nuova letteratura italiana vissuta allegramente tra carverismo e nuovi autori Usa. L’altra antologica di Minimum, «Noi siamo qui», curata da Mario Desiati, un po’ più minimal, è una mappa dove al posto di dirti «Tu sei qui», ti segnala dove sono gli altri, cosa fanno, che mondo raccontano. Con ammiccamenti glam. Quasi a chiudere il cerchio, ma a rilanciare la sfida delle antologie, che hanno un loro ruolo biologicamente fertile, è uscita in questi giorni, proprio da Transeuropa, segnandone il ritorno, una nuova antologia: «I persecutori», ispirata alla filosofia di René Girard, che analizza la natura trans-mimetica dell’essere umano, per cui l’uomo diventa uomo desiderando ciò che l’«altro» desidera. Un concetto che anima il saggio «Menzogna romantica e verità romanzesca», come ricordano Giulio Milani e Marco Rovelli nella prefazione, dove indicano anche i racconti-manifesto dell’antologia e definiscono, giustamente, l’antologia un «concept album» (ieri è stata presentata a Roma, alla Feltrinelli di via del Babuino). Perché appunto a tesi, quella secondo cui la società umana si fonda sul sacrificio di capri espiatori, sorta di termovalorizzatori delle tensioni conflittuali, ispirate alla rivalità inappagata e al desiderio inesaudito. Gli autori antologizzati raccontano di persecutori e perseguitati, in un perverso gioco di specchi taglienti perché spesso rotti. ci (Davide Bregola), feste commemorative di un marine morto in Iraq (Carlo D’Amicis), gli amori omosessuali conflittuali e gai (Giulio Milani), la morte resocontata di Anna Politkovskaja e il racconto dei fatti immediatamente successivi (Helena Janeczek, unica donna presente), una folla di persone amputate che fanno da statue viventi alla memoria della guerra nell’ex Jugoslavia, diventata meta turistica (Giorgio Vasta). Bassorilievo letterario. Se ne ricava un bassorilievo, tridimensionale, un’installazione d’arte narrativa, in totem letterario costruito con i materiali di scarto e gli scatti di reni della nostra società. Un’opera corale più che un «romanzo collettivo», come sostengono invece i curatori, con un eccesso di monoteismo narrativo. È il politeismo la forza di questa raccolta che, certo, ha il pregio - o il difetto - di dover essere preferibilmente letta dal primo racconto all’ultimo. Ma il valore originario de «I persecutori» è nell’assenza di un criterio che non sia letterario - semmai venato da una visione poetica, filosofica - e dunque nessun massimo comune denominatore anagrafico, gli scrittori vanno dai venticinque ai quarantacinque; nessun principio comune territoriale, nessuna ferrea logica di appartenenza (se non un certo nucleo gravitazionale come il sito di Nazion Indiana cui molti di loro fanno parte e che pure nell’ossimoro della nazione indiana ben racchiude/dischiude; non è un caso, comunque, che la nuova collana di Transeuropa è «Narratori delle riserve»). C’è un filo rosso, questo sì, che lega i racconti tra loro e soprattutto li lega alla realtà molto più di quanto non avessero fatto altre antologie più “formali”, dove si raccolgono gli scrittori di gialli, di noir, le voci del sud ecc... Dove se pure c’era una tesi, essa era il manifesto di un movimento. O una realtà in movimento, ovvero una sintesi, come è avvenuto con la «Qualità dell’aria». Ecco, mutuando il felice titolo di quell’antologia, anche Milani e Rovelli hanno misurato la qualità dell’aria. Ed è elettrica, animalescamente elettrica, come quella che anima uomini e animali, dalla rana riversa e vivisezionata a fini scientifici, all’artroscopia letteraria da effettuare nel cuore della società. Colpevoli e capri espiatori. Ci sono i teppisti che hanno picchiato un handicappato a Torino e poi hanno mandato il video su Youtube, nel racconto di Marco Biondillo, «Sono io il colpevole» (che abbiamo scelto di pubblicare sul «Riformista»); c’è il racconto di Rachid, scritto da Valerio Evangelisti, e della sua deportazione, in aereo, a Guantanamo (lui è un carnefice solo potenziale, ma una vittima reale), che fa pendant con il racconto di Francesco Forlani, che racconta i pensieri di odio/amore per l’occidente nella mente di un uomo bomba che sta per disumanizzarsi in bomba. Tra le figure più classiche di «persecuzione», attiva e passiva, c’è un triangolo amoroso, nel racconto di Christian Raimo, che s’incunea nella temperie dei funerali di Falcone e Borsellino. Nella galleria di perseguitati e persecutori, che ha una struttura fluviale, con racconti primari e secondari, come gli affluenti, e una foce a delta, ci sono rumeni dal futuro segnato con un viaggio di solo ritorno dall’Italia (Marco Rovelli), la vita sulla spiaggia come proiezione d’inappagate pulsioni erotiche (Francesco Longo), e la visione di corpi mutilati, al mare. Vengono ritratti riti messiani- In Italia esiste da tempo una realtà ne che si aggira silenziosa e pervasiva tra le case del quartiere Monirrieh accompagnando la bellissima Zara del primo romanzo nei suoi tradimenti e Myriam e Parviz negli inferi di sogni politici infranti. In breve,“L’estate crudele” racconta di Parviz e Maryam, studenti iraniani e attivisti contro il regime dello scià, che si incontrano e si innamorano nell’estate romana del 1960.Un viaggio avventuroso attra- verso la Germania, la Turchia e il Kurdistan riporta Parviz a casa,ma per lungo tempo Maryam,tornata a sua volta in Iran,non saprà più nulla di lui. Il ritrovarsi dei due segna l’inizio di una stagione in cui il loro amore,reso più saldo dalla fede politica,sembra non soccombere all’odio e alla ferocia. La nascita del figlio accende una speranza nel finale tragico,in un’estate iraniana tanto crudele quanto quella italiana era stata dolce e carica di promesse. RACCONTO. «SONO IO IL COLPEVOLE», DALLA NUOVA RACCOLTA DI TRANSEUROPA Kultur DI GIANNI BIONDILLO Il gioco dello schiaffo del soldato, una carezza patologica Un bullo si crede filantropo e fa l’apologia di se stesso Monologo interiore del teppista da scuola che scagiona le sue azioni in base a leggi non scritte e quelle fin troppo evidenti di una società ipermediatizzata che intima di apparire a tutti i costi, uscire dall’anonimato e rimuove, senza risolvere, gli impulsi più bassi Facile prendersela con me.Mi avete visto,lo so,sono proprio io quello che pigliava a schiaffi quel cazzo di handicappato. L’avete visto tutti, mica lo nego. Ero io che lo sfottevo, lo denigravo, lo umiliavo.Ero io che mi facevo bello agli occhi di quella stronza del primo banco, così annoiata che si faceva vento col quaderno mentre mi esibivo. Dunque sono io il colpevole.Troppo facile. E non sto qui a tirarvi fuori la mia infanzia infelice. Non ho avuto nessuna infanzia infelice, io. E non sto neppure qui a negare, a dire che non lo sapevo che mi stavano riprendendo col videofonino, anche se così posso sembrarvi proprio un imbecille. Lo sapevo benissimo, sapevo che poi avrebbero fatto girare il video in rete. Non capisco, dov’è la stranezza? Perché volete crocifiggermi? Voi che esprimete tutto il vostro sdegno, dov’eravate quel giorno e il giorno prima e quello prima ancora? Non siete mai andati a scuola, non avete mai avuto sedici anni? Lo dovevo fare, lo capite? In fondo la vera vittima sono io. Sono io quello che si è esposto, io quello che ha fatto quello che doveva essere fatto.Quello che è sempre stato fatto. Non voglio dirvi che sono un eroe, o forse sì, a ripensarci. In fondo cosa sono gli eroi se non degli incoscienti che si buttano a corpo morto nella battaglia, indifesi, indifendibili? Esponevo il mio ghigno ridicolo, i miei brufoli patetici. Esponevo allo sguardo del mondo la mia figura da capetto da osteria,le mie spalle leggermente cadenti,il mio petto gonfio dalla birra, dal cibo precotto, dalla vita d’ufficio. Ho adempiuto alla giovinezza,pensateci,ho eseguito i comandi dei miei ormoni, ho creduto alla mia potenza muscolare, al mio istinto.Che ho fatto di male? In fondo gli ho fatto un piacere,non gliel’ho mai detto ma m’è persino simpatico. Ogni schiaffo, in fondo, e come una carezza, e stato come farlo sentire importante, gli ho dato retta, un ruolo nel mondo, un senso. Dovrebbe dirmi grazie,chi se lo cagava altrimenti? Il mio compagno all’ultimo banco, per caso? Sempre piegato sui suoi libri? Ma dai, ma siamo seri. Chi lo voleva qui? Ho chiesto io di farlo venire in classe? Dovrebbe ringraziarmi per le mie attenzioni. Ora è persino famoso, tutti gli vogliono bene, gli ho assicurato un futuro,a lui,vittima designata,destinato ad un oscuro nulla di fatto, ad una vita incolore, gli ho donato la prima pagina. Ora può pontificare con il suo italiano da cerebrolesi,può atteggiarsi da moralizzatore, può perdonarmi, persino. Chi ne esce fuori a pezzi sono io.Io che nulla di male ho fatto se non togliermi la scorza del benpensante democratico e dare libero sfogo al mostro oscuro che e dentro tutti noi.Io.La vittima. Io perché mi debbano sospendere per un intero anno da scuola, giuro,mica l’ho capito.Quello spastico di merda manco l’ho toccato. Non lo toccherei mai, neppure con una canna da pesca, figuriamoci pestarlo. A prescindere che era tutto uno scherzo e poi come al solito hanno montato un caso che neppure c’era. Cos’è, non avete mai giocato allo schiaffo del soldato quand’eravate ragazzi? Non avete mai fatto un rito d’iniziazione nel vostro collegio universitario? Ma, al di là di questo, io, insisto, l’avessi picchiato,lo potrei anche capire,ma ve lo giuro, non ho mai picchiato nessuno io, perché dovrei cominciare proprio ora? Semplicemente ero li quando e iniziata tutta la manfrina.Non era la prima volta,non sarà l’ultima.Ero lì,c’era chi rideva,chi si faceva i cazzi suoi.Ero lì e mi sono detto: dai, tira fuori il telefonino riprendi tutto l’ambaradan.Che c’è di male? Era una cosa così,per ridere.Mica gli ho detto di ucciderlo,di affogarlo,di buttarlo dalla finestra,come la fate lunga.Se non era una cosa divertente mica poi me la scaricavo e la facevo girare per internet! Cazzo, si vede di tutto su internet, e proprio col mio filmino innocente dovevate prendervela? Cosa ho fatto,insomma,cosa? Perché, allora, non ve la prendete con quei fotografi che vanno in giro per il mondo, quelli che vanno dove c’è una guerra, e appena scoppia una bomba, al posto di piegarsi ad aiutare le vittime, stanno lì a fotografarli come dei corvi,come degli avvoltoi necrofili? Adesso, non per dire, ma dovreste persino ringraziarmi, non sto esagerando. Cosa avreste mai saputo di questa storia se non l’avessi filmata io? Quando mai avreste potuto riempire pagine e pagine di quotidiani, per settimane, se io non vi avessi prodotto la notizia, fresca fresca, come un uovo di giornata, per nulla camuffata, colta sul fatto, come un frutto maturo, senza additivi aggiunti? Sono il vostro giornalista free lance, il vostro eroe, portatore di verità, non embedded. Dovreste assumermi in un quotidiano, altro che trattarmi come un miserabile colpevole di chissà quale nefandezza. Oppure mandare il mio video a Paperissima. Che poi a me non è mai piaciuto.Io lo so che fa tutto questo per me,per farsi bello,per farmi vedere che lui è un maschio vero.Magari ci può pure scappare una sveltina,un po’ di sesso fatto nei ba- bello.Ho trovato il mio nuovo fidanzato. Non ci voglio entrare in questa storia da sfigati,ho altri progetti nella vita,io. Fate finta che non c’ero proprio. Cioè, ero lì, lo so anch’io, ma è come se non ci fossi stato. Mi facevo i cazzi miei, insomma. Me l’ha sempre detto mio padre: fatti i cazzi tuoi e vivrai a lungo. E poi a me quello stronzo che fa il bullo con tutti non l’ho mai sopportato. Si permette pure di fare della battute pesanti alla prof di matematica. Che coglione! E lei che arrossisce tutta, come una stronzetta.Gli va persino bene che lo sospendono, tanto a fine anno lo bocciavano di certo.Non c’è volta che non se la prenda con quelli della prima B,o che butti l’acqua dalla finestra sui passanti, o, ancora, che faccia lo sgambetto alle ragazze di seconda C.Che imbecille. Ma io mi faccio i cazzi miei.Lui fa il capetto del quartierino e io faccio finta di trovarlo divertente. Ogni tanto applaudo, ma la maggior parte delle volte me ne sto sui miei libri. Lui va in giro a dire che si scopa quella del primo banco e mi dice che sono un segaiolo.Ma io non ho problemi a dirlo. Si, mi tiro le seghe, mi scarico i film porno da internet, oppure mi guardo le cassette di mio padre,di nascosto.E allora? Perché,lui le pippe non se le fa? Se le fanno tutti,qui.Pero poi mi metto sotto e studio,lui invece che fa? Io so che l’istituto lo finisco, so che l’anno prossimo vado all’università. E lui dove va? Bravo, bravo, fatti filmare da quello bianchi” sono anco“ I racolletti il simbolo di quel ceto medio inseguito dai politici e dai partiti di mezzo mondo, alla ricerca di consenso? Non è male, in questo senso, rileggere “White Collars”, un classico della sociologia contemporanea di Charles Wright Mills, pubblicato per la prima volta il 20 giugno 1951 dalla Oxford University Press, in piena America maccartista. Saggio impietoso e profetico sulla “middle class”ame- scemo col telefonino, fai il gallo avanti a quella stronza che se la tira come se ce l’avesse solo lei,prendi a calci quello spastico bavoso.A me non me ne frega un cazzo.I compiti di matematica li ho finiti, quelli di diritto pure. Ora attacco con storia. Mi faccio i cazzi miei e vivo più a lungo.E alla distanza che si vedono i vincitori,caro mio:tu e la tua vittima quotidiana avete già perso.Io sono il futuro. Non chiedetemelo.Vi prego,non fatelo,potrei deludervi. Lo so, vorreste da me una parola matura,un grande insegnamento,un atto nobile. Vorreste commuovervi della mia benevolenza,della mia infantile pulizia morale. Non lo fate, potrebbe stupirvi la mia risposta. Non è che lo sto perdonando,figuriamoci,non so neppure cos’è il perdono, non so neanche cosa significhi. È che ha ragione lui. Non chiedetemelo, come con insistenza si chiede ai parenti della vittima fino a sfinirli, fino a farli apparire antipatici agli occhi degli spettatori televisivi che attendono come assetati l’acqua fresca dell’odio esagitato o del giusto perdono mediatico. Non ponetemi la domanda, potrei infrangere le vostre aspettative. Non chiedetemelo, vi prego, che questa,solo questa,sarebbe la mia risposta: ha ragione, ha ragione, ha ragione. Sono io il colpevole. Sono io quello difforme,sono io che porto in giro lo scandalo del mio corpo sbagliato, della mia voce stridula, della mia mente bacata,del mio essere oltraggiosamente minoritario. Cosa ha fatto lui se non mettermi al mio posto, restituirmi il ruolo esatto che mi spetta,nel cerchio comunitario? Che diritto avevo io di guardare le gambe di quella del primo banco, di scocciare petulante il mio compagno col telefonino, di interrompere lo studio di quello all’ultima fila? Come potrebbero loro andare avanti nella loro vita, come potrebbero crescere, sposarsi, fare figli, se non mi avessero davanti agli occhi,come un pericolo scampato, come un’imprecazione divina,come il mostro da trafiggere con la spada dal giovane eroe, mentre la pulzella l’attende,palpitante? Questa è la mia colpa,che non ho scelto, che non ho voluto, che non ha scelto nessuno di noi,che nessuno di noi ha voluto.Questo era il mio ruolo e l’ho compiuto così come doveva essere. Ho accettato i colpi inferti,ho subito il martirio. E ad ogni umiliazione vedevo compiersi il destino di tutti loro. Li ho visti crescere, maturare, porsi nel cerchio. Li ho visti uomini,donne.Adulti.Pronti per un mondo che li farà a pezzi, brano a brano. Io sono colpevole perché non gliel’ho detto. Sono io il colpevole, perché ho sempre saputo che nessuno uscirà vivo di qui se non piegato, con la faccia nella polvere. Io,che c’ero abituato,so come si striscia. Loro moriranno nel loro vomito perfetto e immondo. Tratto dall’antologia «I persecutori». A.A.V.V., edita da Transeuropa DI VITTORIO CASTELNUOVO Lewis Porter, tradotto da Minimum Fax col titolo Blue Trane. Mentre tutta quell’infuocata stagione della musica nera è descritta da Ekkehard Jost, del quale L’Epos ha pubblicato Free Jazz. i retroscena del così detto White Al- Ma la segnalazione più importante ribum dei Beatles. Il secondo è I Beatles guarda un’operazione italiana. Parliain India, edito da e/o, reportage d’epo- mo di Amiri Baraka.Ritratto dell’artista ca di Lewis Lapham incentrato sul in nero: una raccolta, curata da Franco viaggio in Oriente del più celebre com- Minganti e Giorgio Rimondi per i tipi plesso della storia. Mentre Stampa Al- di Bacchilega, di quello che una volta ternativa un po’ a sorpresa ha mandato era conosciuto come LeRoi Jones e che in libreria la biografia,scritta da Patrick qui ripropone, a più di quarant’anni dal Humphries, di Nick Drake; cantautore suo classico Il popolo del blues - che bravo quanto sfortunato, assurto nel Shake ha dopo ristampato - alcuni sagtempo a una dimensione di gi e poesie sugli uomini del autentico culto. jazz e su loro messaggio ar Sempre Stampa Altertistico e politico. In Italia nativa è responsabile di un Nell’attenta scena ediun filone bel saggio dedicato al tromtoriale c’è spazio anche per i bettista Miles Davis, intitotesti legati ai linguaggi musiimportante lato Lo sciamano elettrico e cali più avanzati. Come diè quello del jazz mostra lo stimolante cartegscritto da Gianfranco Salvatore. Nel nostro paese le gio tra Pierre Boulez e John pubblicazioni legate al jazz Cage,pubblicato da Archinhanno sempre occupato un certo spa- to col titolo Corrispondenza e docuzio, vantando una tradizione di tutto ri- menti. E l’affascinante Millesuoni, stamspetto. Come dimostra l’avvincente pato da Cronopio; dove è indagato il The house that Trane Buil; dove il gior- rapporto sotterraneo tra la filosofia di nalista Ashley Kahn narra la storia del- Gilles Deleuze e Félix Guattari con la l’etichetta Impulse, affermatasi soprat- musica elettronica; e di come la nuova tutto grazie alle incisioni di John Col- dimensione elaborata dal loro pensiero trane. Il grande sassofonista è oggetto sia stata mano a mano integrata nella di uno studio approfondito da parte di pratica della produzione musicale. Boom di biografie angloamericane e libri punk nuano a essere i miti dell’area angloamericana - meglio se un po’ maledetti come Syd Barrett e Lou Reed, pure se Reed oggi è un po’ più dritto e un po’ meno maledetto - e l’urlo di rivolta del punk; che resta, a quasi trent’anni dallo spegnimento degli ultimi fuochi, l’ultima chance avuta dalla musica giovanile per intervenire sulle rapidissime mutazioni della società contemporanea, con un impatto maggiore di quello prodotto successivamente dall’offensiva rap. Un’ulteriore riflessione sugli avamposti della cultura giovanile è stata al centro di due libri: Americana punk hard core di Steven Blush,un’avvincente storia tribale del punk americano con un riferimento mirato alla scena hardcore degli anni Ottanta, edita dalla piccola ma agguerrita Shake; e Postpunk 1978/1984 di Simon Reynolds, pubblicato da Isbn, che approfondisce piuttosto la conoscenza dei movimenti alternativi maturati in Inghilterra e negli Usa a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.Invece la dimensione romantico/decadente ha trovato riscontro in tre testi. Il primo è Revolution, pubblicato da Il Saggiatore, dove David Quantick svela gni della scuola,perché no! Certo,non è come i tronisti che vedo in televisione, ma in fondo bisogna sapersi accontentare, questo passa il convento. Una scopata,va bene.Ma che si metta lì a fare il bulletto per conquistarmi e davvero così palloso. Ma che me ne frega a me che scrivi delle svastiche con la penna sulla fronte di quel mongoloide.Sai che roba, credi di impressionarmi così? Aggiornati, non siete mica due cervi in calore. E poi tu l’impalcato delle corna ce l’hai pure,l’altro,lo spastico,ha solo quella faccia da pirla, non c’è nulla di glorioso in lui. Dio come non lo sopporto,lui,la sua voce sgraziata,le puzzette che fa mentre c’è lezione,con la prof che lo giustifica sempre, che ci dice di avere pazienza. Se ne andasse in una scuola per ritardati e non venisse qui a impestarci l’aria. Che senso aveva prenderlo a schiaffi? Che noia,che palle,che nausea.Ma se lo scorda che me lo riporto in bagno a quel coglione,lui e i suoi brufoli da adolescente inquieto.C’è quello del secondo banco, in quinta, che mi fila da un po’. Suo padre è pure un dentista. Ciaociao, FOTO DI GRUPPO BIBLIOMUSICA. MA SI È PERSO LO SPIRITO DI FRONTIERA importante, e in qualche modo inattesa, rispetto al livello medio della nostra offerta culturale. Ci riferiamo all’editoria musicale, che a partire dagli anni ’70 ha trovato una propria collocazione; e a Mario Perniola un altro su Bataille. differenza di altri settori della comuniQuesto spirito di frontiera è andato cazione è in grado di sostenere il con- perduto con gli anni. Non solo dall’edifronto con quella dei paesi esteri. A fa- tore in questione, che qualche escursiore da apripista al fenomeno è stata l’Ar- ne oltre i territori già battuti continua a cana. Si dice che una volta, nel sacco a farla, ma da parte della nostra collettipelo di tanti ragazzi che andavano a cer- vità. Eppure le pubblicazioni dell’Arcacare la libertà in autobus fino a Istanbul na continuano a essere stimolanti, oltre e poi con mezzi di fortuna nel cuore del- a ribadire un fenomeno ricorrente del l’India, era facile trovarvi una copia di settore: un indispensabile legame col Beat hippie yippie: fondapassato, quando nel rock e mentale raccolta di inter- nei suoi dintorni ogni cosa venti che Fernanda Pivano era più bella e suggestiva, Negli anni ’70 aveva pubblicato nel ’72 per tenuto in piedi a tutti i costi. l’Arcana di Biffi conto della casa editrice, Com’è stato dimostrato dalcreata da Raimondo Biffi. la ultime iniziative, ognuna fece da Vi comparivano i primi apdi carattere biografico: un apripista passionati esperimenti itapaio di ristampe significatiliani di critica rock - realizve - quella del fondatore dei zati da Riccardo BertoncelPink Floyd Syd Barrett,intili attraverso raccolte come Un sogno tolata Crazy diamond e scritta da Mike americano o La musica pop - affiancati Watkinson e Pete Anderson; e quella a titoli di Paul Bowles, Jack Kerouac, dell’icona della scena newyorkese Lou Hunter Thompson, Timothy Leary, Al- Reed,intitolata Transformer e curata da len Ginsberg, Andrea Valcarenghi, Lea Victor Bockris - più una novità assoluta, Vergine,Gillo Dorfles,Gianni Simonet- la storia del gruppo punk Ramones firti. Beniamino Placido introduceva un mata da Jim Bessman. Le tre pubblicavolume su John Reed, Franco Quadri e zioni ribadiscono come due dei princiAntonio Negri un paio su Jerry Rubin, pali filoni dell’editoria musicale conti- Kultur MERCOLEDÌ 20 GIUGNO 2007 ricana e sul suo sistema di valori. «I colletti bianchi» - scrive Mills «sono entrati silenziosamente nella modernità. Se hanno avuto una storia, essa è priva di eventi, se hanno interessi comuni, non sono tali da farne una classe omogenea, se avranno un futuro, non sarà certo opera loro. All’interno il gruppo è atomizzato, diviso.All’esterno sono costretti a dipendere da forze più grandi di loro». EST-ETICHE. ASSISTENZIALISMO CULTURALE MEMORIA Mentre all’inizio del secolo XX circa i quattro quinti della popolazione occupata erano composti da imprenditori indipendenti, negli anni Quaranta solo un quinto degli occupati faceva parte di questa categoria. Il colore del colletto segnalava il tipo di mansione e il contesto lavorativo; la frazione di uno stipendio invece che un semplice salario segnalava un rapporto di lavoro più stabile e garantito,accompagna- DI ALBERTO ABRUZZESE to da elevate aspettative di mobilità. Le principali categorie di colletti bianchi erano dirigenti,professionisti stipendiati, addetti alle vendite e infine impiegati d’ufficio. Ma Wright Mills non si è limitato a documentare e classificare. Fedele al canone dell’«immaginazione sociologica», l’autore si inoltra al di là dei numeri e degli anda-menti fattuali e fornisce un affresco originale della “mentalità” del nuovo ceto medio 5 americano, della sua esilità esistenziale prima ancora che morale. In luce postmoderna, l’analisi di Mills sulla subalternità di una fascia esclusa dai veri processi decisionali, è una grande chiave di lettura non solo del declino dell’attuale media borghesia americana, ma anche della crescente sfiducia politica, nell’intera società contemporanea, di una classe, stretta tra impoverimento e spersonalizzazione. Giovanna Gabrielli FILM. FACTORY E MAJOR DI MICHELE ANSELMI Le cinematografiche sorti regressive La nuova Fandango di Procacci? Le stagioni di Bertolucci sono antiche. Ma anche Perniola sbaglia sull’attualità Produzioni di lotta e di governo Degli intellettuali si è potuto dire di tutto e non Era la fabbrica-tipo di audaci di rado si è detto apertamente della loro miseria. Eppure,anche quando messi alla berlina per il loro spocchioso corporativismo, raramente avremmo potuto negare loro una qualche dote di intelligenza o quantomeno astuzia argomentativa. Credo proprio che ci si debba ricredere anche su questo. Lo dimostra il fatto che per tutti questi ultimi trentacinque anni, ogni istituzione o campo culturale,posto di fronte alla crisi della nostra società civile e politica, non abbia saputo trovare altro nemico che quella “cattiva maestra” che sarebbe la tv (diabolica quanto perniciosa invenzione della incongrua coppia Popper-Bosetti). Mi si dirà che pecco di protagonismo, ma mi sento direttamente coinvolto nella recente sollevazione che gli autori cinematografici hanno sferrato contro la miseria della politica per lesa maestà nei confronti della cultura di qualità, tornando di nuovo sull’unica cosa che questa compatta clientela delle culture di governo ha saputo e sa dire: che lo Stato ci salvi dal degrado del mondo ad opera dei televisionari (dico io, tanto per ricalcare la dizione cinematografari).Già,mi sento di dovere dire la mia - costretto dall’accurato silenzio di chi magari qualcosa potrebbe pronunciare di suo a risarcimento del mio passato da militante - quando il pur ottimo Anselmi,sberleffando un poco le retoriche insurrezioniste dei registi,mi ricorda tuttavia che tra gli anni Settanta e Ottanta nessuno o quasi si fece avanti a darmi una mano.A schierarsi dalla parte di chi come me aveva aperto una guerra senza quartiere contro le ideologie estetico-progressiste del cinema. In quegli anni,infatti,ebbe luogo una posizione non dico compiuta ma almeno matura e interessante per chi avesse voluto affrontare seriamente il significato dei media da un punto di vista sociale e quindi davvero competente in merito alla società civile e alle politiche più adatte a governarla o,meglio ancora,ad essere da lei governata. Si sollevarono invece potenti reazioni e altrettanto potenti evasioni.Ignoranza,stupidità e corporativismo fecero scudo;gli intelligenti e capaci preferirono non schierarsi assumendo o posizioni di riguardo nella televisione (forse fecero bene,furono astuti come le colombe, si diceva allora); i più trasgressivi e post-moderni preferirono occupare lo spazio di una alternativa istituzionalizzata, tra le pieghe del sistema, con il suo mercato del lavoro, limitato ma garantito.Se volete dei nomi esemplari,lascio a voi dove collocare un Angelo Guglielmi o un Enrico Ghezzi, che almeno sono “uomini d’onore”. Per quanto riguarda Bernardo Bertolucci, penso che il suo intervento sia comunque qualcosa di diverso dalla tradizione politico-culturale dei registi militanti come Citto Maselli o istituzionali come Ettore Scola, “brava gente” per la quale, facendo io stesso parte della commedia all’italiana, provo la vecchia amicizia derivante da decenni passati a dialogare, prima, e a ignorarci, poi.Bernardo Bertolucci parla in nome di una antica stagione di poeti, penso che creda in quello che dice, il suo cinema è lo specchio di una frattura tra arte e società che - a seconda di dove va l’ago della bilancia,dà risultati “belli”o “stridenti”. Tuttavia la questione più grave sta nel fatto che quanto emerge da questo ritorno ai tempi di cui loro (i cineasti antitelevisivi) hanno tanta nostalgia - ed io certamente no,in questo Anselmi ha chiuso alla grande la sua garbata risposta a Ovosodo - è certamente un inutile e un poco ridicolo chiacchierio, ma corrisponde perfettamente a un nodo irrisolto nei quartieri più alti della cultura,ai gruppi più blasonati di intellettuali.Quelli che non si contendono il pubblico di massa ma i valori guida del mondo. Mi perdonerà Mario Perniola se prendo spunto da un suo recente articolo sulla Bellezza ovvero sull’Estetica, apparso - accanto a Franco Rella - nelle pagine della Repubblica. Ci sono casi ancora più significativi, massimamente quando ad esempio Claudio Magris parla di politica, ma Perniola è autore di un saggio Contro la comunicazione che lo espone più di tutti gli altri.E Franco Rella,dal canto suo,ha da sempre un qualcosa in più di intuito teorico-critico, che gli fa cogliere un nodo della modernità in cui il suo amore per la grande letteratura precipita comunque in uno smarrimento del senso che lo distingue dagli altri ottimisti cantori delle magnifiche sorti progressive del Bello come Verità. Altrettanto lontano da ogni ingenuo estetismo conservatore - penso,per fare un esempio comunque non di seconda scelta, a uno Stefano Zecchi - è naturalmente Perniola,a mio avviso tra i più sensibili filosofi della contemporaneità. Vediamo dove allora il suo discorso a me pare incepparsi e rischiare di somigliare ai parolieri del cinema e alle idiozie dei politici,divisi tra i valori della cultura e le rendite elettorali della televisione. È con massima e per me davvero invidiabile chiarezza che Perniola espone la questione:l’estetica è stata una svolta della filosofia di fronte alla abnorme quantità di linguaggi espressivi che si andava accumulando a seguito dei processi di socializzazione del tempo moderno.Bene,è questa una ottima definizione dell’estetica anche dal mio punto di vista. Per me, tuttavia, ne definisce i limiti storici e politici. Infatti, Perniola è convinto dell’attualità dell’estetica, cioè crede che lo scopo di una estetica sia ancora quello di mettere ordine o quantomeno sapere distinguere ciò che di buono o di cattivo,di vero o di falso,di qualitativo o quantitativo c’è nei linguaggi in cui siamo - oggi ancor più del passato in cui l’estetica è nata in virtù della sua funzione risanatrice - sommersi (e in questo la televisione fa bene da metafora anche se di certo non è il solo agente di disgregazione, che per giunta non vuol dire sic et simpliciter di degradazione).E persino su questo si potrebbe concordare,o quantomeno su questo si potrebbe discutere (magari alla ricerca del che fare in un mondo che, disgregato a fronte di ogni canone,non può tuttavia pretendere di purificarsi soltanto grazie all’eliminazione dei corpi estranei che lo hanno invaso). Il problema su cui mi piacerebbe ascoltare Perniola è tuttavia davvero sostanziale:in nome di chi e per che cosa dovremmo operare una scelta e selezione? Conosciamo bene il chi e il che cosa di quando l’estetica si è manifestata (e anche sino a quando essa ha tollerato il suo sempre più violento confronto con mutamenti). Ma ora possiamo decidere in base a quello stesso soggetto storicosociale che inventò l’estetica a suo vantaggio oppure c’è in vista un qualche altro soggetto o soggettività o territorio da tenere presente? film di qualità, squisitamente da festival ma di solito poco fortunati al botteghino,insomma un marchio doc per cinefili.Tanto è vero che Medusa, in cambio di un redditizio Muccino (Gabriele) ogni tanto,finanziava tre titoli all’anno, mugugnando un po’ per via delle storie, ma ricevendone in cambio lustro e buona stampa. Qualche nome? Paravidino, Chiesa,Vicari, Crialese, Garrone, Tavarelli, soprattutto Sorrentino, poi asceso a ruolo di star. Quel contratto vantaggioso s’è esaurito, Muccino senior ha fatto carriera a Hollywood, sicché la Fandango di Domenico Procacci ha dovuto voluto - rimettere a fuoco la linea editoriale legandosi all’altro corno del cosiddetto duopolio cinematografico, ovvero Raicinema. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Senza mutarne lo spirito vagamente “antagonista”, di una sinistra tendenza no-global, l’intraprendente Procacci sta conducendo la sua Fandango, nata nel 1989 con una citazione dall’omonimo film di Kevin Reynolds,verso altri lidi. Diciamo una dimensione più popolare:cinema di matrice letteraria, meno sperimentale e più narrativo, rivolto a quel pubblico avvertito, non solo di nicchia, che per schematizzare un po’, divora Repubblica e adora Veltroni. Volendo, una Cattleya più yé-yé e meno ingessata. La strategia procede per colpi ben assestati, anche sul piano mediatico. Nanni Moretti divorzia dal socio di una vita Angelo Barbagallo? Eccolo subito ingaggiato da Procacci per interpretare (dirige il fidato Antonello Grimaldi) quel Caos calmo tratto dal romanzo di Sandro Veronesi. Poi ci sono Matteo Garrone al lavoro su Gomorra, dal vendutissimo libro-inchiesta sulla camorra di Roberto Saviano; Alessandro Baricco e Fabrizio Bentivoglio che debuttano alla regia,l’uno con il musicofilo-anglofono Lezione 21, l’altro col nostalgico-campano Lascia perdere Johnny;Carlo Mazzacurati che torna a indagare nel suo Nord-Est con La giusta distanza; perfino Christian De Sica prenotato per il suo primo ruolo drammatico, un imprenditore tessile di Prato malato di cancro, nella trasposizione di L’età dell’oro di Edoardo Nesi.Tre romanzi su cinque.E non è finita.È di ieri la notizia che Ferzan Ozpetek,altro autore legato alla scuderia Medusa, lascia la produttrice storica Tilde Corsi per girare con Procacci, su sceneggiatura di Sandro Petraglia,un film ispirato a Un giorno perfetto di Melania Mazzucco: storia nera, con atroce vendetta finale di un marito sulla moglie bellissima,apparentemente fuori dalle corde sentimentali del regista turco-italiano,o forse no. Visti i nomi in ballo, i festival più grossi stanno già prenotandosi, anche se la scommessa sembra rivolta al mercato vero, al pubblico dei grandi numeri.Perché,con l’eccezione di La terra di Rubini,gli ultimi film prodotti dalla Fandango non sono andati granché:Lavorare con lentezza di Chiesa,ad esempio, ha superato a stento 1 milione di euro,L’amico di famiglia di Sorrentino s’è fermato a 775 mila.Troppo poco, a quei prezzi. L’ambizione è di produrre cinema d’autore capace di sfondare al box-office il tetto dei quattro-cinque milioni di euro, come i film di Luchetti,Placido,Comencini,Amelio,Moretti. A proposito di Moretti. Proprio venerdì L’espresso ha sfotticchiato il venerato Nanni sul fronte della coerenza, rintracciando una sorta di «scandalo ideologico» nella disponibilità dell’attore ad assoggettarsi a quello che oggi viene chiamato product placement, insomma l’inserimento dei marchi pubblicitari nei film.La polemica è vagamente insensata.Protagonista di Caos calmo è il manager Pietro Paladini (appunto Moretti),il quale passa molte ore al giorno a bordo della sua auto,in attesa che la figlia esca da scuola. Beh, nel film Moretti guiderà una lussuosa Bmw Touring,leggerà spesso Il Sole 24 Ore e ogni tanto berrà al bar una birra Peroni. Dov’è lo scandalo? Non c’è. Infatti Procacci ha spiegato al Corriere della Sera: «Si fa un gran parlare di crisi del cinema, ma quando noi produttori usiamo il product placement,come prescrive e permette la nuova legge, ecco che ci danno addosso, addirittura senza aver visto il film». In effetti,il titolare di Fandango non ha torto. Con gli anni, oggi ne ha 47, non ha rinunciato a indossare le sue famose camicie bianche fuori dai jeans, conservando il tono sempre informale e i lunghi capelli sale e pepe fonte di qualche ironia; nel frattempo ha saputo tessere nuove alleanze e riposizionare l’azienda di fronte ai nuovi cimenti. Un autentico produttore di lotta e di governo.