L`anno nero del petrolio, in caduta libera (

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L`anno nero del petrolio, in caduta libera (
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L'anno nero del petrolio, in caduta libera (-60%), come nel 1985. Ma
per l'Italia è un bene o un male?
(Reuters)
La scorsa estate un barile di petrolio costava 115 dollari. Oggi siamo a 45. Questo clamoroso e
rapidissimo calo (-60%) sta rimescolando le carte nell’economia mondiale. Alcune società
statunitensi che avevano investito molto sulla produzione di shale oil (allo scopo di ridurre la
dipendenza degli Usa dal cartello dei Paesi produttori dell’Opec “guidato” dall’Arabia Saudita)
stanno chiudendo i battenti, di fronte all’insostenibilità di sostenere i margini con un prezzo del
petrolio molto più basso. Ripercussioni importanti anche per molti Paesi esportatori i cui governi
hanno impostato le spese di bilancio (deficit) contribilanciate da entrate dalla vendita dell’oro nero
su prezzi stimati ben più alti. In forte difficoltà, in particolare il Venezuela che ha impostato il
budget governativo basandosi su un prezzo del petrolio a 100 dollari, l’Iran (130), la Russia (105) e
così via.
L’Arabia Saudita, intanto, continua a mantenere un atteggiamento di ferro. Il ministro dell'energia
dell'Arabia Saudita, Ali Al-Naimi, ha dichiarato che «Riyadh» non ha alcuna intenzione di ridurre
la sua produzione. «Che il prezzo scenda a 20, 40, 50 o 60 dollari, non ha alcuna importanza».
Senza possibilità di repliche anche la dichiarazione del principe saudita Alwaleed bin Talal: «Sono
sicuro che non vedremo più prezzi a 100 dollari al barile».
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Per gran parte degli ultimi 40 anni, l'Arabia Saudita, prima nazione esportatrice di petrolio del
mondo, ha agito da «swing producer», cioè era in grado di influenzare i prezzi, tagliando o
aumentando la produzione, come ricorda Christophe Bernard, chief strategist di Vontobel. Che il
produttore con i più bassi costi di produzione assumesse questo ruolo era insolito e anche contrario
a ogni logica economica. Tutto ciò appartiene ormai al passato. A quanto pare, il Paese è ora
determinato a difendere a spada tratta la sua quota di mercato. Sul piano mondiale, l'attuale
eccedenza di offerta, stimata a 1,5-2 milioni di barili, si tradurrà in una riduzione degli investimenti
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Data Pubblicazione
14/01/2015
È chiaro che il braccio di ferro sul prezzo del petrolio è una questione geopolitica, una sorta di
guerra che vede come protagonista la materia prima che fa girare il mondo che, per forza di cose, è
anche il bene più speculato del pianeta. Quello che sta accadendo nell’ultimo anno, del resto,
ricorda in parte quanto accaduto nel 1985-1986 quando il petrolio crollo del 70% da 30 a 10 a
dollari al barile. Del resto, non è la prima volta che l’Arabia assume questo atteggiamento. Nel
1988, nel 1998 si comportò allo stesso modo, sempre per non perdere quote di mercato a favore dei
suoi concorrenti storici più importanti e minacciosi, Iraq o Iran. Per questo la caduta potrebbe
durare più a lungo. L'ultima volta, nel marzo del 1999, ci volle una minaccia di prezzi a 5 dollari
per riportare a maggiore saggezza sia Riad che gli altri membri Opec.
Dopo un prolungato periodo di debolezza dei prezzi del petrolio – tra il 1990 e il 2003 si attestavano
in media su 20 dollari Usa al barile – e di bassi investimenti nell'attività esplorativa, all'inizio del
secolo l'aumento della domanda della Cina e dei paesi emergenti ha fatto lievitare i prezzi a una
media di 90 dollari Usa tra il 2006 e 2014 . Il rialzo dei prezzi ha favorito gli investimenti
nell'esplorazione petrolifera e nelle tecnologie affini. Le attività offshore in Africa occidentale,
Brasile e nel Golfo del Messico, per esempio, hanno condotto a un incremento della produzione
non-Opec.
Ecco, questa è una piccola sintesi di quello che sta accadendo. Ma la domanda del momento è
probabilmente un’altra: il calo del prezzo del petrolio è solo un male (perché, derivante da un
eccesso di offerta sulla domanda, indica di riflesso la debolezza dell’economia globale, perché crea
uno scombussolimento geopolitico e perché spinge molti Paesi nella spirale della deflazione) o può
essere un bene? Difatti, per i cittadini la benzina costa ora molto meno e potrebbero esserci forti
risparmi anche sui prezzi dei tantissimi prodotti nella cui produzione c’entra direttamente o non il
petrolio. Non sarebbe questo un volano per i consumi? E poi, molti Paesi europei (Italia compresa)
non avrebbero un netto miglioramento della bilancia dei pagamenti con il forte risparmio sulla
bolletta energetica?
Si pensi ad esempio che il calo il calo del prezzo della benzina rappresenta per gli Stati Uniti
l’equivalente di un taglio annuale delle imposte pari a 150 miliardi di dollari. Mica briciole.
In sintesi, il calo del prezzo del petrolio darà una mano all’economia italiana? «Non credo che la
caduta del prezzo del petrolio sia in assoluto negativo per l'Italia e per i Paesi importatori e credo
non sia completamente corretto darne una valutazione guardando alla performance degli indici
borsistici, condizionati tra l'altro da importanti eventi in agenda nei prossimi giorni - spiega Laura
Tardino, strategist di Bnp Paribas ip -. Tuttavia, il peso di alcune società energetiche, per le quali il
calo del greggio sarà sicuramente un problema, è significativo su alcuni degli indici di riferimento
del nostro paese - a titolo di esempio, Eni da sola pesa circa il 14% sul Ftse Mib - e questo forse
lega parte della loro performance a quella del greggio. Nei prossimi mesi il significativo calo del
prezzo del petrolio dovrebbe dare una mano all'economia italiana. Sarà probabilmente un piccolo
aiuto se paragonato a quello che darà ad altre economie, meno vessate da pesanti accise e dalla
elevata disoccupazione».
«La discesa del prezzo del petrolio in realtà non reputo sia negativo per i paesi importatori, anzi li
favorisce. Il vero problema per l'Italia è che la caduta del prezzo dell'energia non è sufficiente a far
ripartire un sistema in deflazione; viceversa, proprio in conseguenza a questo andamento del
petrolio abbiamo privilegiato per esempio l'acquisto di titoli del settore dei consumi discrezionali a
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in aree ad alto costo come il Mare del Nord (dove viene estratto il Brent), nei giacimenti profondi al
largo delle coste brasiliane, nelle sabbie bituminose canadesi e anche nei progetti di shale oil e shale
gas negli Usa.
Secondo Riccardo Ambrosetti, presidente di Ambrosetti am Sim «per un Paese come l'Italia c'è un
effettivo vantaggio in termini di costi, sia alla produzione che al consumo. Tuttavia, in un contesto
quasi deflattivo come quello domestico attuale, la diminuzione di prezzo del petrolio solo in parte
può generare quel vantaggio che si avrebbe in fasi economiche espansive. Il rischio valutato da
molti commentatori è che anche questa discesa di prezzo vada a spingere il ciclo verso un percorso
di diminuzione prezzi associato a minori vendite conseguente riduzione margini aziendali, aumento
disoccupazione, diminuzione consumi, diminuzione ulteriore prezzi, nuovo aumento
disoccupazione».
Perché quindi anche le Borse dei Paesi importatori soffrono il calo del petrolio? «La caduta del
prezzo del petrolio non piace ai mercati finanziari per due motivi. In primo luogo, l'inflazione è già
pericolosamente bassa e vederla scendere ulteriormente non è una buona notizia; inoltre, la discesa
di petrolio ed altre materie prime viene interpretata come debolezza dell'economia mondiale argomenta Marco Piersimoni, senior portfolio manager di pictet asset management. Certamente, i
Paesi consumatori di petrolio, come l'Italia (sulla quale pesa il carico fiscale sui beni energetici), ne
trarranno beneficio a livello economico, ma i mercati finanziari hanno in questo momento una
lettura diversa. La turbolenza dei mercati è dovuta proprio al rischio che il calo dei prezzi delle
materie prime (inflazione headline) possa mutare in una spirale deflazionistica vera e propria sul
livello dei prezzi dei beni e delle attività finanziarie. Il meccanismo è quello delle aspettative: la
discesa dei prezzi si insinua nelle attese di consumatori ed imprese, che differiscono i propri piani di
spesa, dato il contesto di crescita economica globale non entusiasmante e di politica monetaria
oramai vicina al capolinea. Questo è il rischio che i mercati stanno prezzando, ma in ultima istanza
e con molti sobbalzi, a meno di cocenti delusioni di politica monetaria, pensiamo che prevarrà la
lettura positiva per i Paesi consumatori».
«Quando si tratta di valutare l'impatto sui mercati finanziari per ora crediamo che il calo dei prezzi
delle materie prime costituisca un fattore negativo anche al di là dei settori direttamente interessati sottolinea Luca Gianelle di Russell Investments -. La ragione di questo punto di vista dipende
dall'incertezza che circonda l'impatto di un grande movimento in un asset così importante: ci sono i
cosiddetti effetti a catena che i mercati non possono analizzare né prevedere. Questi vanno da rischi
geopolitici, rischi paese, rischi specifici delle impresa e dei rischi finanziari più in generale. Su
quest'ultimo, in particolare, non sappiamo se ci siano operatori che abbiano esposizioni a leva e
stiano subendo perdite importanti».
Per Francesco Previtera, responsabile equity research di Banca Akros Esn, prevalgono gli aspetti
congiunturali. «C'è un effetto sulle valute che rafforza il dollaro e c'è un effetto macro che fa
pensare ad una rischio di recessione in qunto a questi livelli paesi come la Cina dovrebbero iniziare
acquisti massicci. Il settore dell'Oil è forse il principale settore per investimenti e questo ha un
effetto sulla domanda a livello globale».
Costi e benefici per i Paesi importatori pressoché nulli per Claudia Segre, segretario Generale
Assiom Forex: «Un crollo del prezzo del petrolio, dimezzatosi in 6 mesi ai minimi del 2009, ha
colpito direttamente quei Paesi emergenti esportatori di petrolio che trainavano la crescita globale
con livelli di Pil ben distanti alla debole situazione europea. Di conseguenza la revisione dei piani di
sviluppo dell'industria petrolifera da un lato, le evidenti necessità di rivedere le strategie di
coperture finanziari ed il ridimensionamento dei portafogli delle principali case energetiche alle
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livello internazionale - spiega Gianluca Magazzini, specialista senior servizio consulenza portafogli
di Banca Federico del Vecchio -. Non abbiamo puntato sull'Italia per il fatto che questo risparmio
energetico, anche se favorevole, risulta marginale per un Paese che ha bisogno di grandi
cambiamenti per competere nell'economia globale».
Non c’è il rischio che il calo del petrolio inneschi la spirale deflazionistica anche su altri beni di
consumo?
«L'ipotesi di una deflazione globale mi pare al momento lontana dalla realtà . In Italia e nei paesi ad
elevata disoccupazione, come ricordavo sopra, c'è il rischio che il circolo innescato sia negativo
perché il risparmio energetico dei consumatori potrebbe non influenzare la loro domanda di beni e
servizi non sostenendo quindi il prezzo di quest'ultimi e non permettendo di evitare una spirale
disinflazionistica - aggiunte Tardino -. È importante dunque come più volte ripetuto in questi ultimi
anni che si proceda con riforme strutturali importanti che combattano la disoccupazione mentre nel
breve è auspicabile una politica monetaria ulteriormente espansiva. Nei paesi in cui la
disoccupazione è bassa (Stati Uniti, Regno Unito, Germania per esempio) questo rischio, a mio
giudizio, è invece molto basso ed in molti paesi emergenti l'inflazione è stabilmente lontana dallo
zero».
«Gli analisti da sempre considerano sia l'inflazione headline sia quella core. In questa fase l'headline
fa più notizia perchè sta andando negativa in Eurozona. Il tema della deflazione ha molta
importanza in economie molto indebitate, perchè il rischio di difficoltà nel mondo del credito
originato nel settore petrolifero (Russia, aziende oil negli Stati Uniti) è alto - spiega Claudio
Barberis , responsabile asset allocation di Monaeyfarm.com-. Nel medio periodo (prossimi 6/24
mesi) prevarranno gli effetti positivi su consumi e investimenti delle aziende. Il focus attuale degli
analisti sulla deflazione è però corretto, perchè il calo del prezzo del petrolio si aggiunge a una
tendenza disinflazionistica nel mercato delle case e del lavoro che ha radici lontane».
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La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
prese con una revisione drastica dei piani industriali contribuiscono ad una riconferma di un quadro
di decrescita globale così come configurato ieri dalla Banca Mondiale. Così i benefici per i Paesi
importatori non sono sufficienti a tradursi in una spinta al Pil pari a coprire quanto perso sula lato
dei Paesi produttori».