DARWIN DAY – 12 febbraio 2008 L`influenza del darwinismo nella

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DARWIN DAY – 12 febbraio 2008 L`influenza del darwinismo nella
DARWIN DAY – 12 febbraio 2008
L’influenza del darwinismo nella letteratura “fin de siecle”
di Martina Daraio
Era il 1859 quando Darwin pubblicò l’Origine delle specie portando la civiltà ad una svolta
epocale.
In quest’opera non c’erano ancora riferimenti all’uomo, ma già l’idea che gli animali fossero
frutto di un’evoluzione creò parecchio scompiglio tra le file dei creazionisti e dei fissisti.
Questi, infatti, erano convinti che le specie fossero inalterabili e create perfette da dio, così
come la Bibbia suggerisce.
Conoscendo i nostri impeti italiani e date queste premesse non vi sembrerà incredibile che la
discussione e i contrasti sull’uomo siano esplosi ancor prima dell’uscita del secondo saggio di
Darwin, quello appunto sull’ Origine dell’uomo, del 1871.
La polemica scoppiò a Firenze nel 1869 e coinvolse tutta la popolazione: la reazione
dell’ambiente cattolico a queste nuove rivoluzionarie teorie fu violenta e decisa, portavoce se
ne fecero due intellettuali di grande spessore: Lambruschini e Tommaseo. I toni furono
perlopiù sarcastici: si ironizzò sul fatto che “se dalla scimmia è venuto l’uomo, dall’uomo verranno
gli angeli..”, oppure si contestò il concetto di uguaglianza tra gli uomini italiani e quelli delle
altre nazioni, e per giunta l’uguaglianza con le scimmie!
Ma la preoccupazione latente dietro tutta quest’ironia fu molta e da non sottovalutare: vacillò
il concetto di libertà schiacciato da quello di determinismo e si temette che la popolazione si
lasciasse suggestionare da tali idee capaci di estromettere Dio dalla creazione.
Il fronte laico dal canto suo fu difeso da un filosofo russo dichiaratamente darwinista: Herzen.
Questo seppe essere all’altezza nei toni e nei temi: parlò della “brama clericale dell’ignoranza
obbligatoria per il popolo” contestando la volontà dei cattolici di non diffondere le ricerche di
Darwin, difendette il determinismo utilizzando anche i risultati degli studi fisiologici, statistici
e storici... insomma, seppe tenere testa al dibattito. Tommaseo però s’innervosì e gli scagliò
addosso un libro. E fu proprio con questo comportamento violento e animalesco, che
tacitamente dava conferma alle teorie di Darwin, che il dibattito si chiuse.
Inevitabili a questo punto furono le ripercussioni sulla letteratura italiana e straniera.
Emile Zola dalla Francia compose il ciclo de Les Rougon-Macquart in cui volle descrivere la
“storia naturale e sociale di una famiglia nel corso del secondo impero” cercando di dimostrare
matematicamente l’ereditarietà biologica: ed ecco allora come la malattia nervosa di cui soffre
nonna Adelaide compare anche in parecchi suoi discendenti incontrati nel corso della
narrazione. Ma la lezione darwiniana in Zola torna anche nell’importanza che egli attribuì alla
corporeità dei suoi personaggi, alla loro fisicità, senza temere un realismo troppo crudo
perché, come disse De Sanctis, “l’eticità è nelle cose stesse”, e non serve moralizzare, intervenire.
Inoltre De Sanctis, nel saggio Il darwinismo nell’arte fece notare come le teorie darwiniste
modificarono profondamente la concezione del reale degli uomini di fine secolo: si cominciò a
prestare sempre maggiore attenzione al divenire e alle trasformazioni degli uomini che,
progredendo o regredendo, pur sempre cambiano. Ecco quindi come i narratori fecero parlare
i fatti in sè, avvicinandosi al popolo e studiandone i comportamenti, le contraddizioni e le
modificazioni.
Ma come purtroppo accade frequentemente, anche questa volta le strumentalizzazioni tesero il
loro agguato: ci fu chi iniziò a parlare di “darwinismo sociale” sostenendo che il più forte è il più
giusto o, per dirla con le parole di Bismark, che “la forza vince il diritto”.
Tornando alla letteratura, e in particolare spostando l’attenzione sull’Italia, possiamo osservare
come le interpretazioni e le ripercussioni del pensiero darwiniano furono molteplici.
Darwin parlò di selezione naturale, di lotta per la vita, di progresso.
Ciascun artista mise in luce ed enfatizzò solo alcune parti del discorso generale ed ecco quindi
che nacquero due principali correnti una di seguito all’altra: quella verista, erede di Zola,
rappresentata soprattutto da Verga, Capuana e De Roberto; e quella decadente, in cui spiccano
soprattutto D’Annunzio, Pascoli e Fogazzaro.
I primi potremmo dire che “immobilizzarono” Darwin spogliandolo dell’elemento evolutivo e
concentrandosi sulla lotta per la vita, i secondi invece lo “rimobilizzarono”, puntando proprio
sull’idea di progresso (o regresso).
Ma andiamo con ordine.
Nel 1878 Giovanni Verga iniziò la composizione del Ciclo dei Vinti. Ecco cosa scrisse lui stesso
a Salvatore Pada: “ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria
della lotta per la vita”. Il suo interesse si rivolge soprattutto ai vinti, come ben leggiamo dal
titolo, ma l’idea è quella di raccontare ciò che accade in tutte le classi sociali.
Il viaggio inizia da I Malavoglia, famiglia di pescatori, continua poi con Mastro don Gesualdo, un
self-made-man diremmo oggi, e qui si ferma perché, dice Verga, le classi alte sono così
inautentiche e “mascherate” che diventa impossibile descriverle. Nel progetto originario
invece la lotta per la vita avrebbe coinvolto anche una duchessa, un’onorevole e un’artista:
“ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza”.
Nella prefazione ai Malavoglia poi, Verga rincara la dose: l’aspirazione a far meglio porta al
peggio e i vincitori di oggi saranno i vinti di domani. Aggiunge inoltre che nessuno può essere
sincero perché questa lotta implica dissimulazione, richiede di nascondere i propri sentimenti
per non mostrare i punti deboli, porta l’uomo ad indossare una maschera sdoppiandosi. Tema,
questo del doppio e della maschera, che in Italia qualche decennio dopo vedremo diventar
caro a Pirandello, ma che anche all’estero raccoglie parecchi consensi: Robert Louis
Stevenson, in Lo strano caso di Dr. Jekyll e Mr Hyde ci descrive un doppio che funge da
inconscio (l’Es freudiano); Edgar Allan Poe in William Wilson al contrario fa coincidere la
figura del doppio con la coscienza morale del protagonista (il Super-Io freudiano); infine Fedor
Dostoevskij che, in Il Sosia, fa del doppio tante cose insieme.
Ma tornando ai nostri veristi siciliani, “immobilizzatori di Darwin”, vediamo come di idee
molto affini a quelle di Verga sia il suo collega Federico De Roberto. Egli pubblicò I vicerè nel
1894: anche qui l’idea centrale è che nella storia nulla cambia. Non c’è progresso ma solo lotta
per la vita. “La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli
stessi”, poi aggiunge: “la differenza è tutta esteriore”.
E in questo bisogna notare che i nostri realisti sono parecchio distanti dal loro maestro Zola
che invece nel progresso ci credeva e che nel suo Germinal descrisse, dietro un’apparente
staticità, la nascita di una coscienza operaia, l’abbozzo di un grande cambiamento.
Lo sguardo dei decadenti invece, pur nato dalle medesime affermazioni di Darwin, fu ben
lontano dalle posizioni veriste, e si orientò su tutt’altri orizzonti.
Primo tra tutti va ascoltato il pensiero del capofila: Gabriele D’Annunzio. E’ proprio lui infatti
che, nel 1889, scrivendo Il piacere, sancisce l’inizio del decadentismo. Ciò che più sta a cuore a
questo autore è la possibilità degli uomini di regredire animalizzandosi o vegetalizzandosi. Per
esempio in Maya, scrive: “Quivi divinai la divina Bestialità”. Egli infatti considera la bestia come la più
alta forma del divino, dunque come qualcosa di molto positivo che culmina nell’atto di
composizione di un’opera d’arte ma che allo stesso tempo legittima l’uso della forza (secondo i
principi di quel darwinismo sociale cui accennavo prima).
Un altro aspetto caro a D’Annunzio è poi quello dell’ereditarietà: nel Piacere il protagonista,
Andrea Sperelli, descrive se stesso tramite le caratteristiche dei suoi antenati giustificando così
l’amore per l’arte e per la cultura; nella Vergine delle rocce il protagonista, Claudio Cantelmo,
parla di “anima indistruttibile degli avi” verso cui prova un “sentimento di dipendenza”. Il motivo
dell’ereditarietà, della famiglia e della razza, furono così cari a D’Annunzio che quando entrò
in politica con la destra conservatrice e reazionaria fu proprio su questi temi che imperniò il
suo discorso elettorale: “Oh cittadini, o consanguinei, la verità che si esprime con le mie labbra […] è
autoctona”,”le nostre energie si dirigono secondo i moti e gli istinti originali”.
Sempre per continuare col parallelismo con gli autori stranieri, sul tema dell’ereditarietà vale
la pena citare un’opera di Oscar Wilde molto conosciuta: Il ritratto di Dorian Gray. Anche qui il
protagonista sente rivivere in sè tutti i suoi antenati: “v’erano momenti in cui gli sembrava che la
storia non era nient’altro che la sua stessa vita”, scrive l’autore.
Più sul primo tema d’annunziano invece, quello cioè del progresso/regresso, si soffermano gli
altri decadenti Pascoli e Fogazzaro.
Giovanni Pascoli a partire dai continui e necessari cambiamenti imposti dall’evoluzione
sviluppa un’insicuritas che è tratto costante dei personaggi decadenti e che, con l’aiuto di
Freud, sfocerà nella totale inettitudine a vivere dei protagonisti delle opere del primo
novecento. Il personaggio di Pascoli de L’era nuova è completamente destrutturato, plurimo,
sempre conteso tra istinti bestiali e atteggiamenti angelici. “L’uomo è una corda tesa tra la bestia e
il superuomo”, come scrisse Nietzsche. Il ruolo della letteratura, continua Pascoli, diventa
quindi pedagogico: appropriandosi dei risultati della scienza il poeta deve cantare la
consapevolezza che la terra (e dunque l’uomo) è nulla nell’universo. Così, una volta acquisita
tale conoscenza, gli uomini saranno più solidali gli uni verso gli altri e sapranno convivere in
nome della reciproca pietà. A tal proposito, particolarmente significative sono tutte quelle
poesie che fanno di Pascoli un poeta astrale: ad esempio Il bolide, o La pecorella smarrita: “Che
sei tu, Terra, perché in te si sveli tutto il mistero, e vi s'incarni Dio?” scheggia, grano, favilla, atomo,
nulla!"
Questi stessi temi tornano anche nel pensiero del suo collega Antonio Fogazzaro,
costantemente diviso nel tentativo di conciliare darwinismo e fede cattolica. Egli vede l’uomo
come un “campo di battaglia tra forze avverse” e da questa lotta vede scaturire dolore e
lacerazione.
Dunque, fin dalla sua prima opera, Malombra, ma anche nel successivo romanzo de 1906, Il
Santo, il contrasto tra senso e spirito viene risolto nell’immagine degli uomini del futuro:
totalmente spiritualizzati e liberi dalla componente animale. Il super-uomo di Fogazzaro vuole
essere un compromesso: presenta caratteristiche di incorporeità in linea con la sessuofobia
cattolica ma nasce secondo l’evoluzione scientificamente teorizzata da Darwin. La funzione
dell’arte diventa quindi per questo artista quella di “aiutare il divino a comprimere il brutale”.
Spostandoci infine su tempi più recenti c’è un altro autore di cui vale la pena parlare e che subì
profondamente l’influenza di Darwin: Italo Svevo.
Ciò su cui egli si concentra particolarmente è l’osservazione di come l’evoluzione abbia portato
l’uomo a far sempre meno affidamento sulla propria forza fisica grazie all’utilizzo di “ordigni”
esterni. Nel finale de La coscienza di Zeno, ad esempio, dopo aver constatato una completa
defunzionalizzazione del corpo nell’uomo moderno a vantaggio di un’eccessiva attività
celebrale, si prospetta l’ipotesi in cui l’uomo più debole e malato del mondo entra in possesso
dell’arma più potente di tutte: la terra viene così distrutta per ritornare al primordiale stato di
nebulosa: autodistruzione della specie o genesi di una nuova umanità guarita?