william landay - 10 righe dai libri

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william landay - 10 righe dai libri
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William Landay
Morte di uno sbirro
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Stefano Bortolussi
Dello stesso autore abbiamo già pubblicato:
In difesa di Jacob
Prima edizione: luglio 2012
Titolo originale: Mission Flats
© 2003 by William Landay
© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Rom tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
William Landay
Morte di uno sbirro
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Stefano Bortolussi
Questo romanzo è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore e, se reali, sono
utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o
scomparse è del tutto casuale.
Per Susan
Prologo
Sullo schermo, una donna è distesa su un materassino di
gomma, il volto al sole, le dita immerse nell’acqua. Il materassino è a forma di ciambella. Ruota pigramente su sé stesso. La
spiaggia è sulla sinistra dell’inquadratura. La donna è incinta; la camicia di madras che porta sopra il costume da bagno
non riesce a nascondere il ventre gonfio. Solleva la testa e
guarda in macchina, e la sua bocca forma le parole: «Smettila!
Spegni quell’affare! Guarda in che stato sono!» La cinepresa
trema, apparentemente per le risate. La donna alza gli occhi
al cielo e scuote il pugno nel gesto da cinema muto che esprime frustrazione. «Ciao, Ben» dice in silenzio all’obiettivo, poi
si unisce alla risata prima di riabbassare la testa sul materassino e galleggiare ancora un po’.
La donna è mia madre, e il bambino nel suo ventre sono
io. È l’inizio dell’estate del 1971. Sarei nato un mese dopo.
Il filmino superotto (durava due, tre minuti al massimo)
era una fra le cose più care a mia madre. Lo teneva in una scatola gialla della Kodak infilata sotto i reggiseni e le calze di seta nel primo cassetto del suo canterano, dove pensava che i la-
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dri non avrebbero mai guardato. Nella nostra cittadina non
c’erano molti ladri, e quei pochi non erano interessati a vecchi
filmini sgranati di donne incinte. Ma la mamma era convinta
del suo valore, e di tanto in tanto non resisteva alla tentazione
di infilare la mano in quel cassetto e cercare la scatola a tentoni, tanto per essere sicura. Quando pioveva, tirava fuori un
proiettore Bell & Howell che pesava una decina di chili e proiettava il filmino sulla parete del salotto. Si portava davanti al
muro, indicava il proprio ventre e annunciava, con le vestigia
di un accento bostoniano: «Eccoti lì, Ben! Eccoti lì!» Avolte diventava malinconica e lacrimosa. Nel corso degli anni, penso
che avremo rivisto quel filmino almeno un centinaio di volte.
Mi scorre ancora in testa, familiare, il mio personale filmato
alla Zapruder. Non so di preciso perché mia madre lo amasse tanto. Immagino che per lei documentasse una transizione, il momento di equilibrio fra la giovinezza e la maternità.
Ma a me non è mai piaciuto. C’è qualcosa che mi mette a disagio, in quel filmino. Mostra il mondo prima di me, il mondo senza di me, ed è un mondo completo. Non c’è ancora nulla di necessario o inevitabile riguardo alla mia creazione.
Nessuno mi ha incontrato, nessuno mi conosce. Io non esisto.
Una donna (non mia madre, ma la donna che diventerà mia
madre) sorride e mi chiama per nome, ma a cosa si sta rivolgendo? Mi sta aspettando, in ogni senso. Ma è un’aspettativa
fragile. Gli eventi si diramano, si dividono e si moltiplicano, e
lei e io potremmo non incontrarci mai. E che ne è di lei? Chi è
per me questa donna scomparsa? Di certo non mia madre,
niente di così reale. È soltanto un’idea, un pittogramma sulla
parete del salotto. È concepita da me.
Sono passati tredici mesi da quando mia madre è morta e
non mi sono mai preso la briga di cercare quella piccola bobina nel suo reliquiario giallo. Forse un giorno troverò sia il
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filmino sia il proiettore e guarderò di nuovo quelle immagini. E lei sarà lì. Giovane e ridente, viva e integra.
Suppongo che sia un punto come un altro da cui cominciare questa storia: con quella graziosa giovane donna incinta durante una calda giornata estiva sul lago. Non esiste mai
un inizio assoluto, per nessuna storia. C’è soltanto il momento in cui cominci a guardare.
Un altro momento, cinque anni e mezzo dopo. 1:29 del
mattino, 11 marzo 1977.
Un’auto di pattuglia della polizia di Boston procede lentamente per Washington Avenue in un quartiere chiamato Mission Flats. Le ruote scricchiolano sul fondo stradale: sabbia,
ghiaccio. Una ferrovia sopraelevata costeggia la strada su entrambi i lati. Luci al fosforo. L’auto della polizia si ferma di
fronte a un bar chiamato Kilmarnock Pub, una costruzione
con insegne al neon e ombre che si allungano davanti alla facciata.
A bordo dell’auto di pattuglia, un poliziotto (il suo nome
non ha importanza) usa il dorso del pugno per togliere la
condensa dal finestrino sinistro e osserva le insegne al neon.
GUINNESS, BASS, una generica promessa di DIVERTIMENTI. Sono
passati venti minuti da quando il Kilmarnock ha distribuito
l’ultimo giro. Di solito, a quest’ora, le insegne sono spente.
Ora, consideriamo il poliziotto. Se non fosse passato davanti al bar o se non avesse notato quelle insegne, nulla di ciò
che segue sarebbe mai accaduto. In questo momento, una
quantità di strade diverse si aprono davanti a lui: una storia
alternativa, cento storie alternative. Può semplicemente ignorare le insegne e proseguire il suo giro di pattuglia lungo Washington Avenue. Dopotutto, c’è davvero qualcosa di sospetto in quella scena? È davvero così strano che un barista si
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scordi di spegnere qualche luce all’ora di chiusura? In alternativa, l’agente può chiedere rinforzi. Un bar al momento della chiusura è una grossa tentazione per i rapinatori. La clientela paga in contanti, tutto il denaro è in cassa, le porte non
sono ancora chiuse a chiave. Niente guardie, soltanto baristi e
ubriaconi. Sì, forse dovrebbe fare così, forse dovrebbe attendere i rinforzi. Si trova a Mission Flats, non bisogna dimenticarlo: da queste parti conviene essere prudenti. D’altro canto,
un poliziotto che copre il turno da mezzanotte alle otto potrebbe controllare una cinquantina di locali prima di smettere, e non può certo chiedere ogni volta i rinforzi. No, questa
volta non c’è alcun motivo per cui il nostro agente faccia una
di queste cose. Prenderà la decisione giusta, eppure... Come
spiegare ciò che segue? Sfortuna. Coincidenza. Innumerevoli diramazioni e sequenze casuali l’hanno condotto in questo
luogo in questo momento. È la fine di una storia, o di diverse
storie, ed è l’inizio di un’altra, o di diverse altre.
Consideriamo anche questo: mentre l’agente si trattiene
con il motore acceso fuori dal Kilmarnock Pub, giocherellando con la manopola della radio, cercando di decidere cosa fare e se prendersi il disturbo di intervenire, io ho cinque anni e
sto dormendo nel Maine occidentale, a circa cinquecento chilometri di distanza.
Torniamo al nostro poliziotto. Decide di entrare, ordinando al barista di chiudere, magari minacciando di segnalarlo
alla Commissione Bevande Alcoliche. Niente di più. Segnala
la sua posizione alla centrale: «Bravo-quattro-sette-tre, mi
trovo al Kilmarnock su Mission Avenue. Bravo-quattro-settetre, charlie-robert.» Non c’è preoccupazione nella sua voce.
Ordinaria amministrazione.
Poi entra nel locale nel bel mezzo di una rapina a mano armata. All’interno del Kilmarnock, un uomo magro, un tossi-
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co di nome Darryl Sikes, gli punta una Beretta .9 alla testa. Sikes si è imbottito di coca, ha attizzato il fuoco con le anfetamine e poi lo ha innaffiato con il Jack Daniel’s.
Il poliziotto alza le mani in segno di resa.
Il gesto fa impazzire Sikes dalle risate. Ahahahahahahah. La
sua testa sta ronzando: nelle orecchie c’è un suono che gli ricorda il mormorio elettrico di un amplificatore per chitarra. Aumenta il volume! Aumenta quel cazzo di volume! Ahahahahah!
Il complice di Sikes è un certo Frank Fasulo. Fasulo non è fatto come Sikes. Nemmeno lontanamente. Frank Fasulo ha la
situazione sotto controllo. Impugna un fucile a canne mozze.
Lo punta contro lo sbirro e gli ordina di spogliarsi. Gli ammanetta i polsi dietro la schiena e lo fa inginocchiare.
Nudo, il poliziotto è scosso dai brividi.
Festeggiano, Frank Fasulo e Darryl Sikes. Sikes raccoglie
la camicia dell’uniforme dal pavimento e se la infila sopra la
maglia. Ahahahahah! Si esibiscono in una piccola danza di
vittoria attorno al bancone. Prendono a calci gli indumenti
del poliziotto, facendoli volare da ogni parte: calze sportive,
mutande chiazzate di urina, scarpe nere. Fasulo spara una
fucilata contro il soffitto, ricarica e spara, ricarica e spara.
Il poliziotto viene costretto a praticare una fellatio a Fasulo.
Al momento dell’orgasmo, Fasulo gli spara un colpo in testa.
Sono passati nove giorni dall’omicidio del Kilmarnock.
Sono le quattro di una gelida notte invernale. Le raffiche sferzano il livello inferiore del ponte Tobin, dove la temperatura,
con il fattore vento, scende fino a quindici gradi sotto zero.
Frank Fasulo supera l’orlo del ponte e traccia lente capriole nel vuoto, le braccia e le gambe tese. Impiegherà tre lunghi
secondi prima di raggiungere la superficie del fiume Mystic,
una cinquantina di metri più in basso. La colpirà a centodie-
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ci chilometri orari. A quella velocità, non c’è una gran differenza fra la superficie dell’acqua e una distesa di asfalto.
Che cosa passa per la testa di Fasulo mentre precipita nel
vuoto? Intravede il nero muro d’acqua che si avvicina? Pensa
al suo complice, Darryl Sikes, o al poliziotto assassinato? Crede che il suo suicidio metterà fine al caso del Kilmarnock?
Frank Fasulo non lo sa, ma negli ultimi nove giorni ha imparato il significato originale della parola fuorilegge. Oggigiorno, il termine è giunto ormai a indicare qualsiasi criminale, ma nell’antico diritto inglese aveva una definizione più
specifica. Se una corte ti dichiarava fuorilegge, ti ritrovavi letteralmente al di fuori della legge: in altre parole, la legge non
ti proteggeva più. Un fuorilegge poteva essere rapinato e perfino ucciso senza che il colpevole incorresse in alcuna pena. In
tutta l’Inghilterra, per il fuorilegge non c’era alcun rifugio.
Lo stesso accade per Frank Fasulo. Il dipartimento di polizia di Boston non ha alcun interesse nella sua cattura e nel suo
processo. Lo vuole morto. Vuole che non abbia rifugio.
Hanno catturato Darryl Sikes soltanto due giorni dopo l’omicidio. L’hanno trovato nel vecchio Madison Hotel, nei pressi del
Boston Garden. Quattro poliziotti hanno fatto irruzione nella
stanza e gli hanno crivellato il corpo con quarantuno proiettili.
L’intera squadra ha giurato che Sikes avesse allungato la mano
verso una pistola, che però non è mai stata trovata.
Ora è il turno di Fasulo. La polizia lo vuole ancora più di
Sikes. È stato Fasulo a... Ma molti degli uomini non riescono
nemmeno a dirlo.
E dove può scappare, Fasulo? Con un mandato di cattura
per omicidio sul groppone, ogni singola forza dell’ordine al
mondo lo restituirà alla polizia di Boston.
E quindi deve finire così. È l’unica cosa che Frank Fasulo
sa per certo. Mentre precipita, in quei tre secondi in cui sente
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il suo corpo accelerare e il vento sfilargli il giubbotto dalle
spalle come un sollecito anfitrione, questo è il suo unico pensiero: non poteva finire altrimenti, prima o poi qualche sbirro l’avrebbe trovato.
Dieci anni dopo. Il 17 agosto 1987. Le 2:25 di notte.
Siamo ancora a Mission Flats, in quel tipo di edificio di legno
per tre famiglie che i bostoniani chiamano ‘tre livelli’. Sul pianerottolo del secondo piano sono accovacciati otto agenti. Fissano una porta, tendendo le orecchie come se potesse parlare.
La porta è laccata di rosso. Ci sono due piccoli fori sullo
stipite, appena al di sopra del livello dell’occhio, dove era appesa una mezuzah con dei chiodini dorati. Cinquant’anni fa,
questo quartiere era prevalentemente ebraico. Ma la mezuzah è scomparsa ormai da tempo. Ora l’appartamento è usato come covo da una gang nota come Mission Posse.
Senza dubbio, la porta è stata rinforzata in qualche modo.
Molto probabilmente si tratta di una serratura di sicurezza
fatta in casa, un’asse di legno incastrata a un’angolazione di
quarantacinque gradi fra la porta e il pavimento e tenuta ferma da una serie di blocchi fissati a terra, anch’essi di legno.
Per entrare nell’appartamento, la polizia dovrà sfondarla. Ciò
potrebbe richiedere quindici secondi come diversi minuti:
un’eternità, sufficiente a gettare la cocaina nel gabinetto, bruciare le liste dei nomi, gettare via le bilance e le bustine attraverso i fori nei muri. Troppo tempo. Nel caso di una porta
blindata si potrebbe fare una valutazione, una previsione sulla sua resistenza. Le lastre sottili si piegano, si deformano e si
staccano rapidamente dai montanti. Quelle più spesse al
massimo si ammaccano, e non ti resta che cercare di sfondare
i cardini, la serratura o l’intero stipite. Ma con le vecchie porte di legno è difficile capire. E questa sembra solida.
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A Julio Vega di sicuro non piace. Vega scocca un’occhiata
al suo collega, un detective della squadra narcotici dell’Area
A-3 di nome Artie Trudell, e scuote la testa. Il suo messaggio:
Non ne fanno più di porte così.
Trudell, un uomo enorme con una barba rossiccia, ricambia
il sorriso e flette i bicipiti.
Vega e Trudell sono eccitati, nervosi. È una prima volta, una
retata tutta loro. Il bersaglio è importante: in questo quartiere
la Mission Posse spaccia di gran lunga più crack di qualsiasi
altra banda. Anche il mandato è tutto loro, basato sulle loro indagini: due settimane di sorveglianza e un flusso di informazioni da parte di una fonte confidenziale firmato da Martin
Gittens in persona. Il mandato è assolutamente blindato.
Anche il detective Julio Vega potrebbe diventare blindato,
con qualche altro colpo come questo.
Vega ha un piano. In autunno farà l’esame per diventare
sergente, poi dedicherà un altro paio d’anni alla narcotici e
infine farà domanda per la squadra indagini speciali o addirittura per la omicidi. Ma per ora tiene per sé le ambizioni di
carriera, perché il suo collega, il grosso e rosso Artie Trudell,
non capisce.
Trudell non sogna di arrivare alla omicidi né da qualsiasi
altra parte. Gli va benissimo occuparsi dei casi della narcotici. Alcuni sono fatti così. Preferiscono casi privi di vittime, in
cui i sospetti sono dei professionisti come i loro avversari poliziotti. È tutto più lineare. Vega ha cercato di instillare un minimo di ambizione in Trudell: gli ha spiegato che se non si
occuperà di crimini con delle vittime non riuscirà mai a fare
carriera. Una volta gli ha perfino suggerito di fare l’esame
per i gradi di sergente, ma Artie gli ha riso in faccia. «Come?»
ha risposto. «E rinunciare a tutto questo?» In quel momento
erano seduti in una malconcia Crown Vic e stavano osser-
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vando il panorama lunare di Mission Flats lungo Mission
Avenue: isolati su isolati di cineree case popolari in rovina.
Come si fa a discutere con una persona simile?
Che vada al diavolo, conclude Vega. Che continui pure a inseguire tossici imbottiti di crack per tutto il quartiere. Che ci
marcisca pure. Ma Julio Vega no. Vega è un protagonista. È
uno che punta in alto. In alto e fuori di qui. Se, se... Il problema
è che il detective Vega può sognare quanto vuole la omicidi o
le indagini speciali, prima però ha bisogno di far sentire la sua
voce. Ha bisogno di qualche pelle da mostrare al commissario. Ha bisogno di questa retata.
Vega e Trudell si piantano come sentinelle davanti all’appartamento.
Il resto della squadra evita il più possibile la zona direttamente di fronte alla porta, ma il pianerottolo è piccolo e gli
agenti finiscono allineati lungo le scale che conducono al piano superiore. Fra loro ce ne sono quattro in uniforme. Gli altri, quelli della narcotici, indossano jeans, scarpe da ginnastica e giubbotti antiproiettile. Abbigliamento casual. Nessun
articolo delle attrezzature da commando usate da altre unità. Siamo a Mission Flats; non è la prima volta che questi uomini sfondano una porta.
Per alcuni secondi tendono le orecchie, e quando non sentono alcun suono provenire dall’interno si voltano verso Vega, in attesa del segnale.
Vega si inginocchia rasente il muro, poi rivolge un cenno
del capo a Trudell.
Il grosso detective si sposta davanti alla porta. La temperatura sul pianerottolo sfiora i trentacinque gradi. Trudell
suda sotto il giubbotto. La sua maglietta è chiazzata. La sua
barba è bagnata: i peli ricci e fulvi scintillano sotto il mento.
Sorride, forse per la tensione. Solleva un tubo di acciaio lun-
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go un metro e mezzo e lo posa sull’incavo del gomito destro.
In seguito i giornali lo descriveranno come un ariete, ma in
realtà è un semplice segmento di tubatura riempito di cemento e dotato di due maniglie a L.
Vega mostra cinque dita, poi quattro, tre, due. Giunto all’uno, indica Trudell.
Trudell colpisce la porta con il tubo. Nella tromba delle
scale riecheggia un rombo come quello di una grancassa.
La porta non cede.
Trudell fa un passo indietro, poi cala di nuovo il tubo sul
legno.
La porta trema, ma regge.
Gli altri poliziotti stanno a guardare, sempre più a disagio.
«Coraggio, gigante» lo sprona Vega.
Un terzo colpo. Un rimbombo di grancassa.
Un quarto, questa volta diverso, un rombo seguito da uno
schianto.
Uno dei pannelli superiori esplode dall’interno...
...Va in pezzi... Uno sparo proveniente dall’appartamento...
...Uno schizzo di sangue fuoriesce dalla fronte del poliziotto...
Nebbia rossa...
Un brandello di scalpo...
E Trudell è a terra con la sommità del cranio scoperchiata.
Il tubo cade a terra con un tonfo.
Gli agenti balzano all’indietro, si appiattiscono al muro
lungo le scale uno contro l’altro. «Artie!» grida uno. E un altro: «Fucilefucilefucilefucilefucile!»
Vega fissa il corpo di Trudell. C’è sangue ovunque. Goccioline rosse sul muro, una pozza che si allarga sotto la testa
del collega. Il tubo giace davanti alla porta. Vega vorrebbe raccoglierlo, ma non riesce a muovere le gambe.
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Parte prima
Il livello di civiltà di una nazione può essere in gran parte valutato
sulla base dei metodi da essa usati per far rispettare il diritto penale.
Miranda contro Arizona, 1966
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Maurice Oulette aveva cercato di uccidersi, ma era riuscito soltanto a sfondarsi la parte destra della mandibola. Un
dottore di Boston era stato in grado di fornirgli una protesi,
ma con risultati insoddisfacenti. L’intervento di chirurgia plastica aveva conferito al volto di Maurice un aspetto liquefatto, che lui faceva di tutto per nascondere. Quand’era più giovane (la disgrazia era accaduta quando aveva diciannove
anni) portava una bandana attorno al volto come un rapinatore di banche di un vecchio western. Maurice, altrimenti un
tipo scialbo e dall’aspetto poco romantico, era parso godere
per qualche tempo di quel tocco di fascino. Ma alla fine si era
stancato della maschera da rapinatore, che continuava a sollevare per prendere una boccata d’aria o bere qualcosa. E così un bel giorno si era sbarazzato della bandana, e da allora si
sente a proprio agio quanto un uomo senza mandibola.
Quasi tutti i concittadini accettano la deformità di Maurice
come se non avere un pezzo di faccia non fosse più strano che
essere miopi o mancini. Sono addirittura protettivi, badano
bene a guardarlo negli occhi e a chiamarlo per nome. Se i tu-
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risti lo fissano, come succede invariabilmente anche con gli
adulti, si può scommettere sul fatto che si beccheranno un’occhiata glaciale da Red Caffrey, da Ginny Thurler o da chiunque si trovi nei paraggi in quel momento, un’occhiata che dice: ‘Cosa guardi, amico?’ Versailles è un bel posto, da questo
punto di vista. Un tempo vedevo questa cittadina come una
gigantesca trappola per mosche dotata di strade appiccicose
come colla e ali che trattenevano giovani come me, finché non
era troppo tardi per andare a vivere altrove. Ma questa gente
è rimasta al fianco di Maurice Oulette, e anche al mio.
Mi nominarono capo della polizia all’età di ventiquattro
anni. Per qualche mese io, Benjamin Wilmot Truman, fui il capo della polizia più giovane di tutti gli Stati Uniti, o almeno
così si dava per scontato da queste parti. Il mio regno fu breve: più tardi, quello stesso anno, USA Today pubblicò un articolo su un ventiduenne che era stato eletto sceriffo in qualche
angolo dell’Oregon. Non che l’onore mi avesse mai fatto un
gran piacere. Adire la verità non avevo mai desiderato fare il
poliziotto, e men che meno diventare il capo del dipartimento di Versailles.
In ogni caso, Maurice abitava nella casa di assicelle bianche del padre, mantenendosi con gli assegni della previdenza sociale e con gli occasionali pasti offerti dalle due tavole
calde che si contendevano la piazza in città. Aveva ottenuto
un rimborso da parte del dipartimento dei servizi sociali del
Maine, citato per negligenza riguardo al suo caso quando si
era sparato, e se la cavava abbastanza bene. Ma per ragioni
che nessuno capiva, negli ultimi anni si avventurava sempre
meno fuori casa. In città erano tutti d’accordo sul fatto che
stesse diventando solitario e forse un po’matto. Ma non aveva mai fatto del male a nessuno (eccetto che a sé stesso), e co-
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sì l’opinione generale era che, qualsiasi cosa combinasse, erano soltanto affari suoi.
Tendevo a essere d’accordo anch’io, anche se facevo un’eccezione. A intervalli di qualche mese, senza alcun preavviso,
Maurice decideva di esercitarsi al tiro al bersaglio contro i semafori sulla Route 2, per l’angoscia degli automobilisti in
viaggio fra Millers Falls, Mattaquisett e Versailles (si pronuncia Ver-seils, non Ver-sails). In queste occasioni Maurice era solitamente ubriaco di Wild Turkey, il che poteva spiegare la
scarsa intelligenza della sua decisione e la mira ancora più
scarsa. Quella sera, il 10 ottobre 1997, la chiamata giunse intorno alle dieci: era Peggy Butler, e si lamentava perché «il signor Oulette si è rimesso a sparare alle macchine.» Le assicurai che Maurice non ce l’aveva con le macchine ma soltanto
con i semafori, e che le probabilità che colpisse un’automobile erano in realtà molto scarse. «Ahah, davvero divertente» rispose Peggy.
E così uscii. Cominciai a udire gli spari quando arrivai a
due o tre chilometri dalla casa. Erano secchi colpi di carabina
che risuonavano a intervalli irregolari, ogni quindici secondi
circa. Sfortunatamente, per giungere alla casa di Maurice
avrei dovuto risalire la Route 2, il che significava attraversare
la sua linea di fuoco. Accesi i lampeggianti, la barra luminosa,
i fari speciali, ogni singola lampadina di cui era dotato il fuoristrada (che in quel momento doveva sembrare un carro mascherato) nella speranza che Maurice cessasse il fuoco per un
minuto. Volevo fargli capire che era soltanto la polizia.
Parcheggiai il Bronco con due ruote sul prato e lasciai accesi
i lampeggianti. Giunto all’angolo posteriore della casa, gridai:
«Maurice, sono Ben Truman!» Nessuna risposta. «Ehi, Rambo,
ti spiacerebbe smettere un attimo di sparare?» Di nuovo non
ebbi risposta; d’altro canto non vi furono nemmeno spari, cosa
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che interpretai come un segno positivo. «E va bene, vengo allo
scoperto» annunciai. «Maurice, non sparare.»
Il cortile posteriore era un piccolo rettangolo di vegetazione bassa, sabbia e aghi di pino. Era cosparso di detriti di ogni
risma: lo scheletro di uno stendibiancheria, una rete per hockey da strada, una cassetta per il latte. Nell’angolo più lontano una Chevy Nova giaceva appiattita sul ventre, dopo che
gli pneumatici erano stati trasferiti anni prima su un’altra
carcassa dello stesso modello. Aveva ancora la targa del Maine, con l’immagine di un astice e la scritta VACATIONLAND,
‘terra di vacanze’.
Maurice stava al limitare del cortile con un fucile appoggiato nell’incavo del braccio. La posa suggeriva l’immagine
di un gentiluomo che avesse appena interrotto una battuta
di caccia alla quaglia. Indossava scarponcini, pantaloni da lavoro sporchi di lubrificante, una giacca rossa di flanella e un
berretto da baseball calato sulla fronte. Teneva la testa bassa,
cosa niente affatto insolita. Prima o poi ci si abituava a rivolgersi al bottoncino del suo berretto.
Lo illuminai con la mia torcia. «Buonasera, Maurice.»
«’sera, capo» rispose il berretto.
«Cosa sta succedendo?»
«Stavo solo sparando.»
«Lo vedo. Hai fatto quasi schiattare dalla paura Peggy Butler. Ti dispiace dirmi a cosa diavolo spari?»
«A quelle luci laggiù.» Maurice indicò la Route 2 con un
cenno del capo, ma non alzò gli occhi.
Per qualche istante ci fronteggiammo annuendo.
«Ne hai colpita qualcuna?»
«Nossignore.»
«C’è qualcosa che non va nel fucile?»
Maurice scrollò le spalle.
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«Fammi dare un’occhiata.»
Mi porse l’arma, un vecchio Remington che gli avevo confiscato almeno una dozzina di volte. Controllai che vi fosse il
colpo in canna, poi sparai mirando a un palo di metallo ai confini dei campi. «Il fucile è a posto» lo informai. «Devi essere
tu a non funzionare.»
Maurice fece una piccola risata borbottante.
Tastai l’esterno della sua giacca e trovai la scatola di cartucce che portava in tasca. Infilai le dita e me le ritrovai imprigionate fra i kleenex appallottolati che Maurice collezionava come
nocciole. «Gesù, Maurice, ma non ti pulisci mai le tasche?»
Estrassi la scatola di munizioni e la infilai nel mio giubbotto.
Aprii un pacchetto di Marlboro rosse e lo rimisi al suo posto,
nella giacca di Maurice. «Ti spiace se do un’occhiata in giro
per vedere come te la passi?»
Finalmente alzò gli occhi. Gli innesti di cute lungo la linea
concava della sua mascella scintillarono argentei nel fascio
della torcia. «Sono in arresto?»
«Nossignore.»
«Allora va bene.»
Entrai in casa dalla porta posteriore, lasciando Maurice
dove l’avevo trovato, con le braccia lungo i fianchi come un
bambino in castigo.
La cucina puzzava di verdure bollite e sudore. Una bottiglia da mezzo litro di Jim Beam campeggiava semivuota sul
tavolo. Il frigorifero conteneva soltanto una vecchissima scatola di bicarbonato. Negli armadietti c’erano alcune lattine
(SpaghettiOs, chicchi di mais Green Giant), alcune bustine di
zuppa in polvere e un minuscolo foro dal quale entravano e
uscivano le formiche lignicole.
«Maurice,» chiamai «l’assistente sociale è venuto a trovarti?»
«Non ricordo.»
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Con la canna del suo fucile aprii la porta del bagno e feci
scorrere il fascio della torcia all’interno. La vasca e il lavandino
erano chiazzati di giallo. Due mozziconi di sigaretta galleggiavano nel gabinetto.
Sotto il lavandino una sezione del muro era marcita, e un
pannello di legno era stato inchiodato a coprire il foro. Lungo i bordi del pannello si scorgeva il terreno all’esterno.
Spensi le luci e chiusi a chiave la casa.
«Maurice, ricordi cos’è la detenzione precauzionale?»
«Sissignore.»
«Che cos’è?»
«È quando mi mette in prigione ma non sono in arresto.»
«Esatto. E ricordi perché lo devo fare, perché ti devo mettere in detenzione precauzionale?»
«Per precauzione... È per questo che si chiama così.»
«Già, esattamente. Ed è questo che faremo, Maurice, ti
metteremo in detenzione precauzionale prima che tu uccida
qualcuno sparando ai semafori.»
«Ma io non ho colpito nessuno.»
«Be’, Maurice, questo non mi fa sentire meglio. Vedi, se
avessi colpito quello a cui miravi...»
Mi rivolse un’occhiata inespressiva.
«Il punto è che non puoi sparare ai semafori. Sono proprietà municipale. E, a parte questo, che succede se colpisci una
macchina?»
«Io non ho mai sparato alle macchine.»
Le conversazioni con Maurice fanno sempre poca strada,
e anche quella aveva esaurito la sua. Non era del tutto chiaro
se Maurice fosse soltanto lento o un po’matto. Di qualunque
cosa si trattasse, si era guadagnato un certo margine di flessibilità.
Era sopravvissuto a un gorgo di emozioni che nessun estra-
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neo poteva capire fino in fondo, e aveva le cicatrici che lo dimostravano.
Alzò gli occhi su di me.
Al chiaro di luna, con il lato destro immerso nel buio, il suo
volto ridiventava quasi normale. Era il genere di faccia sottile
e dagli occhi scuri che era comune da quelle parti. La faccia di
un barcaiolo o di un tagliaboschi in una vecchia fotografia virata color seppia.
«Hai fame, Maurice?»
«Un po’.»
«Hai mangiato?»
«Ieri.»
«Vuoi fare un salto all’Owl?»
«Credevo mi stesse mettendo in detenzione precauzionale.»
«È così.»
«Mi restituirà il fucile?»
«No. Te lo farò sequestrare prima che spari a qualcuno. A
me, per esempio.»
«Capo Truman, io non le sparerò.»
«Bene, lo apprezzo molto. Ma terrò comunque il fucile, perché... senza offesa, Maurice... non sei certo il miglior tiratore
che sia mai esistito.»
«Il giudice la costringerà a restituirmelo. Ho la licenza.»
«Cos’è, sei diventato un avvocato?»
Maurice emise la sua solita risatina, simile a un gemito.
«Già, suppongo di sì.»
All’Owl c’erano pochi avventori, tutti seduti al bar a sorseggiare Bud in bottiglia e a seguire una partita di hockey in
televisione.
Phil Lamphier, che era il proprietario e fuori stagione l’unico barista del locale, se ne stava con i gomiti appoggiati alla fi-
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William Landay
ne del bancone, immerso nella lettura del giornale. Il piccolo
bancone era a forma di L, e Maurice e io ci sedemmo sul lato
più corto, di fronte agli altri.
Un borbottio di «Ehi, Ben» provenne dal gruppo; Diane
Harned esitò un istante prima di chiamarmi «capo Truman».
Mi scoccò un sorrisetto affettato, poi tornò a dedicare la sua
attenzione al televisore. Diane era stata una bella donna, ma
aveva ormai perso ogni sfumatura di colore. I suoi capelli, un
tempo biondi, erano diventati paglia. Cerchi scuri come quelli di un procione le si erano formati sotto gli occhi. Ciononostante, il portamento tradiva ancora l’arroganza della bella ragazza, e questo, supponevo, era già qualcosa. Comunque
fosse, io e Diane eravamo stati insieme qualche volta, e dopo
avevamo avuto qualche reunion. Avevamo un accordo.
Maurice chiese un Jim Beam, e io lo corressi subito. «Due
coche» dissi a Phil, che fece una smorfia.
«Hai arrestato il nostro Al Capone?» domandò Jimmy
Lownes.
«Nah. Il riscaldamento a casa sua non funziona, passerà la
notte alla stazione finché non lo riattiveremo. Abbiamo semplicemente deciso di mangiare qualcosa prima di andare.»
Diane mi scoccò un’occhiata scettica, ma non disse nulla.
«Sono le mie tasse a pagarvi la cena?» provocò Jimmy.
«No, offro io.»
«Be’, sono tasse anche quelle, Ben» intervenne Bob Burke.
«Tecnicamente, sono le tasse a pagarti lo stipendio.»
«Anche il tuo» ribatté Diane. «Tecnicamente.»
Burke, che lavorava per il comune occupandosi della manutenzione degli edifici pubblici, parve domato. Ma io non
avevo certo bisogno della protezione di Diane.
«Non ci vogliono molte tasse per pagare il mio stipendio»
dissi. «E poi, non appena troveranno un altro capo, la smet-
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Morte di uno sbirro
terò di farmi mantenere. E finalmente me ne andrò da questo posto dimenticato da dio.»
Diane sbuffò. «E dove?»
«Stavo pensando di fare un viaggio.»
«Ma sentilo. E dove pensavi di andare?»
«A Praga.»
«Praga.» Pronunciò la parola come se la stesse provando
per la prima volta. «Non so nemmeno cosa sia.»
«È in Cecoslovacchia.»
Un altro sbuffo di disprezzo.
«Adesso è la Repubblica Ceca» s’intromise Bobby Burke.
«È così che l’hanno chiamata alle Olimpiadi: la Repubblica
Ceca.» Burke era un maestro, in quel genere di informazioni
superflue. Si guadagnava da vivere a malapena pulendo i
pavimenti della scuola elementare; era in grado di recitarti i
nomi di tutte le first lady, di tutti gli assassini di presidenti e
degli otto Stati che confinavano con il Missouri. Un uomo del
genere può spezzare il ritmo di qualsiasi conversazione.
«Ben,» insistette Diane «perché diamine dovresti andare a
Praga?» La sua voce si era fatta tagliente.
«Oh-oh» fece Jimmy Lownes, dandole di gomito come se
fosse gelosa. Ma non era quella la ragione.
«Perché dovrei andare a Praga? Perché è bellissima.»
«E una volta che sarai lì, cosa farai?»
«Mi guarderò in giro, suppongo. La visiterò.»
«Ti... guarderai in giro?»
«Il programma è questo, sì.»
Non era un gran programma, lo ammetto. Ma mi sembrava di aver già perso troppo tempo a pianificare, aspettando
l’Occasione. Sono sempre stato uno di quegli uomini che
pensano a lungo termine e sono lenti ad agire, il tipo che soffoca ogni idea con dubbi e preoccupazioni. Era ora di liberar-
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William Landay
si di tutto ciò. Immaginavo di poter arrivare almeno fino a
Praga prima che le mie indecisioni recuperassero terreno. Di
sicuro non sarei rimasto a marcire a Versailles, Maine.
«Ti porti dietro Maurice?» chiese Jimmy.
«Ci puoi scommettere. Che ne dici, Maurice? Ti va di venire a Praga?»
Maurice alzò gli occhi e mi scoccò il suo sorriso timido a
labbra strette.
«Magari vengo anch’io» annunciò Jimmy.
Diane sbuffò un’altra volta. «Come no.»
«Gesù Cristo,» esclamò Jimmy «perché no?»
«Perché no? Ma guardatevi!»
Ci guardammo: nessuno di noi vide nulla.
«È solo che non siete esattamente gente da Praga.»
«E cosa diavolo significa, ‘gente da Praga’?» Jimmy Lownes
non sarebbe riuscito a trovare Praga su una carta geografica
nemmeno con una settimana di tempo. Ma la sua indignazione era sufficientemente genuina. «Siamo gente normale, no?
Per essere gente da Praga dobbiamo solo andare a Praga.»
«Jimmy, davvero, cosa diavolo credi che farai a Praga?»
«Farò come Ben: mi guarderò in giro. E potrebbe anche piacermi. Chi lo sa, magari mi fermerò lì. E ti farò vedere se non
sono uno da Praga.»
«Hanno dell’ottima birra» s’intromise Bob Burke. «Birra
Pilsner.»
«Vedi? Già mi piace.» Jimmy levò al cielo la bottiglia di
Bud, pur non essendo chiaro se stesse rendendo omaggio a
Praga, a Bob Burke o semplicemente alla birra.
«Diane, potresti venire anche tu» proposi. «E potrebbe
piacerti.»
«Ho un’idea migliore, Ben. Vado a casa e do fuoco al mio
denaro.»
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Morte di uno sbirro
«E va bene» mi arresi. «Immagino che l’equipaggio sia
questo, allora. Io, Maurice e Jimmy. Praga o morte.»
Maurice e io brindammo, suggellando il piano.
Diane non voleva mollare l’osso. Le chiacchiere sulla fuga
da quel posto toccavano sempre un suo punto dolente. «Oh,
Ben,» sospirò «dici una tale quantità di stronzate! Sei sempre
stato così. Non andrai da nessuna parte, e lo sai. Un giorno è la
California, il giorno dopo è New York, adesso è Praga. La
prossima volta cosa sarà? Timbuctù? Facciamo una scommessa? Fra dieci anni sarai seduto su quello stesso sgabello a dire
le stesse idiozie su Praga o chissà che altro posto.»
«Lascialo in pace, Diane» intervenne Phil Lamphier. «Se
Ben vuole andare a Praga o chissà dove, non c’è ragione per
cui non possa farlo.»
Anche la mia espressione dovette far capire alla vecchia Diane che aveva esagerato, perché distolse lo sguardo, preferendo
dedicarsi a un pacchetto di sigarette piuttosto che alla mia faccia. «Oh, Ben, andiamo,» disse «stavo solo scherzando.» Si accese la sigaretta, cercando di fare la Barbara Stanwyck della situazione. Il risultato fu più simile a Mae West. «Amici come
prima?»
«No» risposi.
«Forse stanotte dovrei venire anch’io alla stazione. Il riscaldamento non funziona nemmeno da me.»
La frase scatenò un coro di ululati da parte di Lownes e
Burke. Perfino Maurice si fece sentire da sotto la visiera del
suo berretto.
«Diane, aggredire un poliziotto è un crimine.»
«Bene. Arrestami.» Diane mi offrì i polsi per farseli ammanettare, e gli uomini liberarono un’altra batteria di schiamazzi.
Maurice e io ci trattenemmo un’oretta all’Owl. Phil riscaldò un paio di pasticci di carne surgelati; Maurice divorò il suo
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talmente in fretta che temetti avrebbe ingoiato anche la forchetta. Gli offrii la metà del mio ma non la accettò subito, così
lo portai alla stazione e Maurice lo consumò lì. Quella notte rimase in cella. È dotata di un materasso, e non poteva essere
molto peggio di quella sua casa piena di spifferi. Gli lasciai
aperta la porta perché potesse andare in bagno in corridoio,
ma spostai una sedia e dormii con le gambe tese attraverso il
vano dell’ingresso principale per impedirgli di uscire senza
svegliarmi. Il pericolo non era che facesse del male a qualcuno, ovviamente, era che facesse del male a sé stesso mentre
era ubriaco e nominalmente in stato di detenzione precauzionale. I casini succedono, a volte.
Rimasi sveglio fino alle tre passate, ascoltando Maurice.
Nel sonno faceva più chiasso di quello che molti fanno da svegli, borbottando, russando, scoreggiando. Ma non era tanto
lui a tenermi sveglio, quanto il resto. Dovevo andarmene da
Versailles, dovevo scuotermi di dosso quell’enorme trappola
per mosche che già mi aveva bloccato la caviglia. Dovevo
uscirne, ora più che mai.
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Il mattino dopo, alla scuola elementare Rufus King, tenni
d’occhio i bambini che attraversavano la Route 2. Li salutai tutti per nome, cosa di cui andavo fiero. «Salve, capo Truman»
squittirono uno dopo l’altro. «Che le è successo ai capelli?» domandò un ragazzino con accento strascicato. Quello che era
successo ai miei capelli, ovviamente, era che avevo dormito alla stazione con la testa appoggiata contro il muro. Scoccai
un’occhiataccia al ragazzino e minacciai di arrestarlo; lui sbuffò e scoppiò a ridere.
Proseguii fino al tribunale di prima istanza della contea di
Acadia per controllare gli arresti nelle cittadine limitrofe. Il palazzo di giustizia si trova a Millers Falls, a una ventina di minuti di macchina. Non avevo alcun arresto da riportare, ma ci
andai comunque. Fra i cancellieri e i pubblici ministeri giravano le solite chiacchiere. Si era sparsa la voce che uno studente
del liceo vendesse marijuana dal suo armadietto. Il capo di
Mattaquisett, Gary Finbow, aveva perfino preparato un mandato di perquisizione per l’armadietto medesimo, e voleva sapere se potevo leggerlo e controllare che fosse tutto a posto. Vi
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diedi una scorsa, segnai qualche errore di ortografia, poi gli
dissi che forse avrebbe fatto meglio a parlare con i genitori del
ragazzo e dimenticare l’episodio. «Perché rovinare la domanda di iscrizione al college di un ragazzo per un paio di spinelli?» Gary mi scoccò un’occhiataccia, e io lasciai perdere. Inutile spiegare qualcosa a individui come lui. Sarebbe come
cercare di spiegare l’Amleto a un cane di razza danese.
Così feci ritorno alla stazione. Quel senso di noia e affaticamento, di disfacimento, era diventato ormai palpabile.
Dick Ginoux, il mio uomo più anziano, era seduto all’ingresso e leggeva un USA Today del giorno prima. Reggeva il giornale a distanza e lo scrutava da sopra gli occhiali. Quando
entrai, i suoi occhi si staccarono dal quotidiano per un solo istante. «’giorno, capo.»
«Che succede, Dick?»
«Mmm... Demi Moore si è rasata i capelli. L’avrà fatto per
un film.»
«No, intendevo qui.»
«Ah.» Abbassò il giornale e si guardò intorno nell’ufficio
vuoto. «Niente.»
Dick Ginoux era sulla cinquantina, aveva un viso lungo e
cavallino. Il suo unico contributo alle forze dell’ordine locali
era l’occupazione della scrivania del centralino con il suo
giornale. Il che lo rendeva utile più o meno come una pianta
in vaso.
Si sfilò gli occhiali e mi fissò con una raccapricciante aria
paterna. «Stai bene, Ben?»
«Un po’stanco, tutto qui.»
«Sicuro?»
«Sì.» Feci scorrere lo sguardo sull’ufficio. Le stesse tre scrivanie. Lo stesso schedario. Le stesse finestre a dodici pannelli. Improvvisamente, ma in modo alquanto lancinante, tre-
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Morte di uno sbirro
mavo all’idea di passare il resto della mattinata lì dentro.
«Dick, sai una cosa? Vado a fare un giro.»
«Dove?»
«Non ne sono sicuro.»
Dick sporse il labbro inferiore in un’espressione preoccupata, ma non disse nulla.
«Ehi, Dick, posso chiederti una cosa? Non hai mai pensato di diventare tu il capo, un giorno o l’altro?»
«E perché dovrei?»
«Perché saresti un buon capo.»
«Be’, abbiamo già un capo. Sei tu il capo, Ben.»
«Già, ma se io non ci fossi...»
«Non ti seguo. Perché non dovresti esserci? Dove stai andando?»
«Da nessuna parte. Lo dicevo solo per dire. Se.»
«Se cosa?»
«Se... Lascia perdere.»
«D’accordo, capo.» Dick si rimise gli occhiali sul naso e
tornò a dedicarsi al giornale. «D’accooordo...»
Avevo in programma di andare a controllare le baite sul
lago, una cosa che rimandavo da settimane, ma decisi che
prima sarei passato da casa per darmi una rinfrescata. Sapevo che vi avrei trovato mio padre. Forse era quello il vero scopo della visita: fargli sapere cosa stavo per fare. Ripensandoci ora, è difficile rammentare cosa stessi pensando. Negli
ultimi tempi, la convivenza con mio padre era difficile. Mia
madre era morta otto settimane prima, e nel caos che ne era
seguito avevamo parlato ben poco. La mamma era sempre
stata il collegamento, l’interprete, quella che spiegava e chiariva, che mediava fra i nostri rancori. E ora avevamo più che
mai bisogno di lei.
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William Landay
Lo trovai in cucina, ai fornelli. Claude Truman era sempre
stato un tipo robusto e dalle spalle grosse, e perfino alla sua età
(aveva sessantasette anni) irradiava un forte senso di fisicità.
Era in piedi con le gambe divaricate, come se la cucina fosse
sul punto di caricarlo e lui dovesse ricacciarla con la forza contro il muro. Si voltò e mi vide entrare, ma non disse nulla.
«Cosa stai preparando?»
Nessuna risposta.
Sbirciai oltre la sua spalla. «Uova. Si chiamano uova.»
Papà era messo proprio male. Indossava una lurida camicia di flanella sopra i pantaloni, e non si radeva da giorni.
«Che ti è successo stanotte?» chiese.
«Sono rimasto alla stazione. Ho dovuto mettere in gabbia
Maurice, altrimenti sarebbe morto di freddo a casa sua.»
«La stazione non è un albergo» borbottò. Rovistò nell’accozzaglia di stoviglie nel lavello alla ricerca di un piatto relativamente pulito e vi fece scivolare le uova. «Avresti dovuto
chiamare.»
Si fece spazio sul tavolo, spostando, fra le altre cose, una
bottiglia di Miller da un litro ormai vuota.
La sollevai. «E questa che diavolo è?»
Lui mi rivolse un’occhiata funesta.
«Forse avrei dovuto mettere te al fresco» dissi.
«Provaci.»
«Dove l’hai presa?»
«Che differenza fa? Siamo in un Paese libero. Non c’è nessuna legge contro la birra.»
Scossi la testa come faceva mia madre e gettai la bottiglia
nella spazzatura. «No. Non c’è nessuna legge.»
Mi guardò con aria cupa per suggellare la piccola vittoria,
poi rivolse la sua attenzione alle uova, sbattendone e versandone i tuorli.
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Morte di uno sbirro
«Papà, oggi vado al lago a controllare le baite.»
«Fa’pure.»
«‘Fa’ pure?’ Tutto qui? Non vuoi che ne parliamo prima
che vada?»
«Parliamo di cosa?»
«Di quella bottiglia, magari. Forse oggi non è la giornata
giusta.»
«Fa’quello che devi fare, Ben. So badare a me stesso.»
Rimase seduto a cincischiare con le uova, la sua carnagione
grigia quasi quanto i capelli. In ultima analisi, non era che un
altro vecchio che stava cercando di capire cosa fare di sé stesso, come riempire il resto dei suoi giorni. Mi sfiorò un pensiero, come accade a tutti i figli che osservano i loro padri: quell’uomo ero io? Era quello che stavo diventando? Mi ero
sempre considerato un discendente della stirpe di mia madre,
non di mio padre; un Wilmot, non un Truman. Ma ero anche
figlio suo. Avevo le stesse grosse mani, anche se non il suo
temperamento prepotente. Che cosa dovevo di preciso a quel
vecchio?
Salii a lavarmi. La casa, la stessa in cui ero cresciuto, era
piccola, con due minuscole camere da letto e un bagno al primo piano. L’aria era leggermente stantia: papà non lavava regolarmente i suoi indumenti. Mi sciacquai la faccia con l’acqua gelida e indossai una camicia pulita dell’uniforme. Il
tessuto si raggrinziva attorno alla spallina con la scritta VERSAILLES POLICE, impossibile da stirare anche dopo averla inamidata. In piedi davanti allo specchio della camera dei miei
genitori, cercai di correggere l’imperfezione.
Infilata nell’angolo inferiore destro della cornice c’era una
vecchia foto di mio padre che ostentava quella stessa uniforme e un’espressione cupa. Era quello il vero Claude Truman.
Il Capo. I pugni serrati sui fianchi, il petto in fuori, i capelli a
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spazzola, un sorriso simile a una smorfia. «Un uomo e mezzo» si descriveva lui stesso ai bei tempi. L’istantanea doveva
essere stata scattata nei primi anni Ottanta, più o meno quando mia madre aveva bandito una volta per tutte l’alcol da casa. La sera in cui era successo avevo nove anni, e ai tempi avevo creduto che la colpa fosse almeno in parte mia. Ero stato io
a far perdere a mio padre il diritto di bere.
Quella sera era rientrato a casa di cattivo umore ed era crollato in poltrona davanti alla televisione. Per lui, l’ubriachezza
era una condizione negativa. Diventava silenzioso, irradiando minaccia come il ronzio emesso dai cavi dell’alta tensione.
Ne ero abbastanza consapevole da mantenere le distanze, ma
quella sera non potei resistere alla vista della pistola che aveva gettato sul tavolo insieme al portafogli e alle chiavi. La
grossa .38 di solito occhieggiava da sopra il comodino o da
sotto la sua giacca. Ma ora eccola lì, in bella vista. Mi avvicinai
lentamente, affascinato. Intendevo soltanto toccarla, soddisfare il desiderio di tastarne la superficie di acciaio lubrificato,
la trama dell’impugnatura. Allungai un dito, e in quel momento il mio orecchio esplose. Un dolore terribile mi penetrò
nella testa dal timpano: mio padre mi aveva sferrato uno
schiaffo sull’orecchio ben sapendo che mi avrebbe causato il
dolore più intenso senza lasciare alcun segno. Mi udii strillare in lontananza, e al di sopra del rombo nell’orecchio sentivo
la sua voce. «Piantala di frignare!», «Ti vuoi ammazzare?» e
«Che ti serva da lezione!» Perché la violenza di mio padre
aveva sempre uno scopo elevato.
La mamma era livida di rabbia. Svuotò ogni singola bottiglia e lo avvertì di non portare mai più da bere in ‘casa sua’e
di non rientrare mai più con l’alito che puzzava di alcol. Vi fu
un litigio, ma mio padre non le oppose resistenza. Sfogò invece la rabbia sulle pareti della cucina, sfondando l’intonaco
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Morte di uno sbirro
e il gesso fino alle assi di legno. Disteso sul letto al piano superiore, sentivo la casa tremare.
Ma anche lui doveva aver percepito che era giunto il momento di smettere. Il suo carattere e il fatto che bevesse non
erano un segreto, in paese. Fino a un certo punto, sono sicuro
che l’esagerato rispetto che la gente gli mostrava, le manifestazioni di stima e di amicizia per il capo della polizia amante dell’ordine erano falsi tributi del tipo che di solito si riserva ai prepotenti. Per i successivi diciotto anni, fino alla morte di mia
madre, mio padre non bevve più. La sua reputazione di uomo
violento resistette, ma gradualmente Versailles giunse a considerare i suoi accessi di rabbia come li considerava lui stesso:
molti di coloro che malmenava, contro cui sbraitava o che
maltrattava in altri modi, probabilmente se lo meritavano.
Tornai a infilare la vecchia istantanea di mio padre nella
cornice dello specchio. Era acqua passata, ormai.
Uscendo di casa, portai giù una camicia pulita e gliela appesi in cucina. Lo lasciai lì seduto a pasticciare con gli avanzi
delle uova sul piatto.
Il lago Mattaquisett ha più o meno la forma di una clessidra. Si allunga per circa un chilometro e mezzo lungo un asse nord-sud. La parte meridionale è la più piccola, anche se è
a questa che molti si riferiscono quando nominano il lago.
Sulla punta meridionale si trova l’ex ‘baita per la pesca’della
famiglia Whitney di New York. È un padiglione dallo stile
rustico che gli abitanti di Manhattan di una certa classe e
amanti della natura prediligevano prima della Depressione.
Ora gestita dal fondo fiduciario della famiglia, la grande costruzione domina quel versante del lago. Un sentiero serpeggiante parte dalla casa, attraversa la penombra verdeggiante della pineta e sbuca quattrocento metri dopo, alla luce
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brillante della riva. Il luogo è generalmente abitato soltanto
in agosto, quando la piaga delle zanzare si è notevolmente
affievolita. Le rive del lago sono disseminate di altre case più
modeste: nessuna può paragonarsi al padiglione dei Whitney; e così, come se fossero consapevoli della loro inferiorità,
si nascondono alla vista dalla strada e sono visibili soltanto
dall’acqua. La parte settentrionale del lago è molto meno sviluppata ed elegante. Qui ci sono soltanto baite dall’intelaiatura a scatola erette su corti pali di cemento. Vengono affittate a settimana ai lavoratori di Portland o Boston nel periodo
che va dal Memorial Day al Labor Day. Agente che viene ‘da
fuori’. ‘I villeggianti’ li chiamiamo noi, quelli delle pianure. I
turisti, la linfa vitale di quei luoghi.
Mi sforzavo di prestare la stessa attenzione alle case su entrambi i versanti del lago, non tanto per solidarietà con i lavoratori, quanto perché le piccole baite correvano più rischi di effrazioni delle ville più grandi. Attiravano i ragazzi del luogo
alla ricerca di un posto dove fare baldoria, e ci si poteva entrare facendo semplicemente saltare il lucchetto con un martinetto. E così passavo a controllarle a distanza di qualche settimana, chiamavo i proprietari quando c’era stata un’effrazione e
mi assicuravo che i cardini spezzati e i telai delle finestre sfondati venissero riparati. Arrivavo perfino a raccogliere dai pavimenti le bottiglie di birra, gli spinelli e i preservativi.
La baita in cui trovai il corpo fu la quarta che controllai
quella mattina.
Ci sarei potuto passare davanti senza fermarmi, poiché da
lontano era chiaro che la facciata non presentava alcun danno. Le finestre erano riparate da imposte chiuse da lucchetti,
la porta era intatta. Però c’era un odore, sulle prime vago ma
sempre più opprimente man mano che mi avvicinavo: un
tanfo acre di ammoniaca, l’odore inconfondibile di decom-
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Morte di uno sbirro
posizione. L’avevo già sentito, di solito proveniva dai cervi
travolti dalle auto lungo la Route 2 o la Post Road. Anche in
questo caso poteva trattarsi di un grosso animale, un cervo o
addirittura un alce morto nel bosco vicino. Ma il tanfo arrivava decisamente dalla baita. Non avevo mai visto un alce morire a letto.
Presi un piede di porco dal bagagliaio e aprii la porta.
Un ronzio di mosche.
La puzza era insostenibile. I muscoli della gola mi si serrarono. Non avevo un fazzoletto con cui coprirmi la bocca come
fanno i detective al cinema, mi accontentai di seppellire la faccia nell’incavo del gomito. Ansimando, feci scorrere il fascio
della torcia nel buio.
Un mucchio di indumenti sul pavimento assunse la forma
di un corpo. Un uomo raggomitolato su un fianco. Indossava soltanto un paio di pantaloncini color cachi e una maglietta. Le gambe nude erano bianche come un guscio d’uovo, venate di rosa dove la pelle incontrava il pavimento. Sopra le
gambe gonfie, la maglietta era sollevata a rivelare un grosso
ventre bianco. Una linea di peli ricci risaliva fino all’ombelico.
L’occhio sinistro guardava nella mia direzione, mentre al posto di quello destro c’era un grumo di sangue rappreso. Appena sopra, il tessuto cutaneo sbocciava da un solco scavato
nel cranio. Il pavimento di legno era chiazzato di sangue, con
un’ampia mezzaluna che si irradiava dalla testa sfondata. Alla luce della torcia, la chiazza sembrava nera. Accanto al volto giaceva la metà sinistra di un paio di occhiali.
La stanza cominciò a vorticare. Respirai a fatica. La baita
era deserta. I cassetti della credenza erano aperti, i materassi
arrotolati e legati con lo spago.
Feci un passo avanti. Accanto al corpo, un portafogli. Sul
pavimento un rotolino di banconote sgualcite: una cinquan-
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tina di dollari in tutto. Mi inginocchiai e aprii il portafogli con
la punta di una stilografica. Conteneva una stella dorata a
cinque punte su cui erano impresse le parole ROBERT M. DANZIGER – SOSTITUTO PROCURATORE – CONTEA DI SUSSEX.
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