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PREMESSA METODICA E OBIETTIVI GENERALI Memore dell’insegnamento di Vittorio Somenzi, nell’affrontare le questioni di maggior rilievo teorico della filosofia delle scienze preferisco adottare un approccio storico-ideografico. Nel caso della biologia e, in particolare, della riflessione filosofica su alcuni argomenti fondamentali della biologia teorica (come, ad es. il concetto di individuo vivente, il concetto di specie, il concetto di evoluzione per selezione naturale), questo approccio si traduce nell’imperativo di non concentrarsi esclusivamente sull’analisi teorica delle loro diverse accezioni, al fine di renderle sempre più chiare e razionalmente giustificabili, bensì di tendere a una comprensione diretta di come, nel corso del tempo, tali nozioni sono state variamente intese dalla comunità scientifica stessa che, in un preciso contesto culturale le ha originariamente proposte e in un altro tuttora le discute. Per dirlo in una formula: non c’è filosofia della biologia senza storia delle idee e non si può fare storia filosofica delle idee senza capire la storia della biologia. Ciò detto, ecco gli obiettivi che mi prefiggo: 1- Fornire informazioni storico-ideografiche sul significato culturale e, inevitabilmente, anche religioso, del dibattito intorno all’evoluzione; 2- Giustificare come e perché il darwinismo fosse destinato a presentarsi, fin dall’inizio, quale possibile fondamento di una filosofia (il naturalismo contemporaneo) che avrebbe avuto un lungo sviluppo, segnato da almeno due fasi alterne di affermazione e caduta.1 3- Discutere sulla vera natura della versione più recente del naturalismo, quella sorta sul terreno della filosofia analitica ad opera di W. van Orman Quine, il logico americano discepolo di Dewey, che propone d’intendere l’epistemologia, ossia la teoria della conoscenza in tutti i suoi aspetti, come un’impresa scientifica alla pari delle altre. Questa proposta appare sulle prime del tutto paradossale: tradizionalmente, infatti, la speculazione filosofica è sempre stata intesa o come indipendente dalla spiegazione scientifica, oppure, quando si presenti come “filosofia prima”, come fondazione a priori del discorso scientifico stesso. Si direbbe dunque che, accogliendo l’idea di Quine, si finisca per introdurre un circolo logicamente vizioso: l’epistemologia, divenuta ormai un elemento dell’insieme delle pratiche scientifiche, ciò nonostante dovrebbe, per restare se stessa, seguitare autonomamente a riflettere sui loro metodi, fissandone i criteri di ammissibilità e valutando in base ad essi la giustificazione razionale di quelle stesse pratiche esplicative da cui, in un certo senso, dipende. A questo punto, però, è doveroso chiedersi: è un circolo davvero vizioso o piuttosto virtuoso? -1- DARWINISMO FRA SCIENZA, FILOSOFIA E TEOLOGIA Abbinando l’approccio storico a quello scientifico-filosofico, cominceremo dunque con l’indagare la teoria darwiniana più importante, quella della selezione naturale, che presenta almeno tre aspetti che devono essere trattati distintamente. A) Il primo aspetto è epistemologico e riguarda il modello di spiegazione: che modello di spiegazione segue la teoria darwiniana della selezione naturale? E’ una spiegazione deduttiva? No. E’ una spiegazione induttiva? Nemmeno. Dalla biografia darwiniana risulta con sufficiente evidenza che questi interrogativi, concernenti lo statuto epistemologico della selezione naturale, costituivano per lui un serio problema? La teoria della selezione naturale è o no una legge di natura con portata universale (come, diciamo, le leggi di Newton), in grado di spiegare tutti i fenomeni biologici? Per dare risposta alle sue domande, Darwin lesse e/o interpellò i più importanti scienziati e filosofi della scienza della sua epoca: da un lato l’astronomo J.F.W. Herschel, il maestro 1 Nella tradizione anglo-americana, gli interpreti principali di questo orientamento furono W. James, C. S. Peirce e J. Dewey. Nella tradizione europea, invece, il naturalismo assunse forme più sotterranee e transdisciplinari, soprattutto nei lavori epistemologici di studiosi altrimenti noti come capiscuola di importanti tradizioni di ricerca scientifiche, quali J. Piaget e K. Lorenz. dell’induttivismo J. Stuart Mill e il geologo C. Lyell, grande ispiratore di Darwin, tutti schierati sul versante dell’empirismo; dall’altro W. Whewell (il filosofo-epistemologo di orientamento kantiano), l’anatomista Richard Owen ed Edward Forbes, il teorico della distribuzione geometrica dei fossili nel tempo, schierati invece sul versante idealistico. Disgraziatamente per Darwin, a dispetto delle divergenti opinioni che avevano sulla natura della spiegazione scientifica, tutti costoro concordavano largamente nel ritenere che l’Origine delle specie, l’opera in cui la teoria darwiniana della selezione naturale era stata esposta, non rispettasse gli standard di una corretta metodologia scientifica. B) Il secondo aspetto è di portata culturale più vasta e riguarda i riflessi che la nuova spiegazione naturalistica darwiniana ebbe sulle due sfere del mondo umano comunemente considerate le più rilevati: quella intellettuale e quella morale. Non a caso nel giugno del 1860, pochi mesi dopo la pubblicazione de L’origine delle specie, ad Oxford si tenne una riunione, rimasta poi famosa, della British Association of Advancement of Science2, volta a discutere le implicazioni teologico-morali della teoria dell’evoluzione darwiniana. C) Il terzo aspetto è politico ideologico e discende dalla pretesa connessione del darwinismo con il liberalismo, espressione della società vittoriana. In un testo famoso del 1923, History of Biology, parlando della teoria darwiniana lo storico Nordenskiöl così si esprimeva: “i critici moderni si sono chiesti come è potuto succedere che una teoria come quella di Darwin, basata su così deboli fondamenta, abbia improvvisamente conquistato gran parte dell’opinione scientifica, imponendosi non solo in campo biologico ma anche in quello etico e di teoria della conoscenza. Se i difensori del darwinismo vogliono spiegare la cosa riferendosi al valore scientifico della teoria, ormai la teoria è stata respinta3,… ma la teoria darwiniana, fin dall’inizio, fu un’alleata del liberalismo”. Ebbene: questo giudizio riflette l’opinione di molti altri storici che hanno spesso visto nel darwinismo una manifestazione dello spirito della società vittoriana (assolutamente tipica dell’Inghilterra e, in parte, dell’Europa, ma non dell’America), che trovò nel clima scientifico del tempo onnicomprensiva e adeguata consonanza. 4 * 2 Nella B.A.A.S. erano rappresentate le tre principali correnti di pensiero inglesi: quella, potentissima, dei teologi anglicani, che per primi avevano posto in luce, nel quadro della loro teologia naturale, il rapporto tra evoluzione, morale e intelligenza, sostenendo che la biologia costituisce una buona dimostrazione empirica dell’esistenza di Dio; poi quella dei gentlemen di campagna, ossia degli intellettuali di orientamento moderato, alcuni dei quali erano personaggi di grande rilievo dell’intellighentia “tory”; infine quella dei radicali, il più illustre dei quali era T. H. Huxley, divenuto famoso come “il mastino di Darwin” anche a seguito dello scontro che ebbe, già nella riunione del giugno 1860, con il vescovo Samuel Wilberforce. 3 La teoria darwiniana negli anni ’20 del Novecento attraversava un periodo di profonda crisi, tanto da venir messa in discussione nei suoi presupposti scientifici. Uno dei critici del darwinismo che qui Nordenskiöl ha certamente presente è il fondatore del “neodarwinismo”, il tedesco A. Weismann, il quale, attraverso i suoi esperimenti, dimostrò che non esiste l’ereditarietà dei caratteri acquisiti (usata da Darwin per spiegare la rapidità delle modificazioni genetiche ereditabili), e nel contempo stabilì un limite invalicabile tra germoplasma e somatoplasma, smentendo così anche la teoria darwiniana della “pangenesi” che ipotizzava la trasmissione agli organi riproduttori di altrettanto ipoteche “gemmule”, provenienti da tutte le parti del corpo e capaci di trasmetterne a livello genetico le eventuali modificazioni. 4 L’asse portante dell’ideologia vittoriana è l’idea che la società scientifica costituisca e debba costituire il principale fattore della trasformazione e del progresso sociali: è insomma una variante del positivismo francese che, in Inghilterra, assunse una veste meno radical-rivoluzionaria, ben rappresentata da società come la B.A.A.S.. Quest’ultima, in quanto democraticamente gestita e aperta al più vasto pubblico, era certamente innovativa rispetto all’aristocratica Royal Society e ospitava personaggi come T. H. Huxley, un self-made man di straordinario successo, abituato a tenere discorsi scientifici nelle sedi più disparate, comprese quelle dei sindacati e delle associazioni operaie. Entro queste coordinate il sapere scientifico, divenuto veicolo di trasformazione sociale, prese a diffondersi in tutti i Paesi europei, Italia compresa - e di quel blocco di idee, nate nella scienza, ma viste come immediatamente applicabili al sociale, il darwinismo assunse, per così dire, una sorta di rappresentanza generale, trasformandosi, assieme alle recenti scoperte nell’ambito della termodinamica, in argomento di appassionate pubbliche discussioni. A) Il modello di spiegazione darwiniano: questioni scientifiche ed epistemologiche Darwin era convinto di aver prodotto una teoria scientifica del tutto simile a quella di Newton, ma, come abbiamo detto, la sua legge della selezione naturale agli occhi degli epistemologi cui lo stesso Darwin si era rivolto non appariva come una vera legge universale. Perché? Per la problematica relazione che in essa intercorreva tra teoria e fatti, in particolare sotto due rispetti: 1- mancanza di capacità previsionale della teoria 2- mancanza di copertura fattuale, ossia difficoltà da parte della teoria di render conto di alcuni fatti specifici, che molti studiosi, talvolta anche maestri dello stesso Darwin, avevano segnalato. Ora, è interessante notare che le obiezioni più rilevanti mosse a Darwin dopo la pubblicazione de L’origine delle specie riguardavano le implicazioni della teoria su questioni che all’epoca erano universalmente considerate “fatti accertati” – e che tali però non sempre erano. Vediamole. 1- L’obiezione mossa dallo zoologo G. Mivart Secondo costui la selezione naturale era una buona idea per spiegare i caratteri ben adattati, (non a caso era stata ispirata dal confronto con la teologia naturale e pertanto serviva a spiegare proprio i caratteri finalisticamente individuabili), ma non funzionava affatto per spiegare l’insorgenza degli stadi iniziali di strutture affatto nuove. L’esempio classico addotto da Mivart (ma già presente fra gli argomenti del reverendo Paley cui Darwin s’era impegnato a dare una risposta non finalistica) era quello della formazione dell’occhio. Sappiamo che fra animali appartenenti a gruppi filogeneticamente molto diversi e distanti fra loro esiste la tendenza a sviluppare in modo fortemente convergente un organo della visione: in certi casi, ad esempio nei molluschi cefalopodi e in mammiferi come l’uomo, esso è addirittura costruito in modo strutturalmente assai simile. Poiché tuttavia l’occhio, nell’integrazione di tutte le sue parti, è un organo altamente complesso, che implica l’azione coordinata e concomitante di meccanismi estremamente fini, come è possibile, si chiede Mivart, che esso possa essersi sviluppato a caso? E, soprattutto: come è possibile che tante piccole modificazioni, singolarmente prive di utilità alcuna, si siano ugualmente conservate, diffuse e accumulate fino a rendere possibile la lenta e graduale formazione di un organo che serve solo quando è bello e pronto? Darwin riteneva quest’obiezione molto forte ma in realtà non valida e la discusse nel capitolo 6 della VI edizione dell’Origine. “Quando riflettiamo sull’estesa, diversificata e graduata gamma di strutture di occhi negli animali inferiori, e teniamo presente quanto piccolo deve essere il numero di tutte le forme viventi in confronto a quelle che si sono estinte, non è più molto difficoltoso credere che la selezione naturale possa aver trasformato il semplice apparato di un nervo ottico, ricoperto di pigmento e rivestito di una membrana trasparente, in uno strumento ottico perfetto come lo è quello di qualsiasi membro della classe degli articolati. E’ stato obiettato che per modificare un occhio e conservarlo anche come strumento perfetto, dovrebbero essere avvenuti simultaneamente molti cambiamenti. Ma, …. Non è necessario supporre che le modificazioni siano state tutte simultanee… Diversi tipi di modificazioni servirebbero anche allo steso scopo generale… Nella più alta divisione del regno animale, cioè quella dei vertebrati, possiamo partire da un occhio così semplice che consiste, come nell’anfiosso, solo di una piccola sacca di pelle trasparente, fornita di un nervo e rivestita di pigmento, ma senza alcun altro apparato. Nei pesci e nei rettili la gamma di modificazioni è molto ampia. …anche nell’uomo la magnifica lente cristallina è formata nell’embrione da un accumulo di cellule epidermiche, poste in una piega della pelle a forma di sacca; e il corpo vitreo è formato da un tessuto embrionale sottocutaneo.”5 Tuttavia l’obiezione di Mivart divenne un forte argomento per le posizioni antidarwiniane di segno creazionista a lungo sostenute in Europa e tuttoggi in alcuni stati americani, nonostante gli sforzi del maggior divulgatore odierno del darwinismo, l’inglese Richard Dawkins, che ha preso il posto di Huxley nel difendere la plausibilità delle tesi darwiniane, ricorrendo ad argomenti vecchi e nuovi, ma comunque largamente accettati dai biologi6. La risposta di Dawkins, fedele in questo a Darwin, è che, in ogni processo di evoluzione convergente, non è affatto vero che le mutazioni implicate siano del tutto prive di qualsiasi funzione. Alcune di esse base sono probabilmente realizzabili in modo talmente universale da apparire utili in ordini molto diversi; mentre quelle successive, benché anch’esse necessarie, possono essere spiegate come “exaptations” (esadattamenti: termine coniato dal paleontologo di Harvard recentemente scomparso, S.J. Gould, e dalla sua collega E. Vrba). Questa concezione era già presente in Darwin: alcune strutture, come ad es. l’epidermide dei rettili, possono modificarsi a seguito di specifiche pressioni selettive cui questi animali eterotermici sono particolarmente esposti (una più efficace difesa dagli sbalzi di temperatura), rendendosi poi disponibili ad assumere funzioni completamente diverse (come quella di struttura adatta al volo)7. L’idea è che le nuove strutture non necessariamente si sviluppano in funzione di un unico scopo: spesso nascono per realizzare due scopi contemporaneamente. Le piume proteggono dal freddo ma, nel contempo, aiutano chi è dotato di uno scheletro adeguato a volare. In sintesi, la risposta all’obiezione di Mivart si compone di due parti: la prima è che la natura si accontenta di poco, purché le innovazioni comportino un qualche vantaggio, sempre che alcune di esse possano funzionare anche in modo approssimativo 8; la seconda è che queste strutture possono svilupparsi fino ad acquistare nuove funzione che poi verranno sfruttate per conseguire altri “scopi”. 2- L’obiezione mossa dal fisico Lord Kelvin Essa afferma l’eccessiva durata dei processi evolutivi previsti da Darwin in relazione alla datazione dell’età della Terra effettuata con metodi termodinamici. In altri termini, la teoria darwiniana e quella termodinamica di Lord Kelvin (“tutti i processi termici dell’universo sono processi di combustione”) erano effettivamente contrarie fra loro, ma quella falsa era la teoria di Kelvin. Tuttavia, anche se Darwin sospettò sempre che la termodinamica di Kelvin fosse sbagliata, quest’ultimo era il fisico inglese più accreditato del suo tempo. Contro un’autorità del genere non era certo possibile competere: sicché Darwin modificò la sua teoria dell’evoluzione, introducendovi meccanismi di accelerazione di tipo lamarckiano, rendendola 5 C. Darwin, L’origine delle specie, VI ed., Torino, Boringhieri, 1967, pp. 240-241. A questo proposito cfr. soprattutto R. Dawkins, L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988. 7 Ecco perché ancor oggi si ritiene che la maggior parte degli uccelli discenda dei dinosauri: le piume sarebbero una modificazione epidermica accidentale di alcune specie di dinosauri. Quando questi ultimi estinsero, a seguito di sconvolgenti cambiamenti climatici, gli unici in grado di sopravvivere furono quelli meglio attrezzati per resistere alle basse temperature grazie alle piume e nel contempo capaci di alleggerire lo scheletro e sviluppare una regolazione omeotermica. Le piume divennero così strumenti utili nono solo per volo, ma anche per occupare una nuova nicchia ecologica. 8 Questo fenomeno è stato sottolineato dagli etologi studiando la risposta degli uccelli ai grossolani profili di cartoni bianchi e neri, che li inducevano ad assumere un comportamento di feeding: non soltanto certi uccelli danno da mangiare ai piccoli di altre specie, che, come i cuculi, sono abituati a fare da parassiti collocando un uovo di cuculo nel nido altrui, ma rispondono a veri e propri “fantocci”, la cui sagoma nera imita un becco aperto. 6 così più debole sul piano esplicativo. Ecco un chiaro esempio della natura reticolare (multilaterale) della spiegazione scientifica. 3- L’obiezione mossa dall’ingegnere scozzese Jenkin Si trattava di un’obiezione di natura matematica che denunciava una vera deficienza nella teoria di Darwin, che era però comune a tutta la biologia dell’epoca: come possono conservarsi le mutazioni favorevoli se, non conoscendo il meccanismo dell’ereditarietà, si suppone - come Darwin fece - che essa avvenisse per mescolanza dei caratteri? Jenkin osservò giustamente che, se così fosse, dopo alcune generazioni si otterrebbe una diluizione dei caratteri nuovi, anziché il loro incremento. Jenkin aveva ragione, la teoria dell’ereditarietà per mescolamento era una teoria falsa, ma nessuno all’epoca sapeva che era falsa. Il darwinismo contemporaneo è naturalmente al riparo da questo genere di obiezioni, che sono state in un certo senso “metabolizzate” dallo sviluppo del suo quadro teorico. 4-L’obiezione sulla mancanza di continuità nelle prove fossili Anche questa è una delle obiezioni ancor oggi più usate in America dai creazionisti. Darwin era convinto che, in futuro, queste lacune e discontinuità sarebbero state superate da nuovi ritrovamenti, ma ora sappiamo che questo problema non può essere risolto: non c’è continuità nella serie fossile, cioè non è probabile che l’evoluzione abbia avuto un andamento progressivo e lineare. La fisica contemporanea, che ha abbandonato il modello di spiegazione (altrimenti detto paradigma) meccanico-deterministico, per adottarne uno di tipo statistico-indeterministico, ha ormai dimostrato che, nei sistemi complessi, non è ipotizzabile alcuna linearità. Poiché i sistemi biologici sono sistemi complessi, è abbastanza ovvio che la teoria darwiniana, integrandosi con la fisica moderna, assuma un carattere discontinuista. Altrettanto ovvio è, tuttavia, che la teoria darwiniana, inquadrandosi nella fisica dominate del tempo, dovesse avere un carattere continuista. La discontinuità nelle serie fossili è stata spiegata nel 1973 da N. Eldredge e S.J. Gould in termini di “equilibri punteggiati”: in alcune fasi dell’evoluzione ci sono periodi di equilibrio in cui prevalgono i fattori di stabilità e tutto rimane com’è. In altri termini il genoma, grazie ai numerosissimi fattori di stabilità e alle capacità di auto-correzione che oggi gli vengono universalmente riconosciute, normalmente tende a sviluppare solo variazioni neutre o insignificanti, che a livello tassonomico determinano solo l’insorgenza di varietà. Poi intervengono momenti particolari, com’è accaduto ad esempio nel Cambriano, nei quali la vita sembra esplodere follemente, producendo continue e numerosissime variazioni. Ancora oggi non sappiamo perché questo accade: questo fenomeno non è stato spiegato casualmente, ma ciò non costituisce un problema perché la teoria darwiniana, perché essa non adotta un modello di spiegazione basato sulla causalità lineare. B) Riflessi della spiegazione naturalistica darwiniana sulle due sfere del mondo umano comunemente considerate le più rilevati: quella intellettuale e quella morale Ripartiamo allora dalla celebre discussione avvenuta a Oxford nel 1860, di cui abbiamo – è vero – numerosi resoconti, ma tutti largamente posteriori. Come s’è detto, il vescovo Samuel Wilberforce (detto “soapy Sam” per via dei suoi modi un po’ untuosi) riteneva inammissibile una teoria biologica che, anziché ribadire la nostra discendenza dagli angeli, ci faceva discendere dalle scimmie. In altri termini, Wilberforce attaccava la teoria darwiniana (che, all’epoca, aveva affermato solo l’origine comune delle specie e le loro successive modificazioni mediante conservazione selettiva), partendo da un argomento tra i meno discussi ne L’origine delle specie, cioè il problema dell’ominazione. 9 Ma che si parlasse fin da subito del rapporto uomo/scimmia conferma quanto già sappiamo, ossia che nella teologia naturale anglicana il nesso fra biologia e teologia era radicato da tempo, anzi irrinunciabile, perché i teologi si erano messi in testa che proprio la biologia dovesse confermare nel modo più evidente sia la natura speciale dell’uomo, sia la plausibilità razionale e scientifica delle tesi a favore dell’esistenza di Dio. Tutti infatti ricordano il famosissimo argomento del design escogitato alcuni decenni prima dal reverendo W. Paley e da cui, a suo tempo, Darwin stesso era rimasto profondamente colpito. Se guardo al mondo naturale, diceva Paley, vedo che tutto sembra armonizzarsi ai fini della miglior realizzazione degli scopi vitali di ciascun organismo. D’altra parte, l’organizzazione stessa dei viventi li rende simili a certi artefatti come gli orologi, di cui nessuno, dopo averli scomposti e finemente analizzati, dubiterebbe che siano il frutto di una volontà agente retta da un progetto prestabilito: quello di realizzare una macchina in grado di compiere movimenti così regolari da fungere a misura del tempo. Da parte sua, anche Kant, nella Critica del Giudizio, aveva parlato, riferendosi al mondo del vivente, di “finalità organica”. Darwin si prefisse dunque di spiegare l’evidente finalismo dei fenomeni biologici senza tuttavia ricorrere alla supposizione di cause finali, bensì introducendo un nuovo dispositivo di spiegazione, la selezione naturale, che simula l’intervento di cause finali e dà come risultato qualcosa d’indistinguibile dall’effetto di una causa finale. Ma questo obiettivo non gli fu tuttavia immediatamente chiaro, né venne conseguito d’un sol colpo. Partito da posizioni blandamente cristiane, Darwin avrebbe poi assunto posizioni agnostiche, approdando infine, ma solo molto più tardi, a un’interpretazione non religiosa e materialistica della sua teoria, benché anche allora si rifiutasse di unire il suo nome a quello di Marx e Engels, che avevano visto nel darwinismo una teoria scientifica della trasformazione e per questo intendevano dedicargli Il Capitale.10 Fin dalla sua prima pubblicazione L’origine delle specie venne considerata un’opera atea e offensiva per la dignità umana, sebbene in essa non si parlasse mai dell’uomo. Nel 1863 lo zoologo cattolico De Filippi lesse una conferenza alla Reale Società delle Scienze di Torino su “L’uomo e le scimmie”: arrivava così anche in Italia il problema della derivazione scimmiesca dell’uomo. Ma non era un’idea nuova. Fin dall’Illuminismo, l’epoca in cui esse vennero “scoperte”, le scimmie molto comuni nelle corti europee, dove venivano addestrate a scimmiottare l’uomo. 9 Wilberforce concluse il suo discorso dicendo “non possiamo neppure discutere su una teoria che fa discendere l’uomo dalle scimmie”. A questo punto, Huxley si alzò lentamente, dichiarando in tono solenne che preferiva discendere dalle scimmie piuttosto che da uomini come Wilberforce, capaci di usare le grandi capacità ricevute in dono dalla natura solamente per dire falsità. Nonostante lo scalpore (le cronache riferiscono di una donna che sarebbe svenuta fra gli astanti, ecc.) ben poche persone riuscirono effettivamente a sentire il dialogo tra Wiberforce e Huxley. Tuttavia, a partire da quella discussione, la questione dell’uomo-scimmia sarebbe divenuta uno degli spunti più ghiotti per molti caricaturisti e polemisti europei. A Torino, nel 1863, il prof. De Filippi pronunciò la prima conferenza italiana su “l’uomo e la scimmia”, presentando le concezioni darwiniane. De Filippi era un cattolico e, nel contempo, un convinto sostenitore della teoria darwiniana, da lui ritenuta preferibile al trasformismo rivoluzionario di marca francese, quello di Lamarck, che aveva contribuito a spinto il mondo europeo in una spirale accelerata di cambiamento sociale. 10 Darwin cambiò dunque idea varie volte, ma è interessante notare che, negli anni a ridosso della pubblicazione de L’origine delle specie, si dimostrò piuttosto favorevole all’interpretazione “concordista”, sviluppata dal suo interlocutore americano più in vista di allora: il botanico Asa Gray, lo stesso che spinse Darwin a pubblicare la sua teoria perché sapeva che altri, in particolare A. Wallace, stavano arrivando alle stesse conclusioni. Gray voleva interpretare la selezione naturale riconciliando la nuova biologia evoluzionistica con la tesi teologica dell’esistenza di un Creatore: suggerì quindi che la selezione naturale fosse semplicemente il meccanismo scelto dal Creatore per gestire il mondo naturale. Naturalmente, però, era consapevole del fatto che come meccanismo essa avrebbe potuto affermarsi ed agire anche in assenza di qualsiasi Creatore. Com’è noto, in Italia la polemica sulla presunta origine scimmiesca dell’uomo ebbe una lunga e polemica storia legata al nome del letterato Antonio Fogazzaro, il quale si fece sostenitore di una posizione tendente a integrare le concezioni della biologia evoluzionistica con i dettati della fede tradizionale: cioè evoluzionismo e cattolicesimo, passata alla storia sotto il nome di “modernismo”. Quest’ultimo non piacque al Papa e venne bollata come eresia, innescando un lungo dibattito che in Europa si sarebbe sviluppato sul terreno del neo-idealismo e in America nell’ambito del pragmatismo 11. I problemi tipici dell’Illuminismo che si ripresentavano in veste nuova attraverso il dibattito sull’uomo-scimmia erano: 1- che rapporto c’è tra dotazione biologica e dotazione intellettuale nella nostra specie, ossia: cosa esattamemente aveva detto Darwin, dopo Condillac, sull’origine delle facoltà superiori dell’uomo? E’ in sostanza il problema della conoscenza; 2- che rapporto c’è tra l’evoluzione delle società animali e l’evoluzione delle società umane caratterizzate da norme, regole, istituzioni? Questo problema era stato affrontato dalla scuola scozzese (cfr. soprattutto Hume e Adam Smith). E’ il problema dello sviluppo della cultura - 2 -DARWINISMO E NATURALISMO Come abbiamo appena visto, in Europa si discuteva scetticamente l’epistemologia di Darwin, trovandola non induttiva e non conforme a alcun metodo scientificamente valido, in quanto essa semplicemente assumeva: a)- l’esistenza di variazioni; b)- la validità, in ambito biologico, della legge di Malthus sulla popolazione, trasformata in una legge biologica universale della lotta per l’esistenza, ossia nella tesi della inesauribile competizione fra gli organismi per accedere alle scarse risorse disponibili, frutto della inevitabile divaricazione fra i tassi di crescita delle risorse e quelli di crescita delle popolazioni; c)- l’ereditabilità delle variazioni vantaggiose, senza la minima cognizione del meccanismo della ereditarietà. Inoltre, tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, l’Europa avrebbe conosciuto la pericolosità del cosiddetto “darwinismo sociale”, i cui esiti più nefasti discendevano dall’uso di principi darwiniani per giustificare guerra, razzismo, colonialismo, eugenetica, ecc… In Europa, insomma, il darwinismo apparve, sotto vari aspetti e a più riprese, una teoria manchevole e pericolosa. L’America, viceversa, soprattutto nel periodo tra il 1840 e il 1860, si presentava come un continente molto più pio, dalla religiosità diffusa, meno formale e più entusiastica, impregnata da una cultura dai toni nettamente naturalistici, dove sia il mondo e l’uomo erano concepiti come riflessi non tanto della Divina natura, quanto della Natura divina. Questo modo di vedere, conosciuto tradizionalmente come panpsichismo, era condiviso da poeti, letterati e filosofi come Ralf Waldo Emerson, che esprimevano la loro forte aspirazione ideale a cogliere nei processi vitali stessi l’espressione della Natura intimamente Divina di tutto il Creato. Ma non bisogna dimenticare la parallela tendenza a sottolineare con enfasi il ruolo attivo del soggetto vivente, ossia di ogni essere organico, rispetto alla passività della Natura, identificata con il loro ambiente fisico. L’intellettuale americano di quegli anni ci appare volontaristico, progressivo, auto-affermativo, nonché convinto che la soggettività non possa essere rinchiusa 11 Fu un dibattito incredibilmente vasto: così, ad esempio, nel 1909 venne pubblicato in Italia un testo del sacerdote D’Anna che proponeva un aggiornamento del pensiero della Chiesa sulle concezioni epistemologiche anticipando un problema che percorrerà tutto il Novecento e che, nell’Università Gregoriana, verrà discusso negli Sessanta soprattutto dal padre gesuita G. Blandino, che ha scritto il primo libro italiano di filosofia della biologia, Biologia Teoretica seguito dall’opuscolo Vita, ordine e caso, che ne rappresenta la sintesi. entro i limiti soffocanti dei vincoli ambientali. Questo spirito, dopo Darwin, subirà una significativa torsione, ma non una radicale inversione di rotta, dando vita a una nuova filosofia della scienza, il pragmatismo, il cui atto di nascita fu, per l’appunto, variamente segnato dal darwinismo. Nel 1872, infatti, i più importanti filosofi americani della scienza cominciarono a riunirsi a Boston in un circolo, detto Metaphisical Club, composto da Chauncey Wright, C. S. Peirce, F. E. Abbot, J. Fiske e W. James. Darwin era da poco entrato in corrispondenza con Wright, il grande talento matematico che Peirce definì un “genio pigro”, lanciandogli la sfida di applicare la teoria dell’evoluzione per selezione naturale alla teoria del linguaggio. Wright scrisse in risposta a Darwin il saggio L’origine dell’autocoscienza, un testo di filosofia che affrontava il problema del rapporto tra empirismo e razionalismo attraverso lo strumento della selezione naturale. Gli empiristi avevano sempre sottolineato, infatti, il ruolo dell’esperienza e i razionalisti, per converso, quello della preesistenza delle idee, interpretandole come innate: ebbene, i pensatori americani cominciano a vedere per primi in Darwin una modalità concreta di fusione fra questi due atteggiamenti: l’a-priorismo e l’a-posteriorismo. Per loro gli organismi erano soggetti attivi, caratterizzati da una grande volontà di autoaffermazione, inspiegabile come mero frutto dell’esperienza, bensì solo invocando disposizioni preesistenti, che però, a loro volta, erano il risultato dell’esperienza della specie. In essa - e solo in essa - un sottile equilibrio spontaneo poteva istituirsi fra i due poli rappresentati dal caso (fonte di ogni aleatoreità ma, nel contempo, di ogni autentica novità) e dalla selezione naturale (fonte di ogni regolarità e, nel contempo, di ogni stabile tradizione). In altri termini, Wright e James capirono per primi che il rapporto tra ragione ed esperienza si può spiegare come K. Lorenz avrebbe fatto solo 80 anni dopo: negli organismi esistono alcune idee innate, che però sono a– priori solo per l’individuo, mentre, dal punto di vista della specie, sono il risultato di un processo a-posteriori, di una interazione tra variazione fortuita e conservazione selettiva. In questa nuova prospettiva i principi della conoscenza scientifica diventavano indagabili a livello biologico, fino a giungere, con Quine, alla discussa tesi della scientificizzabilità (o naturalizzazione) dell’epistemologia. Una speciale menzione merita C. S. Peirce, matematico di formazione, fondatore della semiotica, nonché uno dei padri della nuova logica proposizionale: fu infatti il primo a riconoscere il procedimento auto-correttivo della scienza, a rinunciare all’ideale della verità, a capire che quanto accadeva nel processo scientifico era una continua sostituzione di teorie, senza che mai si giungesse a qualcosa di definitivamente vero. Dal punto di vista che qui c’interessa, ossia la storia del naturalismo d’ispirazione darwiniana, il contributo più importante di Peirce sta nell’aver sottolineato l’esistenza – e la legittimità teorica – degli elementi casuali all’interno delle spiegazioni scientifiche stesse, arrivando così a una ridefinizione del concetto di legge scientifica che, meglio della definizione kantiana 12, si prestava a considerare scientifica la legge della selezione naturale. La questione del linguaggio come prodotto culturale Non stupisce dunque che, per quanto riguarda il problema della conoscenza, ci si concentrasse sull’aspetto del linguaggio, in quanto strumento di comunicazione simbolica e concettuale, 12 Sin dai tempi di Aristotele, si vietava alla spiegazione scientifica di far ricorso alla casualità, perché ogni spiegazione doveva essere basata sull’individuazione di una vera causa: ne consegue il caso veniva considerato un accidente e gli accidenti visti per definizione come ininfluenti nella spiegazione scientifica. Questo modo di pensare perdurò, attraverso le varie tradizioni di pensiero, fino a Kant ed era poi passato in Inghilterra, dove Whewell aveva affermato che ogni fenomeno doveva essere spiegato introducendo cause indipendenti dalla fenomenologia in cui esso rientrava. Una “vera” legge scientifica i fenomeni li chiama in causa come mere conseguenze predittive (mere conseguenze logiche) tratte da assunti universali e necessari. che rappresentava uno dei maggiori segni distintivi dell’essere umano rispetto agli altri Primati. Era un problema sollevato da Darwin stesso, che spinse C. Wright a scrivere il suo saggio su L’evoluzione dell’autocoscienza, dov’egli cercò di affrontare uno dei problemi che nell’800 era stato talmente discusso da indurre la Società parigina di linguistica ad escluderlo dalle tematiche scientificamente ammissibili. Wright lo scrisse per spiegare una possibile evoluzione dell’autocoscienza (linguaggio e autocoscienza, per lui, sono la stessa cosa) in termini darwiniani. Proprio perché testimonia lo speciale e indiscusso carattere delle astrazioni umane, il linguaggio, in quanto strumento attraverso il quale la coscienza può riferirsi a se stessa, rappresentava, allora come oggi, la principale posta degli interessi speculativi, scientifici e filosofici (per i filosofi post-moderni, tipicamente umano è solo il linguaggio: quest’ultimo si autonomizza dalla lingua parlata per fondare un ordine entro il quale si costruiscono la storia umana, le tradizioni culturali, ecc…). La possibilità di interpretare naturalisticamente il linguaggio, senza trasformarlo in un semplice sistema di comunicazione, è un passaggio obbligato per qualsiasi concezione naturalistica. (Fuori dell’orizzonte darwiniano non esisterebbe alcun naturalismo moderno, bensì soltanto quello antico, sostenuto da Lucrezio e da gran parte della tradizione aristotelicotomista, la quale teorizzava l’esistenza di una “natura umana” e dei suoi molti e discutibili aspetti distintivi: l’uomo come animale razionale, come essere intrinsecamente simbolico, ecc.). D’altra parte, dopo Darwin, divenne un problema spiegare come, da cose che è probabile discendano direttamente dai meccanismi dell’evoluzione biologica (ad esempio: la formazione degli istinti che, sotto forma di schemi automatici di reazione, danno a chi li possiede un vantaggio adattativo, ma, proprio per questo, non si capisce come e perché debbano o possano modificarsi nel corso del tempo, a rischio di non funzionare più bene come prima), si siano affermate modalità d’apprendimento molto più complesse e lente, che per funzionare richiedono talvolta lunghi anni di apprendistato. Nel Settecento, il problema dell’origine del linguaggio venne affrontato da Herder (Saggio sull’origine del linguaggio), che, dopo aver letto Lord Momboddo, accolse l’idea di una differenza nell’apparato fonatorio tra essere umano e orangutan. L’essere umano è in grado, data la particolare conformazione del suo apparato fonatorio, di modulare la voce ma questo, a livello di sopravvivenza, gli costa caro: per emettere suoni modulati, noi dobbiamo infatti rinunciare a respirare mentre beviamo e/o mangiamo. E’ un rischio che, dal punto di vista evolutivo, sembrerebbe molto alto: chi sa esprimersi in forma articolata può strozzarsi molto facilmente. Quali piccole e graduali trasformazioni è legittimo supporre si siano verificate perché si giungesse a qualcosa di così ben organizzato? Torna così presentarsi l’obiezione di Mivart: se le prime modificazioni non offrivano alcun vantaggio, quali pressioni selettive le hanno confermate? Se consideriamo che il possesso di organi fonatori, anche in assenza di un cervello di tipo umano, permette a certi uccelli di parlare come noi, pur avendo una siringa (una specie di flauto di Pan) in luogo della laringe, quale contemporanea trasformazione delle strutture cerebrali, accanto a quelle morfologiche del tratto vocalico, dovrebbe mai essersi progressivamente verificata perché il possesso degli strumenti per produrre il linguaggio umano potesse rappresentare un vantaggio? Il che poi si riassume nella domanda: “da quando e perché parliamo?”. I primi ominidi sono simili alle scimmie, cioè hanno una struttura del cranio che ci fa pensare che essi potessero comunicare attraverso versi articolati, ma non mediante un linguaggio fonetico. Si profila così un complicato intreccio di problemi: quelli che toccano i paleontologi (e ogni volta che viene ricostruito l’albero genealogico della specie umana cambiano le opinioni); quelli che toccano i neurolinguisti (che dovrebbero stabilire se le strutture corticosottocorticali di cui oggi siamo dotati si siano prodotte o meno per un improvviso salto evolutivo); quelli che toccano il biologo funzionalista (chiamato a spiegare come mai una sola specie, tra tutte, quelle anche non umane, che potrebbero parlare, usi effettivamente un linguaggio articolato). Fin dall’antichità il linguaggio è stato considerato una caratteristica distintiva della specie umana. Erodoto riferisce il caso del faraone Psammetico che avrebbe condotto il crudele esperimento di prendere dei neonati e isolarli completamente, in modo tale da scoprire la lingua originaria. Già si sapeva infatti che gli schiavi presi in Africa e condotti in Egitto imparavano a parlare egiziano, sicché l’unico modo per sapere quale delle tante lingue del mondo fosse quella originaria (o meglio per scoprire se esisteva una lingua naturale originaria di tutti gli infanti, che si sarebbe poi modificata per via dell’educazione), era quello di isolare i neonati e tenerli lontani dal contatto con i loro simili. Non sappiamo se Psammetico abbia davvero effettuato questo esperimento o meno, ma qualcosa del genere è riuscita a farlo di certo la matrigna natura: le cronache scientifiche del Settecento sono infatti piene di notizie sul ragazzo selvaggio dell’Aveyron, uno dei primi casi studiati di “bambini-lupo”, allevati in isolamento dagli animali 13. Per insegnargli a parlare, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron venne sottoposto ad apprendimento forzato dal miglior clinico francese di allora, antesignano dell’attuale logoterapia (una storia dalla quale il regista francese F. Truffaut ha ricavato il suo film famoso su Kaspar Hauser). Egli apprese solamente pochissimi vocaboli, più o meno quanto una scimmia riuscirebbe a impararne. I ragazzi selvaggi costituiscono dunque una prova indiretta del fatto che non esiste una lingua innata, naturale, che precede tutte le lingua del mondo. In altri termini, l’apprendimento linguistico si basa su una capacità esclusiva, su una sorta di facoltà che potremmo aristotelicamente definire “potentia”, che, tuttavia, si trasforma in “atto” solo se c’è l’esercizio. Ma un apprendimento del genere non indispensabile solo per le capacità linguistiche, bensì anche per i sistemi percettivi: medici e neurologi sanno da tempo che, in assenza di stimoli adeguati, anche il sistema visivo dei mammiferi superiori non riesce ad acquisire la sua tipica e straordinaria abilità di fondere assieme dati che provengono da fonti diversissime: la percezione delle linee, la percezione del contrasto, la percezione del movimento, quella del colore, della tessitura, ecc. Tutto questo verrà poi assemblato nel cervello, non si sa ancora pienamente dove, fino al punto da produrre quel tipo di immagine, che a noi sembra bella e fatta, naturale e oggettiva, e che invece rappresenta il risultato di un’attività di integrazione dei dati che, dal punto di vista dell’elaborazione computazionale, e dura invece due o tre millisecondi. Sicché anche la visione ordinaria può dirsi retrodatata - un po’ come la percezione della luce delle stelle, che quando ci raggiunge si porta appresso alcuni anni luce. Qualsiasi cosa noi vediamo avviene cioè qalche millisecondo prima, perché ci vuole tempo perché l’integrazione dell’attività visiva attraverso tutti i suoi canali possa realizzarsi, anche se noi non ne siamo minimamente consapevoli. E’ dimostrato inoltre che, come altre, anche questa capacità del sistema nervoso dei mammiferi superiori si traduce in atto solo in una certa fase dello sviluppo e solo se avviene l’esperienza giusta. Nel Settecento vennero introdotte nella pratica chirurgica le prime operazioni alla cataratta: il caso più famoso è quello noto come “il cieco di Molineaux”, il quale, affetto dalla nascita da un problema alla cataratta, una volta operato fu tecnicamente in grado di vedere, ma non riusciva a riconoscere gli oggetti, cioè a conferire identità oggettuale alle cose, non perché non fosse stato abituato a sapere che esistevano gli oggetti e come erano fatti, bensì perché non gli funzionavano più i sistemi d’integrazione visiva, che era degenerati, non nella retina, rimasta intatta, bensì nelle vie posteriori, che portano alle aree corticali in cui si realizza il fenomeno percettivo della visione cosciente. Sappiano dunque da tempo che la maturazione in funzione dell’esperienza è un fattore cruciale necessario anche per i sistemi cognitivamente inferiori, ossia per quelli percettivi. ##### 13 Altri casi (quattordici per la precisione) sono stati registrati in seguito, dalla bambina selvaggia trovata in India al caso della piccola Jenie, segregata in cantina da una madre pazza americana per tredici anni dalla nascita. L’effetto baldwin Nel 1908 viene proposto un modello per risolvere il duplice problema dello sviluppo di attività cognitive (linguaggio) e di nuove capacità etiche (società), da un americano che si chiamava J. M. Baldwin. Baldwin era uno psicologo sociale, colto, che aveva precedentemente scritto un libro importante in due volumi sullo “sviluppo dell’intelligenza nella razza e nel bambino” , del 1895. Questo libro venne pubblicato anche in Europa e, capitato nelle mani di Freud, lo sconvolse perché gli americani stavano arrivando alla soluzione di un problema a cui lui lavorava da tempo. Il problema riguardava l’evoluzione della mente: c’era già l’idea che la mente si sviluppa sia nell’individuo che nella specie. Di questo c’era già consapevolezza: queste idee dello sviluppo della mente, che nell’800avevano già creato un ponte tra animali e uomini, attraverso la filosofia della natura tedesca, che si era molto concentrata sullo studio dello sviluppo individuale, cominciano ad influenzare la nascente antropologia fisica, la nascente criminologia, la nuova scienza linguistica storica (non più scienza cognitiva ma evolutiva,perché parla dell’evoluzione delle lingue), e la nuova psicologia cognitiva, compresa la teoria freudiana che assume una base biologica: la grande scoperta di Freud è quella di sapere che esiste una energia cognitiva, che è alla base di tutto, la “libido”, la cui natura è sessuale; ma la sessualità è la seconda fondamentale forza che Darwin aveva introdotto accanto alla selezione naturale per spiegare certi fatti. La sessualità è una forza biologica insopprimibile, che può solo essere tenuta sotto controllo (mai cancellata), perché è in conflitto con l’ideale dell’Io, la morale, e con la società. Quella di Freud è una traduzione di certi assunti del Darwinismo, in una chiave che, allora, era molto discussa: il rapporto tra lo sviluppo biologico e lo sviluppo etico-sociale. Il contributo specifico della psicoanalisi è la teorizzazione della dinamica psichica, e la formazione di una teoria del trauma per curare le nevrosi, e questo contributo specifico è ora superato; tuttavia, ciò che della psicoanalisi è ancora valido è che lo psichismo si imposta su un sistema di pulsioni biologiche, cioè lo psichismo umano modifica ma non cancella quelli che nell’800 venivano chiamati, anche da Freud, istinti e desideri. Baldwin è il primo a formulare la TEORIA PSICOGENETICA DELLA MENTE, cioè anticipa Piaget nell’ipotizzare lo sviluppo psichico del bambino. Piaget conobbe Baldwin, il quale aveva fondato “l’enciclopedia delle scienze sociali”, aveva formulato la teoria della psicogenesi della mente, ed era dovuto scappare dall’America, paese puritano, perché trovato in compagnia di una prostituta nera, e per questo arrivò a Parigi. La teoria psicogenetica di Baldwin dice che ciò che si sviluppa nel bambino, parte da dati innati acquisiti nell’evoluzione biologica, cioè dice, in altre parole, ciò che il grande morfologo tedesco, E. Haeckel, aveva chiamato “legge biogenetica fondamentale”14e che affermava che lo sviluppo individuale ricapitola lo sviluppo della specie e passa attraverso fasi che, nel processo filogenetico (= evoluzione naturale di tutte le specie), hanno portato alla progressiva differenziazione della nostra specie dalle diramazioni a noi prossime. Questa legge affermava anche che ogni individuo nasce con idee innate: dal punto di vista cognitivo, dunque, secondo questa legge ogni individuo avrà le capacità cognitive di tutte le specie di cui ricapitola l’evoluzione durante lo sviluppo embrionale. Secondo questa prospettiva, l’essere umano ha in sé almeno le capacità cognitive delle specie vicine e questo risolveva il problema cartesiano secondo il quale “senza idee innate non si costruisce l’esperienza”. L’intelletto, che trasforma l’esperienza non poteva essere una tabula rasa: tuttavia, adottando la prospettiva cartesiana (che sarà poi anche leibniziana), ciò che c’è fin dall’inizio nell’intelletto non ha niente in comune con le altre specie, cioè si affermava una 14 Questa legge era, in realtà già stata formulata da von Baer e anticipata da conoscenze mediche presenti addirittura in Malpigli. apevano com’diversità radicale tra condizione umana e condizione delle altre specie. Adottare la legge biogenetica fondamentale, significava dire “qualcosa di speciale c’è, ma non è tutto: l’apparato categoriale che noi ereditiamo dalla filogenesi è già molto ricco e tutto quello che noi vi aggiungiamo e che è tipico della nostra specie, può essere spiegato attraverso l’effetto Baldwin”. L’effetto Baldwin spiega qual è la relazione tra corredo genetico, comportamento e influsso dell’ambiente. C’è un corredo genetico (e né Baldwin ne Darwin sapevano com’era fatto, ma entrambi sapevano che senza ereditarietà non c’è trasmissione), che influisce sul comportamento (e questo lo sapevano bene gli allevatori che selezionavano le razze animali in base alle caratteristiche genetico-comportamentali): qualche quota comportamentale è sotto il controllo dei geni. Abbiamo poi la parte di comportamento che è sotto il controllo sociale: molti comportamenti sono il frutto di una trasmissione sociale, cioè dipendono in tutto e per tutto dalla cultura, anche quella animale perché anche gli animali hanno comportamenti sociali (es. società degli insetti). Fino a qui abbiamo solo la spiegazione del meccanismo darwiniano. Ora ci chiediamo: come possiamo introdurre in questo meccanismo un’ipotesi che spieghi il ruolo che ha il comportamento nel modificare la costituzione genetica? Lamarck aveva sostenuto la possibilità che il comportamento modifichi il corredo genetico, dicendo che “lo sforzo interiore che l’organismo compie per risolvere i problemi vitali è ereditabile e da luogo a modifiche che sono testimoniate dalla continua trasformazione delle specie”. Quando Baldwin scriveva, Weismann (darwinista tedesco, che con il suoi esperimenti voleva smentire la teoria neolamarckiana di Darwin, quella delle gemmale, della pangenesi) aveva dimostrato che non c’era trasmissione diretta delle modifiche anatomiche fondamentali sulla successiva generazione. L’alternativa è allora solo quella della selezione dei fenotipi da parte dell’ambiente. Baldwin ebbe un’idea sottile e brillante: brillante perché non è falsificabile, per questo alcuni l’hanno considerata non scientifica; sottile perché dal punto di vista strettamente logico è coerente con la prevalenza degli assunti darwiniani e con l’esistenza di meccanismi che sembrerebbero meglio spiegabili in termini lamarckiani. Parlando di intelligenza e linguaggio, l’idea è che inizialmente il controllo dei geni sul comportamento, nella nostra specie, era relativamente basso e questa concezione è compatibile con una certa interpretazione definita “pedomorfosi”, secondo la quale la specie umana è la meno specializzata che ci sia. Negli stessi anni in cui Baldwin scriveva veniva formulata la tesi pedomorfica: l’uomo è una specie di primate non specializzato e questo significa che il nostro comportamento dipende più dall’esperienza che non dalla conformazione genetica. Poi però, alcuni di questi comportamenti si rivelano molto più vantaggiosi di altri, avendo un alto ritorno, ad esempio quello di sviluppare la comunicazione sociale: ecco allora che i primati rendono sempre più “innati” certi atteggiamenti che poi diventano istinti. I gruppi di Primati sviluppano gli “istinti sociali”; comportamenti comunicativi e di mutuo soccorso, diretti al benessere del gruppo. Questi comportamenti sociali creano legami all’interno del gruppo, coalizzandolo e migliorandone le possibilità di sopravvivenza. Questo tipo di sistema diventa “istintivo”, cioè a questo punto viene tramandato geneticamente, ma non perché quel comportamento sia stato assimilato direttamente dai geni, ma perché il gruppo di scimmie che attua comportamento sociali risulta più forte rispetto ad altri gruppi di scimmie con i quali entrerà in competizione e conflitto. Il vantaggio selettivo derivante dall’integrazione dei comportamenti sia affidata a meccanismi sempre più automatici fosse alto nei confronti tra gruppi: se questo è vero avremo che il controllo diventa sempre più automatico, che l’importanza del gene nella determinazione del comportamento diventa dominante, e, attraverso questo meccanismo, voi acquisite senza sforzo quello che i vostri antenati hanno ottenuto con grandissimo sforzo, cioè, ad esempio il controllo degli organi fonatori al fine della comunicazione, per esempio la contemporanea specializzazione corticale per l’analisi del linguaggio udito e la produzione del linguaggio parlato. 3 LEZIONE - 17 gennaio 2004 Nel 1896 Baldwin e L. Morgan si incontrano a Chicago ad un convegno nel quale giungono con la stessa relazione: Baldwin era uno psicologo che nel 1895 aveva scritto un volume sulla psicologia genetica, e che rappresenta un precursore di quella che si chiamerà psicologia dello sviluppo; L. Morgan, è uno psicologo sociale, che propone un “nuovo fattore dell’evoluzione” (come l’avrebbe chiamato poi Baldwin). I due si sono accordati, scrivendo assieme un articolo su “American naturalist” riguardante “a new factor of evolution”. Nello stesso anno anche un paleontologo che si chiamava Osborn, scrisse un articolo contenente la stessa idea. Siamo alla fine dell’800, nel periodo di massima crisi del darwinismo: psicologi dello sviluppo e dell’infanzia (Baldwin aveva appena scritto il libro sullo sviluppo della mente nel bambino), psicologi sociali e paleontologi, che non trovavano l’anello mancante e che avevano nelle evidenze fossili continue discontinuità, propongono una idea geniale per spiegare sia i salti, cioè la discontinuità dell’evoluzione, sia l’importanza della dimensione psico-sociale, cioè quello che Piaget avrebbe chiamato, negli anni ’60, il “comportamento motore dell’evoluzione”, dove per comportamento si deve intendere anche il comportamento mentale (significato sottolineato da Lorenz 15). L’effetto Baldwin ottiene dunque, un duplice risultato: spiega le discontinuità, spiega l’importanza del comportamento e della dimensione psichica nell’evoluzione. L’effetto Baldwin, mostra come sia stretto il rapporto tra problematiche biologiche e problematiche psico-sociali e viene applicato al problema dell’origine del linguaggio e alla questione delle discontinuità evidenziate nella macroevoluzione e definite da Eldridge e Gould come “equilibri punteggiati”16. L’effetto Baldwin sostiene una tesi in apparenza lamarckiana, cioè la fissazione a livello genetico, di comportamenti che hanno avuto successo nell’adattamento all’ambiente dell’individuo e della popolazione cui questo individuo appartiene, attraverso una specie di introiezione dei meccanismi di apprendimento sociale (comportamento imitativo, comportamento intelligente). L’apparente lamarckismo è dato da una errata interpretazione secondo la quale ciò che viene appreso attraverso l’esperienza e l’imitazione sociale verrebbe trasferito al patrimonio genetico. Vero è invece che per lungo tempo non si vedono significative trasformazioni, nelle serie fossili, che poi arrivano, in tempi abbastanza brevi, a manifestare nuove capacità connesse alla soluzione dei problemi. Per spiegare questo fenomeno, si deve supporre che dapprima a livello di fenotipo (che comprende il comportamento e la capacità di elaborazione di dati nel risolvere problemi) si creino delle tradizioni, cioè si comincino ad introdurre pratiche nuove che poi si diffondono per imitazione sociale (ad esempio il lavare le patate in acqua di mare da parte di alcuni tipi di scimmie): già a livello delle scimmie esistono delle pratiche individuali, che costituiscono metodi di risoluzione di problemi, e che poi si trasmettono culturalmente diventando una tradizione. Se la pratica che si afferma è, per caso, connessa alla capacità di elaborare simboli, a cominciare dal sistema gestuale, e cominciare dal controllo degli organi fonatori che permettono la modulazione 15 Con Lorenz e la scuola etologica diventa chiaro che sia a fini tassonomici, cioè per stabilire le differenze tra specie, sia a fini cognitivi, cioè per definire ciò che von Uexkull (maestro di Lorenz) aveva definito come Umwelt (= ambiente) degli animali, è necessario considerare gli aspetti comportamentali come specifici di ciascuna specie. Questo significa che i comportamenti sono caratteristici della specie quanto la morfologia e ciò significa che si devono considerare non solo gli istinti ma anche le attitudini all’apprendimento come rilevanti a i fini della filogenesi. 16 Questa teoria dice che nell’evoluzione ci sono lunghi periodi di stasi, separati da periodi relativamente rapidi (100150 mila anni) di trasformazione, e di questi fatti offre una spiegazione in termini di “exaptation”, che è molto simile a quella fornita dall’effetto Baldwin. del suono, allora potrà crearsi un circolo virtuoso, tra la accidentale trasformazione degli organi fonatori e un gruppo di nuove capacità per l’apprendimento precoce del linguaggio. Queste nuove capacità, diversamente da ciò che pensava N. Chomsky, sarebbero una specie di coordinazione sinfonica di pratiche già presenti nella fase pre-linguistica che lo sviluppo del linguaggio fa esplodere e che “catalizza” in un sistema che, a quel punto, ha capacità fonologiche, grammaticali, sintattiche e iconico-gestuali. Questa è la spiegazione di come l’origine delle facoltà linguistiche entra in gioco in questa nuova filosofia naturalistica che nasce non direttamente da Darwin ma dalla tradizione darwiniana che si sviluppa continuamente e che non è possibile fissare. Oggi la biologia è darwiniana ma in un senso diverso rispetto a 100 anni fa, perchè viene riconsiderato l’effetto Baldwin, mentre nel periodo di sviluppo della “Nuova Sintesi”, 1935-4517, gli anni in cui si crea il legame tra darwinismo e genetica mendeliana, esso veniva considerato inconsistente e troppo vicino a posizioni lamarckiane. Oggi, dopo 50 anni, esce un libro che riconsidera il ruolo che l’effetto Baldwin gioca nella spiegazione del rapporto tra evoluzione e apprendimento: in questo testo sono raccolti i contributi di Deakon e Dennett, che maggiormente hanno influito sul recente dibattito dell’origine delle capacità simboliche e dell’intenzionalità sul linguaggio, ed entrambi si rifanno all’effetto Baldwin. Negli stessi anni nei quali l’effetto Baldwin era visto con sospetto dai biologi, J. Piaget sostiene l’importanza del comportamento cognitivo come fattore dell’evoluzione, e, nel quadro della sua epistemologia genetica, K. Popper mette l’effetto Baldwin alla base della sua teoria del darwinismo attivo 18, che sarebbe basato sulla selezione delle abilità, anziché sulla selezione della morfologia. Non c’è accordo sul periodo nel quale si è sviluppato il linguaggio come conquista stabile tra gli ominidi. Con grande probabilità i nostri progenitori e i neanderthaliani comunicavano verbalmente e gestualmente (anche le scimmie lo fanno), ma la qualità di questa comunicazione può essere solo inferita dal livello di finezza dei manufatti. Purtroppo la serie di strati geologici che vanno dal Paleolitico al Neolitico, mostra una drammatica stabilità tra Paleolitico inferiore e Paleolitico superiore, il quale è molto vicina al Neolitico. Noi abbiamo una testimonianza delle capacità dettata dall’industria, dalla cultura materiale, ma tra il primo stadio, quello molto arcaico del Paleolitico inferiore e appartenente probabilmente a lignaggi non-umani, e lo strato del Paleolitico superiore, che è molto tardo, c’è un vuoto enorme, cioè non ci sono molte testimonianze e non c’è variazione. Il salto cognitivo, testimoniato dagli oggetti , è molto tardo e molto vicino al periodo Neolitico (dai 13 ai 7000 anni fa) nel quale è certa la presenza del linguaggio articolato e simbolico e di una cultura quasi storica. E’ molto difficile avere testimonianze del periodo Paleolitico e ancor più sapere a chi appartenessero i pochi strumenti rinvenuti: sapiens e neanderthaliani esistevano entrambi e la teoria più accreditata oggi è che fossero due specie, sostanzialmente isolate, ma tutte e due capaci di sistemi di comunicazione simbolica diversi. Mentre siamo in grado di dire che i neanderthaliani probabilmente non parlavano un linguaggio complesso, e parlavano un proto-linguaggio, molto semplificato, non siamo invece in grado di sapere come parlassero i sapiens sapiens, alla soglia di 17 Anni in cui vengono pubblicati i libri di Huxley (nipote del “mastino” di Darwin), T. Dobzansky, E. Mayr, J.J.Simpson e nei quali tra questi autori si crea un dibattito sull’effetto Baldwin nel quale molti di questi autori finiscono con il considerarlo privo di fondamento. 18 Popper dice che la parte psichica dell’evoluzione biologica è relativamente autonoma, produce effetti vantaggiosi anche con la rozza strumentazione di cui dispone; questi effetti vantaggiosi sono in grado di accumularsi per la loro utilità pratica, attraverso strumenti non genetici, l’imitazione sociale e l’apprendimento collettivo, modificando il mondo in modo tale che dall’ambiente esterno certe pressioni selettive si esercitino sull’interno degli organismi, finisce per creare quelle stesse condizioni, che poi fanno scattare la selezione naturale delle varianti favorevoli. Ogni animale vive in un mondo nel quale ha dei margini di libertà e nel quale si forma il suo “vissuto”, il quale costituisce la loro nicchia ecologica e fa parte di un complesso ecosistema. La modificazione dell’ambiente, provoca degli effetti che poi hanno un valore selettivo; cioè, a forza di acquisire delle abilità, si creano le condizioni più favorevoli perché venga selezionata la struttura organica corrispondente, avvantaggiando gli individui che sono portatori delle varianti più opportune. quella chiara fioritura di una nuova cultura materiale che occupa uno spazio troppo vicino al Neolitico per poter dire che ci sia stato un progresso nel linguaggio. Anche se non si sa quando sia avvenuto il passaggio al linguaggio, dobbiamo supporre che prima di parlare gli ominidi abbiano avuto un lungo processo di accumulazione progressiva degli elementi che un giorno produrranno questa nuova attitudine integrata. Il processo si costituisce di singole capacità originariamente destinate ad altro scopo, e non dalla creazione immediata di una grande macchina composta dalle nostre capacità lessicali, grammaticali, sintattiche, ideografiche. Sappiamo, fin dall’800, che il linguaggio ha delle aree corrispondenti nel lato sinistro del cervello, studiate da Broca in Francia e da Wernicke in Germania: allora si pensava fossero le uniche connesse con i diversi compiti linguistici: comprensione della serie fonologica, comprensione concettuale, rappresentazione immaginativa, e produzione della risposta attraverso il controllo degli organi fonatori. Approfonditi studi degli ultimi 30 anni hanno dimostrato che il controllo degli organi fonatori dipende da strutture sotto-corticali oltre che all’area di Broca19: in particolare l’ippocampo, che fa parte del sistema libico, si è dimostrato determinante nel pianificare le parti del discorso. L’ippocampo è una struttura che ha notevole influenza sulla fissazione della memoria, ma sembra che abbia diretta attinenza con la speciale forma di memoria del linguaggio. Questi studi hanno evidenziato: la trasposizione sul lato destro del cervello di funzioni connesse al linguaggio in soggetti con precoci menomazioni delle aree linguistiche sinistre, e una diversa attivazione di aree cerebrali che fanno l’analisi del lessico tra i termini che appartengono al linguaggio ordinario, es pecora, casa, e i termini che appartengono al linguaggio che esprime artefatti, es. televisore, martello, (curiosamente sembrano rappresentate in aree diverse, ma non si sa se queste aree sono tutte indispensabili, se realizzano una rappresentazione o hanno un semplice ruolo di innesco). Soprattutto questi ultimi elementi sono strani, e suggeriscono l’idea che esistano delle forti correlazioni tra la memoria delle immagini, la categorizzazione percettiva, e la categorizzazione linguistica; un’ipotesi potrebbe essere che tutto il repertorio percettivo, che fa parte della prima infanzia e che si riferisce al tipo di esperienza a cui i nostri antenati sono stati esposti molti millenni fa nella fase dell’ominazione, sia legato alla rappresentazione visiva e alla categorizzazione percettiva basata sulla visione. Esistono due schemi di categorizzazione molto diversi tra artefatti, che sono strumenti fatti da noi di cui ci interessa sapere solo a che servono e come si usano, e generi naturali, che sono interessanti anche per il loro effetto su di noi e dei quali devo sapere le caratteristiche. Non è più possibile pensare che le aree di Broca e Wernicke siano la macchina innata che apprende tutti gli aspetti del linguaggio: ad esempio un bambino americano di 6 anni, a cui fu asportato il lato sinistro del cervello per una gravissima forma di epilessia, conservò una certa capacità linguistica e la incrementò perché, dal momento che l’emisfero sinistro funzionava malissimo dalla nascita, aveva già attuato il trasferimento delle capacità linguistiche sul lato destro; ad esempio, la capacità di dare al linguaggio una tonalità affettiva e interpretare quella degli altri, viene realizzata, da un cervello più arcaico della corteccia, da una parte più profonda e questo non sorprende se pensiamo che l’affettività è il canale attraverso il quale avviene la comunicazione animale.Questo significa che la competenza linguistica mobilita competenze molto più arcaiche. Ora si tratta di capire come e perché è comunque geneticamente determinata la capacità di linguaggio. Se dico che il linguaggio mobilita competenze non tipicamente umane ma in continuità con gli ominidi arcaici e con le attuali scimmie antropomorfe, non per questo intendo negare che la capacità di apprendere un linguaggio verbale sia tipicamente umana, quindi, che ci sia una base genetica. Infatti non è possibile insegnare ad una scimmia, anche molto intelligente come “Kantzy” (femmina di bonobo), a sviluppare la sua competenza linguistica oltre un livello di base costituito da circa 200 19 Una lesione all’area di Broca rende afasici, ma tale lesione interrompe un circuito che arriva alle strutture più profonde: la zona fonatoria non serve solo per parlare ma anche per deglutire, per mangiare e bere, per respirare, perciò non sorprende che sia controllata anche dal cervello libico; la corteccia vuole utilizzare quella zona esclusivamente a fini fonatori, ma il sistema libico e il tronco encefalico avanzano pretese di controllo più diretto ai fini della sopravvivenza. vocaboli, riconoscimento simbolico e utilizzo di diverse vie di linguaggio, e soprattutto essa non sarebbe mai stata in grado di assimilare da sola questo livello di linguaggio, sebbene sia la scimmia che maggiormente ha imparato per assimilazione diretta. D’altra parte abbiamo il caso dei ragazzi selvaggi che non riescono ad imparare il linguaggio umano, se l’insegnamento non è avvenuto entro una certa età. Perciò una quota della capacità linguistica è controllata geneticamente.Tra gli anni ’70 e ‘90 si sono scontrate due diverse teorie sul linguaggio: l’una è quella di Fodor ed è la teoria modulare della mente, che afferma che il linguaggio è rappresentato da competenze diverse ma tutte queste sono macchinette diverse, che sono incapsulate geneticamente e non possono essere modificate dall’esterno, ma solo esercitate; la seconda concezione, che si è sviluppata tra gli anni ’80 e ’90 è quella, in campo neuropsicologico, di Edelman20 il quale sostiene che il linguaggio nella sua generalità, cioè come strumento simbolico in grado di affrontare la trasmissione di concetti, richiede l’integrazione di quelle aree del cervello che non sono apparentemente linguistiche. Egli ha prodotto una teoria largamente conosciuta, chiamata darwinismo neurale che è basata sull’idea secondo la quale l’apprendimento è un processo che avviene tra gruppi di neuroni mediante la lotta e la selezione tra loro, dando inizio allo spazio delle connessioni sinaptiche: in altri termini, apprendere significa conquistarsi connessioni stabili a danno di concorrenti che vorrebbero ma non riescono a fare altrettanto. L’idea di Edelman è che all’inizio c’è un ricco spazio di possibilità, e qualsiasi bambino impara perfettamente la pronuncia del luogo presso il quale viene educato, cioè se ci sono i suoni, noi cominciamo a riconoscerli; mano a mano che riconosciamo questi suoni, costruiamo l’ipertesto, cioè si crea la traccia, ossia un gruppo di cellule disposte in una certa geometria, a colonna, diventano attivabili tutte assieme appena compare qualche carattere simile a quello che loro devono riconoscere. Questo significa che se noi fissiamo alcuni stili di comunicazione, alcuni modelli di analisi fonologica, alcuni modelli articolatori, in modo molto precoce e molto precisa, poi non abbiamo più abbastanza cervello per specializzarci su qualche altra cosa, cioè non è che non l’abbiamo in generale, non l’abbiamo per specializzarci nella pronuncia, ma le altre lingue possiamo impararle sempre. Nessun bambino imparerà a parlare perfettamente una seconda lingua dopo i 6-8 anni: la parlerà bene o anche molto bene, ma non impara una pronuncia indistinguibile da quella che ha nella sua lingua madre. Anche i bilingui hanno sempre una lingua dominante, ma loro riescono ad imparare la pronuncia perfettamente, perché imparano le due lingue contemporaneamente, sviluppando una competenza doppia, testimoniata dal fatto che impiegano più tempo a parlare: mentre il monolingua parla a 12-13 mesi, il bilingue parla a 16 mesi, perché c’è un lavoro in più che richiede un tempo in più. Questa situazione è stata concepita in due modalità diverse da due autori diversi: Deacon e Dennett, che si occupano della filosofia della mente e in particolare del rapporto linguaggiopensiero. Una prospettiva ritiene che, a livello umano, tutto il pensiero sia linguistico, che non esista pensiero senza linguaggio e che ogni nostra capacità di ideazione, rappresentazione e soluzione di problemi siano mediate dalla lingua; l’altra prospettiva ritiene che ci sia un sistema simbolico sottostante, più generale di quello linguistico, che viene progressivamente dominato dal linguaggio, ma mai assorbito completamente: in questo caso il sistema simbolico è costituito da simboli che non sono quelli analizzabili analiticamente, come ad esempio le immagini del sogno, le rappresentazioni cinematiche…Una tale categorizzazione percettiva non è esclusiva dell’uomo, ma appartiene anche agli animali: ad esempio il piccione viaggiatore compie lunghissimi viaggi orientandosi con dei riferimenti a terra e correggere continuamente la rotta, e può essere addestrato a cambiare percorso, perciò è in grado di utilizzare delle mappe triangolari che gli consentono di raggiungere la meta. Ma c’è una domanda: il piccione categorizza oltre che fissare e triangolare? E’ stato fatto un esperimento nel quale al piccione sono state mostrate delle foto di ciò che era stato addestrato a riconoscere nel percorso migratorio: tra foto e mondo reale c’è una distanza enorme, tanto che anche alcune culture umane non riconoscono le immagini in fotografia. Il piccione è in grado di 20 Edelman ha vinto il premio Nobel per l’immunologia nel 1973, e ha fatto le più importanti scoperte sul funzionamento selettivo del sistema immunitario: egli ha iniziato ad applicare il modello della selezione anche al funzionamento del cervello. dirigersi sull’albero del quale vede in fotografia la foglia, possiamo allora ipotizzare che categorizzi. Questo dimostra che esiste un linguaggio basato sulla percezione che è in grado di formare, in un cervello non-linguistico come quello del piccione, categorie naturali. Secondo Edelman, questa è la prima condizione necessaria e sufficiente, perché poi si sviluppino, attraverso sovrapposizioni molteplici tra le diverse funzioni del cervello, i comportamenti linguistici; egli sostiene che il linguaggio sia basato sulla categorizzazione percettiva e che ci sia continuamente una trasposizione delle categorie percettive in codici linguistici e che senza questa multiforme attività di parti diverse del cervello, che di solito elaborano immagini, noi non potremmo imparare il linguaggio come lo conosciamo cioè con la sua capacità di suscitare delle rappresentazioni distinte. Noi siamo in grado di trasformare le parole in rappresentazioni e in immagini: anche i primati, addestrati ad utilizzare il linguaggio jerkisch imparano a descrivere ciò che vedono, cioè hanno la capacità di passare dalla concettualizzazione linguistica alla concettualizzazione percettiva, ed è implicita. Le posizioni di Fodor (modularismo) ed Edelman (selezionismo) si sono combattute per circa 10 anni, dopo di che il dibattito si è smorzato da solo, anche perché stanno aumentando gli studi empirici sul funzionamento dei sottosistemi cerebrali collegati al linguaggio. E’ interessante che ritorni il problema del ruolo dello psichismo nel dirigere l’evoluzione biologica: queste questioni servirono per superare le difficoltà del darwinismo di fine ‘800, risultarono del tutto inutili quando ci fu la Nuova Sintesi darwiniana, a metà del ‘900, infine ritornarono quando si capì che la Nuova Sintesi non aveva risolto tutti i problemi e c’erano ancora molte cose da spiegare. Il problema più arduo è la biologia dello sviluppo, non solo quello embriologico ma anche quello maturativi e individuale: durante lo sviluppo i geni intervengono, ma l’azione genica è modificata dall’esperienza, cioè a seconda dell’ambiente in cui viviamo e delle abitudini che acquisiamo il sistema genetico si modifica, fa esprimere di più certi geni e di meno altri. Ad esempio l’alcolismo: non esiste il gene dell’alcolismo, ma esiste una struttura che, precocemente esposta all’alcol, modifica la propria risposta genetica producendo un certo tipo di mediatori cerebrali in maniera più massiccia di altri, e quindi assume la condizione di alcolista che è una condizione genetico-epigenetica, perché l’alcolista non ha solo un alto tasso di alcol nel sangue, ma ha anche una certa espressione dei geni che producono i mediatori cerebrali, cioè ha più mediatori rispetto ad un non-alcolista, nell’ambito di quelli che fanno dell’alcol una sostanza indispensabile al funzionamento del cervello. La dipendenza richiede un intervento dei geni regolatori, modifica i geni regolatori ed è un casolimite del funzionamento normale del cervello. Quando il cervello viene addestrato anziché inebriato, si produce un potenziamento di alcuni geni rispetto ad altri, ma questo non significa che i geni depotenziati scompaiano, rimangono silenti e, al momento opportuno, possono essere reclutati per svolgere compiti prima inattesi. Questo fenomeno era noto a livello morfologico come “caso del melanismo industriale” (studio condotto in Inghilterra e nord-America a partire dagli anni ’30 sulle farfalle nere e bianche: quando le cortecce degli alberi erano affumicate dalle esalazioni di carbone, c’era una maggior presenza di farfalle nere, successivamente con il miglioramento dell’aria e il ripristino della corteccia normalmente chiara degli alberi, le farfalle bianche, in minoranza ma mai scomparse, ritornarono le più numerose) e dimostra l’esistenza del polimorfismo non solo a livello di geni che controllano il corpo ma anche quelli che controllano l’espressione dei metaboliti cerebrali. All’orizzonte delle nuove ricerche, la cosa più importante non è tanto stabilire se qualcosa è darwiniana o no, ma verificare se evidenze empiriche sempre più sofisticate, ci permettono di capire come a livello molecolare si realizza il polimorfismo, cioè come a livello molecolare la struttura delle competenze e lo sviluppo delle capacità, influisce sui geni regolatori e come mai alcuni geni, presenti ma che erano rimasti silenti, diventino poi geni controllori del funzionamento cerebrale. “EVOLUZIONE E DIO” PROF. MASSIMO STANZIONE : 4 LEZIONE - 26 gennaio 2004 Due sono i piani nei quali la biologia è intervenuta a suggerire sviluppi nell’ambito dell’epistemologia generale: l’ambito della conoscenza e quello del linguaggio e delle altre forme di comunicazione sociale. Questi ambiti problematici erano già presenti negli anni in cui Baldwin scriveva e sono ancora presenti nei dibattiti contemporanei sullo sviluppo della socialità umana e del linguaggio, due temi che vengono sempre affrontati assieme 21, come nuove conoscenze che però provengono più dalle discipline ausiliarie della biologia molecolare ad esempio che non dalla biologia evoluzionistica in senso stretto, e questo probabilmente perché se a fine ‘800 il problema era quello della discontinuità, negli anni intorno al 1973 appare la teoria degli equilibri punteggiati che cerca di spiegare la discontinuità. Poiché una di queste discontinuità è l’emergenza del linguaggio di tipo umano: anche se appartiene allo strato più sottile del cervello ed è l’avvenimento più recente in assoluto, non esiste una teoria unica per spiegarlo in termini biologici. Questo non significa che non ci sia più di una teoria plausibile, e non significa che esista una mezzo ulteriore, extra-scientifico, per rendere conto di questo fenomeno, sebbene nel Novecento molti autori, il più famoso di tutti è Heidegger, abbiano considerato il linguaggio secondo tutt’altra prospettiva, cioè come sede in cui si costituisce l’umano, nella sua storicità, gettatezza ecc… A dire il vero, non sarebbero due approcci irrimediabilmente in conflitto, lo diventano perché Heidegger dietro queste tesi assume un’antropologia che divide nettamente l’animalità dall’umanità, non ammettendo alcuna transizione graduale tra animale e uomo. Heidegger recupera la definizione di animalità fornita negli anni ’20 dai suoi maestri di biologia (J. von Uexkull e K. Lorenz), che definisce l’animale come un vivente chiuso nel circolo degli istinti. Mentre l’uomo è aperto ad infinite possibilità ed è libero dall’istinto, l’animale, al contrario, è perfettamente adattato ad un ambiente specifico, non soffre, non sente, ed è chiuso nel circolo istintuale: Heidegger conosce gli studi di von Frisch sulla psicologia animale e di Kohler sulla capacità delle scimmie di risolvere problemi, ma egli ritiene che i comportamenti animali si svolgano solamente in presenza di stimoli e quindi non comportano alcuna nozione di oggettualità, è un operare non categoriale. E’ interessante notare come alla fine dell’800 il concetto di ISTINTO fosse “in ebollizione” in ogni ambito delle scienze umane e naturali: c’era, ad esempio, in Freud, che lo aveva ricavato dalla biologia lamarckiana (Freud non era darwiniano, bensì piuttosto un psicolamarckiano), e aveva costruito i suoi miti fondativi (dell’uccisione del padre, della figura totemica, del complesso di Edipo), mediante l’idea che questi miti derivassero dalla “esperienza della specie”. Freud tentò, cioè, un’unione di psichico e biologico, dove lo psichico ha già una valenza simbolica, ma per questo gli serviva una visione lamarckiana: l’ipotesi che a divenire innato fosse il complesso psichico, non una semplice attitudine al comportamento. Questo valeva anche per l’antropologia e per la criminologia (cfr. Lombroso) che adottarono spesso assunti psico-lamarckiani: non solo la predisposizione al comportamento, ma anche i contenuti psichici dei criminali erano derivati da caratteri genetici atavici, cioè caratteri che erano stati superati dal successivo sviluppo della specie, e si presentavano dunque come residui arcaici, dai quali il criminale era ineluttabilmente spinto a sviluppare i caratteri della sua devianza. Il concetto di istinto divenne poi centrale nell’etologia di K. Lorenz, che, per spiegarne il meccanismo, elaborò, negli anni ’30 e ’40, il modello psico-idraulico. Semplificando: l’istinto serve a scaricare energie che si producono spontaneamente in ogni vivente, il che avviene in presenza di uno stimolo esterno scatenante. Se lo stimolo scatenante non c’è assistiamo alle azioni “a vuoto” che servono al rilascio dell’energia in eccesso. Heidegger rimarrà molto aderente a questa versione della teoria degli istinti di Lorenz , che però verrà messa in discussione dopo gli anni ’50 e successivamente modificata dalla scuola etologica 21 Cfr. libro di Depew e Webber sull’effetto Baldwin. inglese e americana di R. Hinde e N. Tinbergen, che ne proporrà una versione molto più moderata in cui l’apprendimento, sia adulto che precoce, gioca un ruolo e comincia ad essere problematico spiegare la nascita dell’istinto. Per Lorenz l’istinto è qualcosa di innato e a priori per l’individuo, e che era il risultato di quel procedimento di apprendimento dall’esperienza che si era attuato negli individui nel corso dell’evoluzione biologica: quello che è a priori per l’individuo è un’acquisizione a posteriori della specie, cioè si è fissato attraverso la selezione naturale: una variazione casuale favorevole avrebbe reso il comportamento stereotipico e meccanico vantaggioso. Dentro questa prima concezione, Lorenz stesso trova lo spazio per dare maggior peso all’apprendimento quando si avvicina al linguaggio: se si è formata con un meccanismo analogo la nostra capacità di apprendere il linguaggio, la questione è “qual è la variazione casuale può essere stata vantaggiosa in questo senso per poi fissarsi geneticamente?” e a questa domanda offre un percorso di risposta proprio l’effetto Baldwin. Non basta una sola variazione, come dicevamo, ma servono molte variazioni in diverse direzioni: variazione nella capacità dell’analisi fonetica, una variazione nella capacità di controllo articolatorio, poi serve una funzione che consenta al cervello di connettere immagini a simboli, poi c’è un apparato che favorisce lo sviluppo della conoscenza del parlato e questo apparato non è unico ma, sul piano grammaticale, il linguaggio ha due rappresentazioni (area di Wernicke - per la grammatica “in ingresso”, cioè scomposizione dei fonemi ascoltati e produzione di una rappresentazione ricevuta - e di Broca - per la grammatica “in uscita” cioè ricomposizione di fonemi per il linguaggio parlato e rappresentazione prodotta)22. La facoltà linguistica non si può declinare al singolare, perché sono più le capacità coinvolte. Lorenz è una figura di passaggio per capire il naturalismo odierno. Lorenz è l’unico scienziato, etologo, che si sia proposto come filosofo; egli ha chiesto, ed ottenuto, la cattedra di Kant a Konigsberg, e ha scritto nel 1973, anno in cui prese il premio Nobel assieme a Tinbergen e Hinde, il libro “L’altra faccia dello specchio”, nel quale traccia la sua filosofia che si basa su un realismo ipotetico-congetturale (tutta la tradizione aristotelico-tomista è realista) che ritiene la relazione soggetto-oggetto una relazione tra cose reali, ma poiché il soggetto ha limitazioni proprie, allora la conoscenza è sempre qualcosa di relativo al livello di sviluppo degli strumenti conoscitivi e al livello di sviluppo delle nostre categorie di pensiero che ci consentono di schematizzare i segnali che arrivano dalla realtà. I segnali provenienti dalla realtà devono essere inquadrati entro categorie che Lorenz attinge da Kant (1941 “La dottrina kantiana degli a-priori alla luce della attuale biologia”): il realismo ipotetico di Lorenz è una naturalizzazione di Kant. Per far questo, Lorenz parte da ciò che aveva fatto nell’800 un certo Fries, il quale aveva fisiologicizzato le categorie di Kant, e fu il primo a dire che il modo in cui sono fatti i sistemi sensoriali corrisponde materialmente, ovvero incarna quello in cui Kant aveva presentato le sue forme pure a priori dell’intuizione sensibile. In altri termini, Fries aveva tradotto in termini di funzionamento fisiologico quello che Kant aveva presentato in termini trascendentali. I neokantiani avevano respinto questo tentativo perché, per definizione, il trascendentale non può essere tradotto in apparato fisiologico, e avevano ragione. Allora rimaneva aperta la domanda: A che cosa serve il trascendentale? Serve davvero il trascendentale se non può essere tradotto in termini fisiologici? I primi dubbi vennero non dalla biologia, ma dalla matematica e dalla geometria A partire dal 1865 si svilupparono quegli approcci matematici divenuti poi noti come “geometrie non-euclidee”, che nel loro insieme dimostrarono come la geometria euclidea non fosse l’unica geometria concettualmente possibile, né l’unica geometria coerente, sebbene fosse sicuramente l’unica usata dal nostro sistema nervoso. 22 Su queste tematiche: cfr. “Neurosciences and the Person” a cura da M. Arbib e J. Le Doux. L’interrogativo centrale del volume è: “prendiamo sul serio o no quell’immagine dell’uomo che ci offrono la biologia e le neuroscienze?”. Le risposte si differenziano sul versante teologico, ma tutte concordano sulla necessità di prendere sul serio i dati provenienti dagli studi biologici e neuroscientifici. Nell’assunto kantiano sembrava sottinteso che trascendentali dovessero essere le forme pure a priori e le categorie che servivano per costruire la matematica come scienza rigorosa, la geometria come scienza dello spazio sensibile e la fisica come scienza sintetica a priori. E’ chiaro che, se il passaggio intermedio, quello della geometrizzazione dello spazio,così importante per la costruzione di una fisica matematica, risulta essere non più unitario,esplode subito il problema di come intendere la matematica: per Kant essa era un giudizio analitico fondato sulla intuizione del tempo, ma per molti altri, all’inizio del ‘900, essa si fonda sulla logica (es. Frege, Russell, Hilbert, Brower) – anche se questo tentativo fallisce. In breve: la fisiologizzazione delle categorie kantiane non era fattibile, ma neppure si potevano lasciare le categorie così come erano state sistemate da Kant, perché in quella veste erano già superate. Lorenz intraprende dunque una strada diversa, volta a giustificare la biogenesi specie-specifica delle categorie: essa spiega come ogni specie animale abbia le sue categorie (che sono ridotte e accorpate rispetto a quelle kantiane, sulla base delle indicazioni fornite da von Uexkull all’interno della tematizzazione del concetto di Umwelt23). Secondo Lorenz, Kant ha sbagliato in primis perché ha presentato le categorie come costanti universali atemporali (senza cioè indagarne la genesi, né a livello dell’individuo, né a livello della specie), poi perché le ha presentate come se valessero solo per l’uomo, infine perché le ha presentate come immodificabili e definitive. Tra il 1941 e il 1973, lo stesso periodo nel quale Lorenz si occupa di queste tematiche kantiane, lo psicologo J. Piaget costituisce a Ginevra il “Centro di epistemologia genetica”, nel quale avvia un programma di ricerca tra psico-genesi e biogenesi. Anche Piaget vuole spiegare che cosa sono e a che cosa servono le categorie kantiane. Kant non si era occupato né della storia della specie né, tanto meno, di quella dell’individuo; Lorenz aveva detto che le categorie kantiane, opportunamente semplificate e accorpate, derivano dalla storia della specie (filogenesi); adesso, infine, Piaget dice che le categorie kantiane vanno inserite nello sviluppo dell’individuo (ontogenesi) e che esse valgono per individui cognitivamente maturi. Piaget è uno psicologo che, più di tutti gli altri, ha studiato problemi di filosofia della logica e della biologia, producendo una sintesi pressoché unica nel ‘900: è stato l’unico a studiare lo sviluppo delle categorie logiche e, nello stesso tempo, a indagare il sottostante sviluppo dei sistemi di equilibrazione; è stato anche il primo a dire, molto prima che venissero fatte le critiche alla Teoria Sintetica dell’evoluzione 24, che non bisognava essere né lamarckiani, né darwiniani. Secondo Piaget, il modo neodarwiniano di considerare i rapporti tra organismo e ambiente sottovaluta il ruolo attivo svolto dagli organismi, attraverso il comportamento, nel dirigere l’evoluzione (cfr. J. Piaget, Comportamento: motore dell’evoluzione, 1965). E questo è il meccanismo messo in luce dall’effetto Baldwin, anche se Piaget vede come suo precursore non tanto Baldwin, che pure aveva conosciuto a Parigi, quanto K. Waddington e la sua “assimilazione genetica”. Waddington è un importantissimo embriologo inglese che vive la massima stagione dell’embriologia di Cambridge, e partecipa al Theoretical Biology Club, luogo di importantissime discussioni epistemologiche del ‘900, assieme a S. Haldane (il matematico che tanto aveva contribuito allo sviluppo della genetica di popolazione) e a J. Needham (studioso della filosofia della biologia, impegnatosi nella discussione tra meccanicismo e vitalismo, che negli anni ’30 era ancora in pieno svolgimento, e successivamente fondatore di un nuovo ramo di ricerca: lo studio storico della sviluppo della scienza non occidentale). Tutti costoro sostenevano che la biologia non è come la fisica: è incentrata sugli organismi, sicché, per quanto presupponga le leggi della fisica e della chimica (e pertanto escluda qualsiasi vitalismo), non presuppone l’applicabilità di quelle stesse leggi agli organismi viventi: alle leggi fisico-chimiche che rendono ragione dei costituenti organici si devono aggiungere le relazioni che i sistemi organici hanno tra loro. Questo è 23 Umwelt (ted.) = mondo ambientale, nicchia ecologica dell’animale. In questa nicchia l’animale distingue, attraverso l’intuito, tra componente spaziale, temporale, qualitativa e qualitativa. L’animale si comporta “come se” venissero formulati giudizi razionali, ma non vengono formulati giudizi razionali. 24 La Teoria Sintetica dell’evoluzione era stata consacrata ufficialmente nel 1959 in un convegno organizzato da S. Tax. l’approccio olistico alla nozione centrale in biologia che è quella di individuo: non c’è biologia se non ci sono gli individui, i quali sono costituiti di parti ma ciò che hanno di caratteristico è la relazione che le parti stabiliscono tra loro. Poco dopo questo approccio sarebbe diventato cibernetico. Waddington studia la “regolazione di regolazione”: in ambito embriologico si creano dapprima delle regolarità per la regolazione di una struttura polare e successivamente se ne creano che, per via di ulteriori differenziazioni il sistema cambia continuamente modello di regolazione, ma non del tutto. Waddington studia i complessi modi in cui cambiano i sistemi di regolazione dello sviluppo dell’embrione, Piaget studia il complesso modo in cui cambiano i criteri logici dello sviluppo individuale. La ricerca piagetiana ha un’importante precedente nella tradizione haeckeliana, la quale affermava che lo sviluppo individuale , nello sviluppo dell’embrione, passa attraverso tutte le fasi attraversate dalla propria specie. Ora Piaget ritiene che questo principio biogenetico di Haeckel possa essere applicato anche al campo psicologico, creando l’ambito psico-genetico, ossia lo studio della psicologia del singolo sulla base dei sistemi di regolazione meccanica che erano stati studiati da Waddington a livello di biogenesi. L’assimilazione di Waddington serviva a spiegare che l’influenza dell’ambiente sullo sviluppo precoce embrionale si può trasferire a livello genetico in poche generazioni. Questi esperimenti erano oggetto di violente contestazioni, perché sembravano reintrodurre un principio lamarckiano, ma Waddington diceva che, a differenza di Lamarck che sosteneva l’ereditarietà diretta dei caratteri acquisiti, se lo sviluppo embrionale avviene in un ambiente fisico fortemente alterato, si rompono alcune delle caratteristiche regolative (Waddington non sapeva ancora che si trattava di geni regolatori) e lo sviluppo avviene in maniera mostruosa o alterata: se questi soggetti sopravvivono e non perdono la capacità di riprodursi, la variante viene ereditata. L’idea è allora che nel corso dell’evoluzione sia entrato in gioco anche un meccanismo di questo tipo qualche volta: come aveva detto Goldschmidt , biologo di origine europea, i salti nell’evoluzione sono dovuti a “mostri dalle belle speranze”, cioè a organismi che, nati mostruosi per riassorbimento genico a causa di fattori cataclismatici, essendo vitali, cioè in grado di riprodursi, hanno decretato un così massiccio riassorbimento del menoma da dar luogo ad un altro piano di organizzazione. Questa teoria non è mai stata accolta e ancora oggi risulta molto problematica perché il “mostro di belle speranze” deve essere un individuo, non una popolazione, ma se è un individuo vale il discorso della diluizione. Waddington afferma che se l’ambiente esterno è fortemente intriso di agenti mutageni, produce delle mutazioni e alcune di queste mutazioni potrebbero un giorno fissarsi se sono vitali i soggetti che le possiedono. Questo spiega, ad esempio, la resistenza ai pesticidi da parte di alcuni insetti. Ogni popolazione selvatica possiede un certo polimorfismo, cioè presenta geni molto diversi negli individui che la compongono, che non si esprimono, che sono silenti, ma che fanno parte della “banca” di quella popolazione, quando arrivano i pesticidi, muoiono tutte le mosche tranne due o tre che avevano una buona riserva di geni per metabolizzare i pesticidi, poi, da quelle che hanno metabolizzato il veleno si è creata una nuova popolazione. Questo è un meccanismo neodarwiniano puro, e non ha niente a che vedere con l’assimilazione genica: come si fa a distinguere un meccanismo dall’altro? Non è possibile distinguerli, a meno di non sapere l’azione esatta che l’assimilazione genetica fa nel caso in cui ci siano questi soggetti mutageni. Piaget assume il meccanismo di Waddington, ma avendo in mente l’effetto Baldwin: si ha sempre bisogno di un sistema di regolazione, non si parte mai dal caos ma da una struttura, e questa struttura si può modificare talmente tanto da arrivare a produrre strutture che sono il risultato di modificazioni di “regolazioni di regolazioni” per cui la struttura di partenza non è più neppure visibile; così, ad esempio, l’uovo fecondato non è visibile in noi. Quindi a Piaget , dell’effetto Baldwin, interessano due aspetti: 1- che c’è uno sviluppo dei sistemi di regolazione; 2- che il linguaggio è emergente a partire da capacità non linguistiche. Piaget era uno psicologo e quindi deve esprimersi su un punto fondamentale sul quale si confrontavano gli psicologi da molti anni: il pensiero è indipendente dal linguaggio oppure no? Piaget risponde che il pensiero è indipendente dal linguaggio, e questa risposta va in controtendenza rispetto alla psicologia americana di quegli anni. Lorenz e Piaget, nel dopoguerra, sono quelli che si scontrano con le tendenze psicologiche americane: Lorenz si scontra con i behaviouristi, in modo particolare con Skinner, Piaget polemizza sia con i behaviouristi che con Lorenz, chiamandolo innatista, che con la nuova corrente chomskyana, anch’essa innatista. Piaget inoltre considera ideologica la “teoria degli istinti” di Lorenz , perché con essa Lorenz intendeva trarre dalla biologica conclusioni etico-sociali deprecabili (es. teoria della decadenza della razza, teoria della domesticazione, ecc...). Lorenz era infatti un critico del moderno, così come tutti gli altri tedeschi: secondo loro la scienza e la tecnica hanno snaturato il mondo umano e hanno fatto danni incredibili nella struttura della personalità stessa. Lorenz questi danni li chiama “domesticazione”: nel genere umano, il mondo moderno ha accelerato quello stesso processo di snaturamento e degenerazione a cui vanno in contro gli animali addomesticati. Alla luce di queste considerazioni ci chiediamo se la Teoria Sintetica stia per essere sostituita da altri tipi di spiegazione, per esempio da una spiegazione strutturalista (es. biologia della forma di Goodwin: “quello che fa biologico un organismo è la legge che controlla l’equilibrio dello sviluppo morfologico e questa legge non subisce serie trasformazioni”), oppure una spiegazione sistemica, nella quale si dice che in realtà le mutazioni e la conseguente selezione contano solo fino ad un certo punto, quelle che contano sono le trasformazioni dell’autorganizzazione (cfr. S. Kaufmann “The Origin of Order”, nel quale si afferma che la vita è la tendenza naturale della materia a darsi un ordine e non solo nella dialettica mutazione-selezione), oppure la spiegazione proposta da Prygogine e dagli studiosi californiani di Santa Fe, sulla autorganizzazione dei sistemi complessi, che pur provenendo da ambiti molto diversi fra loro, concordano nel non dare alcun peso alla selezione. Secondo questi studiosi quanto è avvenuto nell’evoluzione biologica sono solo fasi d i una successiva organizzazione della materia, che segue delle leggi elementari molto semplici: questi approcci sono altamente riduzionistici, cioè mirano a sostituire alla biologia evoluzionistica la fisica della complessità, tendono alla fisicalizzazione totale del vivente. CONCLUSIONI La storia del darwinismo, come si può vedere, è sempre stata intrisa di aggiustamenti e modificazioni. che il darwinismo stesso non sia una dottrina, ma una tradizione di ricerca, l’abbiamo più volte detto e constatato. La tradizione darwiniana ha subito infatti trasformazioni concettuali anche molto rilevanti, scontrandosi più volte con altre tradizioni di ricerca. Così come non possiamo essere sicuri che le nuove tendenze di ricerca non verranno modificate dal darwinismo, non possiamo escludere che esse evolvano assieme, modificandosi vicendevolmente: il primo caso in cui questo è probabile è la futura scoperta che all’origine della vita debbano esserci fenomeni di autorganizzazione prebiotica, che sono sicuramente spiegabili in chiave fisico-chimica, ma è anche sicuramente vero che, una volta innescato il processo di autorganizzazione nella materia prebiotica, qualcosa di speciale ha cominciato a formarsi, la dualità ambiente-organismo che è in interazione dialettica: perciò lo sviluppo dei sistemi non è più diventato quello fisicamente possibile, ma quello biologicamente possibile. C’è oggi la tendenza a considerare la vita non più come un caso eccezionale e unico prodottosi qui e solo qui, e poi selezionato attraverso la storia della vita sulla terra, ma come un caso frequente, quasi normale, che si è prodotto non solo qui, ma che potrebbe essersi prodotto anche altrove in forme non radicalmente diverse: è una tendenza naturale della materia a creare strutture biologiche in presenza di certe condizioni ambientali. Se poi questa vita si sviluppi come sulla terra dando origine ad un vivente, l’uomo, che parla di se stesso, questo non si sa. La tendenza è a pensare che la vita sia diffusa nell’universo, molto più di quanto si pensi: l’universo è così grande ed esistono molti altri sistemi con condizioni simili al sistema solare, che è estremamente probabile che ci sia altra vita oltre a quella terrestre. Il darwinismo non si impegna su questi problemi; esso dice che è possibile studiare la vita scoprendo le leggi di autorganizzazione della materia, e che quando la vita si costituisce comincia a diventare lei stessa un fattore di condizionamento dello sviluppo. Quando si costituisce un sistema biotico, quello non segue più delle linee di sviluppo qualsiasi, ma segue solo quelle possibili all’interno del sistema entro il quale si è avviato il processo. Il vastissimo effetto prodotto dalla teoria darwiniana sulla cultura e sulla filosofia, in modo particolare sulla teoria della conoscenza, la teoria del linguaggio e la filosofia morale, è connesso ad una serie di problemi epistemologici.