Sentieri letterari del Novecento Relazioni su temi di

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Sentieri letterari del Novecento Relazioni su temi di
QUADERNI
DEL LICEO SCIENTIFICO STATALE
“GALILEO GALILEI”
n umero
2
Sentier i letter ar i del Novecento
Relazioni su temi di Letter atur a italiana
a cura di
Lina D’Andrea
PROVINCIA DI PERUGIA
Provincia di Perugia
QUADERNI
DEL LICEO SCIENTIFICO STATALE
“GALILEO GALILEI”
numero
2
Sentieri letterari del Novecento
Relazioni su temi di Letteratura italiana
a cura di
Lina D’Andrea
Anno 2004
Coordinatrice del progetto
Lina D’Andrea
Cura editoriale
Ufficio Relazioni Esterne, Editoria e Centro Stampa
della Provincia di Perugia
In copertina
Giusto Sustermans, “Galileo Galilei”, Firenze, Galleria Uffizi
Indice
Eduardo e la humanitas del Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.11
RELATRICE PROF.SSA L. D’ANDREA
Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella Letteratura italiana
RELATORE PROF. M. FERRARI
............................
» 29
Montale e le filosofie coeve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 43
RELATORE PROF. A. AGOSTA
Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’attenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 59
RELATRICE PROF.SSA S. BISCONTINI
Il sentimento religioso nella poesia di Luzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71
RELATORE PROF. E. MERCATI
Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 77
RELATRICE PROF.SSA P. HERBIN
La letteratura inglese e la lingua inglese ne Il Partigiano Johnny di Fenoglio . . . . . . . . . . » 93
RELATRICE PROF.SSA C. MARTELLOTTI
Pintor, Pavese e Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta . . . » 101
RELATORE PROF. V. ROMANO
Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 133
RELATRICE PROF.SSA C. MARTELLOTTI
Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153
RELATRICE PROF.SSA L. D’ANDREA
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
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Prefazione
Questa pubblicazione raccoglie le relazioni presentate e rese disponibili da
docenti di Italiano e Latino del Liceo G. Galilei per il progetto Sentieri letterari del
Novecento realizzato nell’anno scolastico 2002-2003. Gli incontri, prevalentemente a carattere divulgativo, hanno proposto approfondimenti didattici rivolti a docenti, studenti, genitori, operatori scolastici, che volessero ripercorrere le linee culturali del secolo appena concluso attraverso alcune tematiche letterarie di autori significativi ed esemplari del secolo stesso.
Il gruppo di lavoro, aperto a docenti di Letteratura italiana e di Letterature straniere, valutando come il Novecento urga con le sue tematiche più vicine cronologicamente e problematicamente ai nostri studenti, ha sperimentalmente individuato
alcuni autori rappresentativi dei diversi generi letterari, proponenti temi ritenuti
incisivi nelle prospettive dell’attività letteraria, in particolare del secondo
Novecento; l’esclusione di autori rispondenti comunque ai criteri indicati è motivata essenzialmente da problemi afferenti ai tempi ridotti; altri autori che soddisfano
comunque i criteri di selezione, sono stati inseriti nei Sentieri 2003-2004 ed altri
ancora potranno trovare spazio negli anni successivi se il nostro Caffè Letterario
vorrà incamminarsi ancora per altri sentieri.
La metodologia di approccio all’autore individuato fonda su un approfondimento tematico che sia distintivo, oltre che dell’autore, anche del Novecento e che offra
spunti di convergenza con autori stranieri, sul piano linguistico e letterario, nell’ambito delle Letterature comparate. Le finalità educativo-didattiche dei Sentieri sono
sia il potenziamento di alcuni saperi forse marginalizzati dal Postmoderno, sia il
tentativo di contributo allo sviluppo di una persona-studente salda nei valori acquisiti attraverso la definizione o ridefinizione di un metodo, per usare le parole di
Morin, che traduca la complessità del reale, riconosca l’esistenza degli esseri e si
avvicini al mistero delle cose.
Il programma concordato con i colleghi presenta un sottile filo conduttore delle
tematiche scelte per contribuire a ridefinire un sistema valoriale di forte valenza
pedagogico-educativa in un postmoderno così pericolosamente seducente per le
nuove generazioni.
Abbiamo iniziato a percorrere il nostro Sentiero lasciando con un nostalgico
addio sul viale del tramonto il gattopardesco mondo ottocentesco e il principe di
Salina, emblematica figura de Il Gattopardo che profeticamente avverte la radicale
trasformazione dei tempi. Un caso letterario simbolico di un mondo ormai irreversibilmente in trasformazione per l’affermazione di nuovi ceti sociali e di nuovi linguaggi abilmente e provocatoriamente sperimentati da Gadda nei suoi romanzi
attraverso personaggi nuovi e inquietanti per la loro sagacia nell’ironizzare sul
mondo circostante attraverso mezzi linguistici di forte impatto espressivo. Queste
sperimentazioni linguistiche produssero opere che non si confinarono in ristretti
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
ambiti regionali, ma che portarono i loro protagonisti in giro per il mondo. Un
mondo dove l’uomo prova sempre più forte il senso del disagio e dell’inadeguatezza. Anche l’uomo protagonista delle commedie di Eduardo De Filippo vive la precarietà del quotidiano e il nonsense della vita; quest’uomo ha vissuto con il suo
autore per quasi tutto il Novecento, attraversandolo ansiosamente per combattere la
maschera di ipocrisia e sconfiggerla con i valori dell’h u m a n i t a s latina, valori
imperniati sulla filantropia in un sodalizio sempre più difficile da realizzare in un
contesto di diffusa intolleranza; ma alla fine il messaggio eduardiano appare fiducioso di poter raggiungere l’uomo dovunque sia e di aiutarlo a ritrovarsi, soprattutto dopo l’esperienza della guerra che lo spinge alla ricerca di rassicurazioni esistenziali per il senso di diffusa precarietà ormai dominante. Sarà Montale ad offrire la
certezza che la ragione sempre si scontra con qualcosa che è irriducibile, con un mal
di vivere filosoficamente condiviso dall’uomo che ancora chiede valore e senso alla
realtà che lo circonda. Il nostro uomo del Novecento continua sul suo sentiero tortuoso il viaggio interiore alla ricerca di sé in una società di Indifferenti che Moravia
descrive con un moralismo insospettabile in opere narrative sicuramente eversive
per i contenuti affrontati, ma di utile sollecitazione alla riflessione sullo scadimento della morale comune. Altra voce di monito e di conforto è quella di Luzi che riesce a mantenere un suo equilibrio nella crisi dominante gli artisti del secolo esprimendo una religiosità di parola poetica nel dialogo con il divino che può aiutare
l’individuo nella sua eroica lotta con il destino di crisi.
Lo stesso destino fu validamente espresso dal filone neorealista concluso da
Fenoglio e dal suo partigiano Johnny, unico a parlare ancora di Resistenza nel boom
economico degli Anni Sessanta pronti a cancellare e far dimenticare sofferenze e
lacerazioni in una sorta di complicità con i liberatori statunitensi che incuriosirono
con la loro lingua così ibridizzata da parole italiane in una commistione poco letteraria e poco originale anche sul piano linguistico. Ma il mito americano ormai si
impone come soluzione esistenziale legato all’idea di progresso, di falsa età dell’oro e di falsa realizzazione dell’Utopia. Molto deve questo mito a traduttori italiani
come Vittorini e Pavese che subirono il fascino illusorio di una società libera dove
l’uomo qualunque trova libera espressione, ma dove soccomberà non più da eroe,
ma da vittima di un paese reazionario e dimentico delle sue migliori tradizioni. Poco
poterono incidere, alla fine, in questa situazione così ambigua i grandi miti della letteratura americana come Withman, Dickinson, Melville o Poe: la perfetta America
trova legittimazione vera nell’antieroe di Hemingway, non retorico, ma coraggioso
nel morire tante volte ogni giorno prima che per lui suoni l’ultima campana.
In conclusione quale il rapporto tra l’uomo nel Novecento e l’intellettuale che si
impegna a raccontarlo? Calvino e Pasolini rappresentano due modelli apparentemente distanti, ma sostanzialmente vicini nell’impegno di raccontare questo uomo
del Novecento: il primo lo ha presentato e indagato con un uso della parola fortemente evocativa e l’altro lo evoca e lo invoca attraverso una illuminata rappresentazione filmica; entrambi ci restituiranno un uomo ancora alla ricerca di sé, ma consapevole di potersi ritrovare grazie a ragione e sentimento, grazie a nuove e forti
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
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spinte idealistiche che promuovono inaspettatamente una nuova forma di religiosità
laica solo apparentemente diluitasi negli anni precedenti.
A noi insegnanti educatori, quindi, il compito di trasmettere questi modelli di
forte valenza letteraria ed educativa, alle nuove generazioni il compito di custodire
il patrimonio di valori che questi grandi uomini del Novecento hanno lasciato alla
nostra letteratura.
Un particolare ringraziamento ai colleghi relatori per la disponibilità e la pro fessionalità evidenziate nel lavoro di cooperazione e di ricerca. Si ringraziano inol tre la Dirigente Scolastica, dott.ssa Roberta Perfetti, per il sostegno dato all’inizia tiva ed il Consiglio d’Istituto nella persona del prof. P. G. Manciola per i generosi
apprezzamenti rivolti al progetto ed alle relazioni presentate.
Lina D’Andrea
Eduardo e la humanitas del Novecento
di Lina D’Andrea
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
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Eduardo nel canone letterario del Novecento
La convinzione del legittimo inserimento del drammaturgo-attore Eduardo De
Filippo in un canone letterario del Novecento fonda su un colloquio informale avuto
con Alberto Asor Rosa durante una pausa precedente l’inizio di un convegno in cui
lui relazionava su questo tema ed io partecipavo da corsista. Alla mia domanda sull’argomento, mi chiese il numero degli autori previsti dal mio canone. Risposi che
l’ambito che avevo considerato prevedeva almeno otto autori. La sua risposta fu:
“Allora, certamente”. Confortata nella mia convinzione spiegai anche a lui le ragioni di una scelta dettata essenzialmente dalla mia funzione di docente-educatrice alla
ricerca di autori di alto valore pedagogico, soprattutto per le nuove generazioni.
Ho imparato ad apprezzare l’attore-autore Eduardo quando, nella straordinaria
idealizzazione ed ideologizzazione che solo l’adolescenza sa consentire con la sua
magica sofferenza esistenziale, sono entrata in sintonia con la sofferenza dei suoi
personaggi per aver compreso in profondità le ansie che rappresentavano. E’
importante il legame che in quegli anni ognuno di noi stabilisce con le cosiddette
letture di formazione perché queste ci ritornano negli anni successivi anche a
testimonianza di una memoria storico-esistenziale. Eduardo è la mia memoria di
formazione negli anni napoletani quando l’ho visto recitare nel suo tempio, il teatro S. Ferdinando.
Fu particolarmente significativa una sua rappresentazione di Natale in casa
Cupiello davanti ad un pubblico-attore, probabilmente di specialisti, che seguì la
successione delle vicende con i tempi in sintonia con quelli degli stessi attori: un
vero miracolo al quale non ho mai più assistito in teatro. Eduardo non recitò quella
sera “per” il pubblico, ma “con” il pubblico in uno scambio di emozioni che solo il
grande attore di grande teatro sa dare. E quella sera magicamente transitarono dall’attore allo spettatore tutte le varianti dell’emozione: sospiri, rabbie, timori, malinconie e gioie. Per fortuna queste magie non sono rarissime e testimoniano che il teatro, quello vero, quello autenticamente grande e geniale, è questo.
Molti studenti che ho guidato alla ricezione dello spettacolo teatrale hanno compreso questa peculiarità e ne rimane testimonianza in due spettacoli che hanno visto
recitare in napoletano ragazzi di Perugia e dintorni, preventivamente accostati ai
testi di alcune commedie rielaborate trasversalmente per temi. Il patrimonio di valori trasmesso da quei testi è risultato particolarmente significativo per il mio progetto educativo-pedagogico, oltre che per quello letterario, e oggi più che mai, per
combattere l’indifferenza del postmoderno, urge la necessità di utilizzare quel tipo
di testi che raccontano l’uomo nelle sua dimensione cosmica e terrena, nel contatto
filantropico con altri uomini, creatura- microcosmo, protesa nel disperato tentativo
di dare alla vita un qualsiasi significato. E questo, come afferma Eduardo, è teatro.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Humanitas e valori
La testimonianza che l’uomo sia stato concretamente raccontato e un sistema
valoriale trasmesso si trova nelle conclusioni delle relazioni degli studenti che nel
1996 hanno seguito il progetto Eduardo e l’Europa; in particolare si legge:
… Infine, il grande successo eduardiano non si è limitato a diffondersi tra le
platee dei teatri di mezzo mondo, ma ha sicuramente raggiunto l’Uomo dovunque si
trovasse. Avendo avuto la possibilità di conoscere tramite videocassette e anche
grazie ad un incontro con il prof. Marotti questo grande personaggio sono riuscito
a comprendere veramente i problemi che affliggono l’uomo in Europa, nel mondo e
solo ora sono in grado di dare una risposta appropriata. Devo molto a questo per sonaggio anche se praticamente sono venuto a contatto con lui da pochi mesi.
Uomo realista, che applicava i suoi principi alla vita di tutti i giorni e non si
limitava a parlarne soltanto. Mi sembra doveroso quindi, cercare di diffondere i
suoi insegnamenti che sono numerosi.
Dobbiamo prenderlo come esempio e penso che tutti, quando lo avranno conosciu to saranno entusiasti, colpiti dalle sue espressioni semplici, spontanee, immediate.
Con questo lavoro non sarò riuscito sicuramente a trasmettere tutti i suoi inse gnamenti di vita, non ne sono in grado, ma ho intenzione di stimolare la vostra
curiosità; il mio è un invito a conoscere colui che secondo me è stato un vero citta dino europeo e forse del mondo.[…]
E’ necessario che ogni persona guardi indietro, riscopra le proprie origini e si
accorgerà che esiste una matrice comune che si rifà alla cultura greca e a quella lati na che hanno influenzato notevolmente tutto il mondo allora conosciuto. Tutto ciò si
può riassumere in tre concetti fondamentali e ancora attuali: La ϕιλαντρωπια (filan tropia) greca che riassume in sè doti come la nobiltà d’animo, gentilezza, umanità e
soprattutto affabilità (disponibilità al dialogo); la humanitas latina è basata su quat tro importanti virtù: saggezza, giustizia, valore, moderazione. In sé è intrinseco il con cetto della disponibilità ad affrontare problemi comuni espresso nella frase di
Terenzio:”Homo sum: humani nil a me alienum puto”(Heautontimorumenos, v. 77)
“Sono uomo: niente di ciò che riguarda l’uomo mi è estraneo.”
Questi concetti poi confluiscono nella παιδεια (paideia) intesa come processo
educativo del giovane.1
Eduardo e Terenzio: il tema della cortigiana-prostituta e l’humanitas
Viene, dunque chiamato in causa l’autore latino Terenzio che, come afferma
Fabio Cupaiuolo2, già nella prima commedia, l’A n d r i a, attribuisce alla figura della
1 Dalle relazioni conclusive Eduardo e l’Europa di Valerio Donato e Massimiliano Geoli, classe terza I, 1996-7
2 F. Cupaiuolo, Terenzio: teatro e società, Napoli 1991, pp. 98-107
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
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cortigiana pensieri, azioni, sensibilità, caratteristiche proprie di donna libera; successivamente altre tre donne-personaggio esprimono questo ruolo come una figura
sociale perfettamente integrata nel contesto romano e onestamente consapevole del
distacco etico da altre tipologie di donne. Bacchide nell’Heautontimorumenos,
Taide nell’Eunuchus e Bacchide nell’H e c y r a sono cortigiane-prostitute dell’antichità che cercano il riscatto etico nel contributo che danno alla soluzione della
vicenda in termini di “buoni sentimenti”. Tra queste è l’ultima la più incisiva per il
nostro sistema valoriale di riferimento perché animata da un nobile e generoso sentimento di gratitudine che scioglie il nodo dell’intreccio, ricomponendo il legame
familiare, e che la impone nella sua statura etica come vincente sulle donne libere e
sui d o m i n i. A questo proposito sempre Fabio Cupaiuolo opportunamente fa notare:
E così questi personaggi (non liberi) anche nel momento dell’ingiuria non merita ta, di un sopruso di cui sono vittima, di un’incomprensione totale non reagiscono
violentemente, con rabbia: in loro la sofferenza individuale diviene dolore cosmico,
nella consapevolezza che, nel singolo atto più che loro è stato mortificato il loro
tentativo di riscatto, è stata svilita la dignità umana, in un venir meno dell’idea di
giustizia: così Taide, offesa da Cherea, reagisce con parole ferme, ma quasi sussur rate, così Bacchide (Hecyra) accusata ingiustamente si mostra conciliante e arren devole….3
Nei versi seguenti, che svelano un mondo interiore segnato da solitudine e da
bisogno affettivo, si rivela tutta l’infondatezza del pregiudizio che, a causa del ruolo
sociale, esclude dalla possibilità di essere persone e di provare sentimenti elevati.
A Lachete che chiede di lasciare libero suo figlio Panfilo, ormai sposato con
Filumena, Bacchide generosamente risponde:
BA. faciam quod pol, si esset alia ex hoc quaestu, haud faceret, scio,
ut de tali causa nuptae mulieri se ostenderet.
sed nolo esse falsa fama gnatum suspectum tuom,
nec leviorem vobis, quibus est minime aequom, <eu>m viderier
inmerito; nam meritu’ de me est quod queam illi ut commodem.
Terenzio, Hecyra, V, 756-760
“Certo che lo farò: un’altra del mio mestiere credo che non lo farebbe, presentarsi a una sposa per uno scopo di questo genere; ma non voglio che tuo figlio sia
sospettato per una falsa diceria, né che egli sembri a voi, cioè a chi meno deve sembrare, un uomo leggero senza averne colpa, perché egli si merita da me che io gli
faccia del bene per quello che posso.” 4
3 F. Cupaiuolo, op. cit.
4 Terenzio, Le commedie, Garzanti 1977, p. 253, trad. e introd. di A. Ronconi
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
E ancora:
Quantam obtuli adventu meo laetitiam Pamphilo hodie!
quot commodas res attuli! quot autem ademi curas!
gnatum <ei> restituo, qui paene harunc ipsi(u)sque opera periit;
uxorem, quam numquam est ratus posthac se habiturum, reddo;
qua re suspectu’ s<uo> patri et Phidippo fuit, exsolvi:
hic adeo his rebus anulus fuit initium inveniundis.
………………………………………………………
haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor:
etsi hoc meretrices aliae nolunt; neque enim est in rem nostram
ut quisquam amator nuptiis laetetur. verum ecastor
numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis.
ego dum illo licitumst usa sum benigno et lepido et comi.
incommode mihi nuptiis evenit, factum fateor:
at pol me fecisse arbitror ne id merito mi eveniret.
multa ex quo fuerint commoda, ei(u)s incommoda aequomst ferre
Terenzio, Hecyra, vv. 816-820; 833-840
“Che gioia ho procurato oggi a Panfilo venendo qua: quanti servigi gli ho reso!
Gli ho reso un figlio che poco è mancato morisse per opera sua e di queste due
donne; gli rendo la moglie che credeva di non avere ormai più; l’ho salvato dai
sospetti di suo padre e di Fidippo; proprio quest’anello è quello che ha dato la via a
scoprire come stanno le cose.[…] Sono contenta che da me gli siano venute tutte
queste gioie, anche se altre cortigiane non la penserebbero così: perché a noi non
conviene che uno dei nostri amanti abbia fortuna nel matrimonio; ma io, per
Castore, non mi risolverò mai a certe cattiverie per il mio interesse. Io, a suo tempo,
l’ho trovato buono con me, garbato, gentile. Le sue nozze mi hanno portato sfortuna, lo ammetto; meno male che io credo proprio di non aver fatto niente per meritarlo. E’ giusto rassegnarsi a avere dei dispiaceri da uno, quando se ne sono avuti
tanti piaceri”.5
La cortigiana Bacchide trova così il suo riscatto morale nella gratitudine espressa a Panfilo e nella ricomposizione della pace familiare assicurata di nuovo a
Filumena.
Eduardo e Terenzio: humanitas nel sistema di valori del primo Novecento
Solo per un caso ritroviamo il nome Filumena in una famosa commedia eduardiana, Filumena Marturano, che tratta un tema analogo anche se l’intreccio è diver-
5 Terenzio, op. cit., pp. 256-257
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
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samente pensato dall’autore che lo sviluppa all’interno di un dramma borghese.
Come afferma S. Maraucci: Il personaggio di Filumena è espressione di tutte le
passioni di cui una donna può essere capace.[…] Ma nella commedia più famosa di
Eduardo c’è molto più della semplice verità, c’è l’espiazione del peccato e dell’e goismo attraverso il perdono, c’è pietà per tutti quegli innocenti che nascono in
situazioni irregolari, c’è il senso della maternità che dà a Filumena la forza di sfug gire al destino di emarginazione cui vorrebbe condannarla la società, c’è il senso
della paternità che, se inizialmente è negata, finisce poi per moltiplicarsi nell’ac cettazione non di uno, ma di tre figli.6
La Filumena eduardiana ha la forza dei grandi personaggi della letteratura. Lo
spazio marginale della Bacchide terenziana è stato ampliato per far esprimere al personaggio eduardiano la forza di una donna che nel 1945 si fa perdonare dagli spettatori il suo difficile passato. L’impresa era ardua, ma le soluzioni drammaturgiche
scelte provocarono l’impeto di solidarietà di una società perbenista con la sfortunata protagonista, un impeto che magicamente si ripete ad ogni rappresentazione e,
evento straordinario, indipendentemente dalla qualità dell’interpretazione. La protagonista non opera alcuna mediazione per ottenere il consenso del pubblico, come era
accaduto per le cortigiane terenziane. Taide e Bacchide (E u n u c h u s) si dichiarano
consapevoli delle leggi vigenti e della loro auctoritas per legittimare una forma di
emarginazione etica che poi riscatteranno con i buoni sentimenti. Filumena, in progressione e continuità con i ruoli cortigiani, non opera alcuna mediazione sociale
per accettare la legge, ma addirittura oppone a questa la sua legge morale di figlia
non assistita, di compagna non rispettata e di madre non riconosciuta per affermare
i forti legami stabiliti con il suo uomo e con i suoi figli. Il suo sentimento della
maternità vince la miseria, redime dall’abiezione, supera gli egoismi umani, affer ma il diritto fra fratelli; stimola il sentimento della paternità come purificatore di
tutte le brutture sociali.7 E Filumena vince anche sullo spettatore più ostinato grazie all’humanitas che esprime con la sua fortissima carica drammatica. E ha vinto,
come raccontano le cronache, sin dalla prima apparizione nel 1947 operando una
catarsi in senso gramsciano verso un “teatro di idee” che esprima passioni legate
ai costumi con soluzioni drammatiche capaci di operare una catarsi progressiva,
passioni che devono essere rappresentate nel dramma e non svolte come una tesi o
un discorso di propaganda. In questa direzione fu notevole l’apporto di Titina, destinataria privilegiata della commedia. Lo stesso fratello Eduardo racconta in un’intervista televisiva che, dopo la prima lettura della commedia e dopo un lungo silenzio,
Titina si alzò e gli baciò le mani. La sua sensibilità riuscirà poi ad impossessarsi
completamente di Filumena, a dominarla e a raffinarla concedendole di non scadere nel folcloristico ruolo della popolana del vicolo, ma assicurandole una nobiltà che
ha poi affidato alle interpreti successive, in alcuni casi attrici di talento riconosciu-
6 Eduardo 2000, a cura di T. Fiorino e F. C. Greco, Napoli 2000, p. 252
7 G. Trevisani, Calendario del popolo, n. 247, 1965, in F. Di Franco, Eduardo, Roma 1978, p. 128
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
to, ma non sempre sufficiente per superare la madre teatrale di Filumena.
La categoricità di questa affermazione nasce dalla consapevolezza non del tutto
azzardata che il rapporto attore-personaggio cresce con la sperimentazione in scena
e Titina sperimentò varie Filumena prima di trovare la sua che non fu neanche quella che voleva Eduardo, ma una donna più vicina alla sensibilità della sua interprete.
Filumena cerca la sua prima interprete e Titina affronta per la prima volta un personaggio protagonista femminile scritto per lei. Dopo gli scontri iniziali attrice e personaggio si incontrarono, si ritrovarono e “Vibravo, mi muovevo, fremevo, gridavo.
Eccolo il mio personaggio! Lo avevo ghermito, palpitava nelle mie mani come una
farfalla, e lo stringevo, lo stringevo, dicendogli con gioia: finalmente grida, urla,
piangi…ecco così ti volevo: violenta, fredda, calma, tragica, comica. Ah! Filumena,
ti tengo, ti tengo. Non mi scappi più! Ti porterò con me tutta la vita.”8 E così è stato
anche per Filumena: porterà con sé Titina per sempre consentendo molto difficilmente che altre attrici possano eguagliarla, considerato il particolarissimo legame
che si stabilì tra questo personaggio e la sua prima interprete, un’interprete che forse
ha dovuto e potuto anche ricordare quanto fosse amara la vita per chi, come lei, era
figlia illegittima in quegli anni così rigidamente impregnati di moralismo.
Humanitas e pietas nel secondo ’900
Nel secondo Novecento, dopo circa trent’anni, il teatro eduardiano propone la
commedia Gli esami non finiscono mai, rappresentata all’Eliseo nel gennaio 1974. I
temi sono quelli familiari, vissuti attraverso il protagonista Guglielmo Speranza che
denuncia l’ipocrisia dei vincoli di una famiglia borghese. La struttura prevede un prologo e tre atti. L’anteprima fu presentata il 19/12/1973 e la prima mondiale il
21/12/1973 al teatro “La Pergola” di Firenze. Eduardo stesso racconta il concepimento del soggetto: La commedia in diciotto quadri narra la vita di un ragazzo dal
momento in cui festeggia il conseguimento della laurea fino alla morte che lo coglierà
molti anni dopo. Tutta la sua vicenda è un esame: prima da parte dei futuri suoceri,
poi della moglie, degli amici di casa, dei figli, dei conoscenti (c’è anche un “esame
del cornuto”), infine del medico e del prete. E’ un esame finale? No, perchè il sacer dote rammenta al morituro quale altro rendiconto lo attende nell’al di là.9
Interessante, a questo proposito, la riflessione di Dursi sulla commedia appena
rappresentata:
Eduardo non è impaziente con le proprie creature, lascia che si facciano le ossa
in casa prima di spingerle fra la gente, e pure allora le segue e aiuta con saggia
incontentabilità. Anche per le sue commedie, gli esami non finiscono mai: quelli ai
quali le sottopone lui.[...] Eduardo si presenta come il portavoce del suo personag -
8 A. Carloni, Titina De Filippo, Milano 1984, p. 120
9 citaz. da R. Radice, Perchè Eduardo non recita da un anno, L’Europeo, 22 gennaio 1953
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
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gio, raffigurazione pietosa della sua vita e ne segna il trascorrere dalla giovinezza
alla maturità e alla vecchiaia [...] dal giorno della laurea che credette il suo ulti mo esame e non sarà che un pallido annuncio di quelli che lo aspettano e lo giudi cheranno anche, soprattutto, a sua insaputa e insudiceranno i suoi successi di
segnacci rossi. Da allora sarà processato per quello che fa e per quello che non fa,
anzitutto per quello che gli altri insinuano che faccia o sopporti. A sentenziare sarà
la malignità, non la giustizia. [...] Tipico personaggio eduardiano, Guglielmo:
dallo scoramento sdegnoso, che non vede più il modo o la speranza di aprire un
varco nella scorza dura e spinosa del mondo dal quale deve anzi difendersi tron cando qualunque compromesso.10
Il concetto di creature dà al lavoro un senso di religiosità che già in Filumena
era stata espresso e sottolineato dallo stesso autore in una sua promessa al critico
cattolico Carlo Trabucco e in una sua raccomandazione a Zeffirelli, regista della
rappresentazione inglese cui ricorda di ridare alla commedia il giusto significato,
che è la capitolazione assoluta dei privilegi borghesi nei confronti del diritto di tutti
all’eguaglianza, che è poi il vero insegnamento di Cristo.11
L’opera si colloca nella seconda fase della copiosa produzione eduardiana che
trova i suoi testi esemplari in Napoli Milionaria (1945), Questi Fantasmi (1946),
Filumena Marturano (1945), Il Sindaco del Rione Sanità (1960), Gli esami non fini scono mai (1973): tutte opere che hanno ottenuto un successo internazionale e
hanno consacrato Eduardo come l’autore più prestigioso del teatro italiano della
seconda metà del Novecento.12
E’ interessante notare come, in questa seconda fase post-bellica, col mutare
della prospettiva storico-esistenziale, muti anche la struttura delle opere: negli ultimi lavori il drammaturgo abbandona in parte il tradizionale, rassicurante schema del
dramma borghese ottocentesco, con la divisione canonica in tre atti, la consequenzialità logica, la separatezza tra pubblico e attori. In questo dramma il protagonista,
dialogando con il pubblico, (al quale chiede addirittura di fare da “spalla”) rivela il
“montaggio” della commedia: “L’azione ha inizio intorno al 1922-1923. La cantante di strada [...] via via che scorreranno gli anni vi canterà le canzoni di successo
dell’epoca. Queste tre barbe rappresentano i passaggi di tempo...”. E’ un procedi mento metateatrale pressochè ignoto al dramma tradizionale , e contiguo piuttosto
a innovative esperienze novecentesche, come quelle pirandelliane; anche l’utilizza zione di canzoni per suggerire i diversi periodi della storia e l’inserimento - con
raffinata allusione alla costruzione del dramma classico - di un prologo e di un
coro (il coro degli studenti) rende ragione della particolarità strutturale dell’ope -
10 Massimo Dursi, Il Resto del Carlino, Bologna, 22 dicembre 1973.
11 Eduardo in una minuta non firmata di una lettera a Zeffirelli, Roma 22 novembre 1979 (Archivio
De Filippo)
12 S. Guglielmino - H. Grosser, Il sistema letterario Principato, Milano, 1996 p. 407
13 Gavino Olivieri, Teatro italiano da Verga a Fo, Laterza, Bari 1997 p. 220
20
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
ra.13 Oltre che nei temi la struttura nuova con Prologo e Coro, con funzioni esplicative nella dialogicità con il pubblico, ricorda la commedia classica e particolarmente quella terenziana in cui l’autore difendeva e motivava al pubblico alcune sue
scelte in uno spazio comunicativo privilegiato. Anche in questo caso l’autore avverte la necessità di spiegare al pubblico alcune soluzioni drammaturgiche: in questa
commedia il tema risulta scottante per la denuncia di dinamiche familiari eticamente contaminate, ma, inizialmente fiducioso nell’immediato dopoguerra di poter
“ricostruire” l’uomo e di modificare l’ipocrisia di questi schemi, successivamente si
arrende di fronte a questi nuovi e continui esami imposti dalla società con la quale
non dialogherà più (III atto) e seguirà il suo funerale finalmente alleggerito dal peso
della intollerabile finzione della commedia umana e della sua ritualità.14
Humanitas e pieta’
Eduardo, consapevole che avrebbe tolto la maschera a qualcuno o a qualcosa, in
un’intervista a G. Prosperi chiarirà i motivi della sua perplessità nell’allestire una
commedia pensata fin dal 1953, ma annunciata solo nel 1972: Il soggetto era peri coloso.Vi si rappresentava una famiglia senza tanti complimenti, in modo negativo,
e allora la morale era ancora chiusa, i gusti non erano evoluti come adesso.[...]
Rifare sempre gli esami agli altri è un vizio dell’uomo. Vedi, un autore spera sem pre che una sua commedia serva a qualche cosa.15
Il protagonista, Guglielmo Speranza, nel prologo si presenta con in mano tre barbe
finte, una nera, una grigia e una bianca a indicare il passaggio delle tre età della sua vita,
descritta dal 1922 al 1970 e oppressa dalle ipocrisie e dalle maschere adottate dalla
società che lo circonda, una società-tipo con tipi fissi, in particolare “l’ipocrita” che con
la sua maschera è rappresentativo della società che l’autore vuole denunciare, come
indicato dai passi precedenti. Il rapporto finzione-realtà è magistralmente e profeticamente indicato dai riferimenti amari che l’autore utilizza quando parla della “gente”che
si intromette mascherata nella vita dell’individuo condizionandone l’esistenza con continui esami; anche nel momento del funerale la “gente” vorrà esprimersi inseguendo ipocriti formalismi: “Non ha saputo morire”. E non verrà rispettata neanche la sua ultima
volontà: da morto sarà ridicolmente abbigliato.
Quali le soluzioni indicate dall’autore? Guglielmo, negli ultimi quindici anni,
adotta la non dialogicità per sottrarsi alle trappole dei ruoli che la ”gente” vuole
cucire addosso agli altri nella grande messa in scena della vita perché “se l’umanità
è sorda è inutile parlare”. Soluzione pessimistica? Probabilmente non del tutto se
14 vedi in Appendice Riflessioni sentenziose, selezione di alcuni passaggi del testo significativi per
motivare questa denuncia.
15 G. Prosperi, Il Messaggero, Roma 17 febbraio 1974
16 R. Tian, Il Messaggero, Roma 11 gennaio 1974
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
21
riflettiamo sul cognome del protagonista, Speranza, e adottiamo il punto di vista di
R. Tian16: L’eroe di questa commedia non è un “tipo”, bensì il prototipo di noi tutti,
un eroe la cui esistenza è caratterizzata dagli aspetti positivi e negativi della nostra
stessa esistenza”. Questa indicazione del Prologo si pone in continuità concettuale
con quanto affermato in “L’arte della commedia”(1964) dal capocomico Campese:
“È un fatto scontato che il teatro deve essere lo specchio della vita umana ripro duzione esatta del costume e immagine palpitante di verità; di una verità che abbia
dentro pure qualcosa di profetico […] il pubblico è maturo, vuole il suo autore,
quello che gli racconta i fatti di casa sua, e che gli fa riconoscere se stesso fra i per sonaggi della commedia”.
Noi tutti possiamo riconoscerci in Guglielmo e nelle sue ansie di ricerca dell’autenticità: attenzione, quindi, agli esaminatori che si autoinvestono arbitrariamente di
questo ruolo e che pensano di distribuire premi e punizioni al mondo, quello con le
regole prettamente formali rifiutate da Filumena, il cui esempio può indicare la strada da non perdere per il recupero di un sistema di valori pedagogicamente e universalmente valido in cui la maschera della formalità è brutalmente strappata.
Bisogna guardarsi dal ridurre la semplice idea dell’esistenza come successio ne di esami. Eduardo vuol dirci altro: prima di tutto, che tanti di questi esami, sono
dei falsi esami, dove gli esaminatori sono persone che cercano di introdursi nella
vita degli altri per non aver saputo costruire la propria, col grimaldello dei confor mismi e dei luoghi comuni. La lotta del protagonista Guglielmo Speranza consiste
quindi non tanto nel superare le prove dell’esistenza, ma piuttosto nel difendersi
dall’impietoso e meschino assalto della gente che si serve della vita degli altri come
di legna per alimentare il fuoco della curiosità o il grigio della mediocrità. [...] Il
diritto che Speranza reclama è quello di essere libero nelle scelte, sincero negli
impulsi, fedele ai sentimenti. [...] Rimane il ricordo di un Eduardo con la mano tesa
al di là della ribalta, come poche volte lo abbiamo visto: non più rinchiuso nei suoi
pur eloquenti silenzi, ma proteso a parlare, e parlare con i “suoi” spettatori, nel l’ansia di dir tutto fino in fondo, con parole, domande e ammiccamenti dietro ai
quali si potrebbe vedere una ricerca di complicità se Eduardo stesso non pronun ciasse una parola diversa e più alta: pietà.17
L’addio e l’ultimo messaggio di humanitas: la tolleranza
Il transito dalla pietà espressa ne Gli esami all’ultimo messaggio eduardiano, la
pietosa tolleranza, è affidato alla traduzione de La Tempesta, opera del grande
drammaturgo W. Shakespeare, un autore di cui Eduardo aveva letto molto e che
amava molto. Sceglie di tradurla nel napoletano del Seicento per la sua particolare
musicalità fonetica: Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano
17 Renzo Tian, Il Messaggero, Roma, 11 gennaio 1974.
22
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innatura le cercare un’aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli.
Però…quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane,
non tronche, la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una
possibilità di vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna
possiede più.18
La traduzione fu scritta su richiesta di G. Einaudi nel 1983 ed è l’ultimo lavoro
di Eduardo.
Ne risultò un’opera bellissima. La vera trovata era l’uso del napoletano antico.
Lo si potè ascoltare dalla voce dello stesso eccezionale traduttore, quando recitò
davanti ad una immensa folla di giovani stipati nell’Aula Magna dell’Università di
Roma. Sul nastro aveva registrato tutte le voci, sdoppiandosi in dialoghi a due e
perfino a tre; ma lasciando distinta solo la presenza di Miranda affidata a Imma
Piro. Fu uno spettacolo sorprendente, una prova di virtuosismo interpretativo.19
Scelsi questo testo nel 1998 per l’attualità del tema della tolleranza particolarmente gradito anche ad Eduardo: …ci sono tante ragioni che mi hanno fatto prefe rire La Tempesta ad altre splendide commedie scespiriane[…] e una delle più
importanti è la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia: sebbene sia
stato trattato in modo indegno da suo fratello, dal re di Napoli e da Sebastiano,
Prospero non cerca la vendetta bensì il loro pentimento. Quale insegnamento più
attuale avrebbe potuto dare un artista all’uomo di oggi, che in nome di una religio ne o di un’”ideale” ammazza e commette crudeltà inaudite, in una escalation che
chissà dove lo porterà? E preciso che tra gli ideali ci metto anche il danaro, la ric chezza, che appunto come ideali vengono considerati in questa nostra squallida
società dei consumi”.20 Profetico nella motivazione di una scelta che io assunsi, per
la rappresentazione che i miei studenti del Galilei avrebbero proposto al teatro La
Sapienza dell’O.N.A.O.S.I, perché particolarmente convincente già nel 1984 e direi
di assoluto oggetto di riflessione pedagogica oggi. Feci quella scelta anche per la
continuità con lo spettacolo dell’anno precedente, il 1997, La vita è un teatro, sempre rappresentata da miei studenti partecipanti al laboratorio teatrale “Eduardo: La
vita è un teatro” per il quale furono proposti undici quadri tematici che enucleavano argomenti centrali da testi eduardiani centrati spesso su maghi e illusionisti della
vita “in maschera”. Inizia il percorso di vita il semplice e talvolta patetico Sik-Sik,
artefice magico che si affida ad una consapevole incertezza di illudere il suo pubblico per poter sopravvivere alle difficoltà quotidiane; dopo vent’anni, nel 1949, SikSik, abbandonati gli squallidi teatri di terz’ordine, si trasformerà nel più raffinato
Otto Marvuglia, intrattenitore meno ingenuo di un pubblico più scaltro che assisterà
18 La Tempesta di W. Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo De Filippo, Einaudi,
Torino 1984, p. 187
19 M. Giammusso, Vita di Eduardo, A. Mondadori, Milano 1993, p. 392
20 op. cit., p. 186
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
23
attonito ad una una “grande magia”: il dramma popolare della sopravvivenza quotidiana si trasforma in dramma borghese, l’artefice magico diventa “professore di
scienze occulte”. Eduardo si accompagna infine a Shakespeare per far parlare in
napoletano il suo ultimo mago, Prospero, mago autentico, protagonista dell’ultima
fatica teatrale di entrambi; pensa, poi, a ridefinire in nuovi contesti gli altri personaggi della commedia: Ariele, uno spirito-scugnizzo, impertinente e pigro esecutore delle volontà di Prospero; Trinculo e Stefano già ideati e caratterizzati dall’autore inglese come altrettanto impertinenti e sagacemente partenopei; alla fine del
suo percorso filosofico-esistenziale, Eduardo trova la sublimazione di Sik-Sik e
Otto Marvuglia nella tollerante bonarietà del mago Prospero che, stanco di simulare la vendetta, ritorna alla dimensione prevalentemente umana, alla tempesta della
sopravvivenza quotidiana, alle apparenti e illusorie magie necessarie per relazionarsi ad una umanità di cui forse diventerà schiavo; ma il finale vedrà una persona
veramente libera: lo schiavo Calibano che felice ritorna a dominare nella sua isola
come è giusto che sia, realizzando il suo sogno di emancipazione.
Rassicurantemente inquietante un passaggio del IV atto, filologicamente significativo anche nella traduzione eduardiana per le varianti di significato che il termine suonno acquista usato al singolare e al plurale: sing. suonno (il sonno) e plur.
suonne (i sogni):
…………We are such stuff
as dreams are made on, and our little life
is rounded with a sleep…………
Nuje simmo fatte cu la stoffa de li
suonne, e chesta vita piccerella nosta
de suonno è circondata, suonno eterno.
Il sogno caratterizza la nostra vita, il sonno eterno appartiene alla morte che
non può vincere, come ben sappiamo dalla letteratura, sulla forza eternatrice dell’arte: l’artista vivrà sempre attraverso le sue opere. Questo affermò Eduardo nell’ultima apparizione pubblica a Taormina dove 1l 15 settembre 1984 ritirò il premio alla carriera con la significativa motivazione “Per essere Eduardo in Italia e nel
mondo”: è stata tutta una vita di sacrificio e di gelo; così si fa il teatro, così io ho
fatto. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni
e ho pagato. Anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere, anche quando
si sarà fermato.
Si fermerà un mese e mezzo dopo, il 31 ottobre 1984, ma, come lui stesso aveva
profetizzato, le sue opere non si sono ancora fermate, forse perché sanno dialogare
“tollerantemente” con tutti.
E non a caso proprio con la tolleranza si conclude la trama del sistema filosofico eduardiano in cui si evidenziano sentimenti di pietas convergenti nella nobiltà
d’animo, gentilezza, umanità e disponibilità al dialogo caratterizzanti l’humanitas
terenziana. Eduardo ha parlato e trasmesso tutto questo attraverso i suoi personaggi
collegandosi idealmente al sistema classico dei valori filantropici. E questa condivisione idealistica potrà essere l’unica e certa garanzia di sopravvivenza dei testi
eduardiani e della valenza pedagogica che trasmetteranno ai giovani di tutte le generazioni proprio perché sono testi capaci di testimoniare l’Uomo e di raggiungerlo e
dialogare con lui dovunque si trovi.
24
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Appendice
Riflessioni sentenziose
Significativi a motivare la denuncia dell’autore alcuni passaggi della commedia Gli esami
non finiscono mai in cui emergono riflessioni utili per comprendere ed eventualmente condividere il suo punto di vista. 21
La laurea è un pezzo di carta: c’è l’esame della società
GIROLAMO Il caso può favorire sia i degni che gli indegni. Il mondo ti guarda, la società
ti sorveglia, si difende e fa bene. Con questo non vogliamo insinuare che proprio voi non
sarete all’altezza di rendervi degno della vostra laurea, ma...come si dice? Chi vivrà vedrà.
GUGLIELMO Ma l’assiduità agli studi, il profitto, il rispetto degli altrui diritti, l’onorabilità della famiglia a cui si appartiene, a cui mi lusingo di appartenere, qualche affidamento
lo dovrebbero dare.
GIROLAMO Certamente. Senza dubbio la premessa è ottima: ma sempre una premessa è.
STANISLAO Caro Speranza, mettetevi bene in mente questo: una volta laureato bisogna
dare alla società conto e ragione di questa laurea. Voi, in fondo, laureandovi, non avete fatto
altro che impiantare una regolare contabilità con tanto di libro mastro, nel quale gli altri, non
voi, si prenderanno la briga di segnare le entrate e le uscite dei meriti e demeriti che via via
si verificheranno durante il vostro impegno di professionista, marito e padre di famiglia.
GUGLIELMO E fino a quando?
GIROLAMO Fino a quando quel tale “pezzo di carta” non sarà diventato per riconoscimento popolare una vera e propria laurea.
STANISLAO E ricordatevi che soltanto pochi privilegiati riescono a raggiungere il traguardo.
(I atto, p. 533)
L’ i p o c ri s i a : la gente
BONARIA vi ho detto e vi ripeto che che fra me e vostro marito non esiste più niente: è finito tutto. Ma non perchè ci siamo scocciati l’uno dell’altra: ci siamo messi paura della moglie,
dei figli...abbiamo avuto paura della gente. La gente fa paura. Ci hanno messo sotto inchiesta a me e a quel povero Guglielmo.
(II atto, p. 555)
GUGLIELMO [...] mi sono scocciato di sottostare alla legge del vivere civile che t’assoggetta a
pronunciare i “sì” senza convinzione quando i “no” salgono alla gola come tante bolle d’aria, quei
“sì” estorti con la complicità del galateo, il quale poi se ne lava le mani quando poi quel “sì”, per
chi te l’ha estorto, diventa un impegno tassativo che devi mantenere a tutti i costi, se non vuoi
passare alla storia come un fuorilegge.
......................
21 Da E. De Filippo - Gli esami non finiscono mai – in La cantata dei giorni dispari - Einaudi, 1995
25
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
GUGLIELMO Preciso! Si cade dalle nuvole quando il dialogo non procede come pensavamo che dovesse procedere, secondo la prassi comune. E tu infatti sei caduto dalle nuvole.
(II atto p. 561)
GUGLIELMO [...] Viva gli Arabi, viva le mura altissime che circondano le loro case, e siano
benedette le finestre con le gelosie! Tutto dentro e sotto chiave: dolori, gioie, sconfitte, tutto!
Tutto chiuso dentro! I giorni amari, dolci, felici o dolorosi della nostra vita, nelle mani di
gente come te diventano generi commerciabili che si vendono a metri e a scampoli nelle case,
per le strade e le piazze della città. E mi voglio togliere questo vestito da fesso che a viva
forza mi hanno voluto mettere addosso e che, dopo avermelo messo, vanno dicendo che mi
sta a pennello!
(II atto p. 562)
GUGLIELMO Ma un povero Dio come si può difendere da questi angeli custodi che ti
escono dal naso, dagli occhi e che il bastone ce l’hanno non per affrontarti a viso aperto,
ma per gettartelo continuamente fra le ruote...?
(II atto p. 572)
La non dialogicità: il mutismo
GUGLIELMO Per farmi piacere... ho detto “farmi”, badate, non ho detto “farvi”.... Per farmi
piacere, me ne andrò più presto all’altro mondo. Non intendo suicidarmi, non v’allarmate:
non intendo lasciare questa macchia infamante in famiglia. L’uomo sa che deve morire e che
non c’è niente da fare. Sa pure che non può ritardare la morte, è vero, ma sa con certezza che
quando comincia a vivere come un albero, quando passa le giornate sdraiato in poltrona a
leggere libri e giornali, la fine non può essere lontana. Di libri e giornali si può morire.”
(II atto p. 574)
Finalmente senza masch e ra: il testamento
GUGLIELMO Quando sarò morto voglio essere trasportato nudo al cimitero, e nudo voglio
essere sotterrato. Non facciamo che, approfittando del fatto che mi trovo nell’impossibilità
di reagire, fate fare al mio corpo la stessa figura ridicola che faceva quello di mio suocero
sul letto di morte, truccato e vestito da sera [...]. Allora siamo intesi: nudo sono venuto al
mondo e nudo voglio essere sotterrato.”
(III atto p. 591)
26
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Lettura comparata Inglese-Italiano-Napoletano
da La Tempesta di W. Shake s p e a re
tradotta in napoletano da Eduardo De Filippo
traduzione italiana di Goffredo Raponi 22
W. Shakespeare, The Tempest, act II, scene I, 146-148
Inglese
GONZALO
I’ the commonwealth I would by contraries
Execute all things; for no kind of traffic
Would I admit; no name of magistrate;
Letters should not be known; riches, poverty,
And use of service, none; contract, succession,
Bourn, bound of land, tilth, vineyard, none;
No use of metal, corn, or wine, or oil;
No occupation; all men idle, all;
And women too, but innocent and pure;
No sovereignty;
……………………..
All things in common nature should produce
Without sweat or endeavour: treason, felony,
Sword, pike, knife, gun, or need of any engine,
Would I not have; but nature should bring forth,
Of its own kind, all foison, all abundance,
To feed my innocent people.
SEBASTIAN
No marrying ‘mong his subjects?
ANTONIO
None, man; all idle: whores and knaves.
GONZALO
I would with such perfection govern, sir,
To excel the golden age.
Italiano
Napoletano
GONZALO
GONZALO
Farei che nella mia comunità
si facesse ogni cosa all’incontrario
di quello che si fa solitamente:
niente commerci, di nessuna specie;
niente magistrature;
l’ignoranza per legge obbligatoria;
ricchezza, povertà, servitù, niente;
obbligazioni, successioni, termini,
confini, decime, vigneti, niente;
niente metalli, grano, vino, olio;
sconosciuto il lavoro: tutti in ozio;
anche le donne, ma innocenti e pure.
Nessuna sorta di sovranità
……………………..
Tutti in comune i beni della terra,
prodotti senza sforzo né sudore.
E niente tradimenti, fellonie,
spade, picche, fucili ed altri ordigni,
niente bisogno d’ordini qualsiasi:
ché la natura dovrebbe produrre
tutto da sé, in misura sufficiente
a nutrire il pacifico mio popolo
Tutto alla smerza
lu stato mio sarrìa.
Lu listone lu tengo bell’e
pronto
Appezzate li rrecchie, ve lu conto.
Proibito ogni commercio.
Abolizione de lu magistrato,
e ‘nzieme a lui, pe’ conzequenzia,
la magistratura.
Niente miseria
e niente cchiù ricchezza.
Niente cchiù cammarère
e serviture. Niente cuntratte
né litteratura,
niente confini
o proprietà privata,
niente coltivazione
né vigneti,
senza commercio di metallo,
olio, vino e grano.
Lavoro, niente!
Tuttequante a spasso.
Sia l’ommo ca la femmina,
insomma, d’ambo i sessi,
in piena libertade,
però innocenti e puri..
e cumm’ ‘a primma cosa:
niente sovranità!
……………………..
A volontà produce la Natura,
a volontà lu popolo se serve!
Senza pene, vendette,
sudore, tradimente…
Spade, fucile, picche
E machine de guerra,
tutto sarrìa distrutto,
bandito da la terra.
Solo madre Natura,
pe’ vuluntà de Dio,
facesse da padrona
pe’ lu popolo mio!
EBASTIANO
SEBASTIANO
E niente matrimoni fra i suoi sudditi?
De matrimonie niente
nfra li suddite suje?
ANTONIO
ANTONIO
No, niente, amico mio, tutti in panciolle,
le prostitute come i lestofanti.
No, caro; tutti in ozio,
persino li puttane,
purzì li farabutte.
GONZALO
Governerei con tale perfezione,
da non rimpiangere l’età dell’oro.
GONZALO
Lu governo mio
sarrìa lu cchiù perfetto:
addò s’è visto maje
nu Rre senza difetto?
Sarebbe pe’ lu popolo
Na vocia sola in coro:
“Ma chisto ha superato
l’etade ‘e che? Dell’oro!”
22 Si ringrazia la prof.ssa Carla Martellotti per la collaborazione offerta per la lettura del testo in inglese.
27
Quaderno n. 2, Eduardo e la humanitas del Novecento, di Lina D’Andrea
W. Shakespeare, The Te m p e s t, act II, scene I, 148-167
Inglese
PROSPERO
You do look, my son, in a moved sort,
As if you were dismay’d: be cheerful, sir.
Our revels now are ended. These our actors,
As I foretold you, were all spirits and
Are melted into air, into thin air:
And, like the baseless fabric of this vision,
The cloud-capp’d towers, the gorgeous palaces,
The solemn temples, the great globe itself,
Ye all which it inherit, shall dissolve
And, like this insubstantial pageant faded,
Leave not a rack behind. We are such stuff
As dreams are made on, and our little life
Is rounded with a sleep. Sir, I am vex’d;
Bear with my weakness; my, brain is troubled:
Be not disturb’d with my infirmity:
If you be pleased, retire into my cell
And there repose: a turn or two I’ll walk,
To still my beating mind.
Italiano
Napoletano
PROSPERO
PROSPERO
Ferdinando, ti vedo assai turbato,
come sgomento: non aver paura.
I giochi di magia son terminati.
Come t’avevo detto, quegli attori
erano solo spiriti dell’aria,
ed in aria si son tutti dissolti,
in un’aria sottile ed impalpabile.
E come questa rappresentazione
- un edificio senza fondamenta così l’immenso globo della terra,
con le sue torri ammantate di nubi,
le sue ricche magioni, i sacri templi
e tutto quello che vi si contiene
è destinato al suo dissolvimento;
e al pari di quell’incorporea scena
che abbiam visto dissolversi poc’anzi,
non lascerà di sé nessuna traccia.
Siamo fatti anche noi della materia
di cui son fatti i sogni;
e nello spazio e nel tempo d’un sogno
è racchiusa la nostra breve vita.
Mio caro, ho l’animo alquanto turbato,
il mio vecchio cervello è un po’ sconvolto.
Perdona questo mio svigorimento.
Ma di me non dovete preoccuparvi.
Ritiratevi, se così vi piace,
nella mia grotta a riposare un po’.
Io muoverò qui fuori quattro passi,
per acquietare questo mio malessere.
Te veco, figliu mio, preoccupato assaje,
comme appaurato. Rinfranchete,
stje nu poco impressionato…
Li gioche s0’ fernute.
Te l’aggio ditto:l’artiste
Erano tutte spirete,
e so’ svanite…So’ svanite pe’ ll’aria
int’a lu niente…
Comme a la costruzione appariscente
Di questa visione,
pure li torre ncurunàte de’nuvole,
li suntuose palazze,
li castielle,
li sulenne tempie
e quest’enorme globo,
sì…cu tutto chello ca nce sta, fore e ddinto,
sparisce cumm’a lu spettacolo ch’ ’e visto
e ch’è sparito e ca nun lasce tracce.
Nuje simmo fatte cu la stoffa de li
Suonane, e chesta vita piccerella nosta
da suonno è circondata, suonno eterno.
Mò so stanco, scusate…
Scusate a’ debulezza.
Lu vecchio ceveriello è frasturnato…
Nun ve preoccupate, e se ve fa piacere
Jatevenne int’a grotta mia, pe’ ripusà.
Faccio duje passe pe’ calma calmà la mente
Ca nun trova arricietto
Scoscia e sbatte.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Nota bibliografica
Opere di Eduardo De Filippo
Commedie
E. DE FILIPPO, Cantata dei giorni pari Einaudi, Torino 1959 (1962, 1971, 1979, 1991)
E. DE FILIPPO, Cantata dei giorni pari, Einaudi, 1998, a cura e con introduzione di A. Barsotti
E. DE FILIPPO, Cantata dei giorni dispari, voll.1, 2, 3 - Einaudi, 1995, a cura e con introduzione di A. Barsotti
La Tempesta di W. Shakespeare nella traduzione in napoletano di EDUARDO DE FILIPPO, Einaudi, Torino, 1984
I capolavori di Eduardo, vol. I-II, Einaudi, 1973, 1991
Teatro (scelta), prefazione a cura di G. Davico Bonino, Ed. CDE, Milano, 1985
Tre commedie, nota introduttiva di G. Davico Bonino, Einaudi, 1992
Poesie, racconti e altri scritti
E. DE FILIPPO, Il paese di Pulcinella, Casella, Napoli, 1951
E. DE FILIPPO, ‘O Canisto, Ediz. Del Teatro S. Ferdinando, Napoli, 1971
E. DE FILIPPO, Le poesie di Eduardo, Einaudi, 1975, 1989
E. DE FILIPPO, ‘O pensiero e altre poesie di Eduardo, Einaudi, 1985
E. DE FILIPPO, Lezioni di teatro, Einaudi, 1986
Il teatro a fumetti - E. De Filippo - Elledi ’91, 1999 (raccolta di commedie nella versione a fumetti)
Saggi critici, biografie, interviste
E. DE FILIPPO, Teatro, Cantata dei giorni pari, A. Mondadori, 2000, vol. I a cura di N. De Blasi e P. Quarenghi
Eduardo 2000, a cura di T. Fiorino e F. C. Greco, Napoli, 2000
Eduardo - L’arte del teatro in televisione, Rai Eri, 2000, a cura di A. Ottai (con CD-Rom)
Eduardo, in I grandi autori italiani del ‘900, Einaudi e Rai Educational, 2003 (con video-cassetta)
F. DI FRANCO, Eduardo, Roma, 1978
I. Q. DE FILIPPO - Eduardo - Bompiani, Milano, 1985
M. GIAMMUSSO, Vita di Eduardo, A. Mondadori, 1993
R. RADICE Perchè Eduardo non recita da un anno - L’Europeo, 22 gennaio 1953
MASSIMO DURSI, Il Resto del Carlino, Bologna, 22 dicembre 1973.
S. GUGLIELMINO - H. GROSSER - Il sistema letterario, Principato, Milano, 1996
GAVINO OLIVIERI – Teatro italiano da Verga a Fo, Laterza, Bari, 1997
G. TREVISANI, Calendario del popolo, n. 247, 1965
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Gadda e lo sperimentalismo linguistico
nella letteratura italiana
di Massimo Ferrari
Quaderno n. 2, Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella letteratura italiana, di Massimo Ferrari
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Obiettivo del presente intervento è rendere conto di alcuni aspetti della personalità e dello stile di Carlo Emilio Gadda, ed in particolare della sua tendenza allo sperimentalismo linguistico.
Fra i molti giudizi critici significativi, riportiamo, per dare un’idea della grandezza
della figura di Gadda, le seguenti parole di N. Sapegno: “Con il suo umore bizzarro, irto
di motivi polemici e satirici, il suo acre ed intenso lirismo, la sua ansiosa e tenace esigenza di puntigliosa ricerca linguistica, che si riallaccia alla tradizione dialettale, al travaglio morale del Manzoni ed agli Scapigliati, è il più grande dei nostri narratori contemporanei”.
Due esperienze, vissute da Gadda fra l’infanzia e la giovinezza, contribuirono in
modo determinante a radicare in lui quella visione profondamente pessimistica del reale
che emerge dai suoi romanzi attraverso la particolarissima modalità espressiva del pasti che e della commistione di diversi registri linguistici.
La prima di queste due esperienze è la rovina economica della famiglia; il padre di
Gadda, imprenditore tessile piuttosto benestante, si trovò a dover far fronte alle difficoltà legate alla concorrenza delle sete giapponesi nello stesso momento in cui si era
impegnato nella costruzione di una villa in Brianza, impresa tanto prestigiosa quanto
costosa. Alla morte del padre, la madre non volle mettere in vendita la lussuosa residenza, quasi a non voler ammettere davanti alla buona borghesia milanese la reale situazione economica della famiglia. Costretto come i fratelli a umiliazioni e privazioni, il giovane Carlo Emilio sviluppò quell’ambiguo e tormentoso sentimento di amore-odio nei
confronti della madre che è alla base della Cognizione del dolore.
La seconda esperienza è quella della prima guerra mondiale, a cui lo scrittore partecipò da ufficiale, animato da un sincero sentimento patriottico, ma anche dalla segreta
speranza di un riscatto personale rispetto alle recenti frustrazioni patite a livello sociale
ed economico e a quella condizione di inettitudine, peraltro tipica dell’intellettuale
novecentesco, che già cominciava ad avvertire.
Ma la Grande Guerra segnò per il giovane Gadda un nuovo violento trauma. La sua
ansia di eroismo si risolve con un ulteriore ripiegamento su se stesso, di fronte all’avvilente spettacolo della disorganizzazione dell’apparato bellico italiano, la cui responsabilità ricade, secondo lo scrittore, sugli alti gradi dell’esercito, sugli uomini politici, sugli
industriali, senza risparmiare la stessa casa reale, come testimonia questo straordinario
brano tratto dal Giornale di guerra e di prigionia:
Dal Giornale di Guerra e di prigionia
I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e trop po fresco per l’uso, cucite con filo leggero d’abiti anzi che con spago, a macchina anzi
che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono, i fogli
delle suole si distaccano nell’umidità l’uno dall’altro. Un mese di servizio le mette fuori
d’uso. Questo fatto ridonda a totale danno, oltre che dell’economia dell’erario del
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
morale delle truppe costrette alla vergogna di questa lacerazione, e, in guerra, alle orri bili sofferenze del gelo! Quanta abnegazione è in questi uomini così sacrificati a tren totto anni, e così trattati! Come scuso, io, i loro brontolamenti, la loro poca disciplina!
Essi portano il vero peso della guerra, peso morale, finanziario, corporale, e sono i peg gio trattati. Quanto delinquono coloro che per frode o per incuria li calzano a questo
modo; se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una
rissa, per finirlo a coltellate. Noi Italiani siamo troppo acquiescenti al male [ … ]
Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di
direttori e di generaloni: chissà come crederanno di aver provveduto alle sorti del paese
con i loro discorsi, visite al fronte, interviste, ecc. Ma guardino, ma vedano, ma pensi no come è calzato il 5° Alpini! Ma Salandra, ma quello scemo balbuziente d’un re, ma
quei duchi e quei deputati che vanno “a veder le trincee” domandino conto a noi, a me,
del come sono calzati i miei uomini: i mi vedrebbe il re, mi vedrebbe Salandra uscir dai
gangheri e farmi mettere agli arresti in fortezza: ma parlerei franco e avrei la coscien za tranquilla. Ora tutti declinano le responsabilità: i fornitori ai materiali, i collauda tori ai fornitori, gli ufficiali superiori agli inferiori, attribuiscono la colpa: tutti si leva no dal proprio posto quando le responsabilità stringono. E ora di finirla: è ora d’im piccare chi rovina il paese. Non mi darò pace se non avrò fatto qualche cosa: e alla
prima occasione farò. [ … ]
Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha mai fatto una
visita al quartiere, non s’è mai curato di girare per gli alloggiamenti dei soldati; eppu re Giulio Cesare faceva ciò. Si dirà: “non è suo compito”. E con ciò? Forse che un pro fessore di calcolo integrale, sentendo un allievo che sproposita in geometria proiettiva,
non si curerà di correggerlo perché quella non è la branca a lui affidata? Asini, asini,
buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non
ideatori, non costruttori? Incapaci di osservazione e di analisi, ignoranti di cose psico logiche, inabili alla sintesi; scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la
prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni [ … ].
E’ stata questa una giornata tragica: una di quelle giornate in cui mi domando per ché vivo, e se non sarebbe meglio farmi scoppiar la testa con un colpo di revolver: subi to, naturalmente, il pensiero di mia madre insorge nella mia anima, il pensiero dei miei
amati fratelli, e comincia una vicenda di torture, di immaginazioni dolorose, di pensie ri tetri. La mia patria mi è lontana; la vita pantanosa della caserma, e di una caserma
simile, annega in me le gioie e gli entusiasmi che mi potrebbero venire dalla contem plazione della grande storia presente, mi fa scordare le speranze, mi prostra, mi attuti sce il desiderio di sacrificio; le cattive notizie russe e balcaniche mi abbattono, e io
chiudo in me i timori per non far opera di avvilimento. Anche la considerazione delle
mie scarse forze fisiche mi umilia, facendomi pensare che forse non riuscirei a resiste re ai disagi.
L’orrore e la tristezza della solitudine crebbero oggi a dismisura: ora è subentrato
un senso di rassegnazione amara, che l’immagine di mia madre e dei miei fratelli cam bia a quando a quando in dolore. Li vedo con me, col povero papà, in una mattina di
Pasqua, in Brianza: entusiasmarsi alla ricerca delle mammole, giubilare di un folto di
Quaderno n. 2, Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella letteratura italiana, di Massimo Ferrari
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fiori. Che mi farebbe ora un mazzo di violette? Non sarei capace neppure di fermarvi
lo sguardo. Penso al mio Enrico che combatterà, alla mamma e alla Clara a casa sole,
a me, debole come il più debole degli uomini, gettato da una vita orribilmente tormen tata a questi giorni di squallore spirituale. Se qualche cosa di eroico sorgesse in me!
Non mi manca il desiderio di combattere, il senso del sacrificio, ma questo si ottunde
nei disappunti, nelle controversie, nel veleno della vita fangosa di questi giorni.
Notevole la durezza di Gadda nei confronti della classe dirigente italiana del tempo;
ed altrettanto significativa appare la sua comprensione nei confronti degli umili soldati
che affrontano in prima persona tutte le durezze ed i pericoli della guerra. Potremmo
citare, per le evidenti affinità, il film di Francesco Rosi Uomini contro (1971), nel quale
troviamo una precisa denuncia nei confronti di generali insensibili e di fornitori senza
scrupoli di materiale scadente.
La guerra fa scoprire a Gadda, in maniera definitiva, l’inadeguatezza morale e civile degli italiani; tale scoperta ferisce, nel modo più profondo, il giovane borghese desideroso di ordine, di coesione e di solidarietà fra connazionali.
Forse, proprio per questi motivi, pochi anni più tardi, Gadda nutrì qualche speranza
nel fascismo; ma anche queste speranze furono presto amaramente disilluse, e nell’animo dello scrittore si insediò un violentissimo disgusto per gli aspetti volgari e buffoneschi del regime, oggetto di derisione in alcune pagine del Pasticciaccio e nel feroce
pamphlet Eros e Priapo.
Ma tornando alla pagina gaddiana sopra riportata, non possiamo non cogliere anche
i sintomi di una profonda sfiducia dello scrittore in se stesso, che avverte la propria
debolezza nello stesso momento in cui vagheggia atti di eroismo alla maniera del giovane Leopardi delle prime canzoni civili.
Un’ultima notazione può riguardare lo stile del brano, piuttosto lineare e privo di
elementi particolarmente aulici, o, al contrario, popolareschi e dialettali, secondo le
modalità di quella commistione che caratterizzerà le prove del Gadda più maturo.
Passiamo quindi a rendere conto delle tecniche espressive cui si è più volte accennato, partendo dalla Cognizione del dolore, uno dei due principali romanzi del narratore milanese, (l’altro è Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ed entrambi, ricordiamo, furono lasciati senza conclusione da Gadda, quasi a voler rappresentare anche con
questa scelta, la mancanza di senso del reale).
La cognizione del dolore
La vicenda si svolge in un immaginario paese sudamericano il Maradagàl, dietro cui
si può facilmente intravedere la Brianza. Il protagonista, Don Gonzalo Pirobutirro, è un
ingegnere quarantenne scapolo, che vive con la vecchia madre nella villa fatta costruire, con sacrifici dolorosi che avevano tormentato la sua infanzia, dai genitori già impoveriti. L’eroe è devastato dalla nevrosi, dal ricordo del fratello morto in guerra, da lui
infinitamente amato ed ammirato, ossessionato da fobie che esplodono in furibondi
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
accessi d’ira e veri e propri deliri. Un rancore profondo, che si manifesta in scenate e
minacce, divide il figlio dalla madre. Gonzalo rovescia la sua rabbia su tutto ciò che lo
circonda, gli aspetti più banali e piatti della vita di campagna, il cattivo gusto dei borghesi e la loro ristrettezza di idee, i contadini sporchi e maleodoranti, ma anche la presenza stessa di semplici oggetti, come le campane che lo esasperano con il loro suono
fragoroso o il “croconsuelo”, formaggio verminoso di cui tutti vanno ghiotti.
Il romanzo inizialmente delinea la stupidità irritante dell’ambiente di campagna,
registra le chiacchiere insulse degli abitanti del paese intorno a don Gonzalo, mitizzato
nella leggenda popolare come essere infame e mostruoso, capace di tutti i vizi e terrore
della vecchia madre. Buona parte della narrazione è occupata dai deliri dell’eroe, generati dalle occasioni più futili, in cui egli rovescia il suo furore sull’oceano della stupidità
che lo circonda e minaccia di sommergerlo. Una sera, in assenza di Gonzalo, un’ombra
misteriosa si insinua nella villa; la vecchia signora viene trovata dai vicini ferita e
morente. Qui il racconto resta interrotto, lasciando il sospetto che l’autore del crimine
sia il “tristo figlio”.
Il primo brano che prendiamo in considerazione è tratto dal secondo capitolo della
Cognizione, e prende spunto da una delle personali ossessioni dell’Ingegnere: la villa,
simbolo dello sciocco bisogno di apparire dei milanesi appartenenti alle classi sociali
più alte e causa non ultima, come si è detto, dell’infelice giovinezza dello scrittore.
Siamo in un immaginario paese del Sud America, ma tutto sembra alludere agli orizzonti ben più famigliari, per Gadda, della Brianza:
Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali
quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchon – orto, frutteto,
garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri: esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiornoponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano o il papero,
ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro
morenico del Serruchon e lungo le pioppaie del Prado; di ville! Di villule!, di villoni
ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici
delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i
vaghissimi e placidi colli delle pendici prendine, che, manco a dirlo, “digradavano dol cemente”: alle miti bacinelle dei loro laghi. Quale per commissione d’un fabbricante di
selle di motociclette arricchito, quale d’un bozzoliere fallito, e quale d’un ridipinto
conte o marchese sbiadito, che non erano riusciti né l’uno a farsi affusolare le dita, né
l’altro, nonché ad arricchire, ma purtroppo nemmeno a fallire, tanto aveva potuto soc corrergli la sua nobiltà d’animo, nella terra dei bozzoli in alto mare e delle motociclet te in aria. Della gran parte di quelle ville, quando venivan fuori più “civettuole” che
mai dalle robinie, o dal ridondante fogliame del banzavois come da un bananeto delle
Canarie, si sarebbe proprio potuto affermare, in caso di bisogno, e ad essere uno scrit tore in gamba, che “occhieggiavano di tra il verzicare dei colli”. Noi ci contenteremo,
dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de più in
vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a
triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur segui -
Quaderno n. 2, Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella letteratura italiana, di Massimo Ferrari
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tando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: ma il legno dell’Oberland era
però soltanto dipinto (sulla scialbatura serruchonese) e un po’ troppo stinto, anche,
dalle dacuate e dai monsoni. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si dirizza vano su, belle belle, in una torricella pseudo–senese o pastrufazianamente normanna,
con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si
insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rava nelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squame
d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e
della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Alhambra e il Kremlino.
Possiamo notare le tecniche tipicamente gaddiane dell’anafora e dell’accumulo: la
parola villa è ripetuta più volte in apertura, con alcune varianti, fra cui spicca il latinismo di ascendenza catulliana villula. D’altra parte il poeta di Lesbia è ulteriormente citato attraverso il riferimento ai monsoni delle ipoteche (si confronti il carme 26). Inoltre,
l’insistere sull’eterna contrapposizione sociale fra nobili decaduti e trafficoni arricchiti,
non può non far pensare al mondo del Satyricon, opera caratterizzata da umori corrosivi che potrebbero benissimo aver suggestionato lo scrittore milanese. Ma a colpirci è
soprattutto il proliferare delirante di forme aberranti e grottesche (le cupole a forma di
ravanello, ad esempio), testimonianza dell’irrimediabile stupidità e mancanza di ordine
della società, e al tempo stesso della deformazione mostruosa cui va soggetta la realtà
materiale.
Il secondo brano, sempre tratto dalla Cognizione, si concentra sugli stati d’animo
dell’alter ego dello scrittore, l’ingegnere-hidalgo don Gonzalo Pirobutirro:
Il sole e le luci declinavano verso la loro dolcezza, allorché il figlio discese dal
Simposio, o forse dalle Leggi, e, senza prevedere, aprì la porta di sala. Vi vide la
mamma, con gli occhi arrossati, tener crocchio: all’impiedi: e intorno, come una con giura che finalmente tenga la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la
vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell’affossamorti, nera come
una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce.: ma fissavano il cagnolino del
Poronga, lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d’aver paura dei due gatti, dopo
aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma
il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il
pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi molli e cianotici dopo l’impudi cizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta pareva gli avessero dato a suggere, per
finirlo, il tubo del gas. E nel cestello i funghi dall’odor di piedi; per aria due calabro ni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la specchiera: e, computò subi to, stringendo i denti, un adeguato contingente di pulci. La rabbia, una rabbia inferna le, non alterò tuttavia la sua faccia. Aveva una speciale capacità d’odio senza altera zioni fisiognomiche. Era, forse, un timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un
imbecille. Si sentì mortificato, stanco. L’antica ossessione della folla: l’orrore de’ com pagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della
“ricreazione”, il diavolio sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga:
alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il disgusto che lo aveva tenu to fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi dopo guerra aveva
rivolto alle voci dei cosiddetti uomini: per le vie di Pastrufazio s’era veduto cacciare,
come fosse una belva, dalla carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era
uno.
Il brano si apre con uno squarcio lirico-descrittivo che ben s’intona con l’accenno ai
nobili interessi (la lettura di un’opera di Platone) di don Gonzalo, il figlio. Ma la realtà
impreveduta si presenta in tutta la sua oscena volgarità: la madre è circondata da un
crocchio di figure umane deformi, cui si aggiungono altre presenze ugualmente disgustose ed inquietanti, quelle animali fra cui spicca il pesce che dovrà probabilmente essere consumato a cena. Ma in questo brano sembra circolare l’idea di una profonda ripugnanza nei confronti del cibo: il pesce, appunto, è morto, giallo, fetente; i funghi emanano odor di piedi; il croconsuelo, versione pastrufaziana del lombardo gorgonzola,
continua a provocare disgusto anche attraverso i tristi ricordi d’infanzia del protagonista. Di quest’ultimo viene ribadita la sostanziale inconciliabilità con il consorzio, con i
mille: stupendo l’ossimoro carità inferocita per mezzo del quale Gadda coglie la crudeltà dei più che inesorabilmente condannano all’emarginazione colui che si appare
diverso, magari per un’esasperata sensibilità. Tutto quello che, a questo proposito, viene
qui detto su don Gonzalo, il romanziere deve averlo provato e patito in prima persona;
ma alla sbrigativa condanna del volgo (ma più frequentemente veniva ritenuto un imbe cille), si contrappone l’orgogliosa affermazione che chiude il passo: egli era uno. Qui
abbiamo il dramma umano ed esistenziale di Gadda, consapevole del proprio valore, ed
al contempo del durissimo isolamento che dovette sopportare per tutta la vita.
Per concludere con la Cognizione del dolore, non è parso opportuno escludere il
celeberrimo brano dedicato ai manichini ossibuchivori. Qui Gadda osserva, con la freddezza di un entomologo, i comportamenti vacui e meccanici dei clienti di un ristorante
pastrufaziano, talmente convinti della straordinaria importanza di ogni singolo proprio
gesto, da poter essere assunti a simbolo della trionfante umana idiozia:
Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che da lunga
pezza oramai, cioè fin dall’epoca dell’ossobuco, si era andato a mano a mano accumu lando nella di loro persona […] estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il por tasigarette d’argento: poi, dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massic cia, col bocchino di carta d’oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasiga rette, richiuso nel frattempo dall’altra mano con un tatràc; la mettevano ai labbri; e
allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor
fronte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati
alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre
tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n’erano già stati tutti
spiccati, per il che, con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini
dell’Io. E derelitta, ecco, giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stana -
Quaderno n. 2, Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella letteratura italiana, di Massimo Ferrari
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ta ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua immagi ne del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter
di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unità, strofinavano, accendeva no; spianando a serenità nuova la fronte, già così sopraccaricata di pensiero (ma pen siero fessissimo, riguardante, per lo più, articoli di bigiutteria in celluloide).
Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? oh! se ne
scordavano all’atto stesso; per aver motivo di rinnovare (in occasione d’una contigua
sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli “altri tavoli”, aspi ravano la prima boccata di quel fumo di eccezione, di Xanthia o di Turmac; in una
voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta tra medio e indi ce, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei
polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come
un disperato ameboide a mantrugiare e a peptomizzare l’ossobuco. La peristalsi veni va via con andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo,
la marcia trionfale dell’Aida o il Toreador della Carmen.
Così rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a
rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro
polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.
Siamo di fronte ad un vero e proprio sfoggio di bravura da parte di Gadda, che si
serve particolarmente dell’arma del linguaggio aulico per sferzare con duro sarcasmo i
personaggi pieni di sé collocati sotto la lente deformante dello scrittore. Possiamo così
catalogare termini ed espressioni come: da lunga pezza, nella di loro persona, onnubi lata di cure altissime, dispitto, ubiqua. Chiaro l’intento dell’autore di creare un effetto
comico e straniante al tempo stesso: si pensi solo alla sproporzione esistente fra un termine arcaico come dispitto, nobilitato da Dante grazie all’impiego nel X canto
dell’Inferno, quello di Farinata, e la banalità della scena in cui lo utilizza Gadda.
Possiamo poi ricordare ancora l’onomatopeico tatràc ed il germanismo Urmutter, particolarmente evocativo con le sue sfumature accademiche; ed avremo già una significativa prova dell’abilità dell’Ingegnere nel mescolare registri linguistici diversi. Ma proviamo a concentrarci solo su questa frase: Lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e
andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e peptonizzare l’ossobuco.
Qui possiamo riconoscere un’espressione dialettale lombarda (andava dietro), termini scientifici (ameboide, peptonizzare), un termine vernacolare toscano (giulebbe), un
termine arcaico e prezioso (mantrugiare). Il tutto culmina con la geniale definizione di
manichini ossibuchivori, nella quale la funzione del mangiare, tipica degli esseri animati, viene messa in relazione con la figura, inerte perché priva di vita, del manichino.
Tutto il brano si presta dunque a dimostrare come in Gadda l’invenzione linguistica
non sia fine a se stessa, ma funzionale alla visione del mondo forse più cupa ed antiumanistica della nostra letteratura del Novecento.
Abbiamo finora privilegiato, nella scelta antologica, la Cognizione, che, con la sua
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
dolente materia autobiografica consente di comprendere meglio la complessa personalità di Gadda. Ma eccellenti esempi di commistione linguistica possono essere rinvenuti nel Pasticciaccio, di cui presentiamo innanzi tutto la trama:
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Ambientato a Roma alla fine degli anni Venti, il romanzo sembrerebbe avere la
struttura di un “giallo”: protagonista è infatti il molisano commissario Ingravallo, specializzato nello “sberretà gli uommeri”, cioè nel risolvere casi ingarbugliati, evocativi
del caos in cui si dibattono gli uomini. Particolarmente intricata, un “pasticciaccio”
appunto, è la vicenda di Via Merulana, dove in un “palazzo de’ signori” si susseguono
rapidamente due crimini: prima un furto di gioielli ai danni di un’anziana nobildonna,
poi un efferato omicidio, di cui è vittima la moglie di un ricco commerciante, la signora Liliana Balducci, che Ingravallo conosceva, ammirandone l’avvenenza e la finezza.
Difficile dire se i due fatti siano legati fra di loro; in un primo momento, comunque, i
sospetti per l’omicidio sembrano cadere sul cugino della vittima, il giovane e affascinante Giuliano Valdarena nella cui casa vengono ritrovati preziosi e denaro appartenuti a
Liliana. Gli interrogatori portano alla luce un legame affettivo particolarmente intenso
tra i due cugini, ma alla fine Giuliano risulta essere innocente, e Ingravallo decide di
concentrarsi su un altro aspetto della personalità della vittima, cioè sulla frustrazione
derivante dall’impossibilità di avere figli che la spingeva a circondarsi, in qualità di
cameriere o di pupille, di bambine e di giovani (spesso molto belle, queste ultime, come
il commissario aveva potuto constatare di persona prima dell’omicidio). Intanto da
Roma le indagini relative al furto si spostano sui Colli Albani, e a condurle sono i
Carabinieri di Marino che con un colpo di fortuna ritrovano un anello rubato alla nobildonna di Via Merulana nella bottega di una laida megera che unisce al mestiere di sarta
e tintora quello di maga (e di ruffiana). La refurtiva viene recuperata mentre il commissario Ingravallo sottopone ad uno stringente interrogatorio l’ultima delle cameriere dei
Balducci, giovane dall’aggressiva bellezza e - sembra - morbosamente legata a Liliana.
Sulle sue proteste di innocenza, e sulla furia di Ingravallo che non le crede, termina il
romanzo.
Il brano che abbiamo scelto rappresenta una sorta di digressione rispetto ad una
vicenda che non è comunque neppure essa quella principale. Si tratta, infatti, di un filone secondario di indagini, condotte dai Carabinieri di Marino: il brigadiere Pestalozzi si
è recato in motocicletta alla borgata dei Due Santi per interrogare la Zamira, titolare di
un’equivoca tintoria che potrebbe nascondere altre, meno lecite, attività; nel momento
in cui il graduato sta per avviare l’interrogatorio, improvvisamente una gallina irrompe
sulla scena:
In quel punto, come evocata di tenebra, dall’usciolo socchiuso della scaluccia
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approdante in bottega (di cui li regazzini fantasticavano, altri fantasticavano e più
d’uno pe via de la lettura de la mano avea pratica), si affacciò, e poi zampettò sul mat tonato freddo qua e là con certi suoi chè chè chè chè tra due cumuli di maglie, una torva
e a metà spennata gallina, priva di un occhio, e legato alla zampa destra uno spago,
tutto nodi e giunte, che non la smetteva più di venir fuora, di venir su: tale, dall’ocea no, la sagola interinata dello scandaglio ove il verricello di poppa la richiami a bordo
e tuttavia gala d’una barba la in fronzoli, di tratto in tratto: una mucida, una verde alga
d’abisso. Dopo aver esperito in qua in là più d’una levata di zampa, con l’aria, ogni
volta, di saper bene ove intendeva andare, ma d’esserne impedita dai divieti contrastan ti del fato, la zampettante guercia muto poi parere del tutto. Spiccicò l’ali dal corpo (e
parve estrinsecarne le costole per una più lauta inspirazione d’aria), mentre una bizza
mal rattenuta le gorgogliava già ner gargarozzo: una catarrosa comminatoria. A stroz za invelenita principiò a gorgogliare in falsetto: starnazzò spiritata in colmo alla mon tagna di que’cenci, donde irrorò le cose e le parvenze universe del supremo coccodè,
quasi avesse fatto l’ovo lassù. Ma ne svolacchiò giù senza por tempo in mezzo, atter rando sui mattoni con nuovi acuti parossistici, un volo a vela de’ più riusciti, un record:
sempre tirandosi dietro lo spago. Parallelamente allo spago e alla infilata dei nodi e dei
groppi, un filo di lana grigia le si era appreso a una gamba: e il filo pareva questa volta
smagliarsi da reobarbara ciarpa, di sotto al ridipinto ciarpame. Una volta a terra, e
dopo un ulteriore co co co co non si capì bene se di corruccio immedicabile o di rag giunta pace, d’amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell’allibito briga diere, volgendogli il poco bersaglieresco pennacchietto della coda: levò il radicale del
medesimo, scoperchiò il boccon del prete in bellezza: diaframmò al minimo, a tutta
apertura invero, la rosa rosata dello sfintere, e plof! La fece subito la cacca: in dispre gio no, è probabile anzi in onore, data l’etichetta gallinacea, del bravo sottufficiale, e
con la più gran disinvoltura del mondo: un cioccolatinone verde intorcolato alla
Borromini come i grumi di solfo colloide delle acque albume: e in vetta in vetta uno sca racchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema chiara chiara, di latte
pastorizzato pallido, come già allora usato.
Di tutta quella aerodinamica, naturalmente, e del conseguente sgancio del gian duiotto, o boero che fosse, la Zamira ne profittò pe non risponde: intanto che dei piu micini a ricciolo, nevosi e teneri come d’un papero infante, persistevano ad alto a
mezz’aria mollemente ondulando, da parere anelli in dissolvenza, del fumo d’una sighe retta. Nel prodigio nuovo l’imperativo del Pestalozzi vanì. Lei la si levò ratta di seggio la con tutto il podere cilestrino, la si diè a ciabattare e a sventolar la gonna dietro alla
torva, zinale non aveva, e a garrirla: “Via! Via! zozzona, spurcacciona! Una partaccia
così, zozza che nun se’altro! Al signor maresciallo!”
Tantoché la zozza in parola, tuttavia gargarizzandosi di mille cocococò, e scarac chiandoli infine tutti in una volta al soffitto in un chechechechè riassuntivo, per quanto
doppiamente ancorata e dallo spago e dal filo, la si levò a volo fino sul ripiano della
credenza: dove, incazzatissima, e rivestita sua dignità, la depositò, nel vassoio di pel tro, un altro bel caccheronzolo, ma più piccinino del primo: pif! Con che sembrò aver
evacuato il disponibile. La paura (dei carabinieri) fa novanta!
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Prima di affrontare gli aspetti linguistici del passo, appare importante sottolineare
come la narrazione dei fatti (la prosecuzione delle indagini da parte del Pestalozzi) si
interrompa per lasciar posto all’indugio su un particolare marginale, insignificante. E’
questo un procedimento costante nel Pasticciaccio: ad ogni momento Gadda sembra
dimenticare intreccio e personaggi, è come trascinato e inghiottito in un vortice incessante ed inesauribile di divagazioni. Si pensi che solo poco prima rispetto a questo episodio, lo scrittore, prendendo spunto dal passaggio di un carabiniere motociclista nei
pressi di un’edicola votiva, si è soffermato a lungo su un argomento bizzarro quale l’importanza della raffigurazione degli alluci dei santi nella storia della pittura italiana!
Riprendendo il nostro discorso, possiamo ricordare che, se da una parte Gadda aspirava a scrivere quello che egli stesso definiva un romanzo ben fatto, cioè un romanzo di
tipo tradizionale con una struttura narrativa perfettamente organica, alla maniera degli
ammirati Manzoni e Zola, dall’altra quest’aspirazione risulta del tutto irrealizzabile per
il nostro autore, cui non pare affatto possibile racchiudere una realtà caotica e labirintica in una ben congegnata architettura romanzesca.
Ma non possiamo non rimanere colpiti anche dal modo in cui lo sguardo di Gadda
si sofferma su particolari apparentemente insignificanti, quale è appunto la gallina del
brano sopra riportato. Si tratta di uno sguardo che, rimanendo fisso prolungatamente sul
medesimo oggetto, riesce a cogliere quell’impreveduta e mostruosa deformità che lo
scrittore sintetizza con la definizione di barocco. Anzi, è il caso di ricordare che, a quanti lo accusavano di coltivare uno stile eccessivo, barocco appunto, Gadda rispondeva,
non senza sdegno: Barocco è il mondo (confronta la premessa alla Cognizione nell’edizione del 1963)
L’esame dei diversi registri linguistici compresenti nel brano ci porta, innanzi tutto,
a soffermarci sulla quantità di onomatopee presenti: non si deve dimenticare che l’onomatopea si limita ad imitare dal punto di vista fonico la realtà, proprio quella realtà che
l’Ingegnere condanna, ma dalla quale risulta pure morbosamente attratto. Numerosi
sono, naturalmente, i termini del registro basso, plebeo e dialettale (ner gargarozzo,
incazzatissima, scaracchietto, solo per fare pochi esempi). Ma non mancano esempi di
un lessico colto ed aulico mediante il quale il romanziere riesce ad ottenere un effetto di
stridente contrasto: citiamo evocata di tenebra, divieti contrastanti del fato, corruccio
immedicabile, amistà. Allo stesso effetto mirano anche le espressioni ed i termini propri del linguaggio scientifico, cui Gadda, d’altra parte, spesso ricorre. Ma soffermiamoci su questo breve passaggio: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini come
i grumi di solfo colloide delle acque albume. A parte l’accostamento dell’escremento
gallinaceo ad un cioccolatino, notiamo la fissità dello sguardo gaddiano sull’oggetto in
questione, fissità che porta lo scrittore a rilevarne la caratteristica forma (intorcolato,
che è termine romanesco). Ma la nota più bizzarra è il richiamo al mondo alto dell’arte
(alla Borromini). Tutta la parte finale del passo che stiamo analizzando consiste di una
similitudine di tipo scientifico (come i grumi…).
Infine, tutti i brani analizzati sembrano contribuire a convalidare la tesi su cui si basa
questo lavoro: il plurilinguismo di Gadda non è affatto il divertissement di un intellettuale blasé, né tende ad effetti esclusivamente comici. L’Ingegnere fu un uomo estrema-
Quaderno n. 2, Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella letteratura italiana, di Massimo Ferrari
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mente tormentato e profondamente sensibile, desideroso di ordine e di rigore morale ma
deluso dalle vicende storico-politiche del proprio paese, oltre che provato da difficili
situazioni familiari. A tutto ciò, egli cercò di reagire con le proprie opere letterarie (alcune delle quali sono veri e propri capolavori), caratterizzate da uno stile unico e tuttavia
capace di influenzare le generazioni successive (si pensi ad Arbasino, che era solito definire nipotini dell’Ingegnere tutti quei giovani scrittori che, dagli anni ’60, cominciarono a sperimentare nuovi linguaggi letterari); e valga come conclusione questa citazione
dal saggio di Gadda Tendo al mio fine, pubblicato per la prima volta su Solaria nel 1931:
Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi
come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge.
Appendice
Cronologia della vita e delle opere di C. E. Gadda
1893 il 14 novembre Carlo Emilio Gadda nasce a Milano, primo di tre figli.
1909 alla morte del padre le condizioni economiche della famiglia, che pure apparteneva alla buona borghesia cittadina, peggiorano e si apre un periodo di privazioni e di stenti.
1915 convinto della necessità dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale parte
per il fronte. Dall’esperienza bellica nascerà il Diario di guerra e di prigionia.
1917 è fatto prigioniero.
1919 al ritorno a Milano, apprende della morte del fratello Enrico.
1920 si laurea in ingegneria al Politecnico di Milano.
1922 vive un periodo in Argentina per motivi di lavoro.
1924 viaggia moltissimo per lavoro; studia filosofia a Milano; insegna matematica
e fisica in un liceo.
1928 inizia la collaborazione a Solaria.
1931 esce La Madonna dei filosofi.
1934 esce Il castello di Udine.
1936 la morte della madre ispira La cognizione del dolore, stesa quasi per intero
(ma destinata a restare incompiuta) in pochi mesi; uscirà a puntate su
Letteratura tra il 1938 e il 1941.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
1940 si trasferisce a Firenze, cessando l’attività professionale e dedicandosi completamente alla letteratura.
1944 pubblica L’Adalgisa.
1945 si trasferisce a Roma, dove lavora al Pasticciaccio (pubblicato a puntate su
Letteratura).
1950 ottiene un incarico presso la RAI (che manterrà fino al 1955).
1957 esce in volume, ampliato ma non concluso, Quer pasticciaccio brutto de via
M e r u l a n a, da cui prende il via il successo degli ultimi anni.
1958 esce la raccolta di saggi I viaggi, la morte.
1963 esce in volume La cognizione del dolore, che fa ottenere all’autore il prestigioso Premio Internazionale Formentor.
1973 il 21 maggio muore a Roma.
Montale e le filosofie coeve
di Antonino Agosta
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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Introduzione
Affronto il tema circoscritto, in genere poco trattato in modo centrale, della presenza di alcune tendenze della filosofia del Novecento nella poesia montaliana.
L’argomento è molto vasto, per cui mi limito a prospettare da un punto di vista prevalentemente filosofico spunti analitici e interpretativi che spero utili ad una migliore comprensione dell’argomento e delle sue molteplici connessioni.
La filosofia del primo Novecento in Ossi di Seppia
La poesia di Montale è poesia costitutivamente filosofica, “inguaribilmente
semantica”, come egli ebbe a definirla. Una lettura attenta rivela nel poeta la capacità di inserirsi nel dibattito filosofico novecentesco cogliendone e individuandone
i problemi di fondo al loro livello più specificamente teoretico, anche se non da specialista. Nel 1960, Montale afferma di riconoscersi in una poesia non “pura” o ermetica, ma tale “che molto all’ingrosso si può dire metafisica (…) Tutta l’arte che non
rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è
ragione, può anche dirsi metafisica”. Si tratta di una dichiarazione fondamentale, in
quanto non solo vi viene lucidamente identificato un ambito ben determinato di poetica novecentesca, antiermetica o antiorfica, che da Baudelaire e Browning giunge a
Eliot, ma viene con sicurezza identificato un nodo problematico di fondo della grande filosofia del Novecento: la separazione (“il cozzo”) fra mondo di senso (fondamenti metafisici e gnoseologici, criteri di orientamento, valori, in breve la “ragione”) e mondo o dell’ulteriorità di senso e del mistero o dei dati di fatto, il reale
empirico e storico, abbandonati dal senso (“qualcosa che non è ragione”). Tale separazione si situa all’interno del “fallimento storico dei grandi sistemi metafisici dell’idealismo tedesco” - e, possiamo aggiungere, del positivismo, soprattutto comtiano -, cioè degli ultimi grandiosi tentativi di conciliare “fatto” e “senso”. E’ venuto
meno, in effetti, il “principio hegeliano (in origine greco ed ebraico-cristiano), della
presenzialità-effettività del razionale” (Gagliardi). Nietzsche aveva proseguito nella
sua critica (genealogia) dei concetti e valori fondanti della tradizione filosofica e
culturale dell’Occidente a cominciare da quelli relativi alla soggettività, al linguaggio, alla verità. Montale si inserirà nel cuore di tali tematiche e lo farà da poeta-filosofo, come già un secolo prima Leopardi, insieme ai grandi scrittori della fase più
tipicamente novecentesca della letteratura europea.
Non ch i e d e rci la parola che squadri da ogni lato: la parola e l’essere
Il poeta si rivolge ad un ‘tu’, forse coincidente con la sua “ombra”, pregandolo
di non chiedergli parole rivelatrici o definitrici ormai impossibili. L’“animo nostro”
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
è “informe”, il nostro essere più profondo è privo di forma, di certezze fondanti. Il
linguaggio (parola, “formula”) non può dire la nostra interiorità, né rivelare qualsiasi altra verità (“mondi”).
Al poeta rimane solo “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, utile tutt’al
più per un autoriconoscimento di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, nel
rifiuto etico di ogni verità illusoria o precostituita. Montale si situa, con questa lirica, all’interno del più vivo dibattito filosofico del primo Novecento, cogliendone
problematiche centrali. Quella relativa alla costituzione della soggettività qui si
accampa in primo piano. Interlocutori di Montale sono Nietzsche, Bergson e altri
autori: anche per loro si potrebbe dire che l’“animo nostro” è “informe” se ad
“informe” si dà il significato di molteplice, dinamico, contraddittorio (alla
Nietzsche), fluido (alla Bergson). “L’io non è più padrone in casa propria” dice
Freud. Il soggetto ormai non coincide più con la ragione, non è più considerato
individualità consapevole posta di fronte al mondo.
L’“ombra”, il “doppio”, nostro inquilino del “sottosuolo”, ci interpella sempre
più spesso, anche se, dice Montale, l’uomo comune non se ne cura. Quello montaliano è certo un soggetto povero, ma consapevole del suo stato e del fatto che non
dispone della “parola che squadri”, della “formula che mondi possa aprirti”, del linguaggio della verità: né del simbolo che schiude magicamente il mistero, né del
segno in cui si mostra il pensiero che adegua o rispecchia il mondo.
L’aforisma 125 della Gaia Scienza, in cui il folle annuncia agli uomini riuniti
nel mercato la morte di Dio va letto soprattutto come l’annuncio della morte della
verità, pilastro centrale del pensiero occidentale. Si apre quindi lo spazio dell’interpretazione. C’è ancora la possibilità, ovviamente, di continuare nella ricerca del
vero: se così non fosse e ammettessimo il contrario, incorreremmo nel paradosso del
mentitore (“Io vi dico la verità: non ci sono verità”).
Importante, nella realtà priva di senso in cui ci si trova, dice il poeta, è contare
sulle poche, indubitabili, certe risorse, che l’irrinunciabile ragione mette a nostra
disposizione: 1) la consapevolezza del fatto che la nostra interiorità è inafferrabile,
plurale e contraddittoria; 2) “qualche storta sillaba e secca come un ramo”: il linguaggio è diventato inadeguato a cogliere il reale, ma per un poeta, si sa, la “parola” la “sillaba”, è fondamento del poetare.
In Montale agisce la consapevolezza filosofica tipicamente novecentesca che fra
l’ordine delle parole e l’ordine delle cose non c’è più corrispondenza o rispecchiamento. Il linguaggio non raffigura il mondo. Sulla crisi della concezione logicoveritativa del linguaggio convergono, attraverso itinerari teoretici diversificati,
Nietzsche, Bergson, Freud ecc. e Montale è sulla loro lunghezza d’onda.
Spesso il male di vivere ho incontrato: il male e lo Spirito
Il testo si basa sulla contrapposizione tra “male” e “bene”; ma il bene viene presentato dal poeta come “divina Indifferenza” con immagini che suggeriscono “indifferenza” (interpretabile anche come distacco dalle “differenze” in cui la vita sussiste), allontanamento e non partecipazione e quindi rifiuto della vita. Il che dà maggiore consisten-
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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za al “male di vivere” le cui immagini, desunte da vari ordini della natura, evocano sensi
di fatica, aridità, tonfo mortale. Le cose, il mondo, sono quindi disabitati da ogni prospettiva di senso. L’io lirico è l’unica presenza umana. Per il resto, l’umano è ridotto a
“sonnolenza”, impietramento, in una sorta di climax discendente che è anche ossimoro
straniato. Il male viene dunque mostrato come realtà, come presenza naturale concreta
in cui spesso ci si imbatte.
Il rivo, la foglia, il cavallo, sono mostrati nel loro approdo finale. La Natura leopardiana, la Volontà di vivere, che in Schopenhauer agisce come unica vera realtà al di
sotto dei fenomeni (le “rappresentazioni”, cioè il modo regolare in cui, come aveva insegnato Kant, i fenomeni sono rappresentati dal soggetto che li inquadra nella sue categorie) perpetua se stessa consumando e sfinendo in un anelito spossante le individualità
singole, ciecamente avide di vita e di autoaffermazione. Di fronte a tale esito, alla sua
“necessità”, si colloca una individualità, quella dell’io lirico, non mondanamente vincente, ma capace di quel distacco che le consente di affrancarsi dal servizio al Wille.
Certo, la metafisica classica, fino all’idealismo e al positivismo, ha generalmente
mostrato la tendenza ad attenuare la consistenza ontologica del male, a considerarlo
come momento negativo, ma destinato ad essere superato e riassorbito nel complessivo
disegno teleologico dello Spirito. Dagli inizi del Novecento, in Italia si afferma l’idealismo di Croce e Gentile. Semplificando, si può dire che ambedue i filosofi cercano di
identificare il piano dell’Assoluto, dello Spirito e quello del mondo, della storia, ritrovando così lo Spirito nei fatti.
Montale visse, insieme alla sorella, in un ambiente nutrito di suggestioni e interessi
filosofici e religiosi, di letture approfondite; si mosse nell’ambito della reazione al positivismo. In Intenzioni - Intervista immaginaria, pubblicata nel 1946, il poeta affermò di
essere stato attratto, subito dopo la prima guerra mondiale, dall’“immanentismo assoluto” di Gentile, ma di aver poi preferito il “grande positivismo idealistico del Croce”.
Comunque, anche se avverte il fascino dell’idealismo crociano per la sua lezione di
razionalità, di chiarezza, di aderenza al concreto e di solida moralità, di “decenza” grande-borghese, Montale resta estraneo ad un indirizzo di pensiero per il quale è ravvisabile “nella storia un infallibile processo non dal male al bene, ma dal bene al meglio”,
come ebbe a scrivere nel 1963 nel saggio L’estetica e la critica. Molto netta è ormai in
lui la consapevolezza della presenza ineludibile e non razionalizzabile del “male di vivere”. Dopo la prima guerra mondiale, nel periodo della composizione degli Ossi di sep pia, Montale è ormai pienamente inserito nel clima filosofico europeo. In tale clima
Schopenhauer e Nietzsche continuano ad offrire un linguaggio-base per l’espressione
dell’immaginario del tempo.
Il rapporto con Schopenhauer è, per Montale, in questa fase, fondamentale. Dice di
sé il poeta, riferendosi all’epoca di Ossi di seppia : “Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile,
un filo appena mi separava dal quid definitivo (…) la fine del mondo come rappresentazione”. Sono evidenti l’estraneità del poeta al reale; l’arte come attività conoscitiva
privilegiata (musicale al tempo stesso), capace di cogliere il Wille stesso, lacerando
“Maya, il velo ingannatore” (come dice Schopenhauer) che separa l’uomo e i fenome-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
ni, pure apparenze sottoposte alle leggi necessitanti dello spazio-tempo e della causalità,
dall’essere in sé, dalla “Volontà” incosciente, cieca e irresistibile. Le immagini del
“muro”, della “muraglia”, del “giro inquieto”, della “catena” e dell’ “anello” ricorrenti
nelle liriche di Ossi di seppia simboleggiano tutte una condizione di necessità, di meccanismo costrittivo, fondata su una razionalità estranea all’uomo. Del resto, anche Max
Weber, in ambito sociologico, definisce la società capitalistica come una “gabbia d’acciaio”. Dall’altro lato il mondo presenta in Montale e in Schopenhauer caratteristiche di
illusorietà e vanità che trovano una espressione, ad esempio, nello “scialo/ di triti fatti,
vano/ più che crudele” (Flussi). Un cosmo quindi ferreo e necessitato da un lato, vacillante ed entropico dall’altro.
Ma la scepsi montaliana pone in discussione ogni tipo di certezze, anche quelle di
Schopenhauer, e affianca, alla necessità e inconsistenza del mondo, il “miracolo”, la rottura della “catena” operata dall’ “anello che non tiene”. È soprattutto Boutroux che offre
al poeta il concetto di contingenza come elemento correttivo nei confronti del pessimismo assoluto di Schopenhauer; ma in Montale, a differenza che in Boutroux, lo scatto
della “contingenza”, quale sintomo della libertà dell’essere, non si verifica. “Forse un
mattino in un’aria di vetro” potrà verificarsi un “miracolo” negativo: l’apparire, alle
spalle dell’io lirico, del nulla che, anticipando la morte, cancella l’inganno consueto
delle “rapprentazioni”; ma sarà di breve durata e il suo significato sarà chiaro al solo
poeta. Gli altri non se ne avvedranno nemmeno.
Ossi di seppia è opera di prodigi sempre attesi, mai verificatisi. Ma il superamento
dell’incomunicabilità attraverso l’incontro e il rapporto d’amore si pone come fattore
che può portare oltre la negazione totale delle ragioni del vivere e rendere plausibile la
ricerca di una via di salvezza magari attraverso l’offerta, al destino, del proprio sacrificio per la salvezza dell’altro (vedi soprattutto In Limine e Crisalide).
Ma la scoperta di una intersoggettività fondata sul dono di sé alla donna conduce
parzialmente oltre Schopenhauer e decisamente oltre il suo rifiuto dell’amore (in quanto inganno operato dalla Volontà di vivere che vuole perpetuare se stessa), in direzione
di una riproblematizzazione dell’esistere, comportante la necessità di un viaggio purgatoriale (Arsenio e Incontro) nella memoria, alla ricerca di possibilità di senso attraverso
la pur persistente opacità dei fenomeni.
Le Occasioni, La bufera ed altro, e la caduta della “barriera
tra interno ed esterno”
Montale, in Intenzioni (Intervista immaginaria), riferendosi alle Occasioni, dopo
aver detto della persistenza, in quel tempo, della “campana di vetro” attorno a lui, scrive dell’esigenza di superare, nella poesia di Le Occasioni, il “dualismo fra lirica e commento, fra poesia e preparazione o spinta alla poesia”, che caratterizzava le sue precedenti prove. Enuncia quindi il principio di poetica che ispira le Occasioni, consistente
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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nel definire, conformemente alla poetica del “correlativo oggettivo” di Eliot, una immagine, un oggetto, una situazione concreta in cui calare uno stato d’animo, quasi occultandolo un mondo interiore, un insieme di emozioni, sentimenti, riflessioni.
Non è stato però dato il dovuto risalto alla motivazione rigorosamente filosofica
posta da Montale alla base della propria poetica, motivazione consistente nella necessità
“di abbattere quella barriera fra interno ed esterno che mi pareva insussistente dal punto
di vista gnoseologico.
Tutto è interno e tutto è esterno per l’uomo d’oggi; senza che il cosiddetto mondo
sia necessariamente la nostra rappresentazione”. Il clima filosofico cui aderisce tale
impostazione è quello antipositivistico fondato sul superamento di un basilare caposaldo della metafisica dell’Occidente fino ad Hegel e al Positivismo, consistente nella
distinzione fra “interno ed esterno”, tra io e natura, pensiero e mondo, soggetto e oggetto (ancora operante ad esempio in Schopenhauer ), di cui sono state protagoniste soprattutto le nuove correnti dello storicismo tedesco, della fenomenologia, della filosofia dell’esistenza e dell’ontologia di Heidegger.
Secondo tale ambito filosofico, bisogna considerare l’interiorità come già da sempre proiettata nell’esteriorità, il soggetto nell’oggetto, e viceversa, escludendo sia il
naturalismo che l’idealismo. Non c’è un dato, una oggettività che sia posta di fronte ad
un soggetto e disponibile all’uso, al possesso, alla conoscenza obiettivante, o riducibile al calcolabile. La visione del mondo come oggettività reificata, dell’essere come
“ente”, appartiene ad un’ epoca e ad un modo di concepire l’essere che vanno superati
se si vuole andare oltre la crisi dell’Occidente. Coscienza e mondo sono da sempre
coimplicati in un flusso continuo di reciproche relazioni, sia per Husserl (concetto di
intenzionalità) che per Heidegger.
Quest’ultimo riposiziona l’intenzionalità, all’interno del perenne “accadere” dell’essere negli enti, in quel particolare ente che è l’Esserci (l’uomo). Esistere, per l’esserci,
consiste nell’aver cura e nell’essere sempre aperti al mondo. Occorre pertanto riscoprire il senso delle cose, del nostro vivere muovendo dall’effettivo, non strumentale, rapportarsi della coscienza ai suoi oggetti, alle “cose stesse” (Husserl) o dall’essere così
come esso, uscendo dalla sua latenza, si manifesta negli enti (Heidegger). Solo così ci
si opporrà al processo di reificazione del mondo cui l’oblio dell’essere ha condotto
l’Occidente.
La cultura degli anni tra le due guerre mondiali, del resto, è generalmente caratterizzata da una tendenza alla riscoperta dell’originario, dei dati primi, di una trama nascosta da disoccultare. Le tendenze filosofiche del tempo partono dal presupposto che l’essere, il sapere, sono ricoperti da una cortina di oblio; la storia e il mondo costituiscono
il dominio dell’assurdo e dell’accidentale.
Mettere in discussione “la barriera fra esterno ed interno” significa quindi porsi contro la concezione di una soggettività che pretenda una volta per tutte di inquadrare, giudicare, avere a disposizione il mondo: ecco perché Montale può affermare che non bisogna pensare “che il cosiddetto mondo sia necessariamente la nostra rappresentazione”.
Si giunge così al riconoscimento che il pensiero dell’essere è continuamente rilanciato e messo in discussione da quell’essere che il pensiero stesso è. Ma la nostra civiltà si
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
è allontanata dalle sorgenti umane e vitali di quel sapere anche scientifico che ne costituisce la base (Husserl), la metafisica dell’Occidente ha obliato l’essere, riducendolo a
semplice ente (Heidegger). Rendersi conto di ciò significa allora compiere uno sforzo di
progressiva “rammemorazione”, di interpretazione, non garantita da alcuna sicurezza,
che recuperi quegli spazi di verità in cui l’essere possa farsi incontro al nostro cercare.
L’importante per Heidegger è comprendere che, se cerchiamo l’essere, se l’intenzionalità della nostra coscienza si attiva, non ci illudiamo di conquistarlo: è l’essere che,
accadendo negli enti, ci si rivela nascondendosi. La condivisione, da parte di Montale,
di tali presupposti è in questo periodo straordinaria. Per lui, poetare è dar forma al nostro
cercare l’essere in un contatto autentico con l’altro, con la donna, cominciando dall’interrogazione della nostra esistenza, volgendo lo sguardo verso gli eventi, gli incontri, i
rapporti concreti.
Soprattutto è rammemorare, cogliere nelle “occasioni” del passato e del presente
quel valore, quel senso, quel “barlume” che non siamo stati capaci di afferrare, lasciandolo spesso cadere; è aprire la ragione ad un orizzonte inesauribile di senso. Certo,
abbiamo visto che negli Ossi il miracolo non si dà se non in negativo, non rompe la
“catena della necessità”. In Occasioni l’esperienza rimane destituita di valori, ma l’acquisizione, da parte di Montale, di una visione del mondo più vicina alla prospettiva
fenomenologico-ermeneutica (lungo l’asse Husserl-Heidegger-filosofie dell’esistenza)
che al pessimismo di Schopenhauer, consente una ricerca di verità e di significato, non
garantita, spesso fallimentare, talvolta di esito positivo, all’interno dell’esperienza storico-esistenziale nella sua concretezza e fragilità (ciò è visibile, ad esempio, nella lirica Il
Balcone).
Nel clima fiorentino degli anni Trenta-Quaranta del Novecento, le scelte di poetica
e di stile attuate da Montale sono caratterizzate da un classicismo “moderno”, simbolico-allegorico, ma assolutamente antiorfico ed antiermetico. Montale non rinuncia al
dato reale, concreto, al “cemento strutturale-razionale” (come egli ebbe a dire). La sua
è una scelta, in contrasto con la generale tendenza dell’ambiente fiorentino che egli definisce “poesia pura”.
L’“oggetto”, nella sua lirica, conformemente alla poetica che egli condivide con
Eliot, conserva spessore fenomenico, spazio-temporale, occultando i dati di riferimento
di base, ma assumendo in sé l’intenzionalità investigante e la tonalità emotiva del soggetto. Certo la poesia di Montale è spesso “oscura”, come quella effettivamente ermetica (da
ciò peraltro la lirica montaliana di Occasioni è stata assunta come modello), ma ciò
dipende dal fatto che l’abbattimento della “barriera” fra interiorità ed esteriorità sfocia in
una concentrazione stilistica e tematica che accresce il livello di ambiguità semantica: il
lettore è costretto quindi ad armarsi di puntiglio ermeneutico per tentare di risalire alle
motivazioni dell’autore, di cogliere le stratificazioni profonde dell’oggetto poetico.
Il fatto è che Montale, pur in un contesto di deprivazione esistenziale e di crisi delle
certezze, si mantiene fedele non solo ad un ideale di razionalità problematica e al tempo
stessa aperta all’imprevedibile, ma anche ad un modello di individualismo umanisticoliberale che lo accompagnerà sempre, connotando in questi anni, del resto, la sua scelta
sicuramente antifascista.
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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In termini filosofici ciò comporta la presenza di una soggettività interrogante,
talvolta dubbiosa e insicura ma nel complesso ancorata ad una identità personale
precisa pur all’interno di una ineludibile crisi della razionalità classica e delle sue
categorie portanti.
Nelle Occasioni il viaggio nell’esistenza si svolge attraverso la comunicazione con
un tu femminile non più generico: si tratta di donne, alcune volte scomparse, travolte
dalla ineluttabilità del destino o dal tempo, dalla violenza del male e della storia, contro
cui hanno pure opposto una fragile resistenza, affidandosi all’attesa di un evento salvifico, ad improbabili speranze, ad un amuleto che portano con sé. Sono spesso donne
ebree, mitteleuropee (Gerti, Liuba, Dora Markus, protagoniste di liriche intensissime),
figure della ricerca, dell’esodo, della sparizione nel nulla.
Il ricordo blocca, emergendo dal flusso del tempo e divenendo poesia, la temporalità dell’esistere, la consunzione operata dall’oblio (ma, ad esempio, in La casa dei
doganieri, il contatto memoriale col personaggio femminile non si verifica). Si tratta di
momenti privilegiati che esibiscono un valore dell’esistenza che riscatta l’empiria, il
dato di fatto. È nell’istantaneità che per il singolo ha luogo l’“epifania” del senso, si
avvertono le “intermittenze del cuore”. “Barlumi” di vera vita illuminano l’opacità priva
di senso dell’empiria esistenziale come “segni di un’altra orbita”.
Clizia, soprattutto, è il personaggio protagonista di tali irruzioni del miracolo che si
alternano ai momenti di assenza e di separazione dolorosa in cui il senso della vita viene
meno (la partenza effettiva dall’Italia della studiosa ebrea americana di origine austriaca Irma Brandeis, chiamata Clizia in La bufera e altro, avvenne nel 1938 a causa delle
leggi raziali allora promulgate).
Le rivisitazioni memoriali di Clizia si trasformano talora, nelle liriche di Occasioni
e di La bufera e altro, in veri e propri “miracoli”, in apparizioni numinose e angeliche
da un “oltrecielo”, che confortano la solitudine e l’angoscia del poeta, separandolo dagli
altri, “ombre” che non sono in grado di condividere gli alti valori umani e spirituali che
il “visiting angel” e il poeta stesso incarnano in un mondo ormai “abbandonato dagli
dei” (secondo l’immagine di Hölderlin, da Montale sicuramente studiato e meditato, e
oggetto di analisi da parte di Heidegger).
Anzi il personaggio di Clizia, soprattutto negli ultimi componimenti di Occasioni
(Elegia di Pico Farnese, Palio, Nuove stanze, Notizie dall’Amiata) assume una esemplarità etica ed universalistica che ha nel poeta l’interlocutore privilegiato e nel disvalore del mondo la controparte negativa. Il soggetto, nella sua ricerca di una rivelazione
dell’essere fra gli enti del mondo, scruta attorno a sé il reale nella speranza di imbattersi in segni che evochino un ricordo o una presenza.
La realtà, gli oggetti che lo circondano non abbandonano il piano della concretezza
e appaiono collegati l’uno all’altro da un flusso incessante di richiami reciproci, basati
su relazioni prevalentemente metonimiche; agisce in tal senso non solo il modello simbolistico delle “corrispondenze” ma anche quello fenomenologico-ermeneutico della
correlazione intenzionale fra coscienza e oggetti: le cose, in quanto “cose stesse”
(Husserl), liberate dalla visione “ovvia” o strumentale e scientistica (Husserl e
Heidegger) cui normalmente soggiacciono, sono situate all’interno di un orizzonte dina-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
mico, di uno “sfondo”, a seconda di come si relazionano tra di loro e con la coscienza
che in varie modalità le intenziona o se ne prende cura. I testi di Occasioni (soprattutto
le liriche già menzionate dell’ultima sezione) e di La bufera e altro sono costruiti sulla
base di tale procedimento che richiama, fra l’altro, spesso, quello dello stream joyciano
o delle fulminanti correlazioni eliotiane.
Fra le ultime Occasioni e La bufera e altro, assistiamo ad una sorta di dilatazione
dello spazio poetico-figurativo: si amplia l’area della realtà ambientale ed esperienziale
coinvolta, dello “sfondo” (esterno-interno, orizzontale-verticale, passato-presente); al
tempo stesso il tu salvifico assume sempre più valenze universalistiche e metafisiche:
Clizia, già diventata visiting angel (come dice Montale), ad esempio nel Mottetto Ti
libero la fronte dai ghiaccioli (dalle Occasioni), intermediario fra cielo e terra, fra
mondo del significato ed insensata realtà storico personale (siamo alla fine degli anni
Trenta e all’inizio della Seconda Guerra Mondiale) compie in alcuni momenti una ben
rilevabile metamorfosi da oggetto di rammemorazione a effettiva presenza metafisica o
numinosa intervenuta a proiettare sul reale concreto la propria energia positiva irradiante verità e senso: allora in alcuni componimenti (Stanze, Il ritorno), la sua apparizione
illumina e parzialmente riscatta il “male” che continua inesorabilmente a stringere il
mondo nella sua morsa; nelle altre (già menzionate) la raccolta di Le occasioni “si chiude nel nome di Clizia ormai in via di angelicazione, “messaggera accigliata” del vero
Amore che libera dall’errore (la primitiva religiosità delle “donne-barbute” e degli
“uomini-capri”), sfingea e sacrale figura (in Nuove stanze) che conosce la “tregenda”
imminente (la guerra, figurata nel gioco degli scacchi) e salvifica Protettrice dagli
“occhi d’acciaio”, a cui l’io si affida con totale dedizione” ( Marchese).
Clizia insomma conosce e orienta, ormai novella Beatrice, il destino dell’umanità,
almeno nella speranza del poeta.
In La bufera e altro, lo spettro del reale si allarga fino a comprendere l’immane catastrofe bellica ormai in atto, cioè il “male di vivere” fattosi storico. Parallelamente si
manifesta sempre più nettamente in Montale l’esigenza di istanze metafisiche ed etiche
dotate di stabilità e positività che assicurino la conciliazione di reale ed ideale, di assoluto e relativo, di essenza ed esistenza, attraverso il prevalere nella storia, per tutti, dei
valori umanistico cristiani.
Dante, quindi, offre a Montale non più solo un modello retorico-stilistico, ma l’archetipo religioso caduta-redenzione-salvezza. Il nazi-fascismo e la guerra-bufera,
responsabili sul piano biografico della separazione fra Montale e Irma-Clizia, da un lato
rendono ancora più drammatica la vicenda esistenziale dei rapporti tra l’io e la donna,
tra l’io e il suo mondo di affetti anche familiari; dall’altro, in alcuni componimenti,
mediano la trasformazione di Clizia in figura cristica (“Cristofora”, portatrice di Cristo,
la definisce Montale).
Iride e La primavera hitleriana, soprattutto, presentano con chiarezza la curvatura
religiosa, assunta dal discorso montaliano in questa fase di La bufera e altro (siamo
negli anni 1940-47, ma l’opera abbraccia il periodo che giunge fino al 1954 e viene edita
nel 1956).
Non siamo in presenza della adesione ad una fede rilevata o ad una chiesa.
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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(Ammetterà più tardi Montale in una intervista a Ferdinando Camon: “Qualche fermento cristiano è senz’altro in me, ma non sono un cristiano praticante; io rispetto tutte
le Chiese come istituzioni”).
Montale, nella lirica Iride (così ora vi è chiamata Clizia), di fronte a Iride-Cristofora
dichiara di sentirsi “povero Nestoriano smarrito”: allude cioè alla sua affinità con i seguaci dell’antica eresia cristiana di Nestorio (V sec.) che distingueva nettamente in Gesù
Cristo due nature e due persone, quella umana e quella divina.
Il “nestorianesimo” di Montale coincide in ultima analisi con una religiosità aconfessionale che da un lato tende a ipotizzare un calarsi del divino nell’umano (“fuggo
l’iddio che non s’incarna” dice il poeta in Gli orecchini), del valore nella storia; dall’altro però a salvaguardare razionalisticamente la autonomia reciproca dell’uno e dell’altro termine e in ultima analisi le ragioni dell’individualismo liberale.
Comunque se in Iride il poeta afferma che l’operare divino deve essere continuato
trasformandosi in quello della donna, è in La primavera hitleriana che si giunge a invocare una fusione mistica fra Clizia, ormai paradisiaca Beatrice, e l’Altro, “per tutti”, per
la salvezza del mondo e della civiltà e per l’inizio di una nuova fase sulle ceneri della
barbarie nazifascista.
Per Montale, però, già in La bufera e altro, la speranza viene meno in seguito alle
vicende personali e storiche di un dopoguerra che si rivela sempre più estraneo a un
modello etico-politico di ascendenza umanistico-liberale.
All’amore per Clizia, segue un amore di tipo diverso per altre donne (Volpe, ad
esempio; Mosca, già da molti anni sua compagna, poi sposata), un amore non più umanamente sublimato e non più religiosamente trasformato in charitas.
Il dopoguerra è foriero di delusioni, soprattutto a motivo delle opposte “chiese”
rossa e nera (democristiani e comunisti) che si contendono l’egemonia e il predominio
politico sulla base di ideologie illiberali contrapposte, ma in realtà molto vicine a giudizio del poeta.
La diffusione ormai capillare della società industriale avanzata e delle comunicazioni di massa minaccia anch’essa i valori umanistico-cristiani e liberali a cui Montale si è
mantenuto fedele.
L’ultima delle due Conclusioni provvisorie, Il sogno del prigioniero (1954, sempre
in La bufera e altro), presenta l’immagine di un universo concentrazionario che, da fatto
storico si trasforma in incubo atemporale (immagine di un totalitarismo disumano, aldilà
della concretezza dei riferimenti ai lager nazisti e ai gulag); “farcitori” e “farciti”, carnefici e vittime, vi si possono tranquillamente scambiare i ruoli: basta abiurare.
Solo il sogno, la poesia, rimangono come baluginante conforto, in una resistenza che
si aggrappa ad un’esile attesa.
Vista la vicinanza più volte dimostrata da Montale al mondo ebraico specie attraverso le sue figure femminili, rimane ancora da studiare, secondo me, il suo rapporto con
personalità come Primo Levi e Hannah Arendt. Ormai nel mondo è tornato il “tempo
della povertà” (Hölderlin), i dati di fatto continuano a prospettarsi privi di senso.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
L’ultimo Montale fra Postmoderno, Nichilismo e Misticismo
Malgrado siano stati messi in rilievo anche gli indubbi elementi di continuità fra l’opera montaliana da Satura (1971) in poi e la fase precedente, non c’è dubbio che l’ultimo Montale dia l’impressione di un radicale ribaltamento di prospettive e di scelte.
Anche sul piano filosofico è facile riscontrare l’intreccio fra elementi di continuità
e di novità.
Mi limiterò, pertanto, data la vastità della produzione in versi ed in prosa, a porre in
rilievo alcuni dei temi più rilevanti. In tanti il poeta rimane fedele alla prospettiva di
un’arte che “nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione”. Inoltre, il
poeta continua, come in epoca fascista a mostrarsi critico nei confronti della società di
massa.
Le immagini della “palta”, dell’“escremento”, dei “formiconi”, sono disseminate in
tutta la produzione poetica di questa fase insieme al giudizio di massificazione, di anonimato, di mancanza di spirito critico, emesso relativamente a individui che “chiedono
di vivere la propria vita sul piano che ad essi è possibile: quello delle emozioni e delle
sensazioni” (così si esprime nell’articolo Nel nostro tempo).
La critica della società di massa si attualizza tenendo conto delle mutate condizioni
della società industriale avanzate e della diffusione dei mass-media. Il poeta del resto
riconosce come propri di tale società, alcuni aspetti positivi che effettivamente non rendono auspicabile un ritorno al passato sul piano del diritto, del costume, della libertà
individuale; ammette, malgrado la propria estraneità etica e intellettuale, che neppure lui
sfugge al “male di massa” (la solitudine, il disinganno scettico, ecc.).
Ma l’elemento di novità del suo discorso consiste nel rifiuto di quella scelta filosofica (attuata negli anni Trenta-Quaranta e alla base , secondo me, della poesia delle
Occasioni e di La bufera e altro), consistente nell’abbattimento della “barriera fra interno ed esterno” della cui rilevanza filosofica si è discusso nel precedente capitolo.
Montale esprime la sua palinodia filosofica in questi termini: “Conosco la recente
filosofia a questo che può sembrare un residuo del vecchio dualismo, un relitto dell’antica rissa tra l’anima e il corpo. (….) Essa non ammette che si parli di un interno e di un
esterno: l’uomo nasce fuso in una pasta unica, indivisibile. E non si può parlare dell’individuo astraendo dalle condizioni che lo rendono possibile. Non l’individuo, dunque,
ma questo individuo, in questo luogo, in questa situazione.
Non dobbiamo credere altro, ogni altra domanda non ha senso filosofico. E sia pure:
ma come potrà questo singolo, questo individuo emergente dal nulla sulla cresta di un
veloce presente che lo scaglia verso un ignoto futuro, come potrà questo singolo riconoscere gli altri singoli, corrispondere con essi e garantirsi della loro autenticità?”
(Variazioni IX, in Auto da fè).
Del dualismo si è già detto; la “pasta unica ed indivisibile” di cui scrive Montale sarà
altrove definita “Trippa di Husserl”; l’accento posto sul concetto di “situazione” rientra
nell’ambito dell’esistenzialismo degli anni Quaranta-Cinquanta, soprattutto sartiano.
Le conseguenze negative di tale visione del mondo poste in rilievo da Montale sono
di ordine etico-intersoggettivo e sono individuate nel venir meno delle categorie di sta-
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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bilità e presenza ascritte all’essere dalla metafisica classica e invece ricusate, ad esempio, da Heidegger in Essere e tempo, dove invece è affermata, appunto, la connessione
privilegiata dell’essere con la temporalità.
Il fatto è che Montale, pur rilevando sul piano dei comportamenti e dei valori individuali e collettivi gli effetti negativi della “recente filosofia”, esclude però ogni possibilità di sostituire a tale filosofia e a tali comportamenti una diversa visione del mondo.
Per certi aspetti si ripresenta il pessimismo di Schopenhauer, privo però di correttivi e aggiornato alla situazione attuale con esiti che si chiariranno fra poco. Nel mondo
attuale “il disinteresse per la mancanza di senso” e l’“ossimoro permanente” azzerano
le antitesi, le contrapposizioni valoriali in un clima di perenne “alluvione” in cui insieme ai “mobili” vengono sommersi la cultura, la tradizione, il passato, il presente.
Non c’è più posto ormai per il progresso: tutto è posto sullo stesso piano.
Rimangono “sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli” senza però che sia possibile
distinguere il dentro e il fuori (ci risiamo!). Sul piano stilistico-tematico, anche l’autocitazione continua e straniata, ironica, pone il passato al livello del presente. Montale è
qui partecipe del Postmoderno.
Da un punto di vista filosofico appare plausibile, del resto, la tesi, enunciata dal
Marchese, del coesistere nella poesia compresa fra Satura e Altri versi, di due estremi
tipici del pensiero contemporaneo (posti ben in rilievo in sede filosofica dal Volpi): il
nichilismo e, insieme, aspetti paradossalmente mistico-teologici. “La radicalizzazione
del domandare filosofico, - afferma Volpi - che tutto investe e tutto consuma, produce,
da un lato un’accelerazione della dissoluzione, un potenziamento del nichilismo, dall’altro, nel compiersi di tale dissoluzione, il pensiero si apre all’aspettativa del totalmente
altro, a ciò che sta radicalmente al di là di quanto è stato dissolto.
La decostruzione dei concetti e dei teoremi della filosofia tradizionale ha come
risultato l’apertura alla problematica del sacro e del divino: Il domandare che Heidegger
considera ‘la pietà del pensare’ implica la messa in questione e al tempo stesso la ricerca, la dissoluzione e l’attesa: conduce a quel Nulla che è la purificazione estrema della
finitudine, la quale vuole spogliarsi di tutto per accedere al divino, porta a quel punto
estremo, che Meister Eckhart chiamava con parole quasi blasfeme il punto ‘dove l’angelo, la mosca e l’anima sono la stessa cosa’. E’ un domandare che rade al suolo la metafisica per preparare l’avvento del nuovo inizio”.
La convivenza tra nichilismo e problematica religiosa caratterizza pertanto la poesia montaliana da Satura in poi. Per quanto riguarda il primo aspetto, è innegabile che
spesso la ripresa del problematicismo esistenziale schopenhaueriano, tipico di Ossi di
seppia, (ben visibile, ad esempio, nella lirica L’alluvione ha sommerso il pack dei mobi li, e in molte altre liriche) la polemica, talora insistente e inacidita nei confronti dei vari
aspetti della vita e dei modi di pensare individuali e collettivi, sfociano in prese di posizione apertamente nichilistiche.
Il mondo appare così sempre più tetro e soffocante; è scomparsa ogni prospettiva di
luce, di intervento salvifico. Il male che vi regna si presenta come sempre più irredimibile; il comico, lo escatologico, l’ironia, occultano l’angoscia, finendo spesso col ridurre ad un arido nulla tutte le misure del vivere e del pensare.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Il determinismo cosmico e causalistico del mondo come ‘rappresentazione’ e il fatalismo, insito in una ‘volontà’ di vivere che tutto dissipa, hanno assunto la dimensione
fantascientifica del Calcolatore: unico ‘miracolo’ è dato dall’incagliarsi di qualche leva
e dalla conseguente cessazione della vita nella stessa macchina universale (Senza mia
colpa in Quaderno di quattro anni).
Ma da questo contesto emerge un rovello metafisico-religioso, talvolta travestito da
chiacchiera, talvolta espresso in forme paradossali o provocatorie: travestimento e scelte espressive, che hanno indotto studiosi come Fortini a parlare di “empietà pseudosacrale e pseudoreligiosa”, di rivestimento di un’ideologia reazionaria.
A dire il vero, Montale non è esente da atteggiamenti che giustifichino tali rilievi;
ma la frequenza e l’autenticità del suo interrogare emergono da molti componimenti di
questa fase.
Egli, nell’affrontare il tema ontologico e teologico dell’essenza di Dio e del rapporto Dio-mondo, assume quella insanabile contraddittorietà ed incoerenza rilevate nella
società e negli odierni comportamenti umani qualificati come “ossimoro permanente”
(ad esempio nella lirica Lettera a Malvolio), trasferendo siffatto ossimoro in un modo di
dire Dio, attraverso i contrari (la mistica coincidentia oppositorum), come abisso non
logicamente definibile.
Dio coincide così con l’indicibile Nulla che non è il niente ma l’ineffabile Altro (v.
in Satura: L’Altro; Realismo non magico; Non mi stanco di dire al mio allenatore; Il
mio ottimismo). Scrive il poeta: “Il nulla e il tutto\ sono due veli dell’Impronunciabile”
(Il tuffatore in Diario del ’71).
Alla base di tale visione dell’Altro si possono rinvenire tracce non effimere provenienti dalla Bibbia, dalla teologia apofatica, dalla mistica di Meister Eckhart, dal concetto di demitizzazione del teologo Bultmann, dalla filosofia dell’esistenza di Jaspers.
Ma Montale mostra anche rapporti con la gnosi: la figura malvagia del Demiurgo
divino compare in Altri versi, insieme ad altri spunti gnostici già da prima presenti (fra
le svariate liriche, v. L’oboe in Altri versi; Il principe della festa in Diario del ’72;
l’Iddio taurino compare però in Ballata scritta in una clinica in La bufera e altro). In
ideale riferimento a Leopardi (come in altre liriche), Montale fa entrare in gioco, ma in
modo diverso rispetto al recanatese, lo gnosticismo manicheo con l’eterno duello fra
Arimane e Ahura Mazda (v. Se il male naturaliter in Diario del ’71; Appunti e Chi è in
ascolto in Quaderno di quattro anni).
La varietà delle posizioni assunte, comunque, in sede ontologico-religiosa, da
Montale, attesta, all’interno della sua visione della crisi della civiltà occidentale e della
poesia, il persistere in lui di tensioni tra scepsi e ricerca, dissoluzione e attesa, che lo
pongono all’altezza del nostro tempo, come lucida e dolorosa coscienza delle sue inadempienze e delle sue richieste di valore e di senso.
Quaderno n. 2, Montale e le filosofie coeve, di Antonino Agosta
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Nota bibliografica
La presente bibliografia si limita a volumi in gran parte recenti che mi sono stati indispensabili per la conoscenza e l’interpretazione di Montale e delle filosofie coeve. Nelle bibliografie
contenute in tali volumi si trovano tutte le altre indicazioni necessarie.
Per Montale
M. MARTELLI, Il rovescio della poesia – Interpretazioni montaliane, Longanesi, Milano, 1977
Presenta interpretazioni testuali molto acute, ma anche in alcuni casi stranamente unilaterali. Si tratta di uno
dei pochi studi su Montale basati su strumenti interpretativi filosofici oltre che stilistico – retorici.
R. MONTANO, Comprendere Montale, G.B. Vico, Napoli, 1978
Critico e studioso non molto conosciuto, emarginato a motivo delle sue posizioni originarie ma polemiche, in
questo scritto sull’opera complessiva di Montale, analizza anche, antologicamente, molti testi, con acutezza di
rilievi, anche se non sempre condivisibili. Imprescindibile comunque è la sua analisi della posizione di
Montale nei confronti del neoidealismo crociano.
M. MARTELLI, Eugenio Montale – Introduzione e guida, Le Monnier, Firenze, 1982
Testo agile, chiaro, utile, talvolta illuminante, anche grazie al ricorso a paralleli con le tendenze filosofiche
coeve, ma l’interpretazione di Occasioni è a volte fuorviante.
P. DYERVAL ANGELINI, Eusebio o i paradossi del poeta – lettera aperta a Eugenio Montale – Traduzione dell’autore con testo francese a fronte, Riscontri – XIV, 2-4-, Sabatia Ed., Avellino, 1992
È un testo del 1991 caratterizzato da complice affettuosità e intelligenza critica, scritto dal traduttore francese, per Gallimard, dell’opera montaliana, amico del poeta. Testimonianza di notevole interesse.
G. SCARPATI, Invito alla lettura di Montale, Mursia, Milano, 1999
Interpretazione acuta, attenta ad individuare e ad approfondire l’analisi di tematiche esistenziali e spirituali,
proponendo nuove prospettive interpretative.
R. LUPERINI, Storia di Montale, Laterza, Roma-Bari, 2001
Studio indispensabile, ma importanti aspetti spirituali e di religiosità risultano spesso sottovalutati o taciuti.
G. MAZZONI, Forma e solitudine – Un’idea della poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2002
G. SIMONETTI, Dopo Montale, Fazzi Ed., Lucca, 2002
Si tratta di due testi di studiosi di ascendenza luperiniana, utilissimi per capire le strutture retorico-stilistiche
e semantiche dell’opera montaliana, e il loro accoglimento nella poesia italiana successiva. Chiarificatrice in
Mazzoni la delucidazione delle caratteristiche del classicismo moderno montaliano ed europeo.
A. MARCHESE, Montale – La ricerca dell’Altro, Messaggero, Padova, 2000
Pubblicato poco dopo la morte dello studioso, è il testo che mi è stato più utile per la ricchezza di suggerimenti e indicazioni dal punto di vista filosofico, e che ha meglio chiarito aspetti importanti anche della particolare religiosità montaliana.
Per le filosofie coeve
SINI-MOCCHI, Leggere i filosofi 3B, Principato, Milano, 2003
Presenta trattazioni dense ed estese dei grandi filosofi del Novecento. Sini è uno specialista, fra l’altro, del
pragmatismo, di Wittgenstein, del filone fenomenologico- esistenziale. Il testo, malgrado la destinazione editoriale liceale, richiede una lettura concentrata e lenta, non assillata da scadenze impellenti.
BONTEMPELLI-BENTIVOGLIO, Il senso dell’essere nelle culture occidentale (vol.III), Trevisini, Milano, 1992
Gli autori, che con Preve sono fautori di un’originale revisione dall’interno del marxismo, attraverso una rilettura di Hegel, presentano filosofi e correnti con un linguaggio chiaro e rigoroso, in una prospettiva spesso polemica con diffusi indirizzi attuali di pensiero (con Vattimo e Galimberti, tra gli altri, per intenderci).
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
BONTEMPELLI-PREVE, Nichilismo Verità Storia, C.R.T., Pistoia, 1997
Il Volume presenta con chiarezza le prospettive storico-teoriche che sono alla base del testo precedente.
R. BODEI, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 1997
Articolata per quadri teorico-problematici, l’opera presenta spaccati novecenteschi in stile talvolta narrativo,
secondo prospettive interessanti, capaci di agganciare il presente.
V. MATHIEU, Temi e problemi della filosofia contemporanea, Armando, Roma, 1990
Nato da una serie di conversazioni radiofoniche, il volumetto offre presentazioni agili e chiare di movimenti
e tendenze della filosofia contemporanea.
BONANATE E VALSANIA (a cura di), Le ragioni dei filosofi – Una storia del pensiero, Carocci Ed., Roma, 2003
Si tratta dell’ultima complessiva storia del pensiero in un unico volume pubblicata con larga destinazione.
Attraverso una selezione di autori, in una sintesi precisa, ma chiara ed essenziale, il libro individua l’idea di
filosofia che è alla base degli autori e delle tendenze succedutisi dalle origini ad oggi.
F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali, Cortina, Milano, 1997
Presentazione rigorosa della filosofia attuale, scritta da una specialista di filosofia analitica.
B. FORTE, In ascolto dell’Altro, Morcelliana, Brescia, 1995.
B. FORTE, Trinità per atei, Cortina, Milano, 1996
Forte è teologo cattolico di solida impostazione teoretica, che, in prospettiva heideggeriana, si pone in dialogo con le grandi tendenze del pensiero novecentesco, in linguaggio fluido e accattivante.
F. VOLPI, Il Nichilismo, Laterza, Roma-Bari, 1996
Introduzione molto efficace, limpida, a figure, temi e tendenze salienti del nichilismo.
L. BAGNETTO, Etica della comunicazione, Paravia, Torino, 1999
Introduzione efficace all’ermeneutica filosofica con antologia di brani preceduti da succose introduzioni.
C. ZALTIERI, Il secolo della conoscenza, Guerini Studio, Milano, 2001
Presentazione diacronica utilissima delle seguenti “5 parole-chiave della filosofia del Novecento”: Metafisica,
Linguaggio, Verità, Soggetto, Metodo.
G. VATTIMO, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari, 1981
Analisi approfondita di tutta l’opera di Heidegger condotta con grande chiarezza.
H. ARENDT, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaka Book, Milano, 2002
Preceduto da una utile introduzione di Sante Maletta, questo breve scritto è incentrato sul rapporto tra pensiero ed essere e su un’analisi acuta del razionalismo della modernità e dei suoi esiti. Si tratta di un’opera poco
conosciuta della grande pensatrice.
R. CRISTIN, Invito al pensiero di Husserl, Mursia, Milano, 2002
Esame approfondito dell’opera complessa di un grande del Novecento.
G. GALLI (a cura di), Introduzione alla psicologia fenomenologico-ermeneutica, Morlacchi Ed., Perugina, 2003
Presentazione in forma di efficace sintesi didattica della fenomenologia e dell’ermeneutica come tendenze
della psicologia contemporanea. Vi viene affrontato anche, da più punti di vista, il tema del linguaggio.
SENSI E STELLI (a cura di), Lo spazio della filosofia – Riflessioni e proposte didattiche, IRRSAE UMBRIA, Perugia, 2002
Il volume raccoglie contributi che sintetizzano i risultati di un lavoro triennale sull’insegnamento della filosofia, al quale ho partecipato lavorando sui rapporti tra filosofia e letteratura. La collaborazione con i colleghi
Stelli, Sensi, Gagliardi, Mamone Capria, Genzolini ed altri, è stata per me molto proficua. I contributi di Stelli,
Sensi, Gagliardi, compresi nel volume, sono attinenti alla tematica da me affrontata: devo loro molto.
Il moralismo di Moravia da
Gli Indifferenti a L’Attenzione
di Stefania Biscontini
Quaderno n. 2, Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’Attenzione di Stefania Biscontini
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Potrebbe sembrare strano o almeno improprio parlare di moralismo (si badi bene
non “moralità” e “morale”) a proposito dell’opera di Moravia, autore conosciuto generalmente dal pubblico per la vena erotica, più o meno accentuata e a volte sconfinante
addirittura nella pornografia, piuttosto che per gli alti valori spirituali veicolati dalla sua
narrativa. Questo erotismo, d’altro canto, come tutte le cose “proibite” che non si dicono, ma si fanno e in questo caso si leggono, ha guadagnato a questo scrittore un consenso da parte dei lettori, vastissimo e duraturo, che spiega la fortuna editoriale che ha sollecitato il Moravia a scrivere, per tutta la vita, una enorme quantità di opere, spesso,
soprattutto nell’ultima parte della sua vita, di veramente scarso valore letterario e abbastanza ripetitive nei temi trattati e nei modi narrativi. Il rovescio della medaglia, cioè lo
scotto che Moravia ha dovuto pagare per questa scelta poetica, è stato l’ostracismo che
hanno subìto le sue opere dai programmi scolastici (a parte qualche stralcio tratto da Gli
indifferenti e qualche racconto abbastanza anodino, presenti a volte nelle antologie) che
è stato giustificato, da un lato, appunto dal contenuto delle storie trattate e dalle modalità della narrazione, dall’altro dall’innegabile trascuratezza estetica della sua prosa,
sicuramente non raccomandabile come modello linguistico. Nelle sue opere infatti non
è difficile imbattersi in locuzioni sbagliate, in tempi e modi verbali usati male (soprattutto il congiuntivo), in grossi svarioni sintattici, ma, a dire il vero, a proposito dell’aspetto stilistico, il Moravia ha dimostrato, per lo più, una certa indifferenza, nonostante
sia stato ben consapevole delle proprie difficoltà linguistiche. Eliminata l’eccessiva
preoccupazione per la forma, riteneva infatti che il romanzo non potesse essere basato
sulle pure scritture, ma sulle strutture: personaggi e situazioni. Dice a questo proposito
il Cimmino: “Narratore d’istinto, Moravia non si pone un problema linguistico… ed i
fattori stilistici saranno sempre un fatto secondario per l’arte di Moravia. Quando pure
se lo porrà, ricercando un suo modello in Manzoni, non esiterà comunque a metterlo da
parte, concentrandosi sui contenuti.
A lui importava di più criticare liberamente certi fatti ed esporre certe idee, realizzare cioè quella visione del mondo che era alla base della sua personalità e dei suoi più
immediati interessi”. Altri critici sono stati molto meno indulgenti al riguardo; ad esempio, dovendo giudicare l’aspetto stilistico della produzione moraviana, il De Robertis ha
avuto non poche perplessità e, al proposito, si è espresso in termini di “arte scarsa”, di
“barlumi d’arte”, “di incapacità di creare i bei rapporti della narrativa”. Anche Salvatore
Battaglia, che ha scritto alcune pagine essenziali per la comprensione dell’opera moraviana, afferma: “Moravia ha saggiato il surrealismo, il picarismo populista, l’esistenzialismo, senza che le sue doti di scrittore abbiano fatto progressi significativi”.
Non molto diversamente è avvenuto, in parte, per quanto riguarda la poetica stessa
del Moravia che, se da un lato è stata generalmente apprezzata dai critici, non credo sia
stata compresa totalmente o, almeno, in modo del tutto corretto. C’è stato anche chi, fermandosi alla superficie dei fatti narrati, ha dato un giudizio di merito alquanto negativo.
Ad esempio, uno dei critici più severi della opera di Moravia è stato Francesco
Flora, che l’ha sottoposta ad un’analisi contenutistica inficiata da un atteggiamento censorio a volte insopportabile, che scambia la narrativa moraviana per un manifesto eversore ed invoca anatemi verso il corruttore. Invece, la maggior parte dei critici che di
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Moravia si sono occupati, non hanno potuto non rilevare, nella sua produzione, la presenza costante di un elemento, il moralismo, appunto, come fattore quasi connaturato
alla sua arte e alla sua visione del mondo. Ad esempio, il Pancrazi, in un testo intitolato
significativamente “Alberto Moravia è un moralista?” in Scrittori d’oggi, serie 4°,
Laterza, Bari, 1947, ha poggiato a lungo l’accento sulla moralità e sul moralismo del
Moravia Geno Pampaloni riconosce fra gli elementi fondamentali nell’opera dello scrittore un moralismo “severo e potente, per cui egli vede la realtà umana come gioco aspro
di passioni, istinti, egoismi, gelosie, inganni”, con un vago riferimento al Dostoewskij.
Rimane da chiarire però secondo quali elementi vada definito questo suo
moralismo cui molti critici si ri feriscono. Per fa re questo, è necessario ri p e rcorre re brevemente le tappe della produzione di Moravia, a partire dalla sua fortunata opera prima, cioè Gli Indifferenti, fino a L’ A t t e n z i o n e, ultimo dei romanzi maggiori che presenti in modo signifi c ativo questo aspetto. La vocazione innata del
Moravia per l’indagine sociale e per il conseguente moralismo, ai critici è ap p a rsa già evidente proprio a partire dal suo primo romanzo, allorché venne salutato
dalla critica letteraria come un’opera di rottura, una decisa e chiara accusa al
costume contempora n e o , che si imponeva per la sua originalità e per la ve e m e n z a
polemica sul panorama asfittico della narrat iva italiana dell’epoca.
Dice al proposito il già citato Cimmino: “La tendenza moralistica del Moravia fu
chiara fin dalla prima prova dello scrittore”. Gli fa eco Eugenio Ragni quando afferma
che “ne Gli Indifferenti Moravia delinea una profonda crisi della classe borghese, offrendo una diagnosi spietata, lucidissima della propria classe, assolutamente miracolosa in
un ragazzo del tutto digiuno di politica e per di più chiuso in un suo dramma personale, la malattia”. Leone De Castris, in Storia, morale e arte nella narrativa di Moravia
sostiene: “Gli Indifferenti esprimevano in modo implacabile l’atonia morale, la desolazione borghese, piena di grettezza, materialismo e impotenza”. In definitiva, fin dal suo
primo romanzo, e soprattutto in esso, Moravia è apparso come una sorta di fustigatore
dei costumi del proprio tempo ed, esaminando i libri più significativi della sua produzione, si vede che ognuno di essi ci si offre come interpretazione critica di una fase culturale della società contemporanea. Eppure, a dire del Moravia stesso, non era nella sua
volontà fare opera di moralista e addossa la responsabilità interpretativa in tal senso ai
critici che della sua arte si sono occupati. Scrisse infatti lo stesso Moravia: “Gli
Indifferenti nella mia intenzione non voleva essere che un romanzo; ma la critica e il
pubblico ci videro una violenta polemica sociale che c’era senza dubbio, ma che io non
avevo intenzione di metterci.”
In realtà c’è molto da dubitare sulla sincerità progra m m atica di queste affe rm azioni, poiché, ad una analisi dell’opera , ci si accorge come questo suo moralismo sia
stato voluto e sentito, soprattutto perchè il modo in cui Moravia guarda alla re a l t à
umana e part i c o l a rmente a certi suoi aspetti tra i più crudi e sensuali, fa pensare
invece ad un espediente da lui messo in atto per sollecitare il proprio ed altrui senso
c ritico. Inoltre la scelta di situazioni scabrose, osservate e narrate con atteggiamento di pru d e rie, non può non provo c a re reazioni morali di disappunto in chi legge, che
quindi viene spinto e coinvolto in una reprimenda di tali malcostumi. Alcuni critici
Quaderno n. 2, Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’Attenzione di Stefania Biscontini
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hanno notato questa dinamica e, ad esempio, in ri fe rimento ancora a Gli Indiffe re n t i,
il già citato De Robertis, parlando di “ va l o ri moralistici conseguiti quasi senza merito dello scri t t o re”, a ffe rm a : “ Il tema stesso port ava Moravia al gusto di quelle pitture, che ri s u l t avano ferocemente mora l i , e noi proviamo, sì, a legge re, un moto di
ri p u g n a n z a , che è dovuto soprattutto alla cosa in sé, proprio come tante volte ci
accade davanti alla realtà nuda e trista. Notevole è l’accanimento col quale sono
ri t ratti gli aspetti miserabili della vicenda; per il resto non si va oltre il ri fe rimento
sordo d’un caso ab e rrante”. I limiti di tale narrazione consisterebbero pro p rio in
questo: si trat t e rebb e, in defi n i t iva, di una banale storia di corn a , vissuta nell’angusto cerchio di soli cinque pers o n aggi che, proprio nella ri s t rettezza dei pro p ri ori zzonti umani , v ivono la vicenda in modo così claustrofobico da re n d e re i loro vizi
e s agerati ed abnormi, insomma, aberranti. Il rischio insito in tale procedimento è la
sfa s at u ra che si viene a creare fra la realtà di ri fe rimento e quella elaborata dallo
s c ri t t o re; questo è ben rappre s e n t ato negli ultimi romanzi di Moravia, in cui i pers onaggi perdono in autenticità per dive n t a re, sotto la lente deformante dello scrittore,
addirittura “mostruosi” e incapaci di simbolizzare la società, per la loro negat iva
eccezionalità, finendo per va n i ficare l’intento moralistico di part e n z a .
In questo romanzo compare per la prima volta nella poetica di Moravia il problema della mancanza dell’impulso morale alla base delle azioni dei personaggi, che non
credono in valori assoluti o in fini superiori; non è presente né il senso di Dio, del quale
essi non hanno idea, né quello della società, che è assolutamente estraneo al libro, dal
momento che i protagonisti non hanno cognizione di ciò che si svolge intorno a loro.
Tutti, infatti, agiscono egoisticamente per il loro particolare. Il fatto stesso che il
Moravia abbia scelto come titolo del romanzo Gli indifferenti, è sintomatico, perché sta
a denunciare un loro carattere tipico: essi sono indifferenti ai valori ideali, a verità che
trascendano gli individui ed i loro interessi personali per imporre diritti, doveri ed un
certo comportamento nella società. Per rendere concretamente l’aspetto di questa abiezione, Moravia ricorre ad un procedimento narrativo molto originale, perché fissa insistentemente il proprio occhio scrutatore sugli aspetti più laidi di persone e cose.
L’accanimento con il quale si compiace di rappresentare fatti, individui ed oggetti,
non può che renderli odiosi e, in tale condizione, è inevitabile che il giudizio morale faccia di essi facile preda.
Come ha efficacemente osservato Ines Scaramucci (in Letteratura italiana - I contemporanei - Marzorati): “… In Moravia risulta evidente, oltre la carenza del necessario distacco dalla materia trattata, il fatto che, paradossalmente quest’ultima prende
costantemente il sopravvento sull’artista e lo domina, lo asservisce e lo limita, lo strega,
si direbbe, con una fissità allucinata.” Da ciò deriva, come ha osservato il Falqui (in
Prosatori e narratori del Novecento italiano, Torino, 1950) “un moralismo impietosamente involontario, provocato dalla violenza stessa della materia, poi di più in più consapevole e compiaciuto” e, proseguendo il critico afferma: “Son cose che magari accadono più comunemente di quanto non si creda. Qui a renderle eccezionali, fin quasi alla
mostruosità, è l’analisi cui vengono sottoposte con un processo di rallentamento e
ingrandimento che necessariamente le deforma…”
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Vien fatto di pensare, a proposito del Moravia, all’attitudine di chi, pieno di pudore
e vergogna, si trovi a guardare una scena raccapricciante od oscena e finisca per non
vedere più altro e, di più, tra ripulsa e desiderio, non possa allontanare lo sguardo da tali
spettacoli. Non a caso, la tendenza voyeuristica di Moravia si è concretizzata addirittura in un libro, intitolato, significativamente L’uomo che guarda (1985), nel quale l’autore immagina proprio il protagonista del romanzo nell’atteggiamento di chi, falsamente
innocente, sia intento a spiare dal buco della serratura, la vita degli altri. Potrebbe trattarsi, alla luce di quanto abbiamo detto, di un sottile gioco di specchi fra l’autore ed il
suo personaggio, dal momento che Moravia tende, il più delle volte a non immedesimarsi direttamente negli uomini o nelle donne di cui racconta, ma ad osservarne le vicende
da una posizione esterna, o meglio, appartata. Qualche critico si è addirittura spinto ad
affermare che questo modo di vivere di riflesso, da parte di Moravia, gli sarebbe derivato dalle ben note vicissitudini personali legate alla sua malattia giovanile, che a lungo
gli avrebbe precluso una partecipazione piena e gioiosa alla vita di relazione.
Si tratta comunque di ipotesi che, fra l’altro, sminuiscono non poco l’abilità poetica
dello scrittore, rendendolo incapace dell’elaborazione di un modus narrandi frutto di una
cosciente elaborazione artistica. A dire il vero, Moravia, autore eversivo, scomodo, tanto
per citare il titolo di un libro a lui dedicato (Intervista con lo scrittore scomodo, a cura
di N. Ajello, Laterza, Bari, 1978), come si è già visto, ha dovuto assistere a non poche
semplificazioni arbitrarie operate a danno della propria letteratura. Lo stesso considerare la cruda maniera di rappresentare la vita sotto una luce deformante per ingenerare
facile moralismo, può sembrare, espresso in questi termini, un po’ beffardo e sicuramente riduttivo, come, di converso, il far apparire il suo moralismo solo una posa intellettualistica per far meglio risaltare la sconcezza delle situazioni narrate. In realtà, al di là dell’erotismo, che pure occupa un posto di tutto rilievo nella poetica di Moravia e ne è sicuramente un aspetto caratterizzante, gli orizzonti di interesse dell’autore sono di certo più
vasti e profondi. L’erotismo stesso, in questa prospettiva non si configura nemmeno
come fine narrativo, ma come mezzo del quale l’autore si serve per concretizzare gli
atteggiamenti morali dell’uomo.
Dalla lettura delle opere moraviane risulta evidente che lo scri t t o re non ha, in
ge n e ra l e, una concezione positiva dell’uomo, che è visto soprattutto nella sua mesch inità; la sfiducia negli esseri umani, uomini o donne che siano, fa sì che ve n gano rappresentati soprattutto nei momenti in cui l’egoismo, l’intere s s e, l’indiffe renza li re n dono sempre più soli. Appunto per cog l i e re questi aspetti deteri o ri , Moravia ri c o rre
p ro p rio all’accentua-zione di atmosfere e particolari scab ro s i , utilizzando termini piuttosto fo rt i , che ve n gono ri p roposti insistentemente, s o p rattutto per quanto ri g u a rda la
d e s c rizione di corpi femminili. Come dice il Cimmino: “In tutte le descrizioni dei nu d i
m o raviani c’è sempre qualcosa di mort i fi c a n t e, come un complesso puritano di colpa.
Anche quando non si tratta di descrive re donne, ma i pers o n aggi in ge n e ra l e, c’è
questa tendenza al ri d i c o l o , al turp e, al ve rgognoso. Con essa il Moravia vuole denu nc i a re un modo di pensare e di agi re umano: gli uomini non si amano, c’è solo un desid e rio sottile di farsi male, offe n d e rs i , fe ri rsi”. Ad esempio, nel racconto C o rt i giana
s t a n c a, del ’27, lo scri t t o re indugia sui pensieri del gi ovane amante che ha deciso di
Quaderno n. 2, Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’Attenzione di Stefania Biscontini
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abb a n d o n a re la donna, giunta un po’ oltre la piena maturità: “per stra d a , la sua fa n t asia si era accanita con una specie di rabbiosa volontà ad immagi n a re Maria Teresa
c a rica di autunni, dai seni pesanti, dal ventre grasso e tremolante sulle gi u n t u re allent ate dell’inguine, dai fi a n chi impastati e disfatti”.
Se l’autore intendeva destare nei lettori un senso di ripulsa di fronte a questa moderna commedia umana, ha raggiunto senz’altro il suo scopo. Ha scritto efficacemente in
tal senso Ines Scaramucci: “Al di là di questa sorda, pesante, argillosa materia di cui la
vicenda è impastata, non è dato cercare un senso diverso? Al di là del quadro certamente urtante di una realtà fenomenica che rasenta la pornografia, non si denuncia tutt’altra
realtà noumenica? La nausea, ha detto qualcuno. Una dolorosa nausea sartriana avanti
lettera, in una visione desolata e plumbea di un mondo crudelmente deformato e deformante, dove fermentano gli stessi motivi chiave del più tipico esistenzialismo letterario;
della solitudine, della impossibilità di dialogo tra creature atone e disperate… La nausea qui nasce dal tedio, dalla noia, dall’indifferenza di fronte a una repellente realtà che
sembra aver spento la stessa origine dei sentimenti autentici, che ha reso impossibile
ogni azione vitale”. Posto in questi termini, il moralismo di Moravia assume connotati
più profondi e sicuramente contenuti polemici di ben altro spessore che una semplice
fustigazione di costumi corrotti: è un vero atto d’accusa contro una società che sembra
ormai tarata da un’inerzia morale assoluta, che non riesce a scuotersi dal suo torpore. La
noia appare il frutto dell’alienazione dell’uomo del nostro tempo, incapace di poter stabilire alcuna comunicazione efficiente con tutto ciò che è fuori di lui, è la regione desertica dove non si può nemmeno più parlare di moralità o immoralità, ma esiste solo una
serie di gesti compiuti da automi.
Dice Eugenio Ragni al proposito: “Il tema centrale, in pratica esclusivo di tutti i libri
di Moravia è quello dell’irrimediabile distacco tra individuo e realtà e di una conseguente situazione di inerte abbandono al flusso quotidiano del vivere, “cosa” fra “cose”, che
determina il senso di inutilità, di incapacità di reagire pensando che ogni azione non porterà mai a un risultato di integrazione con la realtà. L’umanità è dunque un insieme di
individui che vegetano ognuno per proprio conto, in solitudine e angoscia personali.
L’atonia morale che raggela ogni velleità d’azione è appunto l’esistenziale “indifferenza” che Moravia articola via via in diverse accezioni analoghe: disubbidienza,
conformismo, automaticità, disprezzo, noia”. Non è un caso che i libri di Moravia abbiano proprio nei titoli un riferimento a questi elementi, tutte modalità poco lusinghiere del
modo di declinare la propria esistenza. Si capisce dunque che Moravia non punta il dito
contro i personaggi e le situazioni che racconta, quanto contro un sistema di vita diventato alienante e del quale gli elementi suddetti non sono altro che attori e parabole.
Questo aspetto lo si coglie molto bene osservando lo svolgersi della carriera narrativa di Moravia, allorché ci si accorge che l’abilità ed il gusto per il racconto si consumano sempre più e cedono il passo ad una caratterizzazione didascalica a volte eccessiva, che riduce i personaggi a maschere irreali e le storie a vicende forzatamente esemplari. A partire da un certo momento in poi, Moravia sembra ricorrere addirittura a dei
modelli prefabbricati per dimostrare l’esistenza di certi vizi e di certi difetti nella nostra
società. E’ l’approdo al romanzo-saggio, al quale Moravia ha sempre mostrato di ten-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
dere e i cui esempi più tipici ed estremi sono La noia (1960) e L’attenzione (1965). Egli
non è stato certamente pensatore o critico sistematico, ma non ha mai perso di vista l’idea che nella disarmonia e nella confusione che caratterizzano la società contemporanea, si è perso il concetto che l’uomo debba essere il fine per il quale è organizzata e
strutturata la società stessa, e l’alienazione degli individui che egli vede intorno a sé
riguarda proprio la crisi del rapporto fra l’uomo e la realtà. La società moderna, con i
suoi vizi, gli appare costruita su misura per gli esercizi di un moralismo che vuol far la
voce grossa e troppo forte, d’altro canto, è in lui l’imperativo morale di mostrare nudamente i vizi e le miserie dell’esistenza contemporanea. Egli stesso, in un suo articolo
intitolato Mancanza di maestri, esprimeva questa esigenza di denuncia: “Ora mi sembra
che per la maggior parte degli scrittori italiani uscire dai limiti della poesia, intervenire
nel costume, dedurre dall’arte la moralità, sia estremamente difficile. In pratica non si
vuole dire nulla…” Moravia, invece, deve aver sentito prepotente in sé, la vocazione
innata ad una funzione sociale dello scrittore ed ha finito, in nome di questa, per sacrificare spesso ad essa la vivacità creativa ed espressiva.
Non sempre, infatti, e soprattutto nella sua ultima produzione, egli è riuscito a fondere efficacemente in unità il fine moralistico e la visione letteraria, ad equilibrare l’interesse morale ed il gusto gnomico con le esigenze della narrazione; tutto preso dal fine
moralistico, dall’esigenza di mostrare una tesi, l’autore ad esempio, si è trovato spesso
a realizzare una coerenza assoluta, ma forzata, fra i personaggi, i sentimenti e l’ambiente in cui vivono. Non è infrequente trovare espressa questa volontà di Moravia di accordare artificiosamente l’ambiente ai significati della narrazione, si veda ad esempio una
descrizione paesaggistica ne Gli Indifferenti: “Quando furono sulla soglia del portone
si accorsero che pioveva dirottamente; senza violenza, ma con una sciatta abbondanza
come da un catino sfondato, un gran fruscio torrenziale empiva l’oscurità; un livido velo
d’acqua ribolliva sul lastrico della strada, grondaie, stillicidii, rigagnoli, la grossa pioggia vecchia di due settimane di tempo sfogava da ogni parte il suo fiotto impuro fermentato a lungo nei fianchi delle nubi…..”
In altri casi, l’ardore polemico si è risolto in una ripetitività di situazioni che ha
impoverito la vivacità immaginativa, riproponendo, spesso stancamente e con poche
varianti narrative gli stessi argomenti: ambizioni fallite (e l’ambizione è considerata e
giudicata da Moravia con serietà non equivocabile, come uno degli aspetti, forse il più
distruttivo, dell’egoismo umano) temperamenti meschini e grigi fino alla monotonia,
passioni equivoche, disprezzo fra le generazioni ed infine disistima per gli uomini e fra
gli uomini. E’ questo un concetto che S. Battaglia ha chiaramente enunciato nel suo saggio su Moravia: “Se lo scrittore assume il reale soltanto per comodo, come espediente e
lo sottopone a riflessione, onde trarne un discorso dimostrativo e disputante, la reazione
del lettore deve spostarsi dai valori del narrare alla verifica delle idee che lo scrittore
intende avallare. In tal caso, il narratore cede il posto al moralista e al critico, cioè al saggista” (in La narrativa di Moravia e la defezione dalla realtà, 1952). Tuttavia, anche questo riferimento al reale cui si accenna, deve essere ridimensionato o, almeno precisato,
dal momento che, per taluna critica, il Moravia è stato superficialmente inserito nella
corrente del neorealismo, senza spiegare i limiti di questa classificazione. I problemi di
Quaderno n. 2, Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’Attenzione di Stefania Biscontini
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cui l’artista intuisce l’esistenza nell’anima moderna, sono sì assunti dal reale, ma sono
interpretati ed esposti attraverso una sensibilità tanto personale ed orientata che non può
evitare di deformarli e, comunque, di limitarli. Dunque, l’uomo e la donna appaiono
colti nella loro miseria e pochezza interiore, che poi trova riscontro nelle forme derivate della sessualità, che non è mai giocosa, ma sofferta, a volte perversa e, sicuramente,
non soddisfacente. In questa visione sconsolata dell’umanità può intendersi espresso al
miglior grado il moralismo del Moravia. Egli ci propone figure umane dolenti che si
muovono sulla scena della vita piene di impacci e di vizi morali e su di esse il Moravia
punta il suo dito di aspro censore, presentandocele in tutta la loro vergognosa nudità. In
realtà essi sono solo l’immagine di una società in dissolvimento. Individui corrotti e corruttori, che non sanno sollevarsi dalle pastoie della propria miseria spirituale.
E, si badi bene, il Moravia non fa un discorso classista, perché ce n’è per tutti: popolo, borghesia, ricchi, poveri, con qualche accento peggiorativo per i borghesi che, fra
tutti, sembrano i meno esenti dal vizio della menzogna sociale. Anche quando ha orientato chiaramente la critica verso il campo politico (ad esempio nel romanzo la
Mascherata) la condanna dello scrittore ricade su tutti gli ambienti della vita politica e
sociale, compresi anche rivoluzionari falsi e ridicoli, la massa stupida e bestiale. Non c’è
dunque nessuno che si salvi dal disgusto morale del Moravia? In alcuni tratti egli sembra avere un moto di pietà per quelle figure, soprattutto femminili, costrette ad abbrutirsi dalle situazioni familiari o sociali o economiche in cui vivono.
Per esempio, nel racconto del ’27, intitolato Cortigiana stanca, troviamo, oltre alle
descrizioni crude e deformanti dei rapporti interpersonali, il primo pianto di donna.
Quasi in ogni libro di Moravia ci si imbatte in donne che piangono e questo pianto silenzioso riesce a dare un senso di dolcezza e di bontà, quasi sgo rgasse dalle più
pro fonde radici umane, d ove l’uomo non è riuscito a port a re i suoi erro ri e le sue dep ravazioni. Il Moravia solitamente abituato a rap p re s e n t a re le situazioni con fre ddezza o
con senso polemico, in questo caso si add o l c i s c e, ma è solo un breve momento, che
subito cede il passo alla serietà censoria. A l t rove c’è della simpatia dell’autore per quelle donne del popolo (come la Cesira de La Ciociara o l’Adriana de La Romana) ch e,
nonostante le difficoltà ogge t t ive nelle quali incorro n o , riescono, grazie alla loro semplicità e al loro innato buonsenso, a ri m a n e re “a galla”. Questi due romanzi ap p a rt e ngono ad un decennio nel quale Moravia ap re la cosiddetta parentesi popolare, c a rat t erizzata dal mito della sostanziale “sanità” del popolo, della sua capacità spontanea di
vivere istintivamente la realtà, a n c o ra non corrotta dagli ideali borghesi.
Ne La Ciociara, inoltre, l’autore si serve di due personaggi chiave della storia
(Rosetta e Michele), come portatori di istanze nuove ed esprimenti l’ideologia dell’autore. La religione schietta di Rosetta trova riscontro nel credo sociale di Michele, che
prospetta una nuova speranza, un mondo nuovo, dopo il crollo della religiosità tradizionale. Ne La Romana, come ha giustamente rilevato Vittorini, la caduta morale della protagonista non è dovuta a una mancanza di freni, ma ad un indebolimento della volontà
derivato dall’influenza negativa che la società decaduta può avere sugli esseri più sensibili e di cui essi sono vittime privilegiate e da cui potrebbero essere annientati , se non
intervenisse a salvarli la loro “filosofia spicciola”. Si legga ed esempio, la chiusa del
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
romanzo, allorchè Adriana, dopo aver fatto credere ai parenti di un amante che si è ucciso che il figlio che porta in grembo è del morto dice: “ Pensai a Mino e poi pensai a mio
figlio; pensai che sarebbe nato da un assassino e da una prostituta; ma a tutti gli uomini
può capitare di uccidere e a tutte le donne di darsi per denaro; e ciò che più importava
era che nascesse bene e crescesse sano e vigoroso. E decisi che se fosse stato un maschio
l’avrei chiamato Giacomo, in ricordo di Mino. Ma se fosse stata una femmina, l’avrei
chiamata Letizia, perché volevo che, a differenza di me, avesse una vita allegra e felice
ed ero sicura che, con l’aiuto della famiglia di Mino, l’avrebbe avuta”.
E’ importante notare che nel dopoguerra l’interesse di Moravia si è rivolto con insistenza a due temi soprattutto: l’infanzia e l’istintività popolare. Scrive a tal proposito G.
Pullini (in Il Romanzo italiano del dopoguerra, Padova, 1970): “Questi due temi possono apparire estranei, ma non lo sono, se crediamo ad una semplicità di fondo del ragazzo e del plebeo, che li mantiene capaci, nonostante tutto e tutti, di reazioni naturali e
generose. Moravia li presenta come vittime della mentalità corruttrice, ma crede anche
nella sopravvivenza in essi, di alcuni strati psicologici e morali naturalmente restii a farsi
plasmare e riaffioranti nella loro genuinità”. L’ammirazione per la presunta autenticità
popolare è stata però ben presto superata dal Moravia, che ha chiuso nettamente questa
fase (1945-1960), tornando con il romanzo La noia, ad occuparsi della borghesia, personificata in Dino che, per sottrarsi alla realtà neocapitalistica della famiglia, sceglie di
fare il pittore ed evade così dalla propria classe, ma rimanendo in una condizione di
sospensione, di atarassia morale, incerto fra una reintegrazione sempre possibile nel proprio ceto d’origine e l’aspirazione ad una autenticità ideale. Il mito popolare trova poi
una sua demistificazione definitiva ne L’Attenzione, che riguarda la crisi dell’intellettuale borghese nella società capitalistica, quando Cora, una donna del popolo che il protagonista sposa perché convinto a priori della sincerità e schiettezza dei suoi costumi, si
rivela invece in tutta la laidezza del suo mestiere di mezzana. Si legga, come esempio,la
disillusione di Francesco nei riguardi della moglie: “Perché io, giovane borghese, figlio
di borghesi, colto e agiato, avessi sposato Cora, è presto detto: ... si era formato in me,
per contrasto con la in autenticità nella quale vivevo, il mito del popolo come solo depositario di tutto ciò che vi era di autentico al mondo ... ma poi avvenne un fatto imprevedibile, mi svegliai dal sogno in cui mi ero cullato e cominciai a detestare la donna che
mi stava accanto. Cora era stata complice involontaria dell’illusione alla quale mi pareva adesso di avere soggiaciuto amandola e sposandola; mi rendevo conto che lei non
aveva alcuna colpa; tuttavia non potevo fare a meno di odiarla come appunto si odia la
causa innocente di un nostro errore”.
L’Attenzione è un romanzo senza dubbio particolare: il suo titolo deriva dall’attenzione che il protagonista pone sulla società che lo circonda e su se stesso, laddove la
disattenzione dei più produce la pesante crisi cui è soggetto il mondo moderno. In questo senso, e per questo aspetto, l’opera può intendersi vagamente autobiografica, se si
pensa allo spiccato interesse nutrito dal Moravia per la realtà del suo tempo e la sua perseveranza nel seguire l’evolversi (o involversi) dei tempi e delle idee, di cui si serve per
poi applicare su questo deserto di valori la propria azione di censore.
Se la riprovazione morale del Moravia appare socialmente rivolta a 360°, lo stesso
Quaderno n. 2, Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’Attenzione di Stefania Biscontini
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può dirsi per le ambientazioni storiche delle sue opere. A parte La Romana e La
Ciociara, ambientate dichiaratamente durante il periodo fascista, per il resto, fin da Gli
Indifferenti, il Moravia non si è preoccupato di inserire le proprie storie entro un ambito temporale definito, cosicché, al di là della percezione di una vicenda che si immagina comunque avvenuta nel mondo contemporaneo, non si hanno indicatori temporali
forti. Come a dire che l’uomo moderno, in senso generale, è cattivo, a prescindere dalle
specifiche contingenze.
Il pessimismo integrale del Moravia a questo punto, sembrerebbe senza via d’uscita e limitato solamente ad un atto d’accusa verso la società attuale; tuttavia, come ha ben
notato Ines Scaramucci, l’analisi dello scrittore non si risolve in una confessione di sconfitta, perché permane in Moravia un’inquietudine, una tormentosa tensione alla risoluzione; ecco quindi riaffacciarsi ancora una volta l’elemento della sessualità, che abbiamo assunto già come funzionale alla narrativa. Come il Moravia sembra dimostrare nei
suoi due romanzi, Agostino e La Disubbidienza, fra l’altro, a detta di tutti i critici, appartenenti al periodo di attività più positiva dell’autore, solo questa componente della vita
sociale sarebbe in grado di salvare l’uomo dall’impasse nella quale lo costringe la vita
di relazione. Dopo aver problematicizzato la vita moderna, egli cerca comunque una via
di salvezza all’alienazione. Come dice il Cimmino: “Il Moravia è scrittore cerebrale, tormentato dal bisogno di pensare il suo tempo, di vagliarne le idee, ma anche di trovare
modi e forme di risoluzione. Arriva a pensare che un concetto fra psicanalistico ed esistenzialistico del sesso sia la panacea da offrire allo smarrimento attuale del mondo”.
In Agostino questa soluzione è solo intravista, data la giovane età del protagonista:
“Erano infatti anni e anni che si frapponevano vuoti e infelici, fra lui e quell’esperienza
liberatrice”, mentre in La Disubbidienza, il cui protagonista, Luca, ha qualche anno più
dell’altro giovane, si ha il compimento effettivo dell’esperienza: “Egli pensò che questa
era la vita prima invocata e poco importava se si presentava a lui sotto le spoglie autunnali ... Ormai, pensò, avrebbe visto le cose dapprima con i nuovi occhi che gli si erano
aperti dentro quella notte e poi con quelli che alla sua nascita erano stati abbagliati dalla
prima luce del giorno ... Sì, concluse, la vita doveva proprio essere questo: non il cielo,
la terra, il mare, gli uomini e le loro sistemazioni, bensì una caverna buia e stillante di
carne materna e amorosa in cui egli entrava fiducioso, sicuro che vi sarebbe stato protetto come era stato protetto da sua madre, finchè ella lo aveva portato in seno”. Ancora
una volta il Moravia si presenta come scrittore di rottura rispetto agli autori tradizionali. Dimostrando di aver fatto propria la teoria freudiana e ribaltando completamente il
significato del termine moralità, prospetta una insospettabile via di salvezza per l’umanità proprio nel rapporto fisico che, opponendosi al beau geste ideologico e spirituale
degli antichi moralisti, sarebbe l’unico in grado di riappacificare l’uomo divenuto apatico, disfattista, crudele, con il sano spirito della natura.
E’ un’interpretazione sicuramente eversiva per la morale comune, che però riscatta
di molto l’arte del Moravia, almeno per quanto riguarda la sua indubitabile originalità
ed il suo coraggio.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Nota bibliografica
Fra i numerosi critici che si sono occupati dell’opera moraviana possiamo citare:
S. BATTAGLIA, La narrat iva di Moravia e la defezione dalla re a l t à, in Filologia e letteratura, anno VII, fa s c. II
C. BENUSSI, Il punto su Moravia, Laterza, Roma-Bari, 1987
N. F. CIMMINO, Lettura di Moravia, Volpe Ed., Roma, 1966
L. CROCENZI, La donna nella narrativa di A. Moravia, Mangiarotti, Cremona
O. DEL BUONO, Moravia, Feltrinelli, Milano, 1962
G. DE ROBERTIS, Scrittori del Novecento, Le Monnier, Firenze, 1940
A. LIMENTANI, Alberto Moravia fra esistenza e realtà, Neri Pozza, Venezia, 1954
G. PANDINI, Invito alla lettura di Alberto Moravia, Mursia, Milano, 1990
R. PARIS, Alberto Moravia, La Nuova Italia, Firenze, 1991
E. RAGNI, Narrativa e società, in Letteratura italiana contemporanea, 1980
E. SANGUINETI, Alberto Moravia, Mursia, Milano, 1970
R. TESSARI, Introduzione ad Alberto Moravia, Le Monnier, Firenze, 1975
Il sentimento re l i gioso nella poesia di Luzi
di Enrico Mercati
Quaderno n. 2, Il sentimento religioso nella poesia di Luzi di Enrico Mercati
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M. Luzi (nato a Castello, provincia di Firenze, nel 1914; vivente) è stato uno dei
maggiori rappresentanti dell’Ermetismo italiano; laureato in Letteratura Francese, ha
insegnato prima al Liceo, poi all’Università; negli anni Trenta ha preso parte al vivace
dibattito culturale fiorentino, collaborando alle riviste Letteratura, Campo di Marte,
Frontespizio.
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo: La barca (1935), Avvento Notturno
(1940), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Nel magma (1963), Al
fuoco della controversia (1978), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1992).
Il valore della poesia di Luzi è stato riconosciuto sin dalle produzioni giovanili,
tanto che già nel 1940 Bo lo definisce immagine esemplare; all’epoca il poeta appena
ventiseienne viveva a Firenze, città di grande fervore culturale dove lavoravano e contribuivano al dibattito letterario, Montale, Bilenchi, Landolfi, Gadda, Vittorini,
Palazzeschi, Pratolini.
E’ proprio in tale contesto che Luzi viene caratterizzato come il poeta ermetico per
antonomasia.
Nel dopoguerra, quando l’ermetismo aveva ormai esaurito la sua spinta innovativa,
Luzi viene considerato un epigono di una stagione superata, con la conseguente sottovalutazione della sua opera; negli anni Cinquanta e Sessanta, quindi, la sua poesia era
considerata come un esempio da non riproporre, una pagina da voltare; tuttavia Luzi
ebbe sempre la capacità di rivitalizzare la sua ispirazione grazie ad una forza creativa
sorprendente, pur nella costanza dei temi di fondo e di un suo codice; così la fedeltà ad
alcuni elementi si unisce ad un continuo rinnovamento, tanto che per la sua poetica si
parla di un ininterrotto procedere tra continuità e discontinuità.
Nella percorso di Luzi possono così essere riscontrati sia elementi di stabilità che di
mutamento: l’ideologia religiosa, che si focalizza intorno all’idea di un cristianesimo
militante, costituisce il filo conduttore in tutta la sua opera poetica; la fede, quindi, si
pone come un forte elemento di continuità; il mutamento si individua invece nella problematicità con cui il poeta vive le sue certezze: cristianesimo significa senz’altro
dimensione assoluta, ma anche necessità continua di verifica nel divenire storico e
sociale.
Ciò ha permesso a Luzi di concepire la vita attraverso un’ottica, sì critica e spesso
pessimistica, a tratti addirittura cupa, tuttavia complessivamente solida e rassicurante; il
poeta, ad esempio, non sprofonda mai in quelle crisi di identità che travagliano invece
quasi tutti i poeti novecenteschi.
Assai vasta risulta la sua produzione poetica, testimonianza di stagioni molto diverse: si va dalla lirica esistenziale (fino agli anni cinquanta) di derivazione montaliana e
orfica, al superamento del Male di vivere attraverso l’ottica di solidarietà cristiana del
Ciascuno e tutti insieme.
Questa concezione della vita può essere considerata una vera e propria svolta, per cui
la prospettiva non è più il rapporto tra io e realtà, ma la comunione con tutti e con il tutto,
del soggetto immerso nel Magma, nel flusso della vita stessa.
La realtà, manzonianamente concepita, è caratterizzata spesso da sofferenza e
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
sopraffazione, da indifferenza ed egoismo, tuttavia nasconde sempre un suo intrinseco
significato positivo anche quando questo sfugge alla comprensione umana; esiste un
piano provvidenziale che trasmette la certezza che l’opera di Dio, intervenendo nella
storia a fianco dei diseredati e degli umili, imporrà il trionfo del bene e della giustizia.
L’opera letteraria diviene così testimonianza, la parola poetica assume un
significato universale e travolgente perché diventa il mezzo di comunicazione dell’uomo con Dio.
La poesia, trasformandosi in coraggio di denuncia e in strumento con cui si evidenziano le nefandezze della storia, non rinuncia tuttavia a cercare una risposta affermativa
ad una vita naturale e positiva.
Contrariamente ad altri ermetici, Luzi non ritiene che il poeta sia il solo a cogliere
il senso delle cose attraverso l’arte, ma l’atto poetico svela il significato della storia e
della vita umana.
La parola che diventa poesia, tende così a colmare l’ansia metafisico-religiosa del
poeta e a riempire il vuoto di domande senza risposta; la parola poetica si misura con la
Rivelazione, il poeta diventa umile, ma allo stesso tempo potente “scriba dei”, capace di
interpretare la realtà e di rinnovare prospettive; il dubbio sorge sulle possibilità umane
di ricezione del messaggio provvidenziale, non sulla sua sostanza.
In questa prospettiva tutta la produzione luziana assume l’aspetto del viaggio (basti
pensare a La barca, per giungere al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini); nella
prime raccolte ampio è l’uso di ardite analogie e di metafore, tendenti talvolta ad un preziosismo linguistico, e forti risultano lo sperimentalismo formale ed il simbolismo;
nelle raccolte più tarde, abbandonato il linguaggio criptico, risultano favoriti una sintassi più vicina al parlato e un discorso più comunicativo.
Invitato nel 1998 dal Papa a scrivere un testo per la cerimonia del Venerdì Santo,
così Luzi parla del suo rapporto con la fede cristiana:
Io non sono un uomo di chiesa, ma il cristianesimo è implicito a tutto ciò che io ho
pensato e scritto-sempre più meditato, e messo in rapporto con tutta l’evoluzione della
cultura occidentale.
Il cristianesimo l’ho ricevuto, primamente, da mia madre, un cristianesimo prima rio che ho poi immerso nei miei studi, fortificandolo, trsportandolo in un orizzonte più
vasto.
C’è stata una continuità, anche quando pareva che non ci fosse, quando mi sono
staccato dalla famiglia, dalla stretta esemplarità di mia madre. (...)
Per me il Dio cristiano è un Dio di cui non si possono dire gli attributi, le virtù.
l cristianesimo ha il Cristo, è nel Cristo.
Se questa divinità si è messa sul piano degli uomini con questo emissario - Gesù è il colmo della bontà, dell’interesse per l’uomo.
Il Cristo è interessante e nutritivo per tutti.
Che sia parola di Dio, è pura fede.
Io credo di essere religioso in questo, che leggo il Vangelo, e quello che s’è detto
intorno al Cristo mi ha interessato. (...)
Quaderno n. 2, Il sentimento religioso nella poesia di Luzi di Enrico Mercati
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Il cristianesimo imbeve l’aria stessa, i suoni, i silenzi in cui sono inserite le parole,
però spesso, specialmente nei tempi più recenti, si traduce in immagine dirette. (...)
Ecco, qui c’è il mio convincimento sulla teologia: “Il dio pensato dagli uomini...che
risibile creatura della loro presunzione!” (...)
Appendice
Testi poetici analizzati:
Nell’imminenza dei quarant’anni (da Onore del vero, 1957):
L’avvicinarsi dei quaranta anni rappresenta per il poeta, come del resto per tutti gli uomini,
un momento di bilancio, di ripensamento alle vicende della vita; Luzi sente il bisogno di capire
il significato dell’esistenza, del dolore, della sofferenza e della morte;
la vita potrebbe sembrare talvolta priva di senso se l’ideologia religiosa non intervenisse a
suggerire soluzioni; la fede permette di intravedere un piano Provvidenziale verso cui si finalizza il tutto.
A che pagina della storia (da Al fuoco della controversia, 1978)
Anche in questo testo il tema religioso è centrale e correlato a problematiche civili; il mondo
è caratterizzato da soprusi, violenze, prepotenze, sofferenze, ma Dio è vicino agli umili, pronto a
sollevare chi continua, nonostante tutto, ad avere fiducia nella vita e in una possibilità di riscatto; Luzi esprime una visione di militanza religiosa a fianco dei diseredati e degli oppressi.
L’immesità dell’attimo (da La barca, 1935)
La poesia è incentrata sul tema dell’esistenza e sul rapporto tra tempo ed eternità, tra casualità e necessità, tra ciò che è e ciò che sembra; nel testo forte è il contrasto tra oscurità e luce, tra
lo scorrere della vita e l’interpretazione dei significati ad essa attribuibili.
Si crea uno stato di attesa, come dell’imminente insorgere di una qualche forma di vita, ma
poi non accade nulla; anche la figura materna ci viene presentata come una sorta di divinità protettrice, ma la sua presenza rassicurante è labile; tutto rimane sospeso, in una dimensione di eterna attesa, in cui le domande rimangono senza risposte certe.
Avorio (da Avvento notturno, 1940)
Per cercare di dare una chiave interpretativa a questo testo, si può partire dai vv. 12-13
Ma dove attingerò io la vita
ora che il tremebondo amore è morto?
che esprimono una condizione di solitudine esistenziale; il poeta si sente smarrito, senza punti di
riferimento certi, intorno a sé c’è un vuoto espresso da immagini preziose.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
In tutta la poesia forte è l’uso di analogie criptiche che assumono talora sfumature irreali; da
notare il gusto per ciò che è orientale, quindi lontano e che suggerisce immagini da sogno e arabeschi.
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni ( da Primizie del deserto, 1952)
Si tratta di una poesia tratta da una raccolta tarda, il cui linguaggio si presenta differente rispetto
a quello dei testi giovanili; scompaiono le analogie criptiche a favore di una sintassi più discorsiva e piana, il tono si abbassa e le immagini si vanno a definire in maniera chiara; l’apertura della
poesia è intimistica e colloquiale, si delinea la figura di un’amica cara, il cui ricordo affiora nell’animo del poeta dopo molti anni e permette una meditazione sulla condizione esistenziale dell’uomo.
Vita fedele alla vita (da Su fondamenti invisibili, 1971)
Il significato della vita va ricercato nella vita stessa, con le sue contraddizioni e difficoltà; la
vita deve essere accettata per quello che è, anche con la sua mancanza apparente di significati; il
titolo, che racchiude in sé il senso della poesia, è tratto dal verso n. 20.
La società moderna è caratterizzata dall’indifferenza degli uomini per le disgrazie dei loro
simili (uno, la fronte sull’asfalto, muore /tra poca gente stranita /che indugia e si fa attorno
all’infortunio), e l’invito implicito è quindi quello di una solidarietà come mezzo di riscatto nei
confronti di un mondo sofferente e squallido.
Nota bibliografica
M. LUZI, Opera poetica, I Meridiani, 1992
M. LUZI, Tutte le poesie, Garzanti, 1988
G. BALDI - S. GIUSSO - M. RAZETTI - G. ZACCARIA, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia, 1994
G. DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento, Garzanti, 1974
R. LUPERINI - P. CATALDI - L. MARCHIANI - F. MARCHESE, La scrittura e l’interpretazione, Palumbo, 2001
G. QUIRICONI, Il fuoco e la metamorfosi, Cappelli, 1980
P. RENARD, MARIO LUZI. Frammenti e totalità, Bulzoni, 1995
L. RIZZOLI - G. MORELLI, Mario Luzi, Mursia, 1992
Fe n oglio tra neorealismo e
s p e rimentalismo linguistico
di Paola Herbin
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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Filone langarolo e filone resistenziale - Il Partigiano Johnny
La produzione fenogliana si incentra su due filoni fondamentali: quello langarolo e
quello resistenziale. In entrambi i casi l’ambientazione è costituita dalle terre intorno ad
Alba e le vicende narrate partono da uno spunto autobiografico.
Del filone langarolo fanno parte sei dei dodici racconti contenuti ne I ventitre gior ni della città di Alba, il romanzo breve La malora e la raccolta Un giorno di fuoco. Sul
piano linguistico-stilistico queste opere appartengono ad una fase di sperimentazione
naturalista-verista; come ha infatti sottolineato Segre: l’adozione di un narratore-coro
cui è generalmente affidato il racconto, con gli espedienti che ciò comporta (proverbia lità e similitudini popolari, collettività del punto di vista) e soprattutto la “dialettalità
interna”, non esteriore e mimetica, sono i segni più vistosi dell’eredità verghiana in
Fenoglio. Lo sguardo dell’autore è impietoso e descrive la realtà in maniera oggettiva e
cruda, ma anche pessimistica. Ne Il Diario l’autore scriveva: la vita ci dà in sorte una
cosa sola: una donna, un campo, un coltellino che diventa tutto noi stessi. La carichia mo di un possesso tanto più forte quante più sono le cose che ci sono negate. Chi tocca
o porta via la cosa che è noi, ci uccide, ma non tanto in fretta che noi non si uccida
anche lui. I personaggi somigliano a quelli di Pavese, ma mancano sia la dimensione
mitica del mondo contadino legato all’infanzia sia il coinvolgimento dell’autore nelle
vicende narrate.
Il filone resistenziale comprende la metà dei racconti de I ventitre giorni della città
di Alba, Primavera di bellezza, Una questione privata, Il Partigiano Johnny, mentre le
due tematiche fondamentali si intrecciano ne La paga del sabato, storia del difficile
reinserimento di un ex partigiano nella vita “civile”.
La nostra analisi si incentra soprattutto su quella che - a giudizio della critica resta l’opera fenogliana più controversa ma anche per certi versi più significativa,
Il Partigiano Johnny, anche se - come vedremo - sarà inevitabile fare riferimento
anche al resto della produzione di questo autore, con cui essa appare indissolubilmente legata.
La prima questione da affrontare è la sua datazione, che investe questioni filologico-linguistiche ancora aperte. L’opera a cui noi attribuiamo questo titolo, infatti, è frutto di ricostruzioni postume tentate dagli studiosi sulla base di materiali reperiti in forma
frammentaria nell’archivio dello scrittore. Il testo ci è giunto - in forma incompiuta - in
tre redazioni diverse, di cui una in inglese (detta UrPJ) e due in italiano. Lo stesso titolo è stato in qualche modo “inventato” dal primo studioso che ha tentato di ricavarne un
testo unico, Lorenzo Mondo, a cui si deve l’edizione del 1968. Questa edizione è stata
successivamente ricusata dalla critica, in quanto frutto di una ricostruzione arbitraria del
testo, basata su ragioni di ordine estetico e non di ordine filologico; Lorenzo Mondo,
infatti, ha utilizzato le due redazioni in italiano mescolandone i frammenti in un montaggio libero da preoccupazioni di ordine filologico. L’edizione critica dell’opera, invece, è stata pubblicata da Einaudi nel 1978 e si deve a Maria Corti e a Maria Antonietta
Grignani; vi si trovano le tre redazioni originali, ma è certamente di meno agevole fruizione da parte del lettore. Dante Isella nel 1992 ha proposto per la Biblioteca della
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Pléiade di Einaudi-Gallimard una terza edizione dell’opera, montando le due redazioni
in italiano in un unico testo, in cui i capp. I-XX derivano dalla prima stesura e i capp.
XXI-XXXIX dalla seconda. Quest’ultima soluzione permette di leggere il testo nel suo
più ampio sviluppo narrativo ed è quella attualmente più diffusa.
Un argomento di discussione strettamente connesso con la questione precedente è
costituito dalla lingua usata da Fenoglio in quest’opera, un misto di italiano e di inglese che mette a dura prova anche il lettore più volenteroso. Della passione dell’autore per
la lingua, la cultura e la letteratura inglesi abbiamo già detto parlando della sua vita.
Sappiamo che fu un appassionato traduttore (…) e che la prima stesura delle sue
opere avveniva in lingua inglese; ebbe infatti a dichiarare: “Primavera di bellezza”
venne concepito e steso in lingua inglese. Il testo quale lo conoscono i lettori italia ni è quindi una mera traduzione. Come abbiamo detto, anche la prima stesura del PJ
(incompleta) venne fatta in questa lingua.
Gli studiosi hanno cercato di spiegare questa sorta di ossessione linguistica di
Fenoglio: Maria Corti ha parlato dell’inglese fenogliano come di una lingua mediatrice
dell’atto creativo e risvolto di una scelta ideologica; Paolo Valesio lo ha definito un
segno di un preciso impegno di reinvenzione linguistica, precisamente espressionistica
e maccheronica con valore di simbolo linguistico e politico-letterario in direzione
antagonistica al modello neorealistico e alle valenze ideologiche ad esso sottese;
Almansi lo ha descritto come anglais de cuisine nato dagli illeciti amori fra lo scrittore ed una lingua conosciuta in modo passeggero e frammentario, come gioco
goliardico e quindi ignorante e pasticcione; Calvino ne ha parlato come di linguaggio
m e n t a l e, scala per salire all’atto espressivo.
In ogni caso, nelle altre opere l’uso dell’inglese è meno insistito che nel PJ e questo deve pur significare qualcosa.
Entriamo così nell’ambito della datazione relativa dell’opera. La critica si divide fra
coloro che vedono nel PJ un punto di partenza e quelli che lo vedono come un punto
d’approdo espressivo. Secondo la prima ipotesi la prima stesura dell’opera risalirebbe
all’immediato dopoguerra (1946-49), e da essa poi l’autore avrebbe estratto il materiale
per le altre opere, come Primavera di bellezza e Una questione privata; nella seconda
ipotesi, il romanzo risalirebbe al 1956-58 e farebbe parte di un ciclo narrativo, comprendente anche Primavera di bellezza e Una questione privata, che poi l’autore avrebbe
rinunciato a pubblicare.
È certo, comunque, che il leitmotiv della sua produzione è lo spunto autobiografico
delle vicende narrate. I medesimi ricordi vengono variamente mescolati e rielaborati,
cambiano i nomi dei luoghi e dei personaggi, si modificano alcuni particolari, cambiano le scelte linguistiche e lo stile, ma alla base di tutto restano i fatti veri, i ricordi del
partigiano Fenoglio, del ragazzo di Alba divenuto uomo durante l’esperienza unica ed
irripetibile della lotta antifascista nelle Langhe.
I suoi eroi hanno le stesse caratteristiche fisiche dell’autore, ne mutuano spesso gli
atteggiamenti schivi e la visione disincantata della vita e muoiono quando stanno per
raggiungere la salvezza, eterni sconfitti. I loro nomi derivano significativamente dal
nome e dal cognome di un autore inglese molto amato dallo scrittore: John Milton;
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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Johnny si chiama infatti il protagonista de Il Partigiano Johnny e di Primavera di
bellezza e Milton quello di Una questione privata.
All’indomani dell’8 settembre Johnny, come Fenoglio, dopo essersi imboscato per
evitare di doversi arruolare nei Repubblichini, sceglie di unirsi ai partigiani e, dopo una
breve esperienza con i “rossi”, decide di passare agli “azzurri”. Quello che resta del
romanzo racconta, con alcune varianti tra le diverse stesure, le disavventure ed i pericoli corsi da questi uomini animati da motivazioni diverse e spesso eroici loro malgrado, dalla presa di Alba alla sconfitta poco prima dell’arrivo degli alleati.
Quello che colpisce e colpì soprattutto al momento della pubblicazione dei primi
scritti fenogliani è il piglio assolutamente antiretorico della narrazione. Come sottolinea
Guglielmino: (…) quando, con“I ventitre giorni”, Fenoglio esordisce, imbocca come
narratore della resistenza una strada insolita in quegli anni: non la celebrazione (che
scadeva talvolta nella oleografia), non la componente ideologica egli sceglie, ma una
rappresentazione vera che di quell’evento dia, senza moralismi o seriosità, la poliedricità
degli aspetti. E da ciò nella narrazione un tono, un piglio demistificatorio, “picaresco”
(come ha detto qualcuno) sotteso tutto dal gusto dell’avventura(…):
Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944. Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce
n’erano per cento carnevali. Fece un’impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell’uniforme di gala di colonnello d’artiglieria cogli alamari
neri e le bande gialle, e intorno alla vita il cinturone rosso-nero dei pompieri col
grosso gancio. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome
di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili che andavano da Rolando a Dinamite.
Come ha detto Dante Isella nel Convegno di Alba del 1997, sulla valutazione dell’opera fenogliana ha pesato per anni, oltre alla complessità del suo linguaggio, il punto
di vista fortemente ideologizzato, da cui si è guardata la guerra civile combattuta nel
Nord Italia, l’interpretazione ufficiale della Resistenza, secondo rigidi parametri di
parte e per opera di una storiografia dogmatica a cui la rappresentazione diretta, senza
abbellimenti e senza diaframmi interessantemente deformanti, che ne dà Fenoglio,
doveva riuscire del tutto inaccettabile.
In questo scrittore la componente ideologica e quella politica sono sostituite da una
più larga tematica esistenziale (la morte, la scelta e il caso, la violenza, l’amore) e diventano una sorta di paradigma della storia di una generazione, per usare l’espressione di
Pampaloni. Anche Luperini ha sottolineato come in Fenoglio la Resistenza non è vista
ideologicamente come prospettiva sociale e politica, ma come prova epica del destino
ed infatti nessuno dei suoi eroi positivi muore per una ideologia politica. Questo lo
distingue nettamente dal Neorealismo: Il suo impegno è di tutt’altra natura: è un impegno
verso la vita stessa, intesa come dignità dell’esistere, come scommessa che si realizza in
scelte radicali in cui si mette alla prova l’onore della persona umana in quanto tale.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
L’uomo è passione, ethos spontaneo, anche pura energia fisica e vitale: può morire
per amore di una donna o per un’amicizia, in un estremo individualismo tutto giocato
sulla ricerca di una verità esistenziale che passa anche attraverso la lotta partigiana, ma
che vale più di essa.
Questo non vuol dire che egli abbia voluto dissacrare la Resistenza, alla quale - del
resto - egli aveva aderito da liberale conservatore e non da rivoluzionario, mantenendo
un certo distacco rispetto alle rispettive posizioni politiche, pur essendo chiaramente
allineato su posizioni antifasciste. Lo dice chiaramente in PJ, XIV descrivendo i badogliani, di cui aveva fatto parte:
Quanto all’etichetta politica, i capi badogliani erano vagamente liberali e decisamente conservatori, ma la loro professione politica, bisogna riconoscere, era nulla,
sfiorava pericolosamente il limbo agnostico, in taluni di essi si risolveva nel puro e
semplice ésprit de bataille. L’antifascismo però, più che mai considerato, oltre tutto,
come un’armata, potente rivendicazione del gusto e della misura contro il tragico
carnevale fascista, era integrale, assoluto, indubitabile.
Gli stessi protagonisti delle sue opere, che - come già detto - sono forgiati sull’autore stesso, manifestano un disagio che sfiora lo snobismo quando si trovano a contatto
con le persone di basso ceto, incolte e rozze che popolano le file dei “rossi” e passano
ai badogliani proprio per attenuare questo senso di estraneità e di degradazione, anche
se non condividono del tutto neanche le loro posizioni.
Vediamo, a questo proposito un passo tratto da PJ, V:
entrò coi compagni di viaggio, e vi cenò a pane e carne, in uno spoglio stanzone, alla
luce bianchissima, candente e oscillante di acetilene. E mangiando osservò gli altri,
per trovarsi confermato e peggiorato in quella scoperta che nessuno era lontanamente della sua classe, fisica e non, a meno che un giorno o poco più di quella disperata vita animale - giunglare non imprimesse su tutti, anche su un genio d’imminente
sbocciatura, quel marchio bestiale. Gli altri non gli badavano più, dopo che si furono voltati a esaminare l’indifferentemente annunciato nuovo, con un bovino giro
della testa e un lento lampo negli occhi.
O ancora, nel cap. VI, leggiamo:
Progressivamente, comunque, Johnny impara ad apprezzare anche i lati positivi dei
suoi compagni; questo avviene dopo aver combattuto al loro fianco (cap. IX):
Il cuore di Johnny s’apriva e si scioglieva, girò tutta l’aia apposta per farsi partecipe e sciente d’ogni uomo. Erano gli uomini che avevano combattuto con lui, che stavano dalla sua parte anziché all’opposta. E lui era uno di loro, gli si era completamente liquefatto dentro il senso umiliante dello stacco di classe. Egli era come loro,
bello come loro se erano belli, brutto come loro se erano brutti. Avevano combattuto con lui, erano nati e vissuti, ognuno con la sua origine, giochi, lavori, vizi, solitudine e sviamenti, per trovarsi insieme a quella battaglia.
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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Quando infine Johnny passa agli “azzurri” (cap. XIV), così li descrive:
Johnny naturalmente era un altro uccello in questo stormo, ma trovò però, nel nuovo
ambiente, almeno un comune linguaggio esteriore, una comune affinità di rapporti
e di sottintesi, un poterci stare insieme non soltanto nella necessitante battaglia, ma
più e principalmente nei lunghi periodi di attesa e di riposo. Erano brillanti, attraenti, ma superficialmente. Ed in tutti regnava una lancinante nostalgia ed inclinazione
alla regolarità, una dolorosa accettazione di quell’irrimediabile irregolarità per la
quale non era possibile schierarsi e combattere nei vecchi cari ed onorati schemi.
L’epicità della narrativa fenogliana si esprime anche nella rappresentazione del paesaggio in cui si muove l’eroe, un paesaggio protagonista e spesso ostile. A parere di
Corsini e di Cecchi, esso fa riferimento alla rappresentazione della cacciata dell’uomo
dall’Eden biblico e al Paradiso perduto di Milton. Su posizioni analoghe si muovono
Luperini e Falaschi; quest’ultimo, pur valutando complessivamente Fenoglio come un
autore neorealista, ha rinvenuto nei suoi testi echi biblici e omerici, ma anche degli storici classici. Falaschi ha inoltre notato come ricorra l’immagine dell’isola- Langhe,
immagine arcaica risalente alla cosmologia biblica ed omerica in cui il mondo è immaginato come un’isola circondata dal mare; l’isola-Langhe è sovradimensionata, è il
mondo, la scena infinita della storia umana in cui si muovono i personaggi. Molte
espressioni fanno riferimento al mare come confine: apparizioni di terre o case come
dolci porti d’approdo; le cime delle colline alte sulla nebbia o l’oscurità della notte come
certi segni di vita, che talora si mostrano come barche, talora come isole. Questa idea si
è perpetuata nella società contadina e Fenoglio vi attinge anche per altre immagini ricorrenti: ad es. quella del tempo ciclico, scandito dal passare delle stagioni, dei mesi e dei
giorni ed infine di ore, che sono però solo quelle canoniche (alba, mattino, meriggio,
pomeriggio, sera, notte). Il tempo lineare è scandito da poche date oggettive, riconosciute da tutta la comunità (ad es. la guerra d’Africa, quella di Spagna, la prima guerra mondiale); per il resto, fatti privati e fatti della comunità diventano date rispetto alle quali
datare altri fatti: ne è esempio la guerra partigiana, definita semplicemente “l’era dei
grandi avvenimenti” o “allora”. È la tecnica dell’epica e del racconto orale vivo nelle
comunità contadine, lo stesso utilizzato dai cronisti antichi, che - come Fenoglio - raccontano i fatti straordinari di cui sono stati spettatori per trasmettere ai figli e ai nipoti
una filosofia pragmatica che permettesse loro di cavarsela nel grande mare della vita,
altra metafora classica che è fondamentale in Fenoglio.
È arcaica questa idea dei figli che ripetono il comportamento dei padri e ne perpetuano il ricordo anche nel nome e nel patronimico, come arcaica è l’idea della vita come
un libro mastro, registro a partita doppia con il dare e l’avere, a cui si fa riferimento con
l’espressione “rendere conto a Dio” di quello che si è fatto, riferita alla morte; ancora,
arcaica è l’idea delle prove che un giovane deve superare per diventare adulto, presente anche nel racconto di fate.
Barberi Squarotti ha invece incentrato la sua analisi sull’eroe della sconfitta, il protagonista tipico dei testi dell’autore di Alba. L’eroe epico di Fenoglio è perdente in par-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
tenza e non a caso anche il PJ si chiude con un combattimento inutile e perduto e non
narra la disfatta finale dei fascisti e la vittoria dei partigiani, che non avrebbe senso nell’epicità antifrastica tipica dell’epica moderna. È chiaro il riferimento agli angeli del
bene in lotta con quelli del male del poema di Milton, così come all’epica classica (evidente in passi come quello della morte di Tito) di Omero, di Virgilio e a quella di Tasso;
ci sono anche riferimenti a Dante e a Shakespeare. Tuttavia la traformazione radicale
che Fenoglio. compie è nella prospettiva con cui rappresenta le gesta dei suoi eroi: non
dall’alto di un tempo fermo e assoluto , sorvegliato dagli dei , ma dal basso di una con dizione creaturale di fatica, fango, gelo, fuga (che, allora, ha, dentro, un’eco biblica).
Gli eroi moderni del bene sono poveri, vinti, bagnati, raffreddati, infangati, in fuga
continua: ma sono dalla parte del bene, appunto.
Ne abbiamo un saggio in un celebre passo del PJ, alla fine del cap. IV:
Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è
nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì, si sentì investito
- nor death itself would have been divestiture - in nome dell’autentico popolo
d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere
militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente
più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra.
Sembra, quindi, opinione ormai largamente condivisa che Fenoglio si distacchi per
certi versi dal Neorealismo, a cui - ad un’analisi abbastanza superficiale dei suoi testi sembrerebbe appartenere pienamente.
Se non bastasse l’analisi delle tematiche fenogliane e del modo di affrontarle, ci
confermerebbero questa impressione anche degli aspetti più “tecnici”.
Maria Corti e Maria Antonietta Grignani, affrontando un’analisi comparata delle
diverse stesure del PJ, hanno dimostrato come da PJ1 a PJ2 ci sia un’evoluzione progressiva dall’autobiografia, cioè dalla coincidenza tra personaggio e narratore, ad una
prospettiva più distaccata, oggettiva, epica.
A Luigi Beccaria, invece, si deve la puntuale analisi della lingua di Fenoglio e la
definizione di grande stile, oggi comunemente utilizzata per descrivere la peculiare
maniera di esprimersi di questo autore:
Il grande stile è difficilmente definibile in termini linguistici: lo potremmo intende re intanto come unità e totalità di stile monotonale ad alta tensione, buona per parlare
di vortici notturni del vento o di paci edeniche collinari come di un taglio di capelli sotto
Natale, tutto sopra il rigo:
lo fece sedere su uno scanno di legno, prospiciente il tetro greto del torrente e l’aperta campagna. E staccò un foglio a sentinellare sulla piazza e la figlia a speculare
verso il ponte. Indi sospirò e con una sorta di sospirosa furia prese a spogliare
Johnny di grossi, opachi, terragni bioccoli di chioma selvatica, che Johnny mirava
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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con acre gioia atterrare sull’ammattonato, mentre sentiva sulla testa liberata i fieri
morsi della gelida brezza nascente sul torrente ( PJ1 XXXVI 11)
o di una mela immangiabile e di poche nocciole spezzate da Johnny affamato:
Entrò nella stanza sottoscala, dove solitamente stavano i prodotti della terra: patate e mele e nocciole. Tutto era stato rapito e spazzato, solo in fondo alla stanza, su
una piramide di torsi di meliga brillava, come un calice, una mela perfetta di
forma e colore. Mosse avanti, felinamente, come se si trattasse di mobile, fuggevole cosa, poi le sue dita artigliarono ed affondarono nel suo pus gelato. La gettò
via per la finestra senza vetri e sprizzò contro la parete le gocce di gelido, corrotto succo. In un angolo rinvenne alcune nocciole, meno di sei, erano così secche
che resistevano ai denti e dovette fiaccarle sotto il tacco, con molta rovina e
dispersione (PJ2 XX 6).
Gli esempi citati da Beccaria mostrano chiaramente l’uso quasi virtuosistico della
lingua da parte di Fenoglio. In essa, oltre a parole e calchi dall’inglese, sono presenti
anche francesismi, latinismi, neologismi, termini dialettali e gergali. L’effetto è quello
di una prosa di tono elevato, epico appunto.
Un lavoro analogo a quello di Beccaria è stato effettuato da Dante Isella , che ha
elencato un campione delle forme “notevoli” presenti ne Il Partigiano Johnny, sottolineando come in Fenoglio ci fosse una sorta di autocompiacimento per la propria peculiare cifra linguistica e stilistica, che lo distingueva dagli altri scrittori dell’epoca e si
opponeva a quell’italiano imposto sin dall’infanzia alla sua generazione dal fascismo in
luogo del dialetto nativo.
Michele Prandi, invece, ha individuato la presenza di modificazioni oblique e di pro cedimenti di deformazione astrattiva ne Il Partigiano Johnny:
un osservatore che guarda un paesaggio di campagna macerato dalla pioggia è
libero di vedere “i campi fradici” oppure “la fradicità dei campi” [PJ2, VIII, 45: incre dibile era la fradicità dei campi](…) la lingua è, in quanto tale, indifferentemente dispo nibile alle due formulazioni. Se il parlante preferisce in generale la prima, è per ragio ni del tutto estranee al dispositivo formale della lingua: questa formulazione si accor da con gli schemi ontologici che caratterizzano la nostra percezione.(…) Scegliendo
una formulazione alternativa linguisticamente disponibile - “la fradicità dei campi” Fenoglio sovverte la prospettiva: il supporto è subordinato alla qualità. (…) Essa pro duce, quindi, al tempo stesso, un effetto interno di stile e un effetto esterno di strania mento.
Al contrario di Beccaria, però, Prandi , come la Corti e la Grignani, pensa che Il
Partigiano Johnny sia un’opera della giovinezza, un tentativo poi abbandonato e non
l’approdo finale della maturità artistica. È evidente, infatti, la tendenza alla semplificazione del testo, l’eliminazione progressiva di alcuni aspetti e la conservazione di altri.
Una caratteristica permanente dello stile fenogliano è invece la modificazione obli qua, cioè l’uso estroso, estremamente obliquo e spesso ai limiti dell’impertinenza, dei
modificatori - aggettivi qualificativi e avverbi di maniera. Questo effetto è ottenuto, ad
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
esempio, con la dilatazione del modificatore e con lo spostamento della connessione:
gli alleati stavano comportandosi delusivamente (PJ1 X 1); Il villaggio era spento e
sprangato, assolutamente sordo e muto (PJ2 XVIII 39; cfr. PJ 2 XXXII 27); Le lenti bar bagliarono trionfalmente (PJ 1 XVI 18).
Il giudizio di Vittorini e di Calvino
Anche se altri critici, come Giuseppe De Robertis, avevano valutato positivamente
I ventitre giorni della città di Alba, in cui erano presenti in egual misura racconti del
filone resistenziale e di quello langarolo, il giudizio di Vittorini non fu favorevole e
sostanzialmente tale rimase nel tempo, così come sempre molto formali rimasero i rapporti tra il giovane scrittore emergente e quello che egli considerava il suo “maestro”.
Sulle motivazioni di questa incomprensione Dante Isella si è espresso così:
Nell’incontro-scontro con Vittorini quello che veniva alla luce era il contrasto di fondo
tra il neorealismo di tutta una generazione, di cui Vittorini, insieme con Pavese, era
l’affascinante maestro, e la posizione tutta personale di Fenoglio (…) che con quel suo
“inglese mentale”(…) non mirava affatto a rappresentare mimeticamente la realtà più
comune, come la narrativa neorealistica (…)ma a rappresentare il reale con una forte
tensione lirica, così da trasporlo, senza falsificarlo, in una dimensione più alta, per
l’appunto metafisica.
È interessante altresì indagare sull’atteggiamento verso Fenoglio di un altro intellettuale, Italo Calvino, che con Vittorini e la Ginzburg lavorava allora presso la casa editrice Einaudi alla ricerca di nuovi talenti ed era all’epoca un giovane autore già affermato. Se Bufano, in una recente edizione dell’epistolario fenogliano, pone l’accento soprattutto sul rapporto d’amicizia tra i due, sottolineando come Calvino fosse una delle poche
persone non albesi a cui Fenoglio desse del “tu”, Gian Carlo Ferretti ne ha rilevato, al
contrario, l’ambiguità finchè Fenoglio fu in vita: Fenoglio esordisce nel 1952, ma
Calvino scrive di lui soltanto nel 1964, all’indomani della morte e in occasione della
nuova edizione einaudiana de “Il sentiero dei nidi di ragno”. Tornerà a scriverne nel
‘68 in un “quaderno” astigiano dell’Istituto Nuovi Incontri, e ne parlerà ancora nel
’72 in un’intervista a “Uomini e libri”, nel quadro di due iniziative prese rispettivamen te a cinque e dieci anni dalla morte. Si tratta , in ogni caso di sedi defilate o minori e
legate ad una occasionalità esterna. Sono molte di più le occasioni mancate; inoltre, il
silenzio recensorio è totale. Lo stesso ritratto che Calvino fa di Fenoglio in una lettera
del 15 gennaio 1953 a De Robertis ( Fondo dell’Archivio Vieusseux) risulta abbastanza impietoso, quando non malevolo:
E’, anche come persona, un tipo insolito nelle nostre lettere, anzi proprio il contra rio del solito ragazzo di provincia letterato. È un commerciante di vermouth, non in pro prio, ma per una ditta in cui svolge mansioni importanti; e deve saperci fare. È un tipo
alto, magro con una faccia da film del West, un po’ brutale e accipigliata [caratteristi che accentuate da una triste affezione: una vegetazione di verruche ed escrescenze sulle
guance e sul naso]. Parla a scatti, con brevi frasi dal giro inaspettato. Non è certo timi -
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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do ( è chiaramente un uomo pratico e risoluto, ed è stato comandante partigiano nei
badogliani), né è tipo da darsi delle arie; ma è uomo che rimugina dentro e parla poco.
Lo si direbbe un istintivo di poche letture – e in effetti lo è; ciò non toglie che a un
certo momento lo si scopra traduttore di poeti inglesi raffinati: John Donne, Hopkins,
Eliot. Ora sta facendo un nuovo racconto, ma i suoi affari e viaggi lo disturbano.
Come si può notare, Calvino tace sulle sue caratteristiche di scrittore e lo valuta con
una certa diffidenza come persona.
Ferretti individua la possibile ragione di questo silenzio di Calvino in una sorta di
sua disaffezione nei confronti della letteratura engagée, maturata dopo una sua prima
adesione ai canoni del Neorealismo. Nel 1957, infatti, rispondendo ad un’inchiesta di
“Tempo presente” su questo tema, la definirà una letteratura sconfitta perchè nella
durissima storia politica e sociale non è riuscita a contar nulla. Calvino la considerava
ormai un’esperienza letteraria conclusa e le sue scelte si andavano orientando ormai
verso una letteratura diversa, di tipo fantastico. Nel 1964, quando Calvino scrive la prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, ha pubblicato La giornata di uno scrutatore e sta
per pubblicare Le Cosmicomiche; può quindi valutarne l’opera da un punto di vista
distaccato e riconoscere in lui lo scrittore solitario e senza compromessi che ha saputo
continuare sulla via di quella frammentaria epopea. Il vero e proprio risarcimento del
silenzio iniziale da parte di Calvino verso Fenoglio si ha con la pubblicazione postuma
di Una questione privata, romanzo di cui egli dice: è costruito con la geometrica ten sione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’”Orlando
furioso”, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori,
vera come mai era stata scritta, serbata per molti anni alla memoria fedele, e con tutti
i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un
libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole pre cise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per
inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché.
E ancora: Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo
sognato, quando nessuno più se l’aspettava (…) Il libro che la nostra generazione vole va fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie
a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è vera mente esistita. Come si può notare, però, l’opera di Fenoglio è vista come la definitiva
conclusione della stagione letteraria neorealistica. Nel 1968, nello scritto astigiano già
citato, Calvino dirà infatti: Beppe Fenoglio è stato per noi forse l’ultima incarnazione
d’una figura storica di scrittore che marcò di sé le storie letterarie del secondo quarto
di questo secolo ed è ora scomparsa senza lasciare eredi: scrittore che esprime insieme
la solitaria coscienza di una tensione interiore e il mito estroverso di una vita pratica e
attiva. E come i migliori di quella sparsa falange, scelse a banco di prova della sua
volontà e della sua grazia, lo stile. Lo stile, cioè il punto in cui si saldano individualità
e comunicazione, contenuto etico e forma. L’unica vera analisi critica si ha nell’intervista del 1972, dove si trova la celebre definizione del linguaggio fenogliano come lin guaggio mentale. Poi, a sottolineare il senso di distacco e di distanza, seguirà il silenzio.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Considerazioni finali
Da questa rapida indagine sull’opera e la personalità di Beppe Fenoglio possiamo
dunque trarre alcune conclusioni. Beppe Fenoglio è di certo uno scrittore affascinante
per la sua complessità e profondità, la cui lettura è indispensabile per cogliere gli aspetti più “veri” di un periodo della storia e della letteratura del nostro Paese che - nel bene
e nel male - ha gettato le basi della società attuale.
Probabilmente se le opere pubblicate postume avessero subìto una revisione finale
da parte dell’autore, oggi certe pagine non ci sembrerebbero così ostiche e molte espressioni inglesi sarebbero state sostituite da termini italiani. Sembra evidente, infatti, che
un’opera come Il Partigiano Johnny non fosse destinata ad essere pubblicata nella veste
in cui il pur pregevole lavoro dei filologi ce l’ha restituita. Forse è stata davvero soltanto un esperimento giovanile, un serbatoio magmatico di idee da cui l’autore ha incessantemente attinto per gli altri suoi lavori; ma, se anche fosse quel grande romanzo che
l’autore aveva in serbo di scrivere ed al quale allude in alcune sue lettere, di sicuro nella
sua forma definitiva non sarebbe stato diverso - dal punto di vista linguistico - dagli altri
testi della maturità artistica, come Una questione privata, che hanno ricevuto il consenso della critica e del pubblico. Appare evidente, infatti, anche dal confronto fra le diverse stesure, come la presenza di certe parole inglesi nel PJ non fosse sempre necessaria e
fosse semplicemente un momento intermedio, la testimonianza del passaggio dall’ingle se mentale della prima stesura ad un italiano complesso ed elaborato che si sforzasse di
tradurre - anche con qualche forzatura - l’incisività della lingua di partenza.
Al di là delle questioni filologiche, che hanno finito, come ha sottolineato Beccaria,
per far passare in secondo piano il valore sul piano contenutistico delle opere di
Fenoglio, oggi questo autore è considerato un “classico” proprio per la pietà e lucidità
intellettuale con cui ha affrontato tematiche sulle quali altri erano scivolati nella retorica o nel sentimentalismo. Come intuì Calvino, con lui si chiude una stagione della nostra
cultura - il Neorealismo - che molto aveva dato sia alla Letteratura che al Cinema e si
conclude con un autore che in parte si distacca da quanti lo hanno preceduto e che era
rimasto il solo a parlare della Resistenza in un momento in cui essa tendeva ad essere
dimenticata, cancellata, con il suo carico di sofferenza e di miseria, dall’ottimismo del
boom economico dei primi Anni ’60.
Spesso incompreso in vita e costretto talvolta ad umiliarsi per veder pubblicate
le proprie opere, Fenoglio ha ottenuto il giusto riconoscimento dopo la morte e grazie ad opere pubblicate postume ed in forma incompleta ed è sempre oggetto di ricerca e di studio. La più recente scoperta sono le lettere del c.d. Fondo Tanaro, trovate
fortuitamente nel luglio 1968 da un giovane operaio originario di Alba nella soffitta
della casa di Piazza Rossetti dove Fenoglio aveva abitato fino al 1957. Di esse si
salvò solo una minima parte, che quell’uomo, incuriosito dalla bella grafia e dal titolo “Beppe - Appunti partigiani - 44-45” su quei fogli intestati “Macelleria Fenoglio
Amilcare - Piazza Rossetti - Alba” e con la dicitura “carne-prezzo-importo”, prese
con sé e portò nel suo casolare di famiglia dove teneva l’attrezzatura da pesca. Lì
giacquero dimenticati per anni.
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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Le ragioni per leggere Fenoglio, dunque, non dovrebbero mancare neanche agli adolescenti del Duemila; infatti:
La grandezza di uno scrittore è nella forza della sua parola. Perché solo agli scrit tori e agli artisti è concesso un “privilegio”, direi sacrale, che ne raccomanda il nome
oltre il silenzio del tempo? E’ perché gli scrittori sanno parlare anche per quelli che non
hanno parola; per tutti quelli che sentono, che vivono, che partecipano di eventi e sen timenti comuni ma che senza di loro non saprebbero esprimere il senso del loro vivere,
la verità grande o piccola di cui ciascuno di noi è depositario (Dante Isella).
Cenni biografici
Beppe Fenoglio nasce ad Alba ( Cuneo) il 1° marzo 1922, da Amilcare e Margherita
Faccenda. Trascorre l’infanzia nella città natale e nelle Langhe. All’epoca Alba era una
tranquilla cittadina di provincia, singolarmente caratterizzata da un gran numero di case
di tolleranza. La casa in affitto dei Fenoglio era modesta e si trovava presso la Chiesa.
La sua famiglia era di origini contadine e il padre aveva una macelleria. I suoi genitori - in particolare la madre - non vedevano di buon occhio questo figlio così studioso
(studiava anche a tavola, mangiando distrattamente con un libro sulle ginocchia) e poco
incline agli aspetti “pratici” della vita, pur vedendo in lui l’unica possibilità di riscatto
sociale. La sorella Marisa ricorda di lui la passione per la musica americana, allora di
moda, e il suo carattere schivo e silenzioso: gli unici segni della sua presenza in casa
erano il fumo delle sigarette, la tosse, il battere dei tasti sulla macchina da scrivere.
Negli anni ’40 Fenoglio frequenta il liceo di Alba. Questo è un periodo decisivo per
la sua vita futura; è infatti in questa scuola che conosce l’insegnante di lingue Maria
Luisa Marchiaro che lo indurrà ad appassionarsi alla lingua, alla cultura e alla letteratura inglese, fondamentali per la sua formazione di uomo e di scrittore. Legge prima autori del periodo elisabettiano e cromwelliano, poi si occupa anche di autori di epoche successive: Browning, Hopkins, Yeats, Lawrence, Coleridge, Conrad.
Al Liceo ha inoltre come insegnanti Pietro Chiodi (storia e filosofia) e Leonardo
Cocito (italiano), antifascisti e poi partigiani, la cui influenza peserà non poco sulla
scelta del giovane Fenoglio di partecipare alla resistenza armata dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943. In quel momento Fenoglio è allievo ufficiale a Roma; ritornato ad Alba, si arruola per un breve periodo nei partigiani delle Brigate Garibaldi (i
“rossi”) di ispirazione comunista e poi, nel 1944, entra nelle formazioni partigiane
autonome dei Badogliani (gli “azzurri”) del Comandante Mauri, operando con loro
nel territorio delle Langhe.
Alla fine dell’esperienza resistenziale, il reinserimento nella società è difficile per
lui, come per molti suoi compagni. Trova lavoro nella ditta enologica Marengo e conduce un’esistenza appartata e schiva, dedicandosi alla letteratura come ad una sorta di
hobby particolarmente impegnativo; emblematiche a questo proposito sono le parole
con cui si esprime in un’intervista:
Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche
per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito ago nistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma.
Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagi ne esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
In una lettera a Pietro Citati del 1959 afferma: alla radice del mio scrivere c’è una
primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me.
Quando nel 1952, agli inizi della sua carriera di scrittore, gli viene richiesta da Italo
Calvino una breve nota biografica per ragioni editoriali, così si descrive:
Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno; nato trent’anni
fa ad Alba (1° marzo 1922), studente (Ginnasio-Liceo, indi Università, ma naturalmen te non mi sono laureato) soldato nel Regio esercito e poi partigiano; oggi, purtroppo,
uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo che sia tutto qui. Ti basta, no?
Mi chiedi una fotografia. Ora, sono sette anni circa che non mi faccio fotografare.
Al 1950 risale la sua prima esperienza come scrittore ma anche la prima delusione,
con il romanzo breve La paga del sabato; Vittorini, infatti, lo rifiuta e gli suggerisce di
ricavarne alcuni racconti. L’opera uscirà postuma nel 1969 presso l’editore Einaudi.
Nel 1952 Fenoglio pubblica il suo primo libro per l’editore Einaudi, I ventitre gior ni della città di Alba, nella prestigiosa collana I gettoni, riservata a giovani scrittori esordienti e diretta da Elio Vittorini. Nel 1954 arriva un’altra delusione: Fenoglio pubblica
per l’editore Einaudi La malora, ma sul risvolto di copertina compare il giudizio poco
lusinghiero di Vittorini, che lo accosta riduttivamente ai provinciali del naturalismo di
fine ’800, i Faldella, i Remigio Zena, accusandolo implicitamente di aderire ad una sorta
di Neorealismo di maniera. Fenoglio ne Il Diario commenta: Debbo constatare da per
me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere, ma dovrò
considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento di un vizio.
Nel 1955 Fenoglio pubblica sulla rivista Itinerari la traduzione de La ballata del
vecchio marinaio di Coleridge, che uscirà postuma in volume da Einaudi nel 1964, e
verrà ristampata nel 1966.
Nel 1959 pubblica per Garzanti il romanzo Primavera di bellezza (con cui nel 1960
vince il premio Prato) e numerosi racconti su riviste, che poi appariranno nel volume
postumo Un giorno di fuoco.
Nel 1962 vince il Premio Alpi Apuane per il racconto Ma il mio amore è Paco,
apparso nel numero 150 della rivista Paragone e poi incluso in Un giorno di fuoco.
Ammalatosi di tumore ai bronchi, dopo una breve quanto inutile terapia, muore
nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963. Nello stesso anno riceve postumo il Premio
Puccini - Senigallia e vengono pubblicati postumi in volume unico i racconti Un giorno
di fuoco e il romanzo breve Una questione privata.
Nel 1968 viene pubblicato il romanzo Il Partigiano Johnny, “ricostruito” da
Lorenzo Mondo.
Nel 1969 viene pubblicato La paga del sabato a cura di Maria Corti.
Nel 1973 viene pubblicato Un Fenoglio alla prima guerra mondiale a cura di
G. Rizzo.
Quaderno n. 2, Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico di Paola Herbin
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Nel 1978 esce presso Einaudi l’edizione critica delle opere, diretta da Maria Corti.
Nel 1992 esce presso Einaudi - Electa Gallimard l’edizione dei Romanzi e racconti
curata da Dante Isella, comprendente la versione de Il Partigiano Johnny attualmente
più utilizzata e pubblicata anche in edizione economica con un saggio sulla lingua del
romanzo.
Nel 2002 Einaudi, in collaborazione con la Fondazione Ferrero di Alba, pubblica le
Lettere 1940 - 1962, a cura di Luca Bufano.
Nota bibliografica
Tutti i testi di Beppe Fenoglio sono editi da Einaudi e disponibili anche in edizione economica.
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W. MAURO, Invito alla lettura di Beppe Fenoglio, Milano Mursia, 1972-83
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Beppe Fenoglio (Lecce 25- 26 novembre 1983), Firenze Olshky, 1984, pp. 9-21
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L. BUFANO (a cura di) Beppe Fenoglio, Lettere 1940-1962, Torino, Einaudi, 2002
La letterat u ra inglese e la lingua inglese
ne Il Pa rt i giano Jo h n ny di Fe n og l i o
di Carla Martellotti
Quaderno n. 2, La letteratura inglese e la lingua inglese ne Il Partigiano Jo h n ny di Fenoglio di Carla Martellotti
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In Fenoglio l’incontro con la letteratura inglese e con la lingua inglese avvenne ai
tempi della scuola superiore: non fu solo un’infatuazione giovanile, come una delle tante
mode che gli adolescenti e i giovani di tutti i tempi seguono e forse continuano a coltivare come interesse negli anni della maturità. In Fenoglio si può parlare di una passione profonda che gli diede un’impostazione mentale specifica e particolarissima.
Per quanto riguarda il discorso letterario, diversamente dal suo conterraneo
C. Pavese, più attratto dalla letteratura americana, B. Fenoglio fu molto più legato
allo studio della letteratura inglese. Lesse Shakespeare fin da molto giovane e ne amò
l’essenzialità linguistica, conosceva i poeti elisabettiani, amò il teatro di Marlowe
(lo definirà “diamante nero”), coltivò il sogno adolescente di essere un soldato di
Cromwell, con Bibbia e fucile a tracolla, ammirò della storia della Gran Bretagna lo
spirito di libertà e di coraggio mostrato dal popolo inglese con la rivoluzione
cromwelliana e poi con la gloriosa rivoluzione (monarchia parlamentare).
La cultura inglese, espressa da autori come Coleridge, E. Bronte, Joyce, James,
Lawrence, Conrad, Hopkins, Shaw, autori che Fenoglio conobbe anche attraverso un
accanito e faticosissimo lavoro di traduzione, fu la concretizzazione della sua ricerca
disperata di una realtà diversa da quella italiana, un sogno in cui situare la sua ribellione di adolescente prima e di cittadino ed intellettuale italiano poi. E’ del 1955 la sua traduzione della Ballata del Vecchio Marinaio, un esempio molto particolare di incontro
tra elemento realistico ed elemento sovrannaturale, la realizzazione dell’istanza romantica, espressa nella Prefazione alle Lyrical Ballads, di utilizzare un linguaggio semplice
e comprensibile a tutti trattando di temi fantastici e simbolici.
Dalla letteratura inglese, ma anche da quella americana di Melville e Faulkner,
Fenoglio assimila una sorta di romanticismo vago, quello che unisce gli stati demoniaci e allucinati ai toni solenni ed apocalittici e che riaffiora nelle scene cruciali del suo
romanzo sull’epopea della Resistenza. Di un autore come J. Joyce certamente Fenoglio
ammirò la antigrammaticalità e l’uso condensato delle parole, di un poeta come Hopkins
cercò di rendere l’oscura enigmaticità espressiva. Sicuramente sentì tutto il fascino del
tema simbolico del viaggio presente sia in Melville che in Conrad. L’immersione nei
temi e negli stili della cultura anglosassone nasce in Fenoglio come fuga dalla e come
denuncia della autarchica cultura fascista dello Strapaese, ma soddisfa anche il bisogno
di ricercare e sperimentare tecniche espressive capaci di eliminare i tempi lunghi a vantaggio di una totale essenzialità del discorso.
Il ricorso alla lingua inglese riflette il desiderio di Fenoglio di liberarsi dell’ossessiva preoccupazione italiana del bello stile, della bella lingua e della retorica.
L’utilizzazione dell’inglese e del particolare impasto inglese-italiano ha contribuito
a rendere la descrizione della tragedia della guerra e della Resistenza originale, non piatta, non retorica. Fenoglio scopre nell’inglese una lingua duttile, facilmente scomponibile e ricomponibile nei suoi elementi perché poco “grammaticalizzata”, così tanto generosa di libertà espressiva che, come Fenoglio stesso confessò a Calvino, egli prima usava
scrivere in inglese e poi passava a tradurre in italiano. E’ ovvio che tale sovvertimento
della lingua di partenza con quella di arrivo in uno scrittore di madre lingua italiana non
poteva non avere delle conseguenze anche sull’italiano prodotto; quello che sentiva
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
intraducibile in italiano, Fenoglio lo lasciava in inglese, in parole o in frasi, segni della
sua spontaneità originaria e testimonianze del lavorio mentale e psichico dell’autore che,
pur essendo grande conoscitore della lingua inglese, non riusciva a tradurre tutto con la
stessa esattezza. E’ come se Fenoglio nutrisse una sfiducia nell’italiano ed alla lingua
madre (ma nelle Langhe in quegli anni il dialetto era la lingua della comunicazione, l’italiano un idioma abbastanza scolastico e vuoto di vitalità), nonché alla prosa letteraria,
volesse dare il suo contributo di innovazione e rinvigorimento fatto di scatto e precisione nella scelta dei vocaboli, economia e pregnanza inventiva, flessibilità nel cambiamento di registro stilistico e di ritmo. Fenoglio confidò a Calvino che scrivere era per
lui “una fatica nera”, un’attività che faceva “with a deep distrust and a deeper faith”.
L’attività di accanito traduttore fu un’attività privata, altamente formativa, cruciale nella formazione dello scrittore Fenoglio. Per tutto l’arco della sua vita si esercitò con
accanimento nell’arte del tradurre, da vedersi come continua ricerca di lingua e di stile:
la sofferta ricerca lessicale ed espressiva del traduttore produsse in Fenoglio scrittore sia
una riscoperta degli elementi espressivi della propria lingua che un’abilità creatrice di
neologismi, quasi sempre in senso sostantivante. Anche nella pratica dei traduttore,
Fenoglio usava lasciare le parole intraducibili non tradotte fino a quando non arrivava a
trovare una soddisfacente versione italiana. Nel romanzo Il Partigiano Johnny, l’intraducibile resta non tradotto per scelta creativa attiva.
Dell’inglese di Fenoglio, come del suo italiano, sono state messe in evidenza la
grande arbitrarietà e la forte inventiva, tanto da parlare di “fenglese” (ma anche di fenliano?), di una lingua letteraria (con molti spunti dall’inglese degli elisabettiani), privata, difficile e molto lontana dall’uso comunicativo moderno. L’attività linguistica di
Fenoglio non persegue il bello estetico, infatti spesso non risulta nemmeno piacevole e
di gusto, né in italiano, né in inglese, né nell’impasto linguistico delle due lingue, come
è talvolta possibile notare attraverso gli esempi che seguono.
Alcuni esempi (dal saggio di Dante Isella, La lingua del Partigiano Johnny, e dal
saggio di G. Silvestrini, L’epopea del Partigiano Johnny)
Esempi di parole o espressioni in italiano mutuate dall’inglese
Oltre all’enorme quantità di parole italiane nate da libere formazioni, ne troviamo
poi moltissime in uso nella lingua inglese, utilizzate in italiano con lo stesso significato, includendo anche molti cosiddetti “false friends”. Nell’italiano Fenoglio attiva, fino
al limite estremo, le caratteristiche linguistiche più tipiche della lingua inglese nell’uso
dei suffissi o con dei veri e propri calchi.
Lessico
Aggettivi:
apologetico (ingl. apologetic,di scusa).“Assunse un tono ed
un atteggiamento a.”
conversazionale (ingl. conversational. “compagnia c.”)
Quaderno n. 2, La letteratura inglese e la lingua inglese ne Il Partigiano Jo h n ny di Fenoglio di Carla Martellotti
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impressivo (ingl. impressive, impressionante)
uniformati (ingl. uniformed, in uniforme)
meniale (ingl. menial, servile, domestico)
provocativo (ingl. provocative, provocatorio, provocante)
esperimentale (ingl. experimental, sperimentale)
apprezzativo (ingl. appreciative, riconoscente, elogiativo)
incubosa (ingl. nightmarish, da incubo)
Sostantivi:
seclusione (ingl. seclusion, isolamento)
lavoro d’artificio (ingl. firework), fuochi d’artificio)
sfondità (per l’ingl. background)
Verbi:
Affettare (ingl. to affect, far soffrire). “il normale passo di
strada di J. affettava notevolmente i suoi polmoni e milza”
Impattare (ingl. to impact, battere, colpire). “Il sole impattava sui loro fianchi”
Confrontare (ingl. to confront, trovarsi di fronte) “Uscì dall’aia per confrontare un’ultima volta la notte”
Reciprocare (to reciprocate, contraccambiare). “Esprimeva
un’irresistibile simpatia e parve a Johnny che gliela reciprocasse tutta”
? Flouersi (to flow, fluire, scorrere). “Il sentiero che si floueva nel crepuscolo”
Panicarsi (ingl. to panic)
Urgenzare (ingl. to urge)
Spiralarsi (ingl. to spiral)
Circolarizzare (“circolarizzò un benevolo sguardo)
Minutizzare (“per minutizzare la sua agonia”)
Nanizzare (“ i camions tedeschi....nanizzati dalla distanza”)
Avverbi:
apprezzativamente (ingl. appreciatively, con vivo consenso)
sportivamente (ingl. sportively, giocosamente)
Composti:
(Ital-ingl o ital-ital)
amante-mortale calma
bassaterra (lowland)
Participio presente:
occhi-sgranato
silente-espressiva ammirazione
company-making febbriciattola
cittadinalike
aperta campagna deutschless
vento-ravaged
teatro-seeing
“terra sfacentesi nell’umido buio”
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
“partigiani giocanti alla guerra”
“cielo iscurentesi”
“occhi svelanti come mai….”
“cuore liquefacenteglisi”
“strada ingrigente”
Parole con suffisso
negativo:
Participi passati
aggettivali:
impensosa, inaiutante, inallusivo, inapparire (“i fascisti continuavano ad inapparire), non ridente, non sazietà
uniformati (in uniforme, da uniformed)
bassotravata (“la stanza dell’osteria bassotravata)
disumanata (“faccia disumanata”)
malesserato (“Io mi sento molto sporco e malesserato)
Costruzioni sintattiche
Participio
presente + sostantivo:
“stancanti bambini”; “lievitante sensazione”
Articolo+determinaz.
attributiva
+sostantivo:
“era un molto volitivo ma alquanto corto di gamba aviatore”
“venne soddisfatto dal giovane, vivace, buono a tutte le mani
cameriere”
Costruzioni con
spostamento
della preposizione:
A + infinito
(come il to +
infinito ingl.)
“…esercito che Johnny desiderava entrare in”
“Ma doveva stare agli ordini e attendere contrordini, a giunge re chissà quando e come”
Lo studio dell’inglese di Fenoglio come proposta didattica
Sarebbe ipotizzabile un lavoro didattico con le classi su una selezione di pagine tratte dal romanzo di Fenoglio. Molte di queste ci mostrano un uso diversificato di parole
ed espressioni inglesi che potrebbero essere classificate in tipologie da contrassegnare,
Quaderno n. 2, La letteratura inglese e la lingua inglese ne Il Partigiano Jo h n ny di Fenoglio di Carla Martellotti
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ognuna, con un simbolo grafico di riconoscimento, come di seguito indicato:
un inglese a volte difficile o molto letterario [ ! ];
 un inglese a volte estemporaneo, tipico di chi “pensa” più velocemente in inglese
quelle parole che in italiano richiedono o più parole o una frase relativa o sono intraducibili [ * ];
 un inglese improbabile [ § ];
 inserimenti di frasi comuni e semplici [ + ].
La mescolanza linguistica che ne deriva chiede al lettore di conoscere l’inglese o,
altrimenti, di adattarsi ad un ritmo di lettura frantumato, interrotto, probabilmente stancante. Al contrario, per degli studenti, una lettura consapevole potrebbe consistere in un
riconoscimento, secondo la classificazione precedentemente evidenziata, della tipologia
degli inserimenti in lingua inglese in pagine scelte dall’insegnante o da loro stessi.

La selezione di esempi che segue è stata tratta dai primi tre capitoli del romanzo Il
Partigiano Johnny e rappresenta un tentativo senza pretese di “lettura consapevole”
degli inserimenti in alcune pagine del romanzo:
 § …saliva suo padre, for several requests annotations e riferirgli le notizie locali
 + Se non vuoi pensare a te, pensa a noi, a tua madre: she agonized these last days
 § ! La voce pitched, ispirata
 § La non-joy del suo[del padre di Johnny] cammino
 + …a fine Settembre la trentenne natura si contorceva nei fits della menopausa
 * Sedeva… sulla cheap sedia di vimini
 + …nella discreta luce del rapidly-decaying pomeriggio
!
 !+
 !+
 !§
*
 !§
*
*
 !§
*
!
 !+
Ogni qualvolta il cammino era agevole e unhindered, J. le passava dietro
My moment with you is now ending
Lei finiva di vestirsi con unsteady hands
Death-sentencing and allowing fratture
Mortalmente pallido e sentendosi jelly
…vide un attimo la sua casa, con dentro i suoi genitori ignari e fidenti, forse
making the best enjoying of their own solitary wake
….i paraggi dell’Albergo Nazionale erano uno dei principali resorts
Cocito lo si vide some days after
Shook hands with an acheful intensity and pleasure
…sbirciando Chiodi così sideways
disse con hoarse epperò sofferto umorismo
i radi astanti si guardavano frowningly
 + He was not quite sure to meet Chiodi, to be willing to meet Chiodi
 ! § +I tedeschi haunted sporadicamente il main hotel
 ! § Poi Chiodi si lamentò dell’effetto del freddo sulle sue gambe, the black houndlike mute cold raiding the frosty pavé
 § appalling earliness di domani mattina
 + con voce indotta e faltering
 § una tetra notte previa d’un goalless giorno vuoto e fremitoso e senza fine
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Nota bibliografica
D. ISELLA, La lingua de Il Partigiano Johnny. Saggio introduttivo a Beppe Fenoglio, tratto dal volume B. Fenoglio,
Romanzi e Racconti, Einaudi, Torino, 1992
W. MAURO, Invito alla lettura di Fenoglio, Mursia, 1972
M. PIETRALUNGA, Due scrittori piemontesi e l’arte del tradurre, Florida State University, 1993
M. PIETRALUNGA, Beppe Fenoglio e la letteratura inglese: l’esaltante fatica del tradurre, Torino, Allemandi, 1992
G. SILVESTRINI, L’epopea de Il Partigiano Johnny, in L’isola del tesoro, rivista di cinema e letteratura
P i n t o r, Pavese e Vi t t o ri n i , il mito ameri c a n o
nella cultura italiana degli Anni Tre n t a
di Vincenzo Romano
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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In piena età fascista, negli Anni Trenta, la cultura italiana ebbe come una illuminazione improvvisa: d’un tratto, un pugno di intellettuali che ben si possono dire “d’avanguardia” mise il naso fuori del fortino autarchico della letteratura allineata per volgersi
a nuove sorgenti d’interesse che finalmente sprovincializzassero, anche sul piano civile,
la nostra cultura, boccheggiante tra disimpegno, accademismi di maniera, prosa d’arte e
poesia pura.
Non che fossero mancate, naturalmente, altre voci discordi, nei primi trent’anni del
secolo ventesimo, ma certo di scrittori di dimensione internazionale ne erano passati
pochi, sulla nostra scena letteraria, in grado di ritagliarsi uno spazio autonomo rispetto
alla ormai logora tradizione culturale e soprattutto rispetto alle “veline” di regime.
Pirandello e Svevo su tutti: ma il primo ebbe col regime un rapporto ambiguo, spesso
compromissorio, dettato dalla sua sostanziale indifferenza per le ideologie e in genere
per le dottrine che pretendono, più o meno sinceramente, di costruire società nuove; il
secondo, poi, restò sconosciuto fino al 1923, anno di pubblicazione de “La Coscienza
di Zeno”, e raggiunse fama stabile, sia in Italia che all’estero, solo molto più tardi e ben
dopo la sua tragica morte.
Forse i futuristi: che però, a parte gli esiti modesti della creazione letteraria, nell’ansia dello svecchiamento menarono indiscriminati fendenti che li portarono presto ai
limiti di uno sterile velleitarismo, immediatamente strumentalizzato dal fascismo.
Quanto ai poeti, più d’uno andava elaborando poetiche nuove fondate su tecniche altrettanto innovative, ma i più interessanti restavano chiusi - ancora? - nelle loro riflessioni
esistenziali e universalistiche, o deliberatamente assumendo posizioni di distacco orgoglioso (come Montale) o cedendo, per motivi vari, a compromessi ancora una volta
ambigui (come Ungaretti, di cui l’edizione del 1923 de Il porto sepolto - poi confluita
ne L’allegria - uscì con la prefazione di Mussolini).
E in genere gli intellettuali italiani, quasi tutti, non riuscirono a scrollarsi di dosso le
prospettive soffocanti della cultura “ufficiale”, pur magari per generosità d’intenti,
restando ingenuamente, improvvidamente miopi di fronte alla pianificazione di regime:
lo stesso Vittorini, che pure fu tra gli animatori del risveglio, fu lungamente “fascista di
sinistra” (e con lui Bilenchi e Pratolini), e tanti (fior di nomi: Pavese - un altro di quegli animatori - Pratolini, Guttuso, Gatto…) risposero comunque positivamente, a guerra già in corso, al tentativo di Bottai e del suo “Primato” di riassorbire il dissenso intellettuale in nome del superiore interesse della Cultura e del comune ruolo ideologico!
E invece un’illuminazione improvvisa, s’è detto. Forse fu solo uno squarcio, in
verità, e infatti fu in fondo assorbito con buona disinvoltura dalla stessa “cultura ufficiale” e perfino a livello politico, ma i più avveduti (soprattutto Pavese, il giovanissimo
Pintor e il pur contraddittorio Vittorini) intuirono la strada giusta e la indicarono: fu così
che nacque e attecchì, nonostante il terreno infecondo, il mito americano.
Era un mito potenzialmente eversivo, certamente; e i suoi due principali promotori,
Pavese e Vittorini, che lo sapevano bene, lo lanciarono sulla scena della cultura italiana
provocatoriamente, anche se entrambi “soltanto” in nome della difesa dei valori dell’umanesimo che la rozza barbarie del tempo presente e la stanchezza del mondo occidentale stavano uccidendo. Fu una battaglia di civiltà, insomma, e solo indirettamente poli-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
tica, poiché vedeva nella cultura il baluardo morale e civile da opporre al nefasto degrado dei tempi. Ebbene, Pavese e Vittorini identificarono in quella americana la nuova
civiltà da innestare in Europa perché restauratrice dei valori umanistici, di un umanesimo popolare, democratico, libertario; Giaime Pintor, poi, ancor più chiaramente indicò
il senso della “scoperta”: in un saggio del ’43 che recensiva assai positivamente l’antologia “Americana” di Vittorini, dal significativo titolo “La lotta contro gli idoli”, egli
contrapponeva alla tradizione europea la civiltà americana, scrivendo: ”Grava sulla
civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà materialistica. Civiltà di produttori:
questo è l’orgoglio di una razza che non ha sacrificato le proprie forze a velleità ideologiche e non è caduta nel facile trabocchetto dei ‘valori spirituali’; ma ha fatto della tecnica la propria vita, ha sentito nuovi affetti nascere dalla pratica quotidiana del lavoro
collettivo e nuove leggende sorgere dagli orizzonti conquistati” (1).
Una posizione ideale non molto lontana dall’“umanesimo scientifico” di cui parlerà
poco più tardi proprio Vittorini sul suo Politecnico, indicandolo come unica strada percorribile per un vero rinnovamento della cultura europea. Lo stesso Pintor, nella conclusione del succitato saggio, aggiunge: ‘‘Nelle nostre parole dedicate all’America molto
sarà ingenuo e inesatto, molto si riferirà ad argomenti forse estranei al fenomeno storico USA e alle sue forme attuali (2).
Ma poco importa: perché, anche se il continente non esistesse, le nostre parole non
perderebbero il loro significato. Questa America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei
primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori la
dignità della condizione umana” (3).
Non una condanna strettamente “politica”, come si vede, ma comunque esplicita
verso quei valori - o meglio, controvalori - degli “idoli” culturali europei che avevano condotto l’Europa, e segnatamente la Germania che vi si era identificata come guida, sull’orlo dell’abiezione morale e civile.
Sulla spinta della scoperta americana, lanciata da Pavese con un saggio su Sinclair
Lewis pubblicato su “La Cultura” nel novembre del 1930, molti furono gli intellettuali
che si lasciarono stuzzicare dalla curiosità per la cultura e la civiltà contemporanee del
“Nuovo Mondo”: da Soldati a Vittorini, appunto, da Cecchi a Prezzolini, da Barzini jr.
a Piovene, da Calvino alla Pivano: un’ondata che dagli anni Trenta si spinse fino ai tardi
anni Sessanta, seguendo tracce d’analisi diverse, naturalmente, e giungendo a conclusioni, altrettanto naturalmente, assai variegate.
Non si può ritenere un caso che molti degli scrittori che parteciparono alla “scoperta dell’America” furono anche i protagonisti, almeno inizialmente, di quella che sarà la
stagione del Neorealismo. Come sostiene la Vitzizzai, nel secondo dopoguerra gli intellettuali italiani, nel generale clima di rinnovamento collettivo, sociale e morale, cercarono di recuperare “una dimensione più ampia della loro funzione, tesa, ora, ad ottenere una convalida sociale”, operazione che “si traduce in una manifesta volontà di adesione alla realtà della società italiana con i suoi problemi di miseria e di arretratezza l’Italia del proletariato urbano e contadino, della guerra e del dopoguerra, i problemi del
sud, l’oppressione sociale - e nella ricerca di una ristrutturazione del linguaggio lettera-
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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rio e artistico adeguata alla rappresentazione di questa realtà” (4).
Proprio la ricerca di adesione alla realtà, strettamente connessa all’istanza politica
antifascista, costituisce in effetti la radice del neorealismo, la cui naturale collocazione
è sicuramente a monte del 1945, data della Liberazione. E si può rintracciare, appunto,
come ancora dice la Vitzizzai, “nella ricerca letteraria di Pavese, di Vittorini, di
Bilenchi, come riscoperta del regionalismo - ma in chiave europea, cosmopolitica - per
non cadere nelle secche ‘strapaesane’ a cui spinge l’antidecadentismo e il ‘populismo’
di una certa letteratura fascista” (5). Quella radice comune, insomma, si sviluppa propriamente in reazione al carattere autarchico-nazionalistico a cui il fascismo spinge la
cultura italiana, atteggiamento che orienta molti giovani intellettuali verso la cultura
prima europea e poi americana (6).
Una memoria di Fernanda Pivano ben sintetizza questo clima: la crisi di valori,
anche semplicemente letterari, che la sua generazione si trovò a dover fronteggiare negli
anni Trenta e che aveva portato a una “specie di paralisi dell’ingegno, della possibilità
creativa”, fece loro riconoscere nei libri che arrivavano dall’America un “soffio di speranza, la speranza di tornare uomini e di non essere più marionette, giocate e tirate dai
fili dei nostri marionettisti”.
Il generale clima dell’‘‘italianità ad oltranza” (che peraltro non si sapeva bene cosa
fosse!) aveva generato l’autarchia culturale fascista, per cui non era permesso fare arrivare libri ufficialmente dall’estero: e allora “noi ce li facevamo arrivare di nascosto (per
esempio, dal Portogallo ci arrivavano delle riviste nascoste in cassette di calze), questi
libri, che erano i libri proibiti”, proibiti non sempre perché parlavano male dell’Italia,
ma perché “il mondo che esprimevano era un mondo che non corrispondeva al concetto che noi dovevamo avere dell’italianità, che il mondo culturale di allora ci imponeva
di avere.” “Si capisce - conclude la Pivano - che in un mondo di quel genere, in cui
l’America era dileggiata come democrazia giudaico-massonica o come plutocrazia
decadente, quello che ci arrivava dall’America ci pareva un soffio di libertà” (7).
Secondo Fernandez, addirittura, la creazione del mito americano fu un “antidoto
contro la dittatura”, pur inteso come opposizione - appunto - all’autarchia culturale (più
che politica, insomma) imposta dal fascismo: “Senza il fascismo, la censura fascista, la
politica fascista d’autarchia culturale, gli intellettuali italiani avrebbero letto senza dubbio i romanzieri americani come li lessero in Francia o negli altri paesi d’Europa: ma
non ci avrebbero messo la stessa passione, non si sarebbero dedicati al lavoro ingrato
delle traduzioni, infine non avrebbero mitizzato quella terra lontana la cui prima qualità,
ai loro occhi, fu d’essere un ‘altrove’, un antidoto contro la dittatura” (8).
E anzi, “la censura fascista, proibendo o ritardando la pubblicazione di opere ritenute ‘decadenti’, ha innegabilmente favorito il mito dell’America” (9).
Del resto, come s’è detto, sul piano letterario già gli scrittori più giovani e più sensibili si sentivano, in quegli anni Trenta, in una situazione di crisi e di disagio. Lo ricorda Elio Vittorini nella pagina di apertura del suo “Diario in pubblico”, rielaborazione
più tarda di un articolo comparso nel 1929 sull’‘‘Italia letteraria” con il titolo “Scarico
di coscienza”: “Carducci e Pascoli non potevano averci insegnato nulla; tutte le loro
risorse erano state vinte, assorbite dal dilettantismo e da D’Annunzio; e D’Annunzio
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
stesso era finito miseramente in se stesso, ripetutosi, esauritosi spontaneamente, lasciandosi attorno il disgusto persino della parola. […] L’Estetica di Croce ci lasciava freddi
come una stella notturna, lontana nel ricordo e nell’astronomia letteraria; nessuno aveva
del resto bisogno di canoni artistici ma di una realtà palpabile, sicura, una terra a cui saldamente attaccarsi. […] Prezzolini, la Voce, non insegnavano nulla. […] Oggi un poco
guardiamo a Verga. Ma è certo che Verga abbia potuto influire, con la sua riservata arte
narrativa, sulla formazione del nostro temperamento? […] Di D’Annunzio non possiamo non sentirci migliori; […] ma da Verga lontani, diversi. […] Allora la letteratura dei
giovani […] è nata da un incontro fortunato e peregrino della nostra più pura originalità
grammaticale con la grande tradizione europea” (10).
E anche Pavese, parlando della sua opera, cioè del suo lavoro letterario, in un’intervista alla radio concessa in quello stesso anno 1950 che doveva tragicamente essere il suo ultimo, dice: ”Quest’opera, cominciata scontrosamente in pieno periodo
ermetico e di prosa d’arte, quando il castello della chiusa civiltà letteraria italiana resisteva imperterrito ai venti gagliardi del mondo, non ha sinora rinunciato alla sua ambigua natura, all’ambizione cioè di fondere in unità le due ispirazioni che vi si sono
combattute fin dall’inizio: sguardo aperto alla realtà immediata, quotidiana, ‘rugosa’,
e riserbo professionale, artigiano, umanistico - consuetudine coi classici come fossero contemporanei e coi contemporanei come fossero classici, la cultura insomma intesa come mestiere” (11).
Del disagio di Pavese parla anche Fernandez: “[…] lungi dal trovarsi a suo agio nell’ambito della cultura e della tradizione europee, Pavese vi soffoca. Vi soffoca perché il
fascismo ha sterilizzato in Italia questa cultura e questa tradizione, ma anche e forse in
primo luogo perché l’Europa, anche senza fascismo, gli sembra non possa più rispondere ai nuovi problemi che si pongono all’uomo moderno” (12).
Da qui, da questo bisogno di ‘sprovincializzazione’, e di rinnovamento della letteratura, si colloca l’intenso impegno culturale di Vittorini e Pavese, soprattutto, che
mosse nella duplice direzione del confronto con la cosiddetta letteratura europea “della
crisi” (Proust, Joyce, Kafka, Virginia Woolf) e delle traduzioni della narrativa nordamericana, specialmente di quella impegnata nel filone sociale e populista (Lewis, Dreiser,
Steinbeck, Faulkner, Caldwell, ecc.) (13).
S’è già detto, comunque, come la critica abbia oggi intuito quanto questo tipo di
opposizione antifascista restasse all’interno di un orizzonte ideologico essenzialmente
umanistico, “nei limiti di un discorso riferito ai valori metastorici della Cultura e
dell’Uomo, i limiti, d’altra parte, di una formazione culturale e ideologica che è di tutta
una generazione nutrita dell’idealismo di Croce e di Gentile” (Vitzizzai) (14). E ancora,
sempre in Vitzizzai: si trattò di “una generica avversione nei confronti della dittatura, in
nome di ideali e valori propri della tradizione liberale-democratica”, di “una reazione
istintiva, di ‘gusto’, contro la volgarità e la retorica di cui si ammanta[va]no le manifestazioni del regime” (15).
Insomma, l’atteggiamento culturale anche dei migliori intellettuali italiani non riuscì mai a sostanziarsi di una reale consapevolezza storica del significato dell’esperienza
antifascista, per quanto riguarda cioè “l’espressione di una consapevolezza delle ragio-
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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ni storiche della dittatura e il superamento perciò di un’ideologia umanitaria universalistica” (16). E siccome i migliori intellettuali italiani degli anni Trenta furono anche i
primi e forse ancora i migliori neorealisti del dopoguerra, ecco che limiti del neorealismo e limiti del mito americano finiscono per confondersi, perché originati in fondo
dalle stesse radici, morali più che politiche: “Nel discorso neorealista, indirizzato per lo
più alla rivendicazione di una generale giustizia e fratellanza umana, si rilevano i limiti
della coscienza politica del movimento, il quale, davanti alla complessità sociale della
nuova realtà italiana, non riesce ad andare oltre alle formulazioni di un ‘impegno’ ‘genericamente’ progressista e antifascista, vissuto in una direzione prevalentemente moralistica e sentimentale” (Vitzizzai) (17).
Quando si parla di umanesimo, però, occorre intendersi. Perché diverso è l’umanesimo in cui credettero, pur su posizioni diseguali, un Cecchi e un Praz, e diverso è l’umanesimo che personaggi come Pavese, Vittorini e Pintor discussero e, fondamentalmente, rivitalizzarono. E qui il discorso, pur sempre partendo da una riflessione culturale, scende finalmente anche sul terreno del dibattito politico, o almeno ideologico. “Un
tempo - scrive Pavese - esisteva in Italia una ‘cultura’ umanistica che diede lavoro e
dignità alla classe che l’aveva promossa nel corso della sua costituzione in classe dirigente. A questa cultura, signori, ecclesiastici, nobili e infine borghesi credettero come a
un comune ideale.
Le humanae litterae rappresentarono un campo di lavoro che significò ragione di
vita per questa gente. Esse sono tuttora la base della cosiddetta scuola classica.”
Tuttavia, continua Pavese, “tranne pochi specialisti, e forse un certo numero di
ecclesiastici, chi riesce più oggi, nei nostri mutati rapporti di classe, a proporsi nella vita
come serio, come utile, come esauriente, l’ideale dello studio umanistico, dell’‘‘uomo
umanistico”? Eppure esso è il termine ideale della cultura che s’impartisce nelle nostre
scuole. Ma quanto decaduto e, come tutte le cose inutili, incarognito! Non è difficile
dimostrare che proprio gli elementi umanistici di questa sua ormai superficiale cultura
furono l’addobbo festaiolo che permise alla borghesia italiana di ritrovarsi e compiacersi nella baracca del fascismo” (18).
Beninteso, Pavese si riconosce una base culturale profondamente classica, e di essa
ritiene non si debba e non si possa fare a meno. Già s’è visto come, nella citata intervista alla radio datata 1950, egli parlasse della sua “consuetudine coi classici come fossero contemporanei”; nella stessa intervista, più oltre, parlando del nuovo ruolo dell’intellettuale, cui spetta il compito di “impartire alle masse future, che ne avranno bisogno,
una lezione di come la caotica e quotidiana realtà nostra e loro può essere trasformata in
pensiero e fantasia”, ribadisce che “per far questo, va da sé che sarà necessario non essere sordi né all’esempio intellettuale del passato - il mestiere dei classici, - né al tumulto
rivoluzionario, informe, dialettale, dei nostri giorni.”
Perciò Pavese amò particolarmente, tra le sue opere, i Dialoghi con Leucò, costruito di “rapide battute dialogiche fra i due protagonisti di un mito classico, veduto e interpretato nella sua problematica e angosciosa ambiguità, penetrato nel suo nòcciolo
umano, spogliandolo di ogni bellurie neoclassica e trattandone i protagonisti come bei
nomi carichi bensì di destino ma non di un carattere psicologico a tutto tondo (19).”
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
E nella stessa pagina, parlando di sé in terza persona: “Prima che italiane le sue letture sono classiche e poi sovente straniere”, e giù a stilare una lista di autori a lui più o
meno cari, da Erodoto a Omero a Sofocle, da Shakespeare a Vico e fino a Melville (20).
Sulla stessa lunghezza d’onda si trova Vittorini, tanto critico verso il “vecchio”
umanesimo quanto fautore di un nuovo “umanesimo della scienza”. Se, infatti, da una
parte ritiene che l’umanesimo letterario persiste nella difesa di modelli superati (“Come
residuo del modello classico di cultura, l’umanesimo è ormai la cultura di una stirpe che
vive - pur ancora controllando, sotto specie politica, il presente - ad esemplificazione del
passato, tra fantasmi di piante scomparse, fantasmi di animali scomparsi, in funzione di
una umanità e di una società ancora esistenti come modelli formali, ma in realtà prive di
contenuto”), dall’altra, distinguendo appunto l’umanesimo letterario dall’umanesimo
della scienza, afferma la sua concezione della cultura come attività autonoma, ma
costantemente protesa verso il rinnovamento, e perciò non avulsa dal corso della storia
e dal progresso della scienza; a suo giudizio, dunque, è la prima cultura, l’Umanesimo,
che ha rifiutato la scienza fin dall’inizio (addirittura fin dal tempo di Galileo), e l’abisso si è approfondito: solo la scienza rimane protagonista ed agente del mondo nuovo, ed
è capace di sollecitare anche per suo conto un nuovo umanesimo (21).
Il fatto è che per Vittorini è importante una cultura aperta alle necessità del progresso ma non strumentalizzata, è valido soprattutto l’impegno ‘naturale’ dell’artista capace di risonanza nel tempo, e quindi di efficacia nel tempo. In varie occasioni, parlando
dei ‘libri che contano’, Vittorini, da moralista e da critico militante qual è, ribadisce che
“i libri che contano e gli autori che contano sono […] quelli che s’impegnano nel discorso sull’uomo, che agitano una viva problematica morale. Un alto concetto della letteratura e della poesia sostiene perciò le sue pagine.”
Ma “la ‘coscienza poetica’ non è facoltà d’evasione dai problemi, di astrazione nel
senso del disimpegno”, in Diario in pubblico si legge: “una nuova presa di coscienza
poetica può verificarsi solo in chi abbia bevuto alla feccia il miele e l’assenzio della
coscienza contemporanea”. Tornando, sul Politecnico (nn. 33-34 del 1946), a parlare di
letteratura americana (vi cominciò a pubblicare un profilo storico mai poi condotto a termine), Vittorini ne rivela una tensione morale violentissima, un carattere costante di
modernità: “Tutte le altre letterature conservano, pur nei loro aspetti contemporanei,
caratteri umanistici e medioevali.
Scriverne […] è scrivere anche dell’umanesimo e del medioevo, mentre scrivendo
dell’americana si scrive soltanto dell’età moderna e si può isolare la modernità in se
stessa, coglierla come tale, studiarla come soltanto tale”. “Il rilievo dato da Vittorini ad
autori come Poe, Hawtorne, Melville è il rilievo dato al tema dell’uomo in cerca di salvezza, di purezza” (22).
Il più lucido, forse, tra gli intellettuali italiani degli Anni Trenta - Quaranta fu però
Giaime Pintor; se non altro, è quello che ha lasciato il maggior rimpianto, per le enormi
potenzialità purtroppo rimaste pressoché inespresse a causa della precoce morte, a soli
24 anni, su una mina tedesca, nel 1943. Germanista di vaglia nonostante la giovanissima età, traduttore notevole di letteratura tedesca, fine critico letterario e teatrale e collaboratore di numerose riviste (Campo di Marte, Letteratura, Oggi, Primato), allo scop-
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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pio della guerra fu mandato sul fronte occidentale e fece parte del comitato di armistizio con la Francia e della missione militare italiana presso il governo di Vichy (gennaio
1943); dopo l’8 settembre partecipò alla difesa di Roma contro i Tedeschi, quindi si recò
al Sud per arruolarsi nell’esercito inglese. Il comando militare britannico voleva affidargli compiti di propaganda e comunque attinenti con la sua esperienza di intellettuale e
diplomatico, ma lui rifiutò: si trovava a Brindisi dov’era stanziato il governo Badoglio
quando, nel novembre 1943, decise di passare le linee, per raggiungere le forze partigiane, organizzarne la resistenza nel Lazio anche in base ad incarichi e istruzioni del
comando alleato, e comunque impegnarsi direttamente nella guerra. Morì subito, senza
mai combattere, mentre attraversava le linee.
La sua parabola intellettuale è esemplare, perché esprime in estrema sintesi tutte le
tappe della ‘svolta’ che Pavese e Vittorini maturarono nel corso di molti anni, attraverso dubbi e ripensamenti, incongruenze, polemiche, dibattiti e anche crisi rovinose (come
quella che portò Pavese al suicidio, per esempio). La guerra, per Pintor, fu uno shock
violento e improvviso, che gli cambiò decisamente la vita e gli illuminò la coscienza. In
una famosa lettera che egli scrisse al fratello Luigi, da Napoli, prima di partire per il suo
ultimo viaggio (23), Pintor spiega le ragioni della sua scelta, finendo per tracciare, a partire dalla sua, una radiografia della situazione più o meno generale degli intellettuali italiani di quegli anni: “Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari […].
Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non
so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada: c’era in me un fondo
troppo forte di gusti individuali, d’indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto
questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi
ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile. […] Una gioventù che non si conserva ‘disponibile’,
che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa.
A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una
organizzazione di combattimento. […] Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai
nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma
una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché
i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte. [...] Quanto a me, ti assicuro
che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo (24);
non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo.”
La coscienza dell’inerzia della cultura italiana (e anche tedesca), la crisi dei valori
dell’umanesimo tradizionale, l’esigenza di una diversa e maggiore adesione alla realtà e
della fondazione di nuovi valori umani sono alla base anche del suo già citato saggio
sulla civiltà americana (La lotta contro gli idoli, poi confluito nella raccolta postuma Il
sangue d’Europa) che risale al 1943; stigmatizzando l’atteggiamento degli antiquati
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
sostenitori (qui, in particolare, tedeschi) del mediocre estetismo umanistico, Pintor scrive: “Il fascino del deserto, l’esotismo, il cielo azzurro d’Italia restano i limiti di una poetica che da oltre un secolo basta a nutrire questi irriducibili filistei: nessuno di loro ha
capito che una fabbrica della periferia di Berlino può essere non meno ‘natura’ degli
scogli di Capri e che una finestra intravista dalle vetture dell’U. Bahn ha molto più diritto a essere ammirata di un ‘point de vue’ riconosciuto, come nei giardini barocchi.
L’universo romantico, questo pericoloso giocattolo per uomini difesi da una superiore ironia, è passato tale e quale nelle mani dei nipoti, ridotto a una formula comune e
venerato come un oggetto da museo. […] Così l’estetica romantica agisce come un
ingorgo nello sviluppo di una libera sensibilità e la politica romantica copre col suo
equivoco la sostanziale incertezza di un popolo cresciuto attraverso prove durissime, ma
a cui è sempre mancata una certa esperienza politica” (25).
Da qui, per contrasto, il riconoscimento della vitalità americana: “L’America non ha
cimiteri da difendere. In questa lotta contro gli idoli può riconoscere la sua missione:
nella lotta contro i gentili che continuamente riproducono il loro errore e oppongono
all’uomo un’ortodossia o un rito, una macchina politica o dottrinale” (26).
Questo l’umanesimo ‘progressista’. Ma ci fu, in quegli anni, anche un umanesimo
‘conservatore’, arroccato cioè nella difesa dei valori della tradizione umanistica più classica, e perciò poco o nulla disponibile a riconoscere le mutate esigenze dei tempi, che
richiedevano evidentemente anche un cambiamento nel punto di vista, nell’atteggiamento e nel ruolo degli intellettuali e della cultura, fino ad investire il significato stesso della
parola ‘civiltà’.
Accadde così che entrambi gli ‘schieramenti’, ugualmente dotati di forte spirito critico e intuito letterario, si accorsero delle prorompenti novità che in qualche modo giungevano dall’America e non le ignorarono nonostante la scarsa simpatia del regime, ma
gli uni le accolsero con entusiasmo facendone la bandiera di un mondo nuovo e di un
uomo nuovo, gli altri le respinsero con sdegno in nome della salvaguardia dell’umanesimo europeo.
Alfieri di questa tenace difesa della tradizione furono molti fini letterati, provenienti sia dal giornalismo letterario che dal mondo ‘ufficiale’ della cultura universitaria.
Anzi, in verità, la prima raccolta di saggi dedicati ad autori americani contemporanei fu pubblicata nel 1932 proprio da un ‘conservatore’, Carlo Linati, col titolo Scrittori
amgloamericani d’oggi; la raccolta ebbe una discreta risonanza e fu recensita favorevolmente da Alessandra Scalero su Leonardo del giugno 1932, ma la sua tesi era fondata
sulla contrapposizione tra la ricchezza e l’antichità della cultura europea e l’incultura
americana.
Pronta fu la stroncatura del libro da parte di Pavese! Clemente Fusero, nell’ottobre
1937, pubblicò su Frontespizio un saggio dal titolo Del romanzo americano: vi critica
negativamente i romanzi americani contemporanei, e particolarmente Hemingway, che,
secondo lui, non fanno che esprimere il disorientamento e la folle frenesia di gente che
ha perduto ogni concezione normale della vita!
Per i tipi di Einaudi uscì poi, nel 1938, un altro saggio sulla cultura americana, La
cultura americana e l’Italia di Angiolina La Piana, che ribaltava del tutto la questione:
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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si tratta infatti di un saggio non sul mito dell’America in Italia, ma sull’importanza
dell’Italia nella cultura americana!
Sul fronte opposto devono annoverarsi, invece, due libri importanti perché imparzialmente acuti nelle osservazioni critiche e nella lungimiranza concettuale. Nel 1936
uscì da Guanda Atlante americano, una raccolta di articoli e corrispondenze
dall’America di Giuseppe Antonio Borgese (poi confluita nel volume postumo La città
assoluta, Milano, Mondadori, 1962), non a caso molto lodata da Pavese, in cui l’autore,
ottimo romanziere e critico letterario, critica i luoghi comuni antiamericani, per esempio di Soldati e Cecchi, (povertà d’arte, civiltà meccanica, produzione di massa…) e
propone varie osservazioni intelligenti, come un’originale interpretazione dello slang,
ritenuto veramente conforme allo spirito dell’inglese, concludendo con una frase che
sicuramente dovette piacere a Pavese: “Pensare e scrivere americanamente vuol dire
pensare e scrivere in una prosa robusta e pragmatica, tutta prosa, tutta intesa a trasferirsi senza residui in convinzione e azione; noi conosciamo un sapore analogo, molte volte,
nell’antico latino”.
E così ricaccia la critica negativa dei ‘conservatori’ nel loro stesso campo, finendo
col sostenere, con Pavese appunto, che il nuovo umanesimo non solo non può fare a
meno di quello classico ma anzi ne è la vera reincarnazione moderna. Poco più tardi, nel
1940, Luigi Berti pubblicò per Parenti di Firenze Boccaporto, una serie di saggi sulla
letteratura inglese con l’aggiunta di otto studi su autori americani: sono saggi positivi,
che sottolineano la modernità della letteratura americana, la sua ansietà convulsionaria
e mistica e i temi della fuga e della scoperta del primitivismo dell’anima negra.
I capofila delle tesi conservatrici furono peraltro soprattutto tre: Soldati, Praz e
Cecchi. Mario Soldati, forse il meno profondo dei tre, fu però il primo a pubblicare un
reportage sull’America e perciò fu lui che introdusse in Italia quei pregiudizi e quei luoghi comuni non tanto sulla letteratura quanto piuttosto sulla civiltà, sul modo di vivere
e di pensare degli americani, che poi influenzarono in maniera determinante i giudizi di
tanti altri intellettuali italiani.
Il libro America, primo amore, uscito per Bemporad di Firenze nel 1935, è il frutto
di un soggiorno che il giovane Soldati effettuò come insegnante presso la Columbia
University nel 1930; e quest’esperienza fu rivissuta nel libro come una romantica avventura alla conquista della libertà. Non per niente, il geniale Pintor lo classificò come un
“libro lirico”, con l’implicita sottolineatura di tutte le inevitabili semplificazioni che un
tale atteggiamento comporta. Mario Praz fu autore di molti interventi sulla letteratura
americana, a partire da una serie di articoli-saggio poi raccolti in volume presso
Principato di Messina nel 1936 col titolo Antologia della letteratura inglese e scelta di
scrittori americani, mentre una seconda raccolta fu pubblicata più tardi, nel 1951
(Roma, Ed. di Storia e letteratura), col titolo Cronache letterarie anglosassoni.
Praz, fine letterato e altrettanto fine critico letterario, si arroccò nel tradizionalismo
umanistico italiano né per sciovinismo né per conformismo politico, ma perché realmente convinto della mancanza di gusto della nuova letteratura americana, riflesso di una
civiltà troppo tecnologica e spregiudicata per poter esprimere una vera ‘cultura’.
La sua, perciò, non fu una battaglia senza quartiere, ma un dibattito aperto non alie-
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
no da riconoscimenti di stima laddove egli ritenne che quella letteratura avesse offerto
un contributo effettivo al progresso delle lettere. Diversa la posizione di Emilio Cecchi,
che intervenne una prima volta nella questione nel 1935 con una raccolta di Scrittori
inglesi e americani, e che fu certamente il più battagliero, il più fiero avversario della
letteratura americana contemporanea.
Quando apparve il suo libro più importante, America amara, che aveva anch’esso la
veste del reportage, era il 1940, e anche a causa del ‘peso’ del prestigio del suo autore,
il più importante esponente della cosiddetta ‘prosa d’arte’, ebbe una notevole risonanza,
non solo nel mondo della cultura per così dire ufficiale. Quanto ai contenuti, anche ideologici, illuminante appare il giudizio, ancora una volta, di Giaime Pintor, che, nel ritenere il libro “il primo saggio importante delle reazioni della nostra intelligenza alle
forme ormai mature della cultura americana”, aggiunge: “America amara è un libro
esemplare. Puro di linguaggio come pochi scrittori europei e sensibile al valore della
parola attraverso una sottile educazione letteraria, Cecchi porta con sé i limiti della
‘regione’: subisce lo spazio come un ostacolo invalicabile.
La Toscana, questa regione troppo civile, è presente in ogni suo giudizio, e le figure ormai consuete del paesaggio toscano sono il limite di ogni altra terra. Viaggiatore
instancabile, egli è uno degli uomini meno capaci di adattarsi alle sorprese del viaggio,
uno dei più ostinatamente rinchiusi nei pregiudizi di una sola patria. Accanto a questa
inferiorità geografica Cecchi è trattenuto nel suo giudizio politico da un’altra remora: la
caratteristica inettitudine della sua generazione a comprendere tutti quei valori che sfuggono all’apprezzamento estetico, la tendenza a convertire i fatti del costume in pura
curiosità e le situazioni sociali in moti della fantasia. […] Cecchi ha raccolto scrupolosamente un museo di orrori, dove ha isolato malattie e decadenza e riconosciuto un
mondo a cui è impossibile prestar fede” ( 27).
In realtà Cecchi “non può rendersi conto […] del valore prezioso carico di spezie e
di oro che i nuovi vascelli hanno riportato dall’America. Egli si accanisce nella sua critica ai narratori americani su discutibili motivi filologici per giustificare quella che è
prima di tutto una incompatibilità esistenziale: l’incompatibilità di chi è cresciuto nell’aria condizionata con i liberi terreni d’America e di chi ha confessato troppo francamente il proprio rispetto dei ‘carabinieri a cavallo’ per poter comprendere gli impulsi e
le reazioni di una folla in tumulto” (28).
Gli stessi limiti ‘regionalistici’ sottolinea Fernandez: “I fautori della supremazia culturale europea, gli avversari del mito, provengono dalle due più antiche fortezze della
cultura italiana, Cecchi da Firenze e Praz da Roma. I creatori del mito, invece, provengono dalle regioni periferiche: Pavese dal Piemonte e Vittorini dalla Sicilia” (29).
Del resto, Fernandez rileva che già Pavese se n’era accorto, e ne cita una pagina del diario (5 marzo 1948): “Sfuggono [all’alessandrinismo della scuola romana]
gli estremi, Sicilia e Piemonte, che fascisti non furono e s’imbarbarirono e scoprirono oltremare - Vittorini e Pavese”. E Fernandez aggiunge: “il solo viaggiatore del
‘ventennio’ a entusiasmarsi per gli Stati Uniti è Giuseppe Antonio Borgese, un altro
siciliano. E Giaime Pintor, che porterà il mito al suo apogeo, è un sardo. Tutto si
svolge come se, a mano a mano che ci si allontana dalla cittadella della tradizione
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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umanistica, si diventi meno prigionieri di abitudini scolastiche, più aperti alle
avventure, più avidi di orizzonti nuovi” (30).
E, a proposito delle sagaci intuizioni di Pintor confrontate con la miopia di Cecchi,
Fernandez conclude: “Cecchi, in linea con la gente della sua generazione, vedeva
l’America come una coda alcoolizzata dell’Europa, come una vicissitudine aberrante
dell’umanità. Pintor capovolge i termini: è l’Europa ad essere malata, ed è l’America la
terra della ‘salute’. Né Pavese né Vittorini avevano osato affermare tanto: con Pintor la
parabola del mito si compie” (31).
Eppure, a Cecchi viene affidata la prefazione della più ricca e innovativa antologia
di scrittori americani fino ad allora pubblicata in Italia, curata da Elio Vittorini, l’opposto di Cecchi quanto alle opinioni sulla letteratura americana! In realtà, il ‘giallo’ è presto spiegato: Vittorini aveva preparato l’antologia per Bompiani già nel 1941, con una
prefazione tutta sua, ma la casa editrice non aveva potuto diffonderla perché poco in
linea con il gradimento del regime (una copia di questa edizione censurata era sicuramente in possesso di Pintor); perciò Bompiani trovò l’escamotage di sostituire alla prefazione di Vittorini una nuova prefazione di Cecchi, certo molto più accetto alla censura (e si ricordi che si era in pieno tempo di guerra), così che l’antologia poté finalmente vedere la luce con il titolo Americana l’anno dopo, nel 1942.
Ovviamente, stridente era il contrasto non solo tra la prefazione di Vittorini, almeno per quelli che l’avevano potuta leggere (ora è nel suo già citato Diario in pubblico),
e quella di Cecchi, ma anche tra questa prefazione e il tono di tutto il resto del libro, a
partire dalle introduzioni ai singoli autori, di pugno di Vittorini, e dalle firme dei traduttori, tra cui intellettuali di spicco della cultura dell’epoca (come Montale, Piovene, lo
stesso Pavese, oltre naturalmente a Vittorini), certamente aperti alle novità che provenivano da un Paese pur sempre in quel momento molto ostile. Ma evidentemente, data la
situazione critica, la censura non poté scendere troppo nel dettaglio perdendo tempo a
controllare anche il resto del libro!
Ciò non toglie che Cecchi vi abbia comunque espresso le sue solite opinioni tutt’altro che morbide. Ne citiamo due passi molto significativi, se teniamo conto che di solito la prefazione dovrebbe non dico condividere il contenuto del libro che introduce ma
quanto meno giudicarlo con imparzialità di critico e non decisamente stroncarlo, se non
altro per ragioni commerciali! Il primo: “Da un capo all’altro dell’antologia, lo spettacolo che ci viene offerto della vita è tragico, orrendo.
Troppe volte ho cercato di rintracciare caratteri e tendenze generali della vita americana, per poter evitar di ripetermi intorno alle ragioni che fanno apparire questa letteratura come dementata e percossa dal ballo di San Vito. Da una civiltà che, non da ieri,
ha come postulato supremo il benessere e la civiltà materiale, era ovvio che potesse
nascere soltanto un’arte di disillusioni, e disillusioni senza conforto” (32), dove peraltro
si riconosce a quella letteratura almeno lo statuto di arte e si condanna più che la letteratura la civiltà americana.
Il secondo passo: ricordando una “gara d’acrobazia, paracadutismo a alta velocità”
in aeroplano, in cui morirono a Miami il 4 dicembre 1937 i piloti Kling e Haines e le
successive parole della moglie di Kling (“povero Rudy, credo sia morto proprio come
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
avrebbe voluto. Lavorava tanto, per mandare avanti il nostro garage; e il suo solo, vero
divertimento era quando poteva andare con l’aeroplano”), Cecchi commenta: “Con un
freddino alla schiena, leggevo queste parole della donna, e pensavo che il giornalista
[che l’aveva intervistata] avesse voluto fare del Faulkner… E la verità è che, in America,
si può trovare del Faulkner in natura, così, bell’e pronto [proprio quello che sarebbe piaciuto a un Pavese! n.d.r.]. Si immaginino questi scrittori risoluti a battersi duramente,
proprio come un Kling ed un Haines; non frastornati da scrupoli e pastoie d’una austera tradizione secolare, incoraggiati a più osare dalle piccole minoranze inquiete, eccentriche, intellettualmente anarcoidi, alle quali del resto quasi tutto il loro successo si raccomanda: s’immaginino a manipolare questa feroce materia; e ad aggiungervi le crudeltà del proprio temperamento.
S’immaginino ad applicare, con la assolutezza e la brutalità di cui può essere capace un americano, i procedimenti della tecnica post-impressionista e post-simbolista:
appunto il ‘monologo interiore’, l’amalgama di realtà e sogno, l’asintattismo, le parole
libere, si completi con ciò che, come taglio, modi di presentazione, urti e contrasti, avrà
loro insegnato anche il cinematografo” (33).
Anche qui, peraltro, la competenza di Cecchi non può fare a meno di riconoscere
come artisti gli scrittori antologizzati, con i loro punti di riferimento anche nella letteratura europea e con le loro tecniche più o meno innovative; proprio quelle tecniche e quegli atteggiamenti che, come si è già detto, Pintor invece ritenne così tanto vitali.
Tutto quanto s’è detto è il terreno specifico su cui nasce e si sviluppa il mito americano, sono le motivazioni che lo generano in relazione al contesto italiano. In realtà, non
solo in Italia ma in tutta Europa, negli Anni Trenta-Quaranta del Novecento, l’elemento mitico-simbolico costituisce una delle componenti fondamentali della cultura letteraria e artistica, “alimentando - come scrive Luperini - quell’interesse per la razza, per il
primitivo, per l’origine, per l’aspetto antropologico, che è fondamento, per esempio, del
culto per l’America (come luogo del selvaggio e della natura) e degli studi sul mondo
contadino: significativo, per esempio, è il caso di Pavese che si occupa di narrativa americana, di Jung e della vita contadina. […]
Il tempo e lo spazio vengono mitizzati: gli spazi vengono trasformati in luoghi dell’anima o della condizione umana (la ‘terra desolata’ in Eliot, la Liguria aspra e arida e
i cieli cosmici di Montale, le Langhe di Pavese) e tendono così a divenire indeterminati, mentre il tempo diviene una dimensione della psiche o del ricordo” (34).
La dimensione mitico-simbolica è insomma manifestazione di una profonda esigenza che accomuna l’Europa degli Anni Trenta alla ricerca di nuovi punti di riferimento
dopo la grande crisi di certezze rivelata dal Decadentismo, sul piano culturale, e dallo
shock violento della prima guerra mondiale, sul piano storico. E’ allora che gli intellettuali più avveduti scoprono vie nuove ed elaborano quella dimensione mitica in un senso
clamorosamente controcorrente.
E’ allora che l’America prorompe sulla scena europea come il Paese ideale, come il
luogo leggendario dove l’utopia si può realizzare. E in Italia, a causa del suo particolare contesto, prima e più chiaramente che altrove. Ecco la descrizione di questo fenomeno nelle parole di Italo Calvino: “L’America. I periodi di scontento hanno spesso visto
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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nascere il mito letterario di un paese proposto come termine di confronto, una Germania
ricreata da un Tacito o da una Stael. Spesso il paese scoperto è solo una terra d’utopia,
un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune;
non per questo serve di meno, anzi gli elementi che prendono risalto sono proprio quelli di cui la situazione ha bisogno.
L’interesse per la letteratura degli Stati Uniti sotto il fascismo […] non fu evasione,
e nemmeno contemplazione esemplare, punto d’arrivo stabilito; la letteratura americana
fu (come scrisse Pavese) ‘il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti’, fu ciò che ‘ci permise in quegli anni di vedere
svolgersi, come su uno schermo gigante, il nostro stesso dramma’; ‘noi scoprimmo
l’Italia - questo il punto - cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in
Francia, nella Spagna’.
E davvero, quest’America dei letterati, calda di sangui di popoli diversi, fumosa di ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche, urlante di scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo complesso di tutti i fermenti e le realtà
contemporanee, un misto d’America, di Russia e d’Italia, con in più un sapore di
terre primitive - una incomposta sintesi di tutto ciò che il fascismo pretendeva di
negare, di escludere” (35).
America, Russia, Germania: sul piano del mito questi tre paesi assumono lo stesso
posto nell’immaginario costruito dallo sparuto ma pertinace gruppo di intellettuali d’avanguardia. E ancora una volta è Pintor a intuirne la determinazione dei ruoli: “La
Germania si è a poco a poco presentata nella riflessione come l’antitesi naturale di questo mondo [quello del ‘vecchio umanesimo’, o dei vecchi idoli, come dice lui] e in un
significato più esteso il suo specchio in Europa. Nessun popolo è più vicino a quello
americano per la giovinezza del sangue e il candore dei desideri e nessun popolo celebra con parole tanto diverse la propria leggenda.
Le vie della corruzione e quelle della purezza sono anche qui paurosamente vicine;
ma una continua follia trascina i tedeschi fuori della loro strada, li opprime in avventure disumane e difficili. Così questi due popoli, che pochi anni fa lottavano vicini nel
caldo degli stadi e cercavano il migliore esempio di un lavoro organizzato, si affrontano ora come i protagonisti di una lotta cruenta: essi hanno preso su di sé la responsabilità di dirigere il mondo e colpiscono senza ritegno gli ultimi ostacoli alla loro impetuosa natura. […] Da una parte e dall’altra sono impegnate forze capaci di correggere il
corso della nostra esistenza, di buttarci in un angolo come rottami inutili o di condurci
in salvo su una riva qualsiasi.
Ma l’America vincerà questa guerra perché il suo slancio iniziale obbedisce a forze
più vere, perché crede facile e giusto quello che si propone. Keep smiling, ‘conserva il
tuo sorriso’: questo ‘slogan’ di pace veniva dall’America con tutto un seguito di musiche edificanti, quando l’Europa era una vetrina vuota e l’austerità di costumi imposta ai
paesi totalitari scopriva soltanto il volto disperato e amaro della reazione fascista.
L’estrema semplicità dell’ottimismo americano poteva allora indignare quanti erano
persuasi del dovere di portare il lutto in segno d’umanità, quanti anteponevano l’orgoglio per i propri morti alla salute dei propri vivi.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Ma il grande orgoglio dell’America per i suoi figli di oggi sarà la consapevolezza
che essi hanno corso sulla strada più ripida della storia, che hanno evitato i pericoli e le
insidie di uno sviluppo quasi senza soste” (36).
Un popolo, dunque, che cresce anche grazie ai propri errori e perfino ai propri gangster, annullati grazie al suo continuo entusiasmo e alla sua positività. Un popolo che,
mentre in Europa si languiva nella cultura decadente o in “formule necessariamente
sprovviste di futuro”, “si esprimeva in una nuova narrativa e in un nuovo linguaggio,
inventava il cinematografo” (37).
Parlando del quale, Pintor sottolinea: “Pure anche qui capitalismo americano e proletariato russo si incontravano nella loro risoluta volontà di provare un mondo non ancora scoperto, di servirsi con fiducia e con energia dei nuovi strumenti dell’uomo. Nato
come industria di lusso, sottoposto alle più dure leggi dell’economia capitalistica, il
cinema americano doveva presto diventare il nutrimento di una massa anonima, esprimere i suoi bisogni e le sue preferenze, instaurare il primo colloquio tra le grandi folle
di tutto il mondo e una cultura unitaria” (38).
E’ evidente il rimpianto del germanista innamorato della cultura e della civiltà tedesca, che tuttavia è spietatamente polemico verso l’ottusità di quel ‘vizio fondamentale
dell’anima tedesca’ che è l’estetismo romantico, generatore dell’equivoco di una superiorità in realtà solo presunta: “In virtù di quell’equivoco è nato il regime nazionalsocialista, assurda perversione a cui si deve se un paese proletario vive secondo ideali piccolo-borghesi. Per quell’equivoco il più forte paese produttore d’Europa ha posto uno iato
incolmabile fra produzione e cultura, dirige la sua industria verso scopi di guerra, mette
nelle mani dei militari il miracolo dell’organizzazione” (39).
Su questo inconciliabile antagonismo di fedi e di dottrine si basa, secondo Pintor, il
conflitto tra America e Germania. Perché “ai mistici del focolare domestico” risponde
“un popolo di pionieri”: “e l’antico idolo di patria s’infrange, ritorna memoria dell’uomo, terra a cui si crede e si pensa, ma che non può renderci schiavi. Con lui periscono
altre sovrastrutture radicate nel profondo delle nostre abitudini, molte viltà e pigrizie
mascherate da nobili parole” (40).
Questa la missione dell’America: “A contatto di questa generosa missione l’utopia
del mondo nuovo riprende coraggio; ancora pura enunciazione nell’ideologia marxista,
si fa prova concreta dovunque l’uomo non cede agli oscuri pericoli della mistica e del
rimpianto, non si rifugia nella neutralità e nel disinteresse, ma affronta liberamente e con
i propri mezzi i compiti di un’esistenza problematica. Questo può avvenire in America,
può avvenire in Russia” (41).
E conclude il suo saggio con le parole che già altrove abbiamo citato, e che ripetiamo in questo contesto perché chiariscono perfettamente il valore simbolico della ‘scoperta dell’America’: “Questa America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori la dignità della
condizione umana” (42).
Da qui discende il compito degli intellettuali, almeno di quelli che abbiamo chiamato ‘progressisti’: “risultava ormai acquisita la coscienza di un compito pregiudiziale
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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esattamente determinato: […] la lotta per la difesa della civiltà non poteva avere un
carattere di conservazione, ma di rinnovamento, la lotta materiale doveva quindi essere
accompagnata da una lotta ideologica contro gli idoli della tradizione” (43).
E questo fu anche il momento di scegliere da che parte stare: se il regime, spiega
Luperini, “poneva gli intellettuali bruscamente di fronte alla scelta fra l’abdicazione a
qualunque mandato sociale e la strumentalizzazione più completa alla politica (culturale e non) del fascismo, non restava insomma uno spazio ideologico (e cioè politico-culturale) libero, ma solo la possibilità di un dominio ‘separato’ (e di fatto subalterno) della
cultura” (44).
I più scelsero la ‘separatezza’, in questo influenzati - sono ancora parole di Luperini
- dall’egemonia crociana ed ermetica, “costrette nelle sfere rarefatte della filosofia dello
spirito e della poesia dell’ineffabile. [Questa alternativa schiacciò la] vivace ma gracile
esperienza - volta in sostanza nelle due direzioni della ricerca di un nuovo mandato
sociale e della rivendicazione di un’autonomia ideologica nell’ambito del fascismo - dei
populisti degli Anni Trenta, i ‘fascisti di sinistra’”, tra i quali il solo Vittorini cercò,
come si è visto, nuove strade in nuovi miti.
Conseguenza logica fu che la maggior parte dei periodici politici si trasformarono
in periodici culturali (come Il Selvaggio, che si dedicò all’arte figurativa, per lo più),
mentre pochissimi osarono l’operazione inversa (e tra questi L’Universale di Berto
Ricci, che da giornale prevalentemente letterario trapassò, ovviamente per breve tempo,
in giornale politico); in ogni caso era la “riprova dell’impossibilità di qualunque discorso che volesse essere, nel contempo, politico e culturale; le scelte insomma si chiudevano, imponevano agli intellettuali termini definitivi: o la separatezza nella ‘cultura-laboratorio’ o la pesante eteronomia nella politica” (45).
Oppure la terza via dell’utopia del mito americano! Che soprattutto Vittorini e
Pavese costruiscono con la loro paziente opera di traduttori, di recensori, di divulgatori, di critici. E così, più o meno clandestinamente, penetrano nelle librerie italiane
sia autori ancora ottocenteschi, Hawthorne, Withman, Melville, Twain in particolare,
ma anche Irving, Cooper, Emerson, Poe, Thoreau, Emily Dickinson, sia - soprattutto i contemporanei, a cominciare da quelli che Pavese chiama i tre innovatori, Dreiser,
Lewis, Anderson, e poi Saroyan, Cain, Lee Masters, Scott, Fitzgerald, Dos Passos,
Gertrude Stein, Faulkner, Steinbeck, Hemingway, Wright, O. Henry. “Il mito
dell’America - scrive Luperini - di cui entrambi [Pavese e Vittorini] furono promotori
non portò solo all’assimilazione del realismo ‘americano’ (scarno, sobrio, sintetico,
fatto di frasi brevi e incisive), ma anche a sognare ideologicamente un’umanità totale,
un Uomo assoluto e universale, e dunque indeterminato, di cui si voleva cogliere l’essenza attraverso l’arte” (46).
O ancora lo stesso Luperini: “Il fascino che la narrativa americana ebbe agli occhi
degli europei (e anche degli italiani: si pensi a Pavese e Vittorini) sta proprio in questa
forza originaria, quasi primitiva, che dava l’impressione di andare alle radici dell’essenza stessa dell’uomo” (47).
E sempre Luperini, parlando della reazione degli scrittori italiani al fascismo, sottolinea come la vera novità, e perciò la vera reazione, si palesi proprio nei nuovi valori
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
positivi recuperati nella narrativa americana: “Se [i libri di Brancati, Moravia, Buzzati,
Piovene], nutriti di noia, d’angoscia, di scetticismo, sono gli esiti prevalenti della reazione degli scrittori al fascismo; se la volontà di conoscenza, che in loro tende a trasformare in moduli più fermi ed oggettivi il lirismo della prosa d’arte e le atmosfere magiche del novecentismo, approda in genere nelle loro opere ad un tono raggelatamente
disperato e a un senso di profonda impotenza; altre volte, però, la rivolta contro le ideologie si traduce in un realismo empirico e aideologico (48) capace di recuperare i valori positivi dell’esistenza o attraverso un senso affettuoso e cordiale della vita o attraverso il gusto dell’infanzia come avventura o come vitalistica gioia di vivere o attraverso
la scoperta dell’America assunta a mito di libertà. […]
Il mito dell’infanzia e dell’America nasceva negli anni ’30 da analoghe esigenze di
recupero di una vitalità (peraltro concepita più in termini idealistici e bergsoniani che
naturalistici) di cui soprattutto fu portatore il primo Vittorini, ma a cui non restò estraneo neppure il Pavese degli anni compresi fra Lavorare stanca (1936) e l’uscita di Paesi
tuoi (1941). E’ proprio Pavese, anzi, ad ammettere quale fu la ragione prima dell’americanismo suo e di Vittorini, ritrovandola nel culto del vitalismo, nell’‘‘amore sfrenato
della vita in quanto vita” (49).
In effetti è l’America di Roosevelt e del New Deal quella cui si guarda, un’America
dunque già di per sé foriera di nuove speranze dopo la grande crisi del ’29; e Pavese lo
sa bene, perché agganciando gli scrittori al loro contesto scopre proprio quella America:
“Tutta la vita dell’America dell’epoca di Roosevelt, Sherwood Anderson l’ha vista. C’è
piombato in giovinezza, l’ha vissuta e l’ha sofferta, - l’ha amata, - ha cercato in ogni
modo di sfuggirne ed un giorno s’è accorto che lui, fin dagli anni dell’infanzia, fin dal
padre, fannullone fantasioso, dalla nonna, l’italiana risoluta, terra e sangue, bevitrice e
centenaria, ne era sempre stato un evaso, un sognatore, un facitore di racconti” (50).
Magari il mito lo si alimenta anche solo considerando amaramente che proprio nell’anno del New Deal, il ’33, nella vecchia e cieca Europa prendeva il potere il nazismo
di Hitler. Di nuovo la sanità primitiva e ribelle della provincia americana di fronte alla
corruzione e alla degradazione di un’Europa antica e nobile ma incapace di accorgersi
dell’abisso nel quale stava per precipitare (51).
Già Pintor delinea i contorni del mito: “L’America è stata sempre da noi oggetto di
una valutazione unitaria: forse la sua compattezza geografica e la distanza sul mare
hanno contribuito a creare questo mito di un paese che cresce come un unico corpo e si
configura e si atteggia secondo abitudini proprie. Emigranti arrivavano da tutte le terre
d’Europa, ma la grande voce dell’America copriva presto il frastuono delle lingue diverse e confondeva in un’unica razza i popoli lontani. Architetture sorgevano di fronte ai
due oceani diverse da quelle delle nostre città. E quando questo slancio del vivere superò
la sua fase iniziale, uscì dalle praterie e dalle miniere per farsi industria e potenza, la
curiosità indulgente degli europei si coprì di un tono polemico, finché parve a qualcuno
che un vero conflitto fosse sorto tra le due civiltà, simile all’urto violento e inevitabile
delle età successive” (52).
E Vittorini, nell’introduzione alla sua Americana che fu poi espunta a causa della
censura, “segnava i confini del territorio americano, ne mitizzava lo spazio e la storia,
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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fissava, per gli scrittori nostri, i procedimenti di immedesimazione con quel paese e quel
mito (gli ‘astratti furori’, il ‘ruggito dell’iperbole’)” (53): “Pensiamo sull’Atlante l’immensità dei popolati colori, le pianure, le montagne, le nevi eccelse sulle montagne, e su,
nel nord, i ghiacci marini, e i chilometri delle coste in faccia ai due oceani con quei due
grandi nomi, Atlantico, Pacifico, e in ciò l’antico iddio, il deserto, e le vie d’acqua, le vie
di ferro, le vie d’asfalto, le case, le case, le case. […] Sembra che i Padri Pellegrini fossero venuti dall’Europa pieni di delusioni e stanchezza: per finire, non per cominciare.
Delusi del mondo non volevano più il mondo; solo astratti furori li agitavano, l’idea
della grazia, l’idea del peccato, i pregiudizi feroci del dualismo calvinista. E non avevano più la forza di affermarli nelle vecchie città delle lotte religiose; fuggivano come se
non vi credessero, come se vi rinunciassero. Ma lì, su quelle coste coperte di alberi dal
legno duro, era di nuovo il mondo: lo videro e furono di nuovo nel mondo, accettando,
poi anche ringraziando, e dalla stanchezza passarono via via alla baldanza, alla fede. […]
Qui c’è, continuo, il ruggito dell’iperbole, che indicherà gli sviluppi interiori dell’uomo in America” (54).
Subito Pavese gli scrisse, da Torino, per esprimergli non solo solidarietà contro il
provvedimento della censura, ma anche ammirazione per la sua operazione culturale, di
cui riconobbe facilmente il fondamento: “Siccome questa tua storia non è stata una caccia alle nuvole ma un attrito con la letteratura mondiale (quella letteratura mondiale che
è implicita, in universalità, in quella americana - ho capito bene?), risulta che tutto il
secolo e mezzo americano vi è ridotto all’evidenza essenziale di un mito da noi tutti vissuto e che tu ci racconti” (55).
Lo stesso Pavese, scrivendo all’amico Antonio Chiuminatto, un piemontese trasferitosi con la famiglia in America all’età di quattro anni, grazie al quale imparò l’inglese, da cui si faceva ragguagliare sulle novità letterarie e da cui si faceva mandare i libri
introvabili in Italia, riconosce senza mezzi termini: “Vi è toccato il predominio in questo secolo su tutto il mondo civilizzato, come già accadde alla Grecia, e all’Italia, e alla
Francia. […] Un buon libro europeo d’oggi è, in genere, interessante e vitale solo per la
nazione che l’ha prodotto, laddove un buon libro americano parla a una folla più vasta,
scaturendo, come scaturisce, da necessità più profonde e dicendo cose veramente nuove
e non soltanto più originali…” (56)
Ed ecco dunque il grande fervore delle traduzioni, cui soprattutto Pavese e Vittorini
si dedicarono - anche per sbarcare il lunario, per la verità, tanto che spesso essi dovevano assoggettarsi a tradurre anche libri mediocri, e solo così ottenevano di poter tradurre
i libri da loro prediletti, per giunta quasi gratis perché dagli editori ritenuti poco commerciali quando non pericolosi! (57)
Zanobini sottolinea il duplice valore di novità delle traduzioni di Vittorini, linguistico in prima istanza: “Egli pone allora il grosso problema di costringere a una nuova flessibilità questa nostra lingua rigida, che la narrativa non riesce mai a esorcizzare, perché
suona così falsa; basta poi pensare, appunto, al gusto narrativo che imperava in quei
tempi, così poco articolato, vorremmo dire così terribilmente asettico, così arido” (58).
Anche, però, se non soprattutto, culturale e civile: “Ma le traduzioni di
Vittorini […] contano anche come impulso culturale e messaggio sociale in un
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
determinato tempo. Tradurre Caldwell e Saroyan nel 1940, in quella congiuntura storica, aveva un significato. In un’intervista televisiva del 1965, Vittorini riconosceva questo: ‘Non ritradurrei certamente Caldwell e forse nemmeno Saroyan. Ma se la congiuntura storica fosse per l’Italia e la sua letteratura ancora quella di venticinque anni fa,
credo che ritradurrei tutti quanti’“ (59).
Il fatto è che “agli occhi del Vittorini americano - scrive Fernandez - la letteratura
americana si presenta come il grande spettacolo di una lotta tra le forze del male e le
forze del bene, tra i vecchi pregiudizi, i tirannici divieti che cercano di soffocare l’uomo, e la giovanile ferocia dei liberatori dell’uomo”, dove peraltro “l’America che
Vittorini ha scoperto è una copia del suo universo interiore. La concezione della vita
come lotta tra le forze che turbano e avviliscono l’uomo e le forze che lo redimono,
appartiene a Vittorini assai più che a qualunque americano” (60).
E’ lo stesso Vittorini, del resto, a fornire un documento prezioso della mitizzazione simbolica dell’America, che diventa immagine eterna e universale della condizione umana: “L’America è oggi una specie di nuovo Oriente favoloso, e l’uomo vi appare di volta in volta sotto il segno di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo
o curdo, per essere sostanzialmente sempre lo stesso: ‘io’ lirico, protagonista della
creazione, Quello che nella vecchia leggenda è il figlio dell’Ovest, e viene indicato
come simbolo dell’uomo nuovo, ora è il figlio della terra. E l’America non è più
America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. Ma le particolarità vi giungono da
ogni parte, e vi si incontrano: aromi della terra: la vita vi si sofferma coi gesti più semplici, e senza mai sottintesi ideologici, intrepidamente accettata anche nella disperazione e nella morte” (61).
E, nella sua universalità, tra le maglie della leggenda americana emerge l’uomo
nuovo che fonderà il nuovo umanesimo; e qui è la grande novità. Perché l’uomo nuovo
non è, romanticamente, il superuomo, tutt’altro: è, come dice Fernandez, “un uomo
medio, fratello a tutti gli uomini.” Forse, continua Fernandez, Pavese e Vittorini travasarono anche i rispettivi problemi personali nello “stampo dell’uomo nuovo”: per
Pavese, “contrariamente all’uomo dell’umanesimo, che non dubita della superiorità
delle città e della civiltà urbana, l’uomo nuovo è colui che fugge i grandi agglomerati e
ricerca una vita più semplice, a contatto con la natura.” Per Vittorini, invece, “il problema è quello del Mezzogiorno, delle minoranze oppresse.” “Pavese, dunque, ricava i suoi
modelli dai vagabondi di Sinclair Lewis, dai fuggiaschi di Sherwood Anderson (e
sopravvaluta questi due scrittori), mentre Vittorini si riconosce nei poveri bianchi del
Sud di Caldwell, negli armeni di Saroyan, negli italo-americani di John Fante (e sopravvaluta, a sua volta, questi tre scrittori)” (62).
In generale, comunque, si può dire che per entrambi ‘uomini nuovi’ sono quelli che
in passato non avevano diritto di cittadinanza nella letteratura: “gli operai e i contadini,
innanzi tutto, e i disoccupati, i ragazzi traviati, i banditi, gli assassini, le vittime e i relitti del determinismo economico. Niente operai-eroi alla Zola, né monelli romantici: soltanto la miserabile plebe stritolata dagli ingranaggi del sistema capitalistico, alla quale
bisogna restituire la propria dignità umana o almeno far prendere coscienza di tale
dignità.” “L’uomo nuovo, che Pavese e Vittorini scoprono in America e introducono
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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nella cultura italiana, […] non è altro, in fin dei conti, che l’uomo universale, l’uomo
che può essere capito da tutti, senza limitazione di classe sociale, di condizione economica o di cultura, l’uomo la cui ‘umanità’ esclude ciò che non è fondamentale, elementare e comune a tutti.” Perché “nel romanzo borghese vengono mostrati soltanto uomini che hanno l’opportunità, il gusto e i mezzi intellettuali per analizzarsi; è necessario,
per capire e apprezzare pienamente gli uomini, essere di per sé a un buon livello di cultura. Il romanzo americano rivela un’altra varietà di uomini: quelli che non sanno leggere né scrivere, incapaci di osservare e di capire ciò che dentro di essi avviene, ma non
meno uomini nella misura in cui, privi del mezzo esorcizzante dell’analisi, soffrono più
a fondo le loro passioni e sopportano più crudamente i loro bisogni” (63).
Il documento più convincente, forse, per capire il ‘mito’ americano resta un breve
saggio di Pavese, dal titolo Ieri e oggi, pubblicato su L’Unità di Torino il 3 agosto 1947
(64): un’analisi del fenomeno sia nelle sue radici sia nel suo tramonto, nella sua tragica
perdita di attualità. Si comincia dagli albori: “Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere la ‘speranza del mondo’, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei
suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente.”
Da cui l’indignazione della cultura ufficiale e la tolleranza a denti stretti del regime
ma, nonostante tutto, il successo delle traduzioni di quei libri presso il pubblico: “i nuovi
libri e i loro argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle pagine tradotte, riuscirono irresistibili a un pubblico non ancora del
tutto intontito dal conformismo e dall’accademia.” Così l’incontro con gli americani
“per molta gente aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella
cultura del mondo finisse coi fasci.” Anche se la vera lezione, per chi seppe leggerla, fu
più profonda: chi ci riuscì “si capacitò presto che la ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da
un’aspirazione severa e già antica di un secolo a costringere senza residui la vita quotidiana nella parola.
Di qui il loro sforzo continuo per adeguare il linguaggio alla nuova realtà del
mondo, per creare in sostanza un nuovo linguaggio, materiale e simbolico, che si giustificasse unicamente in se stesso e non in alcuna tradizionale compiacenza.” Ecco: la
grande scoperta dell’America è nel linguaggio, come già abbiamo visto anche nell’intuizione di Vittorini, consapevole di aver influito sui giovani, con le sue traduzioni, più
per la creazione di un nuovo linguaggio che per i contenuti, pur di per sé rivoluzionari
per la cultura italiana.
L’altro grande aspetto della scoperta è poi, concettualmente, che la vitalità del mito
americano è proprio nella letteratura: gli ambienti in cui si sviluppano i romanzi americani sono sì soffocanti, oppressivi, discriminatori, ma nella letteratura torna la speranza,
la volontà di lottare, o anche solo di denunciare. Nel saggio dedicato a Sinclair Lewis,
Pavese rivela, a proposito dei tanti ubriaconi che ne popolano i romanzi,: “In fondo, la
sete di questi personaggi è una sola: la libertà. Libertà per gli individui di fronte alle
catene irragionevoli della società. La malattia nazionale dell’America, paese, se altri
mai, dei ficcanaso moralisti.” E subito dopo: “La ricchezza e la varietà del mondo di
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Lewis stanno in questo: gli innumerevoli atteggiamenti con cui egli contempla lo spettacolo dell’umana giornaliera ribellione all’ambiente e a se stessi” (65).
Come si vede, non c’è rigidità nella contrapposizione tra sanità americana e corruzione europea, perché quel che di sano si riconosce nella società americana è proprio la
lotta contro i meccanismi che hanno generato in Europa la corruzione, cosa che in
America, forse perché ancora primitiva, è possibile fare mentre in Europa non è possibile perché non vi si riconosce nemmeno la negatività di quei meccanismi.
Questa che è una semplice anche se geniale intuizione, si trasforma in senso apocalittico in Pintor. Lo rileva Fernandez, con altrettanto felice intuizione critica: “Pintor è
prima di tutto un germanista. […] Ed ecco che vede tutta questa meravigliosa cultura
tedesca impotente a impedire il naufragio della civiltà germanica nelle follie sanguinarie del nazismo. La sventura non è soltanto nell’essere italiani: è anche nell’essere europei. Occorre diffidare della cultura classica, non più e non solo a causa del problema
umano della Sicilia o del problema tecnico della lingua, non più e non solo perché la
maggioranza non vi può accedere affatto o perché essa non è in grado di rispondere alle
esigenze dell’uomo moderno. Bisogna diffidare della cultura classica e condannarla perché la stessa Europa è condannata, sia nelle sue democrazie, sia nelle sue dittature
dementi. Atto di fede politico ancor più che letterario, il mito di Pintor è carico di tutte
le disillusioni che verranno” (66).
Proprio così: disillusioni. Cioè: la scoperta e la diffusione del mito americano conteneva già in sé la coscienza del suo fallimento! Del resto, nessuno dei tre, né Pavese né
Vittorini né Pintor hanno osato parlare ed anzi nemmeno trarre le conseguenze della
‘nuova leggenda’. Perché? Perché essi avevano bisogno di una leggenda del tutto ottimista, ma avevano intuito che, al contrario, l’uomo nuovo della leggenda americana, pur
ricco della vitalità di una denuncia sincera e profonda, era, appunto, vittima e non eroe
della società nella quale viveva e che perciò quella società, quell’America che doveva
ergersi in contrasto con l’Italia fascista che soffocava e alienava l’uomo, non era poi
davvero libera e democratica. Sarebbe, viceversa, stato “necessario che l’uomo scoperto in America e proposto all’Europa come modello [fosse] fiero della sua qualità di
uomo, fiero e felice della sua nuova dignità di uomo infine conquistata” (67).
L’intuizione definitiva, a questo proposito, fu di poco posteriore, ma non venne
dall’Italia; si deve invece a Claude-Edmonde Magny, una giovane intellettuale francese
purtroppo morta prematuramente nel 1966. Nel suo L’Age du roman americain, un libro
ormai classico del 1948 (68), parlando dei personaggi di Dos Passos (un autore non a
caso poco o nulla considerato dai nostri) la Magny si accorge che, poiché essi sono
governati dal triplice determinismo della fame, del sesso e della classe sociale, la loro
“vita interiore non esiste, l’apparato psicologico non offre realtà alcuna, la coscienza
non ha importanza.”
L’uomo nuovo, ben lungi dall’apparire libero e invidiabile, è prigioniero di una doppia fatalità: “I personaggi di Dos Passos sono sempre guidati da un determinismo qualsiasi, generalmente economico. Essi realizzano pressoché allo stato puro l’esse in alie num di Spinoza, riveduto attraverso Marx… Ogni loro realtà è al di fuori di essi. Così
[…] il ritratto di questi esseri senza consistenza costituisce la miglior requisitoria che si
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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possa pronunciare contro la società che li ha prodotti e come fabbricati, senza essere
capace di condurli al vero essere. La descrizione di creature superficiali, bidimensionali, ridotte alle loro determinazioni più intrinseche, è già di per sé una satira, un porre
sotto accusa l’ordine costituito.” Anche se, in realtà, la rivolta contro la società “è solo
il mascheramento di una rivolta metafisica”: “Dall’opera di Dos Passos si leva una protesta muta, non soltanto (come egli senza dubbio ritiene) nei confronti del capitalismo,
ma anche avverso la condizione umana e il mondo quale è, vale a dire in definitiva contro la struttura dell’Essere.”
Invece, l’uomo nuovo come lo pensava Vittorini “è un uomo - scrive Fernandez - di
sangue e lacrime, e di astratti furori rigeneranti, un uomo traboccante di coscienza e talvolta anche di buona coscienza, insomma un romantico, ben più vicino ai vecchi ‘clichés’ romantici europei che al freddo nichilismo americano. L’errore che consiste nel
vantare gli Stati Uniti come la patria ideale dell’uomo liberato, non sarebbe grave: ogni
popolo oppresso ha bisogno di trasferirsi, con l’immaginazione, in un mondo migliore.
La mitizzazione dell’America in senso ottimista e sentimentale arreca un torto più
grande alla cultura italiana: la culla con frasi vuote, tanto vaghe quanto adulatorie, sull’uomo nuovo; la pasce di speranza fallace; la orienta verso una retorica sull’uomo invece di costringerla a una conoscenza dell’uomo. E questa deformazione idealizzante,
quando i tempi saranno cambiati e non sarà più possibile negare l’insuccesso della
‘nuova leggenda’, avrà le conseguenze tragiche o dannose che si sanno: per Pavese, il
suicidio; per Vittorini, l’interruzione della vitalità creativa” (69).
Peraltro, sia in Pavese che in Vittorini non mancano note premonitrici, o addirittura
prese d’atto del tramonto del mito americano. Per esempio Vittorini già nel 1941, in una
lettera a Pavese, giudica il romanzo Paesi tuoi “di gran lunga migliore dei libri di
Steinbeck” (70), e più chiaramente sul Politecnico, nel 1945, pubblica una serie di articoli e racconti molto significativi, sia nei titoli che nei contenuti: “Pericolo fascista in
America”, di William Forster; “U.S., paradiso e no”, di Michael Gold (il cui vero titolo doveva essere “Strano funerale a Braddock”); “L’America non è sempre il paradiso”,
di Henry Miller (71).
Pavese, poi, è ancora più esplicito. Nel 1943, recensendo l’Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters appena tradotto da Fernanda Pivano e pubblicato da Einaudi, scrive: “Parlare di questo libro è risalire alla fonte di qualcuna delle più vivide esperienze
poetiche della nostra giovinezza, al periodo eroico in cui gettammo per la prima volta lo
sguardo su un meraviglioso mondo che ci parve qualcosa di più che una cultura: una
promessa di vita, un richiamo del destino. Storia passata. Ma siamo grati alla giovane
traduttrice per averci […] messi di fronte a quest’immagine perduta di noi stessi” (72).
Siamo ormai alla vigilia della Liberazione, e quando essa avviene, come dice
Fernandez, “l’America cessa di sembrare un paradiso nel momento stesso in cui l’accesso ad essa non è più interdetto” (73).
Ancora: nel 1946, parlando di un libro di F. O. Matthiessen che risaliva però al
1941, dal significativo titolo di American Renaissance, Pavese puntualizza che quella
che ai giovani scrittori americani per primi, e poi a loro intellettuali italiani che ne avevano trasmesso il mito, era parsa una grande novità, con protagonisti uomini “sgombri
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
di ogni bagaglio del passato, freschi e disposti a camminare sulla libera terra”, era in
realtà solo un’illusione: “quei giovani americani s’eran sbagliati. La loro esplosione non
fu la prima né, soprattutto, la maggiore della storia americana.
A loro era parso diversamente, perché quando ci si rivolta si ha pur bisogno dell’illusione di fare una cosa inaudita; e noi li avevamo creduti, anche perché sedotti dal loro
umano calore. Ma in realtà non fu la cultura americana a rinnovarsi a fondo in quegli
anni; fummo noi a toccarla seriamente con mano la prima volta” (74).
Come si vede, Pavese comincia a delineare il fenomeno nei suoi veri, più reali, contorni; ovvero, il mito sta ormai svanendo. Nel maggio 1947, recensendo alla radio
Ragazzo negro di Richard Wright, Pavese torna indietro con la memoria agli anni del
grande ‘entusiasmo americano’, ma per considerare conclusa quella esperienza: “Sono
finiti i tempi in cui scoprivamo l’America. Nel giro di un decennio, dal 1930 al 1940,
l’Italia non solo ha fatto conoscenza di almeno mezza dozzina di scrittori nordamericani contemporanei i cui nomi resteranno, ma ha riesumato qualcuno dei classici ottocenteschi di quella letteratura e intravisto la radicale continuità che corre sotto tutte le manifestazioni passate e presenti di quel popolo.
Fu anche il decennio in cui parve che musica e cinematografo dessero un originale scossone alla nostra viziata sensibilità europea. Alla scoperta non mancò nemmeno quel brivido di liberazione e di scandalo, ch’è inseparabile da ogni incontro con
una nuova realtà e che il clima politico italiano ed europeo faceva del suo meglio per
incutere. Ma ora è finita. Ora l’America, la grande cultura americana, sono state scoperte e riconosciute, e si può prevedere che per qualche decennio non ci verrà più da
quel popolo nulla di simile ai nomi e alle rivelazioni che entusiasmarono la nostra giovinezza prebellica” (75).
E aggiunge che gli stessi americani hanno capito di aver “smarrito quella miracolosa immediatezza espressiva, quel nativo senso della terra e del reale, quella cruda saggezza”, tanto da dedicarsi ormai più a lavori di studio e di catalogazione che non a nuove
opere originali, anche perché perfino gli scrittori appena ‘scoperti’ “per ora non aggiungono [più] nulla alla nostra malizia di scaltriti europei” (76).
E anzi, i romanzi che giungevano dall’America in quegli anni, a riconoscere la
verità, erano tutti di anni precedenti alla guerra, come appunto Ragazzo negro, che era
uscito in America nel 1937.
Lucida analisi di esperienze ritenute bellissime e importanti ma passate, dunque, se
non disincanto, o addirittura disillusione, come del resto s’è già detto. Il 3 agosto 1947,
pochi mesi dopo la recensione su Wright, Pavese, nel già citato articolo pubblicato su
L’Unità di Torino dal titolo Ieri e oggi (anch’esso significativo), è decisamente più duro,
anzi definitivo nel suo giudizio, in cui non solo torna a riconoscere come le ragioni della
scoperta americana siano soprattutto storiche e contestuali (77), ma in più si chiede che
cosa sia veramente cambiato da allora: “Siamo noi che invecchiamo o è bastata questa
poca libertà per distaccarci?” Certo, si continua comunque ad amare quei libri, ma l’eroico trasporto che aveva accompagnato la scoperta non c’è più. Perché? L’analisi di
Pavese, qui, si fa spietata: “A esser sinceri insomma ci pare che la cultura americana
abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avan-
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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guardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine,
o sospensione, della sua lotta antifascista. Cadute le costrizioni più brutali, noi abbiamo
compreso che molti paesi dell’Europa e del mondo sono oggi il laboratorio dove si creano le forme e gli stili, e non c’è nulla che impedisca a chi abbia buona volontà, vivesse
magari in un vecchio convento, di dire una nuova parola.
Ma senza un fascismo a cui opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da incarnare, anche l’America, per quanti grattacieli e automobili e soldati produca,
non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura. Senza un pensiero e senza lotta progressiva, rischierà anzi di darsi essa stessa a un fascismo, e sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori” (78).
Da allora in poi, praticamente Pavese e Vittorini non si occuparono più di letteratura americana. L’ultimo atto doveva essere, forse - come già s’è ipotizzato - il drammatico suicidio di Pavese. Ma certo, come non sbalordire di fronte a queste ultime parole,
a questa frase da brividi, inquietamente profetica a guardare gli sviluppi della storia successiva, e fino a quella recente dei nostri ultimissimi giorni?
Note
1 G. PINTOR, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1950, p. 155
2 Cfr. a questo proposito E. C. VITZITZZAI (a cura di), Il neorealismo, Torino, Paravia, 1977, p. 122, in cui si ribadisce che l’America cui si guarda è solo un concetto ideale: ‘‘Il paese proposto come ideale modello ha pochi riscontri oggettivi nei caratteri storici, reali degli Stati Uniti del New Deal e del fordismo. Non sarà inutile ricordare che
proprio negli stessi anni, dagli opposti versanti dell’analisi marxista (con Gramsci) e di quella del grande capitale italiano (con Agnelli), si guarda agli Stati Uniti con un interesse ben altrimenti concreto, e cioè incentrato sugli aspetti
strutturali, economico-produttivi e sociali, della realtà americana. Viceversa per due generazioni di intellettuali “americanisti” - quella di Cecchi e quella di Pavese e Vittorini - il problema degli Stati Uniti si limita ad essere un problema di ‘cultura’, di ‘civiltà’, un mito letterario in definitiva, negativo per l’uno, positivo per gli altri”
3 G. PINTOR, op. cit., p. 159
4 E. C. VITZTIZZAI, op. cit., pp. 3-4
5 Ivi, p. 4
6 Che l’esigenza di realismo si sia sposata all’opposizione antifascista lo dimostra anche la pittura dei tardi anni
Trenta, in particolare la Scuola Romana (Scipione, Mafai, il giovane Guttuso) e il gruppo di Corrente, a Milano
(Treccani, Sassu, Birolli, Migneco, Cassinari, …), uniti non tanto da un certo indirizzo figurativo, ma dalla stessa
ribellione morale di fronte ai crimini fascisti in Spagna (Fucilazione nelle Asturie di Aligi Sassu; Fucilazione in
campagna di Renato Guttuso, con allusione evidente alla morte del poeta spagnolo Garcia Lorca fucilato dai franchisti). Il filone “realistico”, poi, si sviluppò in quegli anni anche nel cinema, in contrapposizione polemica a quello evasivo e commerciale dei “telefoni bianchi” ed ebbe i suoi archetipi in Assunta Spina e Sperduti nel buio; nel
1941 lo teorizzarono su “Cinema” Alicata e De Sanctis: “Anche noi […] vogliamo portare la nostra macchina da
presa nelle strade, nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese: anche noi siamo convinti che un giorno
creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa, narrando l’essenziale poesia di una vita nuova e pura, che chiude in se stessa il segreto della sua aristocratica bellezza” (Cfr. E.
C. Vitzizzai, op. cit., p. 4)
7 La memoria della Pivano si può leggere in F. ZANOBINI, Elio Vittorini, Firenze, Le Monnier, 1976, pp. 168-69
126
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
8 D. F ERNANDEZ, Il mito dell’America negli intellettuali italiani dal 1930 al 1950. Caltanissetta - Roma,
Sciascia, 1969, p. 7
9 Ivi, p. 16
10 E. VITTORINI, Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1970, pp. 5-6
11 L’intervista di Pavese alla radio è in C. PAVESE, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi,
1951; ora anche in Firenze, Il Saggiatore, 1978 (2^ ed.; 1^ ed. 1971), p. 287
12 D. FERNANDEZ, op. cit., p. 32
13 Cfr. E. C. VITZIZZAI, op. cit., pp. 52-53
14 Id., pp. 5-6. Luperini accentua il valore di questa opposizione e, pur confermandone il carattere culturale più
che politico, parla comunque di una vera e propria “svolta degli Anni Trenta”, proprio in funzione antiidealistica e
proprio in conseguenza della presa di coscienza della crisi dell’umanesimo tradizionale: svolta sia in campo economico (programmazione capitalistica in seguito alla ‘grande depressione’, capitalismo di stato con l’IRI, forme di
oligopolio tipiche del capitalismo maturo, in modo da cominciare la trasformazione dell’Italia in paese industriale
moderno), sia in campo culturale a causa del nuovo sviluppo della crisi delle ideologie umanistiche e del ruolo tradizionale degli intellettuali come mediatori, in loro nome, tra le classi sociali in funzione della civiltà e del progresso; per Luperini la svolta produce una “rivolta che assume, presso le riviste più inquiete ed impegnate, il segno di
una protesta antigentiliana e antiumanistica”. E cita “L’Universale” di Berto Ricci, “portatore di un dissenso volto
soprattutto contro le ideologie ufficiali del regime e alla affermazione di un realismo sostanzialmente empirico”, e
“L’Italiano” di Leo Longanesi, con il suo ironico scetticismo antideologico. Luperini, tuttavia, riconosce come
appunto il regime fosse riuscito ad assorbire questa “rivolta”, perché fu capace, soprattutto attraverso l’opera di
Bottai, non solo di sostituire l’ideologia idealistica gentiliana con quella cattolica, ma di partire al recupero degli
intellettuali, costruendo il doppio concetto di cultura-laboratorio (che riconosceva l’importanza anche della cultura
‘separata’ di ermetici e solariani) e di cultura-azione (sostanzialmente l’organizzazione fascista della cultura):
“L’ideologia era assunta in proprio dal regime, il quale, mentre cominciavano a diffondersi gli attuali strumenti di
persuasione di massa, doveva servirsi - come tramiti diretti del consenso - degli intellettuali, a tal uopo opportunamente irreggimentati nelle strutture della cultura-azione” (R. Luperini e E. Melfi, Neorealismo, neodecadentismo,
avanguardie. Bari, LIL Laterza, vol. 65, 1980, pp. 3-4)
15 E. C. VITZIZZAI, op. cit., p. 28. Nella medesima pagina della Vitzizzai troviamo due testimonianze che confermano quest’atteggiamento. La prima è di Cassola: “Constatai di essere antifascista non per una precisa convinzione ideologica, ma per un’istintiva avversione alla dittatura e al nazionalismo” (la citazione è tratta da “La generazione degli anni difficili”, a cura di Albertoni, Antonini, Palmieri. Bari, Laterza, 1962, p. 89). La seconda è di
Calvino: “Ero stato, prima d’andare coi partigiani, un giovane borghese, sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di sense of
humour, e tutt’a un tratto la coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi con quel metro. Fu un trauma, il primo…” (la citazione è tratta dalla prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno.
Torino, Einaudi, 1974, p. 18)
16 E. C. VITZIZZAI, op. cit., p. 5. Significativa, a questo proposito, sembra l’esperienza dei cosiddetti “fascisti di
sinistra”. Peraltro, come osserva Luperini, la loro operazione culturale, pur limitata nel tempo (stroncata come fu
dalla guerra di Spagna) e nello spazio (si trattò di un’esperienza prevalentemente fiorentina, attorno al settimanale
della Federazione provinciale di Firenze del Partito fascista “Il Bargello”) e pur avendo “il carattere di un tentativo
tipicamente giovanile e intellettualistico, privo di un vero respiro nazionale”, ebbe comunque delle conseguenze
fruttuose: “La tendenza populistica e velleitariamente e confusamente antiborghese che questo gruppo di giovani
promosse, muovendo dalla ricerca di uno spazio ideologico e di un nuovo ruolo degli scrittori, di un loro mandato
sociale da parte del ‘popolo’ ma in nome della ‘cultura’, troverà un momento di sviluppo, in forme nuove, e terreno fertile nell’immediato dopoguerra, nell’ambito della cultura antifascista di sinistra” (Luperini - Melfi, op. cit., p.
5). E aggiungerei, nel caso di Vittorini, soprattutto, che la fecondità di quella esperienza si sarebbe riscontrata già
prima, proprio nella creazione del mito americano
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
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17 Ibidem
18 C. Pavese, La lett. am., cit., Cultura democratica e cultura americana (1950), pp. 280-281
19 D. FERNANDEZ, op. cit., pp. 76-77, sottolinea proprio questa esigenza come indicativa dell’‘‘uomo nuovo” cui
pensa Pavese: “L’uomo nuovo, la cui caratteristica è di non analizzarsi, sfugge all’analisi: occorre limitarsi a descriverlo dall’esterno, a rappresentarlo soltanto attraverso il comportamento. La nuova filosofia dell’uomo importa due
obblighi evidenti per il romanziere: la rinuncia all’analisi psicologica e l’uso, in sua vece, di una tecnica oggettiva,
ispirata più o meno dal cinema”
20 C. PAVESE, La lett. am., cit., Intervista alla radio (1950), pp. 288-289
21 In omaggio a questa concezione, Vittorini fondò e diresse la rivista “Il Politecnico” (significativa già nel
nome), che durò dal settembre 1945 al dicembre 1947, prima come settimanale e poi come mensile, caratterizzata
da un largo ventaglio di interessi disciplinari, dalla letteratura alle scienze, dalle arti figurative al cinema, dalla filosofia ai problemi politico-sociali, sempre con una vivace apertura europea e mondiale e con una carica antifascista
di fondo e pronta ad ospitare voci di intellettuali anche molto diversi per posizione ideologica. (Le notizie e le citazioni riportate nel testo a proposito della posizione culturale di Vittorini si trovano in Zanobini, op. cit., pp. 31-32)
22 Tutte le citazioni sono tratte da ZANOBINI, op. cit., pp. 34-36
23 Ora in Doppio diario 1936-1943, (a cura di L. PINTOR), Torino, Einaudi, 1978, pp. 199-202
24 Come si può notare, è questa una posizione molto simile a quella che, riferendosi a quegli stessi anni, esprime FENOGLIO nel suo Il Partigiano Johnny
25 G. PINTOR, Il sangue d’Europa, cit., pp. 157-158
26 Ibidem
27 Quello stesso mondo, sottolinea PINTOR, in cui invece “noi abbiamo sentito una voce profondamente vicina,
quella di veri amici e dei primi contemporanei” (Il sangue…, cit., p. 150)
28 G. PINTOR, Il sangue…, cit., pp. 149-151
29 D. FERNANDEZ, op. cit., p. 35
30 Ivi, pp. 35-36. La citazione da Pavese è tratta dal suo diario, pubblicato postumo (Il mestiere di vivere. Diario
1935-1950. Torino, Einaudi, 1952)
31 Ivi, p. 42. E’ singolare notare, peraltro, che attraverso la letteratura americana Pavese riscopre proprio la prorompente vitalità e anzi la carica innovativa della ‘provincia’, accostando senz’altro il ‘regionalismo’ americano a
quello di casa nostra per concludere che “Senza provinciali, una letteratura non ha nerbo”, come recita il titolo di
uno dei saggi (pp. 5-32) della Lett. am., quello dedicato a Sinclair Lewis, dove, parlando dei ‘bevitori’ della ‘provincia’ americana di cui sono pieni i romanzi di questo scrittore, dice: “Non son tipi d’eccezione questi bevitori:
impiegati, operai, giornalisti, gente comune, gente di tutti i giorni. […] Da noi non si è mai scritto nulla di simile a
questo. Se in qualche romanzo sociale del secolo scorso qualche europeo beve fuor dell’ordinario, siamo alla solita polemica: l’ubriacone è un operaio, un bruto, la bestia umana. Ora la novità e il valore del mito americano è proprio che invece il bevitore non ha nulla d’insolito: uomo medio tra gli uomini, la vita l’opprime e lui protesta a suo
modo” (p. 6). E nel saggio successivo dedicato a Sherwood Anderson, dal titolo Middle West e Piemonte (pp. 3349), ribadisce il concetto: “Si pensi a quel che è stato nella letteratura italiana la scoperta delle regioni che è proceduta parallela alla ricerca dell’unità nazionale, storia della fine del ’700 e di tutto l’800. Dall’Alfieri in giù, tutti gli
scrittori italiani che si sforzano, talvolta e anzi spesso inconsciamente, di giungere a una più profonda unità nazionale, penetrando sempre più il loro carattere regionale, la loro ‘vera’ natura; giungendo così alla creazione di una
coscienza umana e di un linguaggio ricchi di tutto il sangue della provincia e di tutta la dignità di una vita rinnovata” (p. 34). Quanta differenza tra il regionalismo ‘conservatore’ di Cecchi e quello ‘progressista’ di Pavese!
32 E. CECCHI (Prefazione di) a Americana (a cura di E. Vittorini), Milano, Bompiani, 1942, pp. XVIII-XIX
128
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
33 Ivi, pp. XX-XXI
34 R. LUPERINI e altri, La scrittura e l’interpretazione, nuova ed. rossa, vol. 3/3, Palermo, Palumbo, 2001, p. 21.
Luperini fa risalire il fondamento dell’elemento mitico-simbolico nella tendenza a prevalere, nel costume e nella cultura fra il 1925 e il 1955, di ‘ideologie globali’, come il nazismo, il fascismo, lo stalinismo, il democraticismo roosveltiano, concezioni che si oppongono all’atteggiamento relativista del primo Novecento e che appaiono invece
quanto mai forti e assolute, accompagnandosi spesso al dogmatismo e all’autoritarismo politico: “Proprio quei regimi che si rifanno al pensiero di Nietzsche (come il nazismo e, in parte, il fascismo), ne rifiutano l’elemento criticonegativo per esaltarne invece il carattere attivo, immediatamente propositivo e suscitatore di miti di massa (la
‘volontà di potenza’, l’origine ariana ecc.). Ciò si associa a un diffuso misticismo, vitalismo e irrazionalismo, a una
simbologia di massa (la svastica, il fascio ecc.), a una ritualità che avvolge in una sorta di sacralità la figura del capo.
Anche il marxismo che si afferma nell’URSS di Stalin abbandona le istanze critico-negative del pensiero di Marx per
cristallizzarsi in poche formule dogmatiche e soprattutto per trasformarsi in una ideologia mistico-patriottica di
massa. D’altronde ciò avviene anche in altri campi: con uno dei successori di Freud, Jung; la psicoanalisi stessa sembra aprirsi all’irrazionale, al momento simbolico e religioso, smarrendo i propri presupposti materialistici.” (Ibidem)
35 Prefazione di Italo Calvino al già citato volume di C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, pp. XIII-XIV
36 G. PINTOR, op. cit., pp. 154-155
37 Ivi, pp. 155-156
38 Ivi, p. 156
39 Ivi, p. 158
40 Ibidem
41 Ivi, pp. 158-159. Alla luce di queste parole si spiega ancor più chiaramente la motivazione profonda che spinse Pintor a scendere sul terreno concreto della guerra combattuta, fatta cioè di lacrime e sangue e non solo di parole, magari nobili ma in realtà solo comode e pulite
42 Ivi, p. 159
43 La frase, di Valentino Gerratana, è tratta dalla sua introduzione a Pintor, Il sangue…, cit., p. LI
44 R. LUPERINI - E. MELFI, Neorealismo…, cit. p. 4
45 Ibidem. Dell’Universale di Berto Ricci si è già parlato nella nota 14
46 R. LUPERINI, La scrittura…, cit., p. 375. Poco più oltre, Luperini ricorda che lo stesso Pavese fu influenzato
dalla scoperta di quello stile “scarno e sobrio”: “Paesi tuoi (1941) è il più ‘americano’ dei libri di Pavese (è evidente l’influenza di Faulkner), come mostrano l’essenzialità dei gesti e dei dialoghi e la programmatica antiletterarietà.”
(p. 377)
47 Ivi, p. 337
48 Nonostante il taglio ‘politico’ del suo discorso critico, evidentemente lo stesso Luperini deve ammettere che
l’esperienza di Pavese e Vittorini, almeno quando furono alle prese col mito americano e almeno prima della guerra, non fu politica nel senso proprio della parola, e solo relativamente ideologica, come già qui si è detto più sopra
49 R. LUPERINI - E. MELFI, op. cit., pp. 9-10
50 C. PAVESE, La lett. am. (Sherwood Anderson. Middle West e Piemonte), p. 37
51 Lo comprende perfettamente anche Pintor, come scrive Fernandez: “Lacerato tra l’ammirazione per la
Germania romantica e l’orrore per la Germania hitleriana, egli avverte come un colpo di fulmine nel leggere il testo
preparato da Vittorini per Americana: ecco, egli si dice, la terra ideale in cui, liberata dalle nebulose ideologie che
precipitano l’Europa nella rovina, la concreta vitalità dell’uomo si afferma.” (op. cit., p. 40)
Quaderno n. 2, Pintor Pavese Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta di V. Romano
129
52 G. PINTOR, op. cit., p. 148
53 R. C ESERANI - L. D E FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario, vol. 8/1, Torino, Loescher, 1982, p. 881.
‘Astratti furori’ e ‘ruggito dell’iperbole’ sono espressioni che lo stesso Vittorini usa all’inizio del suo romanzo
Conversazione in Sicilia, a sottolineare il desiderio di rinnovamento, l’ansia ribelle anche se confusa, indeterminata, della ricerca di un posto più vero e autonomo nel mondo, magari anche scavando a ritroso nelle proprie radici
primordiali, come accade al protagonista del romanzo che torna in Sicilia dal Nord dove ormai si era da tempo trasferito
54 In R. CESERANI - L. DE FEDERICIS, op. cit., pp. 881-882
55 C. PAVESE, Lettere 1926-1950 (a cura di L. Mondo e I. Calvino), Torino, Einaudi, 1968, vol. II, lettera del
27 maggio 1942, p. 421
56 Ivi, vol. I, p. 190
57 Lo racconta con orgoglio e grande dovizia di particolari F. PIVANO in L’avventura di tradurre in quegli anni
(intervento in Vittorini traduttore e la cultura americana, su Terzo programma, n. 3, anno 1966), ora anche in
Zanobini, op. cit., pp. 167-169
58 F. ZANOBINI, op. cit., p. 122. Nella stessa pagina Zanobini ricorda come Vittorini fosse perfettamente consapevole delle suggestioni stilistiche che le sue traduzioni hanno saputo esprimere: “Non ho avuto un’influenza sui
giovani per quello che ho tradotto ma per il modo in cui ho tradotto”
59 Ivi, pp. 122-123
60 D. FERNANDEZ, op. cit., pp. 38-39
61 Sono parole tratte dalla prefazione censurata ad Americana, ora in Diario in pubblico, cit. pp. 166-167
62 D. FERNANDEZ, op. cit., p. 73
63 Ivi, pp. 73-75
64 Il saggio Ieri e oggi è in Pavese, La lett. am., cit., pp. 187-190
65 C. PAVESE, La lett. am., cit., pp. 7-8
66 D. FERNANDEZ, op. cit., pp. 42-43
67 Ivi, p. 81
68 Le citazioni dal libro della MGNY, edito a Parigi nel 1948, sono tratte dalle pp. 136-137
69 D. FERNANDEZ, op. cit., p. 82. Sul valore simbolico del suicidio di Pavese molto si è discusso, e sarebbe doloroso riaprire qui la ferita; ma, al di là di tutto, appare significativo, ai fini del nostro discorso, almeno questo: nel
gennaio 1950 egli si innamorò di un’attrice americana che allora soggiornava a Roma, Constance Dowling, in cui
vide la possibilità, altrimenti a lui negata, di un amore privo di erotismo, mitico si potrebbe dire. Pavese scrisse per
lei poesie in inglese, inutilmente le chiese, la supplicò, di sposarlo: lei lo dileggiò, al punto da cambiare la stanza
d’albergo dove erano insieme per passare nella camera accanto da un altro amante e poi partire per gli Stati Uniti
senza dargli risposta! Il 25 marzo Pavese scrisse un biglietto drammatico: “Non ci si uccide per amore di una donna.
Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.” (Il mestiere
di vivere, cit.). La coincidenza non può essere casuale; usiamo le parole di Fernandez (op. cit., p. 111):
“Traduciamo: non mi uccido per Constance, perché Constance mi ha lasciato. Mi uccido perché, con Constance, è
l’America che mi lascia, mi lascia la mia utopia di un mondo in cui l’impotenza non sarebbe stata vista come una
tara. Senza dubbio, la nota del Diario si presta ad altri commenti, ma il suicidio di Pavese contiene anche come
significato, e non dei minori: la scomparsa definitiva del mito americano.”
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
70 C. PAVESE, Lettere.., cit., vol. I, p. 594
71 Politecnico, n. 1, 29 settembre 1945
72 C. PAVESE, La lett. am., cit., p. 64
73 D. FERNANDEZ, op. cit., p. 104
74 C. PAVESE, La lett. am., cit., p. 172
75 Ivi, p. 183
76 Ivi, p. 184
77 Ivi, p. 189: “Ora, il tempo è mutato e ogni cosa si può dirla, anzi è più o meno stata detta. E succede che passano gli anni e dall’America ci vengono più libri che una volta, ma noi oggi li apriamo e chiudiamo senza nessuna
agitazione. Una volta anche un libro minore che venisse di là, anche un povero film, ci commoveva e poneva problemi vivaci, ci strappava un consenso.” E così Pavese dà infine per assodate le conquiste espressive e narrative del
’900 americano, che vivono ormai “dentro il cielo dei classici”
78 Ivi, pp. 189-190
Nota bibliografica
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131
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Il panorama lettera rio ameri c a n o
f ra Ottocento e Nove c e n t o
di Carla Martellotti
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
135
La presente relazione nasce dall’esigenza di fornire un quadro generale di infor mazioni utili ad illustrare il significato dell’espressione “mito americano” che tanta
influenza ha avuto ed ha in Europa e nel mondo. Pertanto, la selezione di autori ed
opere effettuata cerca di delineare, in modo funzionale, ma necessariamente sinteti co, i tratti principali del mito dell’America, suolo dalle incomparabili risorse natu rali e naturalistiche e nazione che per prima realizzò il sogno della libertà e della
democrazia.
W. Irving (1783 - 1859)
F. Cooper (1789-1851)
R.W. Emerson (1803-1882)
N. Hawthorne (1804-1864)
E. A. Poe (1809-1849)
J. Thoreau (1817-1862)
H. Melville (1819-1891)
W. Withman (1819-1892)
E. Dickinson (1830-1886)
M. Twain (1835-1910)
H. James (1843-1916)
A History of New York, 1809
The Leather-Stocking Tales, 1823-1841
The Dial, 1842 - Essays, 1841-1844
The Scarlet Letter, 1850
Tales, 1838
Civil Disobedience, 1849
Moby Dick or The Whale, 1851
Leaves of Grass, 1855-1891
Poesie, pubblicate 4 anni dopo la sua morte
Tom Sawyer, 1876 - Huckleberry Finn, 1884
Portrait of a Lady, 1881 - Washington Square, 1881
L’America agli americani (Monroe)
L’Ottocento americano è tutto teso a sognare il destino della nuova nazione, a definire i contorni della sua emancipazione leggendaria sviluppatasi nella convinzione diffusa di aver creato il miglior sistema politico del mondo. Allo stesso tempo, la seconda
metà dell’ottocento è anche età di inquietudine, un’‘‘American Age of Anxiety”; la
nuova nazione si trova ad affrontare problemi difficili come la convivenza di razze e
religioni diverse, la vastità dei territori da governare, l’industrializzazione con i primi
problemi provenienti dal mondo del lavoro, una crescita urbanistica straordinaria,
un’immigrazione di 32 milioni di persone tra il 1820 ed il 1914.
La crisi di autocreazione della nazione americana fu certamente sentita e risolta con
ottimismo da Walt Withman nella sua raccolta Leaves of Grass (Foglie d’erba) a cui egli
lavorò ininterrottamente per tutta la vita ampliandola ed arricchendola di nuovi componimenti.
136
One’s-Self I sing
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Io canto l’individuo
ONE’S-SELF I sing,a single separate person,
yet utter the word Democratic, the word En-Masse.
Io canto l’individuo, la semplice singola persona,
e, insieme, parlo della Democrazia, e parlo della Massa,
Of physiology from top to toe I sing,
Not physiognomy alone nor brain alone is worthy for
io canto la fisiologia da capo a piedi,
né la sola fisionomia né il solo cervello meritano
The Muse, I say the Form complete is worthier far,
la Musa: io affermo che la forma completa ha maggior pregio,
The Female equally with the Male I sing.
io canto tanto il Maschio che la Femmina.
Of Life immense in passion, pulse, and power,
La Vita immensa con le sue passioni, i suoi impulsi, la sua energia,
Cheerful, for freest action form’d under the laws divine, pieno di gioia, per le più libere azioni che si svolgono sotto The
Modern Man I sing.
le leggi divine,
l’Uomo Moderno io canto.
E’ stato spesso detto che, per comprendere l’esuberanza e l’impeto di W. Withman,
il poeta autodidatta che si è nutrito voracemente di giornali e dei grandi libri della storia umana, letti all’aperto per prati o spiagge, la via migliore è leggerne le poesie che
sono impulso, inno alla gioia di esistere più che ricerca retorica o linguistica. Le sue poesie sono come la natura, apparentemente senza ordine. Withman ha scritto poemetti in
prosa, ma anche componimenti brevi dal tono meno maestoso e più elegiaco. In entrambe i casi domina il verso libero. E’ stato detto che Walt Withman ha condotto la poesia
del suo paese verso la prosa, usando, in tutta libertà, versi lunghissimi, allitterazioni,
assonanze, consonanze, anafore e ritmi incalzanti, secondo lo stile dei predicatori.
Ecco alcuni esempi dell’ottimismo, del panteismo e del misticismo di origine quacchera di Withman , nei quali si può anche notare l’estrema semplicità della struttura sintattica e retorica ( la sua è la poesia degli ands e non dei becauses, proprio come procede il pensiero dei bambini):
From Song of Myself (stanzas 18-19-21)
Da Il canto di me stesso (str. 18-19-21)
18
With music strong I come, with my cornets and my drums,
I play not marches for accepted victors only, I play
marches for conquer’d and slain persons.
18
Io giungo con musica forte, con le mie trombe e i miei tamburi,
e non suono le mie marce soltanto per i vincitori, ma anche per i
vinti e per gli uccisi.
Have you heard that it was good to gain the day?
I also say it is good to fall, battles are lost in the same
spirit in which they are won.
Si è sempre detto che bisogna vincere le battaglie?
Io dico che è un bene anche soccombere, che le battaglie sono
perdute nello stesso spirito in cui sono vinte.
I beat and pound for the dead,
I blow through my embouchures my loudest and gayest
for them.
Io batto e picchio sul tamburo per chi è morto,
per loro suono le mie trombe alte e festose.
Vivas to those who have fail’d!
And to those whose war-vessels sank in the sea!
Evviva quelli che sono caduti!
Evviva quelli che videro affondare in mare i loro vascelli di
guerra!
And to those themselves who sank in the sea!
E quelli che annegarono nel mare!
And to all generals that lost engagements, and all overcome E tutti i generali sconfitti negli scontri, e tutti gli eroi battuti!
Heroes! E gli innumerevoli eroi sconosciuti, per niente inferiori agli eroi
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
And the numberless unknown heroes equal to the greatest
heroes known!
137
più grandi e famosi!
19
19
This is the meal equally set, this is the meat for natural hunger, Questo è il pasto offerto a tutti in parti uguali, questo è il cibo per
la fame naturale,
it is for the wicked just the same as the righteous, I make
è per il giusto come per il malvagio, tutti sono invitati,
appointments with all,
nemmeno uno deve restare escluso, nessuno dev’essere trascurato,
I will not have a single person slighted or left away,
e dunque qui c’è posto per il ladro, per la mantenuta, il parassita,
The kept-woman, sponger, thief, are hereby invited,
venga il sifilitico, venga lo schiavo dalle labbra tumide, tra questi
The heavy-lipp’d slave is invited, the venerealee is invited;
e gli altri non ci sarà differenza.
There shall be no difference between them and the rest.(….)
21
I am the poet of the Body and I am the poet of the Soul,
The pleasures of heaven are with me and the pains of hell are
with me,
The first I graft and increase upon myself, the latter i translate
into new tongue.
I am the poet of thewoman the same as the man,
And I say it is great to be a woman as to be a man,
And I say there is nothing greater than the mother of men.
21
Io sono il poeta del Corpo e sono il poeta dell’Anima,
con me porto le gioie del cielo e le pene infernali,
le une le innesto su me e le faccio crescere, le altre traduco in una
nuova lingua.
I chant the chant of dilation or pride,
We have had ducking and deprecating about enough,
I show that size is only development.
Io canto dell’espansione e dell’orgoglio,
abbiamo avuto abbastanza inchini e disapprovazioni,
io mostro che la grandezza è soltanto sviluppo.
Io canto la donna così come l’uomo,
e dico che è grande essere una donna come essere un uomo,
e affermo che niente è più grande della madre degli uomini.
Have you outstript the rest? Are you the President?
Hai superato gli altri? Sei tu il Presidente?
It is a trifle, they will more than arrive there everyone, and still Che sciocchezza! Tutti giungeranno a quel punto e si spingeranno
pass on.(…)
ancora più lontano.(….)
L’impeto ottimista giunse a Withman da R. W. Emerson il cui pensiero ebbe sulla
cultura e sulla letteratura americana dell’ottocento un’enorme influenza. Nonostante le
traversie personali della sua vita, Emerson sviluppò una filosofia basata su molti temi
cari al romanticismo europeo e sull’individualismo. Nel suo primo libro, Nature ( 1836),
che riscosse enorme successo fra i giovani dell’epoca, egli spiegava i principi basilari
del movimento di pensiero cui diede inizio, il TRASCENDENTALISMO: il mondo visibile è
solo involucro e simbolo dello spirito invisibile, unica vera realtà, di cui ogni essere
umano è parte. L’ “over-soul” parla all’uomo da dentro l’uomo e lo rende creativo in un
modo unico ed irripetibile; ecco perché i trascendentalisti non credevano in alcuna autorità religiosa che potesse porsi al di sopra della loro coscienza.
Ciò che interessa notare del trascendentalismo e delle parole di Emerson è sicuramente l’idea non nuova di trovare in “a life in harmony with Nature” (una vita in armonia con la Natura) la speranza di trascendere la condizione mortale dell’uomo entrando
nelle “currents of the Universal Being” (correnti dell’Ente Universale), ma anche l’enorme diffusione di una nuova vocazione, quella del predicatore itinerante che scrive e
declama i suoi discorsi in luoghi lontani. I discorsi di Emerson, che proclamavano la
naturale e necessaria coesistenza della dimensione divina con quella quotidiana della
vita di ciascuno, fatta di amore, matrimonio, buona tavola, lavoro dei campi ecc., stabi-
138
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
lirono un modo potente di pensare se stessi e la vita, nonché un modo potente di esprimere questo sentimento:
…I know that tomorrow will be as this day, I am a dwarf,
& I remain a dwarf. That is to say, I believe in Fate.
As long as I am weak, I shall talk of Fate; whenever the God
fills me with his fullness, I shall see the disappearance of Fate.
I am Defeated all the time; yet to Victory I am born
….So che domani sarà come oggi, io sono un nano e
resterò un nano. Che è come dire, credo nel Fato. Fino a
quando sarò debole, parlerò di Fato; quando Dio mi
colmerà della sua pienezza, vedrò la scomparsa del Fato.
Sono sempre Sconfitto; eppure sono nato per la Vittoria.
From Emerson in his Journals,
ed. Joel Porte, 1982
Nella sua scelta di vita in assoluta reclusione, in una vita familiare dominata dall’austera figura puritana del padre avvocato e dal fortissimo legame con la sorella e con il
fratello, nel suo graduale rifiuto del divino, nella sua ben nota enigmaticità, Emily
Dickinson si pone come voce al di fuori del gusto corrente, con cui, tuttavia, condivide
lo straordinario amore per la natura del paesaggio americano.
E. Dickinson cominciò a scrivere la maggior parte delle sue poesie dal 1858; queste furono raccolte in pacchetti o fascicoli dall’autrice stessa, il loro ritrovamento e la
loro pubblicazione fu per merito della sorella Vinnie. Inoltre, alcune delle poesie che
conosciamo sono state inviate dalla Dickinson a varie persone che conobbe nella sua
casa di Amherst, Massachussetts. Molte poesie sono poesie d’amore a destinatari noti e
ignoti, maschili e femminili. La sua poesia è una ricerca religiosa, anche se il suo discorso si allontanò progressivamente da Dio a favore di un’indagine introspettiva e descrittiva della natura. Il linguaggio è, come in Withman ed in Emerson, fatto di parole comuni della lingua, con qualche arricchimento dal mondo della geologia, della geografia,
delle esplorazioni; le parole si combinano in una forma poetica semplice, concentrata in
catene di metafore, dove alla punteggiatura sono sostituiti i trattini a spezzare il ritmo e
le categorie tradizionali del discorso, a creare pause per suggerire significati impliciti.
Gli esempi che seguono sono stati scelti fra tantissimi come dimostrazione del particolarissimo stile della poetessa, ma anche del personalissimo trattamento di temi cari
alla coscienza americana dell’epoca quali la terra, la natura, l’avventura, l’esuberanza,
oltre all’intimo ragionamento di Emily con la morte, il dolore della creazione, la sacralità degli oggetti del vivere quotidiano, la ricerca dell’esperienza dell’eternità nelle separazioni, negli amori finiti, nell’amore.
Exultation is the going
Of an island soul to sea,
Past the houses - past the headlands Into deep Eternity -
L’esultanza è fuga al mare
Di un’anima continentale,
superate le case e i promontori penetrando nell’Eterno -
Bred as we, among the mountains,
Can the sailor understand
The divine intoxication
Of the first league out from land
1859
Come noi degli altopiani,
può capire il marinaio
la divina eccitazione
del primo miglio alla deriva?
1859
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
My River runs to thee Blue Sea! Wilt welcome me?
My River waits reply Oh Sea - look graciously I’ll fetch thee Brooks
From spotted nooks -
Il mio fiume scorre verso te Blu mare! Mi vorrai?
Il mio fiume aspetta una risposta Oh Mare - guarda bendisposto Ti porterò ruscelli
Da angoli screziati -
Say - Sea - Take Me!
Ehi - Mare - mi vuoi catturare?
1860
1860
There is a solitude of space
A solitude of sea
A solitude of death, but these
Society shall be
Compared with that profounder site
That polar privacy
A soul admitted to itself Finite Infinity
C’è una solitudine di spazio
E una solitudine di mare
E una solitudine di morte,
ma queste sembrano società
confrontate col più profondo sito
segretezza polare
un’anima che visita se stessa Finita Infinità
139
non databile
L’alba della leggenda americana era stata oscurata dal problema della schiavitù,
abolita di stato in stato tra il 1776 ed il 1804; nel 1808 fu abolito il commercio transatlantico di schiavi, ma la schiavitù continuò, minacciando la reputazione della nuova
Union. La Guerra Civile fu un altro grande tema trattato in letteratura.
Mark Twain, originario del Missouri, fu uno di quei sudisti che, dopo la guerra civile, si spostarono ad Ovest nella corsa all’oro in quelle terre leggendarie incontaminate
dell’Oregon, del Nevada, della California ecc. Prima della guerra civile la letteratura
popolare nel Sud presentava una terra gentile con uomini bianchi pieni di cavalleria,
belle donne bianche e devoti servitori neri, tutti felici nei loro ruoli sociali ed esistenziali. Per la sua esperienza di vita nel Missouri e lungo le rive del Mississippi, M. Twain
era qualificato a parlare della questione razziale.
La storia di Huckleberry Finn (1884), che è ambientata prima della Guerra Civile,
ruota intorno ai tentativi di fuga dello schiavo nero Jim e a quelli dello scapestrato ragazzo bianco per conquistare la libertà: Huck fugge da un padre violento e brutale, Jim fugge
dalla padrona bianca. Il viaggio di Huck e Jim lungo il Mississippi a bordo di una zattera non è solo la loro fuga dalla “civiltà” e la ricerca di una seconda identità per sopravvivere alla società che considera entrambe proprietà e denaro, ma è l’occasione narrativa
per descrivere luoghi ed avventure unici che restano nell’immaginario del lettore.
E’ il viaggio verso Ovest che molti coloni vollero esplorare, una specie di seconda
spedizione del Mayflower. La storia è raccontata in prima persona nel linguaggio di un
giovane adolescente del Missouri, la struttura e la tecnica narrativa degli eventi riproducono gli itinerari mentali caotici del pensiero adolescente. Il romanzo, a lungo considerato esclusiva lettura per ragazzi, presenta, al contrario, tematiche non troppo elementari che la lettura adulta riesce ad intravedere: la lealtà e la dignità dello schiavo nero che
fa da centro morale del libro, il conflitto interiore di Huck che sente la spinta emotiva
140
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
ad aiutare Jim, ma che allo stesso tempo si sente colpevole verso la legge secondo la
quale è illegale sottrarre la proprietà ad altri, la scoperta graduale che il ragazzo compie
a proposito delle menzogne trasmesse da un’educazione razzista.
“The shame is ours, not theirs and we should pay for it” (la colpa è nostra, non loro
e noi dovremmo pagarla), scrisse M. Twain sovente accusato di avere un atteggiamento subdolamente razzista e di possedere contraddizioni irrisolte: lui, il critico della competitività americana, che usava fare speculazioni ardite che lo portarono sull’orlo della
bancarotta, lui, l’umorista, che finì con amare considerazioni sui valori europei e su
quelli americani.
Contraddizioni dell’autore, ma contraddizioni di un paese e di un’epoca che viveva
le sue crisi al di sotto dei toni esaltati e profetici di W. Withman. Gli intellettuali americani puritani si trovarono a dover scegliere tra due opposte realtà: il mondo del progresso materialistico ed il disincarnato pensiero trascendentalista.
Nathaniel Hawthorne prese discrete distanze dalla sue educazione religiosa. Nel suo
romanzo, ambientato a Boston nel New England puritano nel 17° secolo, The Scarlet
Letter (La Lettera Scarlatta), è fortissimo il dibattito sull’opposizione corpo-spirito,
avvincente è l’uso dei simboli mistici ed allegorici e centrale è il tema allegorico della
Caduta.
Il cuore de La Lettera Scarlatta è quella simbolica lettera “A” che Hester Prynne
deve indossare al petto per imposizione della comunità puritana che l’ha punita per un
adulterio commesso prima dell’inizio della narrazione. L’atto adulterino non è presente
nel romanzo, resta infatti abbastanza misterioso nelle sue motivazioni, un atto consumato nella foresta; la figlia Perla e la lettera scarlatta “A” sono le conseguenze tangibili, da
Hester accettate come giusti obblighi per domare la sua natura selvaggia. Incapace di
confessare, l’adultero, il Reverendo Arthur Dimmesdale, è lacerato dal senso di colpa e
si ammala. Alla fine della storia, egli confesserà pubblicamente il suo peccato e morirà
fra le braccia di Hester, mostrando una “A” impressa sul suo petto.
Alla ricerca dei tratti peculiari ed innovativi della narrativa americana, vale la pena
soffermarsi sull’originalità della creazione del personaggio di Perla. Perla è l’innocenza
nel senso romantico del termine, è natura, istinto, male e bene insieme, diversa per temperamento, diversa perché figlia illegittima. E’ la rappresentazione del rifiuto della
visione bi-polare puritana e, nell’originale concezione letteraria dello scrittore, Pearl è
la trasgressione dell’immagine dell’infanzia, un’indomabile bambina selvaggia:
…”Now thou art my mother indeed! And I am thy little Pearl!”
In a mood of tenderness that was not usual with her, she drew
down her mother’s head, and kissed her brow and both her
cheeks. But then - by a kind of necessity that always impelled this
child to alloy whatever comfort she might chance to give with a
throb of anguish - Pearl put up her mouth, and kissed the scarlet
letter too!
…”Ora tu sei proprio mia madre ! Ed io la tua piccola Perla!
In un moto di tenerezza che non le era usuale, prese la testa di sua
madre, le baciò la fronte e le guance. Ma poi, per una sorta di
urgenza che spingeva sempre questa bambina a guastare
qualunque gesto di consolazione le capitasse di fare in un fremito
di dolore - Perla vi appoggiò la bocca e baciò pure la lettera
scarlatta!
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
141
Nato a Boston ma vissuto a Richmond, nel Sud, con la famiglia che lo allevò, Edgar
Allan Poe rappresentò un’altra voce, un’altra ricerca rispetto al credo trascendentalista
che opponeva un’idea di natura salvifica e rassicurante alla “wilderness” affrontata dai
pellegrini del Mayflower prima e dagli esploratori dell’ovest poi. E. A. Poe, una vita
difficilissima ed una personalità “dannata”, dedicò il suo talento all’esplorazione della
soggettività, della mente umana e delle sue aberrazioni quando l’individuo viene tagliato fuori dal mondo convenzionale da cui proviene. In patria Poe fu accusato di perversione, alcolismo e tossicodipendenza; in Francia i suoi racconti furono tradotti da
Baudelaire e le sue poesie da Mallarmé. Fu considerato, infatti, un precursore del movimento Simbolista. In seguito, ma anche oggi, Poe è stato ben considerato per il suo lavoro di critico letterario.
Scegliendo luoghi diversi o lontani in cui ambientare i suoi racconti (Poe diceva che
“a foreign theme is, in a strictly literary sense, to be preferred”: un tema forestiero è, in
senso strettamente letterario, preferibile), ad esempio un quartiere malfamato di Londra,
un lago di montagna, una cittadina vicino al Reno nonché gli innumerevoli luoghi sotterranei come cantine, prigioni o stanze chiuse, Poe contribuì a sprovincializzare la letteratura americana la quale, fin dagli inizi, aveva tentato l’operazione culturale inversa,
quella di chiudersi nell’ autoesaltazione del raccontarsi.
In qualche modo anche Poe si pose il problema, tutto puritano, della separazione del
corpo e dello spirito; lo fa nella rappresentazione di luoghi chiusi e stati della mente alterata dalla segregazione, dal pericolo, dal senso di morte. Più che nei racconti di raziocinio ed indagine, per intenderci quelli che hanno aperto la strada ai “gialli” con il detective Monsieur Dupin, nei racconti di immaginazione Poe supera la semplice tradizione
del romanzo gotico inglese per esplorare l’orrore che nasce da dentro la nostra mente.
La perversione viene guardata con distacco e neutralità narrativa, la perdita del controllo della mente descritta con chiarezza e rigoroso sviluppo logico, la soggettività
immaginativa dell’autore-personaggio (i racconti sono spessissimo in prima persona)
comunica direttamente con quella del lettore in perfetta armonia. Se il pubblico americano, sulla scia della moda trascendentalista, cercava segni nel mondo che indicassero
il suo rapporto con una realtà più elevata, Poe ha risposto alla richiesta nella presentazione di quegli elementi, oggetti o dettagli ingigantiti che danno origine alle situazioni
dei suoi racconti.
Alcuni esempi significativi sono racconti come Metzengerstein, (1832), caso di reincarnazione di un antico cavaliere nel suo cavallo dipinto su una tappezzeria della casa
del discendente del suo uccisore, MS Found in a Bottle, (1833), storia di un naufragio,
Berenice, (1835), caso di sotterramento prematuro e feticismo nato dall’ossessione di
Egeo per i denti perfetti della cugina Berenice, sua promessa sposa, Ligeia, (1838), storia delle due mogli, la bella Ligeia dai capelli corvini, e la seconda, la bionda Lady
Rowena di Tremaine, uccisa dal veleno depositato dalla mano della defunta Ligeia, The
Fall of the House of Usher, (1839), storia gotica della morte inspiegabile degli ultimi
discendenti della famiglia Usher e del crollo della loro cadente dimora ai bordi di uno
stagno nero, William Wilson, (1840), storia di un malvagio perseguitato per tutta la vita
da un sosia buono, ucciso invano dal primo, The Black Cat, (1843), storia dal finale sor-
142
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
prendente di un uomo perseguitato da un gatto nero da lui adorato, ma da lui ucciso
durante una sbronza e poi sostituito con un altro trovato per strada ed identico al primo,
The Masque of the Red Death, (1842), storia del principe Prospero che, per sfuggire alla
peste rossa, si rinchiude con degli amici in un’abbazia fortificata fra orge e feste in
maschera a cui, una sera, partecipa la Morte Rossa, The Pit and the Pendulum, (1842),
storia della tortura psicologica e fisica di un condannato dall’Inquisizione, posto in uno
spazio sotterraneo angusto fra i topi, legato sotto un’enorme lama oscillante in avvicinamento dall’alto.
Il sogno americano in crisi sarebbe rintracciabile anche in uno scrittore di adozione europea come Henry James che fu il primo scrittore americano importante a fare “l’espatriato”, prima in Francia, poi in Inghilterra dove scrisse quasi tutti i suoi 23 romanzi, i suoi racconti, i suoi libri di viaggio ed i suoi saggi critici. James era stato abituato
dal padre a viaggiare in Europa; da lui aveva appreso il desiderio di non chiudersi in una
cultura parrocchiale. Certamente a James doveva essere sembrato di vitale importanza
lasciare l’America e la sua società, dopo la guerra civile, sempre più industrializzata ed
affaristica a dispetto dell’antica ed austera tradizione Puritana. In Europa James cercò la
cultura di alto livello, quella elevata al ruolo di religione da Ruskin e Pater, esponenti
dell’estetismo inglese. La maggior parte dei romanzi di James tratta della collisione tragica o comica di Americani a contatto con i valori e le differenti tradizioni dell’Europa.
Quando Herman Melville morì nel 1891, la sua opera era stata quasi completamente dimenticata dai lettori inglesi ed americani. Addirittura la pubblicazione di Moby Dick
nel 1851 aveva già segnato il declino della popolarità di questo scrittore. La reputazione letteraria di Melville rinacque negli anni Venti; da allora egli è stato visto come una
delle voci più significative della letteratura americana.
Ahab, il capitano della baleniera “Pequod” ha dedicato tutta la vita alla caccia e
all’uccisione della balena bianca, Moby Dick, che gli aveva portato via una gamba in
una delle passate spedizioni della baleniera. La storia si basa sul viaggio dell’imbarcazione, l’avvistamento e i tre giorni di caccia alla balena. Alla fine Ahab riesce a ferire
Moby Dick, ma in un attacco di furia incontenibile, l’animale distrugge il “Pequod” e
l’equipaggio. Sopravviverà all’evento solo il buon Ishmael, il narratore in prima persona della storia, che parla dietro suggerimento del più “navigato” narratore onniscente.
L’avvenimento, realmente accaduto ad una nave a sud dell’equatore, aveva colpito
la fantasia di Melville, il quale, avendo a sua volta a lungo navigato su baleniere e navi
mercantili, dalle sue esperienze poté trarre spunti realistici per molte delle sue pagine
dove spesso mostra la sua enorme competenza.
Moby Dick, spropositata creatura della natura, si pone come simbolo dai molti
significati, secondo una lettura a spirale del libro. Ancora una volta notiamo che l’argomento in sé potrebbe prestarsi come tema di narrativa per ragazzi, caratteristica, questa,
che torna spesso nella produzione americana. In realtà la balena bianca è odiata da Ahab
più che per vendetta, perchè essa (ma in inglese, non per caso, Moby Dick è “he”) è “the
monomaniac incarnation of all those malicious agencies which some deep men feel
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
143
eating in them, till they are left living on with half a heart anf half a lung”, cioè come
personificazione del male nel mondo e nel cuore di certi uomini, come forza interna contro cui l’uomo deve lottare.
Essendo oggetto della natura, la balena bianca è certamente anche simbolo delle
forze ignote della natura, imprevedibili ma giuste (bianco è il suo colore), potenza
distruttiva dominata dalle sue ragioni. Il rapporto uomo-natura che il trascendentalismo
vedeva in termini di armonia e convenienza (le balene venivano considerate fonti di ricchezza da sfruttare completamente), in Melville è il conflitto di sempre, romantico perché richiede all’uomo uno sforzo titanico per affrontarlo. Dell’idea trascendentalista di
Emerson, comunque, resta la ricerca trascendente dell’estasi oltre la vita e la morte.
Il tema del libro è “americano” per vari motivi. Tratta un argomento alto ed umile
al tempo stesso, il lavoro in mare diventa quasi occasione unica per rendere l’uomo
forte, coraggioso, vero; l’equipaggio, descritto con umanità e simpatia nelle personalità
varie dei suoi membri-personaggi, diventa oggetto d’attenzione secondo uno spirito
democratico che vuole rendere dignità a tutti. Del tono di autoesaltazione del mito americano, però, in Melville mancano l’ottimismo e l’entusiasmo patriottico. Moby Dick si
pone sicuramente lontano dal coro autocelebrativo. Melville ci racconta, in chiave simbolica, la delusione dell’uomo con i suoi sogni e la sua idealità di fronte al fallimento
prodotto dalla realtà.
Il panorama letterario americano nella prima metà del Novecento
A causa della vastità degli esempi offerti dal panorama della letteratura americana
della prima metà del secolo, il lettore che volesse inoltrarsi in questa esplorazione si troverebbe a dover fare una selezione che necessariamente escluderebbe sia opere che scrittori importanti. A maggior ragione, pensando a questa attività ai fini di un suo utilizzo
didattico, una selezione si rende ancor più necessaria, sebbene ingiusta nei confronti di
grandi scrittori esclusi da questa presentazione solo per esigenze di tempo e di spazio.
Sinclair Lewis, (1885-1951)
Our Mr. Wrenn, 1914 - Main Street, 1920
Babbitt, 1922 - Arrowsmith, 1925
Dodsworth, 1929
Edgar Lee Masters (1869-1950)
Spoon River Anthology - 1915
Francis Scott Fitzgerald (1896-1940)
The Great Gatsby, 1925 - Tender is the Night, 1934
John Dos Passos (1896- 1970 )
Manhattan Transfer, 1925 - U.S.A., 1937
Theodore Dreiser (1871- 1945)
Sister Carrie, 1900 - An American Tragedy, 1925
Stein Gertrude (1874- 1946)
Three Lives, 1908 - The Autobiography of Alice B. Toklas, 1933
Sherwood Anderson (1876-1941)
Winesburg Ohio, 1819 - Poor White, 1920
William Faulkner (1897 - 1962)
The Sound and The Fury, 1929 - Red Leaves, 1950
John Steinbeck (1902-1968)
To a God Unknown, 1933 - Tortilla Flat, 1935
Of Mice and Men, 1937 - The Grapes of Wrath, 1939
144
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Ernest Hemingway (1899 - 1962)
The Sun Also Rises (Fiesta), 1926 - For Whom the Bell Tolls, 1939
The Old Man and the Sea, 1952
Richard Wright (1908 - 1960)
Native Son, 1940 - The Outsider, 1953 - Savage Holiday, 1954
Il ventesimo secolo in America capovolse la convinzione del secolo precedente,
guardando, come già aveva fatto in larga misura Henry James, più a ciò che mancava
alla cultura americana che non alle qualità distintive in essa presenti. La contestazione
nei confronti della civiltà degli affari e degli uomini d’affari dediti al guadagno su vasta
scala provocò una frattura fra letteratura e cultura di massa; la seconda continuò ad essere audace, intraprendente, ottimista, sicura dell’unità spirituale della nazione, mentre la
prima si popolò di atteggiamenti più bohémiens, più socialmete impegnati, più politici,
più da controcultura. I motivi dell’“expatriation” intellettuale di alcuni (James, T. S.
Eliot, per esempio) diventarono la spinta narrativa e poetica per quelli che restarono in
patria . Si diffusero la moda del trasferimento in Europa nelle prime decadi del secolo
(fenomeno conosciuto come il “ritorno della Mayflower”) o quella del viaggio, specialmente a Parigi, dove si incontrarono molti scrittori americani riuniti intorno a GERTRUDE
STEIN, scrittrice di talento e donna autorevole, trasferitasi a Parigi accompagnata dalla
sua compagna Alice Toklas.
Le forze economiche e tecnologiche sembravano produrre conseguenze incalcolabili ed immagini di progresso e prosperità si mescolarono e si confusero con immagini
catastrofiche di imminente distruzione (utopian and dystopian fantasies). Nel contempo iniziarono conflitti sociali legati all’industrializzazione (negli anni dopo il 1890) e si
fece sentire l’influenza del pensiero progressista, riformatore, anche radicale e dissenziente che tentava di affrontare i disagi legati a povertà, rabbia, discriminazione razziale, violenza, inaccessibilità delle minoranze deboli al potere, discriminazione dei sessi.
Anche la letteratura si occupò della possibilità o impossibilità di conciliare i mali
sociali con il sogno in declino ma mai infranto della “perfect America”, dell’“American
life”, promesse sopravvissute anche al periodo della Depressione. L’Americanismo
diventò sinonimo di modernità nel mondo, ma la cultura della “Machine Age” in
America vide una grande disparità di condizioni fra provincia e metropoli che venne ben
rappresentata in narrativa.
La ribellione nella provincia americana
Dunque, in gran parte, la narrativa americana sembrava ormai opporre una naturale resistenza alla modernità, ostacolata perfino dalla mentalità puritana delle famiglie
bianche combattute fra moralismo e nuovo consumismo.
Nel discorso per il conferimanto del premio Nobel a Sinclair Lewis nel 1930, ritroviamo molte delle motivazioni che spinsero gli europei a riconoscere un gran fascino
alla letteratura americana:
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
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“Venne il 1930 e fu il turno degli Stati Uniti d’America. Questo avvenimento segna
una svolta non solo negli annali del premio Nobel, ma anche nell’evoluzione dei giudi zi formulati in Europa sugli scrittori del Nuovo Mondo. Essi diventavano, per questo
fatto, rispettabili sul piano convenzionale e accademico (…) Per molto tempo gli Stati
Uniti erano stati considerati come una terra d’avventura destinata agli emigranti e ai
cercatori d’oro, o anche come il paese dell’esibizione affaristica, degli arrivati dai denti
d’oro di Wall Street: La Statua della Libertà, il fonografo di Edison, le automobili di
Henry Ford, e i film comici di Mack Sennet, questi erano i rappresentanti d’una civiltà
priva di una vera cultura. Dal punto di vista letterario il paese sembrava trascurabi le(…) Ma si vide quest’America entrare in guerra (…) Con grande sollievo l’Europa
potè constatare che i nuovi emissari d’oltre Atlantico erano lontani dal solidarizzare
con la volgarità che si era abituati ad associare alla loro civiltà. Erano i primi a fusti gare la vanteria e le false pretese. Un H. L. Mencken, un Theodore Dreiser o un Sinclair
Lewis facevano apparentemente causa comune con gli intellettuali d’Europa. Essi sma scheravano, ironizzavano, lapidavano, e il loro rifiuto a lasciarsi illudere, le loro
denunce corrispondevano bene alle antipatie provate a Londra o a Parigi.”
Alla cerimonia della premiazione, S. Lewis, un quarantacinquenne disinvolto, dalla
parola franca in pubblico, tenne un discorso dal titolo Il timore della letteratura in
America, in cui, oltre a meravigliarsi per il Nobel conferito ad un reporter come lui,
spiegò le condizioni di lavoro di uno scrittore di temperamento liberale a contatto con
gli ambienti ufficiali americani che temevano ogni letteratura che non li adulasse; inoltre presentò un’immagine di grande rinnovamento letterario, di opere scritte per contestare la mediocrità da scrittori come Upton Sinclair, T. Dreiser, E. O’Neill, Sherwood
Anderson, o da autori ancora giovani come Hemingway.
In Main Street (1920) S. Lewis descrisse la sua terra, in particolare la sua cittadina
natale nel Minnesota, ma sotto il nome di Gopher Prairie; un abitato di circa tremila abitanti nella Grande Prateria, un paese dalle vaste ondulazioni, con laghi e boschetti, dove
sono nate altre città simili a quella del romanzo, per esempio San Paolo e Minneapolis.
A Gopher Prairie la gente, fiduciosa e credente nella democrazia, conduce un’esistenza felice dove non si esclude, tuttavia, la divisione degli abitanti in funzione dei loro
affari economici e del possesso di un automobile: la strada principale è piena di tante
Ford, infatti.
In una centro simile vive George Babbitt, felice cittadino di Zenith, città molto più
vasta di Gopher Prairie e per questo più soddisfatta ed ottimista. In Babbitt (1922), il
protagonista, rappresentazione dell’utilitarista allegro, pieno del brio e della vitalità
americane, crede nella relatività delle regole di condotta, nel commercio e nella morale
individuale, è un commerciante, abita in una classica casa con giardino, possiede un’automobile di cui va fiero, ha una moglie tranquilla e dei figli vivaci, è un uomo in salute, grasso, sempre di buon umore e loquace, coltiva anche interessi un po’ più elevati
quando esce con un amico poeta e compositore di annunci d’effetto per ditte. A 50 anni,
però, Babbitt si scopre addosso delle tendenze al vizio, entra in un’associazione illegale, si unisce ad una banda di giovani scapestrati, rischia, insomma, di perdere la sua
reputazione al Club ed in città. Torna velocemente sui suoi passi, ottiene l’assoluzione
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
dal pastore e ritorna alla sua vita di sempre, arricchita solo da attività socialmente utili.
Il quadro generazionale della famiglia di George Babbitt si presenta in evidente
cedimento sul piano dei valori e così “mentre Babbitt da ragazzo aspirava alla
Presidenza degli Stati Uniti, suo figlio Ted aspirava a una Packard a sei cilindri accop piati”, ma lo stesso padre da adulto, a New York per la prima volta, desiderava solo
vedere il Pennsylvania Hotel e pensava “duemiladuecento camere e duemiladuecento
bagni! C’è tutto quello che si può desiderare. Signoriddio! Devono incassare… be’,
supponiamo che il prezzo delle camere vada da quattro a otto dollari al giorno….”
La vasta ed acuta produzione narrativa di S. Lewis e la sua penetrante critica sociale hanno fatto pensare ad un Dickens americano che ha parlato delle ribellioni al sistema e del ritorno dei suoi personaggi dentro le sue regole, quasi fosse inutile anche tentare la fuga. Dalla sua prosa emerge un tratto tipicamente americano, cioè il ritmo essenziale della narrazione, con poche pause, il fluire del discorso descrittivo o dialogato
senza interruzioni per riflessioni o osservazioni fuori campo.
La rappresentazione della vita cittadina
Il binomio affari e sessualità nel panorama sociale delle città americane degli
affari come Chicago, Cleveland, Philadelphia e New York, centri del capitalismo
americano, in letteratura rese ancor più evidente il conflitto in atto tra la promessa
della “vita americana” e la sua realizzazione.
La produzione che narra dei self-made men o delle self-made women e che
appartiene soprattutto a scrittori come Theodore Dreiser ed altri, ci parla della vita
negli hotels piuttosto che nelle case, delle relazioni extraconiugali piuttosto che dei
matrimoni, dei ruoli sociali più che delle identità, di un mondo dove conta il movimento più che la staticità, l’ostentazione delle apparenze più che la verità. I personaggi in corsa verso il successo o nel mantenimento dell’acquisito sono persone
esposte e vulnerabili, una specie di integrati nella società ma ai margini di essa; questi “outside insiders” vivono ai vertici ma sempre in tensione difensiva. I romanzi di
Dreiser sono la celebrazione del volere economico, politico e sociale che si esprime in una società che si espande in ogni direzione a ritmi vertiginosi e semplicemente inimmaginabili in Europa; è una società incompleta, quella americana, inquieta e
vivace perché nella sua “adolescenza”, ma nella sua crescita produce anche i “selfunmade men”, cioè persone che hanno fallito, si sono rovinate e che debbono alla
fine abbandonare il campo.
Sembra particolarmente interessante l’adesione al sogno americano da parte di
Francis Scott Fitzgerald sebbene essa mal si concili con la rappresentazione finale
del fisiologico fallimento di coloro che vi hanno troppo creduto. Egli viene considerato come un abile scrittore che non ha sviluppato a pieno il suo talento.
Hemingway scrisse di Fitzgerald che il suo rapporto di odio-amore con il dena-
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
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ro gli aveva rovinato il talento potenziale di scrittore. E’ giustamente annoverato fra
coloro che contribuirono alla definizione dello stile narrativo americano ricco ma
conciso, realistico ma evocativo.
Nato a San Paolo, Minnesota, da una famiglia borghese del mid-west, Fitzgerald
visse il periodo più bello della sua vita nei lussi e negli agi che i primi successi letterari ed un buon matrimonio gli consentirono di avere. Fu uno degli scrittori americani che trascorsero un lungo periodo in Europa dove incontrò altri suoi connazionali riuniti intorno alla Stein. I romanzi e la vita di Fitzgerald furono contraddistinti dal tema del denaro, come ottenerlo e come spenderlo; il sistema che egli descrisse, fatto di bellezza, successo e ricchezza, è descritto come aperto solo ad una classe sociale, ma non è per questo messo in discussione. Sembra proprio che Fitzgerald
abbia tanto combattuto per essere uno degli ammessi nel sistema, per uscire da uno
stato economico familiare appena discreto e fare il suo ingresso nella “high society”,
in cui entrò durante la cosiddetta “Jazz Age” (dai “roaring twenties” fino alla
Grande Depressione degli anni trenta).
The Great Gatsby (1925) è la storia del sogno americano che si realizza a New
York; i personaggi provengono, come l’autore, dal mid-west. Tom e Daisy, al contrario dei pionieri che si spostavano sempre più ad ovest, si trasferiscono nell’est, a New
York, dove trovano un luogo di luci, fascino e colori, ma anche di oscurità. Il romanzo narra la storia del tentativo di un uomo di riconquistare la ragazza che non aveva
potuto sposare perché troppo povero. Jay Gatsby, divenuto per amore incredibilmente ricco, ritrova Daisy, ora sposata con Tom Buchanan che le è infedele. Gatsby ottiene l’amicizia e la collaborazione di un vicino di casa, distante parente di Daisy, Nick
Carraway. Fra Daisy e Gatsby sembra esserci un ritorno di fiamma che finirà con l’allontanamento di Gatsby ed il ritorno di Daisy alla sua solita vita matrimoniale.
Nick Carraway, il narratore, ha un ruolo ambiguo; attraverso di lui il lettore scopre la verità su Gatsby gradualmente e si appassiona alla vicenda. L’ostentazione
delle ricchezza attraverso le feste che Gatsby dà nella sua villa lo porterà solo alla
rovina (come accadde a Fitzgerald stesso per alcolismo ed alla moglie per i suoi
gravi problemi mentali). Intanto la grande New York fa da cornice con la sua bellezza ma anche con lo squallore delle sue periferie, come lo stesso Nick pensa,
molto in sintonia con l’immagine eliottiana di metropoli come terra desolata: “This
is the valley of the ashes - a fantastic farm where ashes grow like wheat into ridges
and hills and grotesque gardens; where ashes take the form of houses and chimneys
and rising smoke and, finally, with a transcendent effort, of ash-grey men”. E in
mezzo a tanta cenere e a tanto smog, l’enorme ricchezza di Gatsby non può riuscire a vincere vincoli e convenzioni sociali; egli ha inseguito il sogno americano del
self-made man per ottenere un risarcimento per il passato nell’inseguimento di un
amore che non può avere più.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
La narrativa americana fra modernismo, sperimentalismo ed impegno sociale
A John Steinbeck fu conferito il premio Nobel nel 1962 “per il suo stile letterario
in cui si fondono realismo ed immaginazione”, premio svedese a chi aveva reso omaggio alla Norvegia occupata in The Moon is Down (La luna è tramontata). J. Steinbeck,
nato a Salinas, California, da padre di origini tedesche, scrive in un periodo di esodo forzato dei contadini dell’Oklahoma verso la California, dove ad attenderli era la schiavitù
più umiliante al servizio dei proprietari terrieri, tappa tragica nel processo di industrializzazione dell’Ovest sinteticamente descritta in Of Mice and Men (Uomini e topi):
“Gente come noi, che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata del mondo.
Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano al ranch e raccolgono una
paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l’indomani sono già in cammino alla
ricerca di un lavoro e di un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l’indomani”.
To a god unknown, romanzo della ritualità del legame fra il coltivatore e la terra,
Tortilla Flat che narra le avventure, non sempre ineccepibili, di un gruppo di paisanos
di Monterey, riuniti intorno alla figura centrale di Danny e alla sua casa, inno alla spontaneità ed alla naturalezza del vivere in un’improvvisazione narrativa continua sul tema
del gruppo di paisanos che agiscono nell’illegalità ma sempre per un motivo allegro,
simpatico, magari anche nobile, Of Mice and Men e The Grapes of Wrath (Furore),
entrambi incentrati sul problema dell’emigrazione forzata di coltivatori dell’Oklahoma,
dell’Arkansas e del Texas in California, sono caratterizzati da grande umanitarismo
sentimentale, da simpatia per gli oppressi, per gli asociali e i derelitti, da un intenso
amore per la natura selvaggia ma anche per le terre coltivate, da grande conoscenza della
vita vera anche in termini di competenze specifiche (motori, agricoltura, pesca, corpo
umano, animali), da paganesimo, da personaggi solitari, lunatici , veggenti, da personaggi semideficienti, da uomini saggi e giusti o da uomini semplici e privi di complicazioni esistenziali, infine da una dimensione eroicomica che sfocia in una gaia apparenza di
improvvisazione.
Of Mice and Men ci prende come una favola, nello stile, nel dialogo e nel racconto.
Due braccianti avventizi, Lennie e George, sono sostenuti, nel loro ingrato lavoro, dal
sogno di possedere un giorno un pezzetto di terra e una casa tutta per loro, ma avvenimenti estranei intervengono e mandano all’aria il loro progetto. George è basso, minuto e vivace, Lennie è un adulto bambino, tutto istinto, bontà e forza fisica. George è la
mente che guida Lennie il quale non fa che combinare guai senza volerlo. A Lennie
piacciono le cose piccole, morbide, possibilmente di pelo: topi, conigli, cuccioli, i capelli delle ragazze. Ma li stringe sempre troppo o li accarezza sempre eccessivamente fino
a far loro del male o a farli morire. George potrebbe avere una vita normale se non fosse
per i guai che Lennie ha combinato in passato e per i quali i due sono costretti a muoversi da un posto all’altro. A Lennie piace farsi raccontare mille e mille volte da George
del loro sogno comune. Nel romanzo troviamo i due che prendono servizio in un nuovo
ranch, dove il figlio del padrone, Curley, ha da poco sposato una ragazza bella ma troppo espansiva con gli uomini. Di lei Curley è geloso alla follia. Da un racconto di George
ad un lavorante, il lettore viene a sapere dell’ultimo guaio combinato da Lennie: avreb-
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
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be teso la mano per toccare il morbido vestito rosso di una ragazza, nonostante le urla
spaventate di lei.
A circa metà della storia, entra in scena anche un altro personaggio, un vecchio lavorante che promette ai due i soldi per realizzare il loro sogno, purché lo portino via da
quella vita e da quel ranch. Il sogno si fa più vicino, ma solo per un po’. Poco dopo
Lennie viene aggredito da Curley, in preda ad un attacco di gelosia e Lennie reagisce
con la sua tremenda forza fisica. Lennie e George terminano il loro sogno così come lo
avevano iniziato, cioè riprendendo il loro vagabondaggio, legati da un affetto e da un
bisogno reciproco di compagnia; del loro sogno continueranno a parlare per sempre,
come ritornello alla loro amicizia.
La rappresentazione è quella di una classe sociale d’America, quella della mano d’opera avventizia che si aggira su uno sfondo californiano e a cui va la simpatia dello scrittore e del lettore. Ora il sogno americano si riduce immensamente e vediamo due operai agricoli che sognano inutilmente di passare al livello sociale successivo: quello dei
piccoli proprietari terrieri.
Il breve romanzo, oltre ad essere un testo accattivante sul piano del suo utilizzo
didattico, ci porta ancor di più dentro il discorso sullo stile americano. I tempi del libro
sono tempi da teatro, il ritmo si fa sempre più incalzante, l’azione sempre più incisiva,
il dialogo e le descrizioni non lasciano spazio ad altro che a loro stessi; in particolare il
dialogo non ha sbavature, è nitido, fresco, immediato, facile da seguire, di grande presa.
L’uomo che influenzò profondamente i lettori e non solo i letterati che furono giovani fra il 1930 ed il 1945 fu Ernest Hemingway, un caso letterario americano, un uomo
molto solo che creò qualcosa di americano ma di universale insieme, facendo ricorso ai
pochi prestiti della sua formazione: Withman, Melville, Twain, Crane, Stein, l’anelito
alla ricerca metafisica di Emerson, Kipling e Jack London.
Molto della sua opera e del personaggio che fu è contenuto nella sua vita burrascosa ed intensa. Nato in un sobborgo borghese di Chicago, Illinois, Hemingway era
solito trascorrere le vacanze in Michigan, la selvaggia regione dei laghi dove egli
apprese l’attitudine sportiva, primitiva e selvaggia verso la vita. In età molto giovane, Hemingway si trovò ad essere un reporter per il Kansas City Star. Nel 1917
durante la prima guerra mondiale partì volontario come autista di ambulanza per il
fronte italiano dove fu seriamente ferito e rimandato a casa con una medaglia al
valore prima che compisse vent’anni.
Si sposò per la prima volta nel 1921 e partì per Parigi come corrispondente per il
Toronto Star. Là entrò a far parte dei giovani “expatriate” americani riuniti intorno alla
figura della Stein. Un anno più tardi, nel 1922, fu mandato in Medio Oriente come corrispondente; in questo periodo iniziò a scrivere dei racconti che furono pubblicati nel
1938 come The First Forty-Nine Stories (I Quarantanove Racconti). Il suo romanzo
The Sun Also Rises (1926) fu pubblicato in Inghilterra come Fiesta. Al suo ritorno negli
Stati Uniti, lo scrittore pubblicò Farewell to Arms (1929).
Dopo un secondo matrimonio, Hemingway si trasferì in Florida; iniziò un periodo
di grandi spostamenti. Si appassionò alle lotte dei tori, alla caccia grossa e alla pesca nei
fondali. Questi viaggi e queste esperienze gli fornirono materiale per storie come The
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Snows of the Kilimanjaro (1936). Nel ’36 lo scrittore partì per la Spagna come corrispondente di guerra e nei suoi articoli profetizzò i danni del fascismo ed i pericoli di una
nuova guerra mondiale. Nel 1940 pubblicò For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la
campana), romanzo sulla guerra civile di Spagna.
Ancora un altro matrimonio, il terzo, e la sua nuova vita a Cuba. Nel 1944, però,
Hemingway tornò in Europa nuovamente per prendere parte attiva alla seconda guerra
mondiale come partigiano; Across the River and into the Trees raccontò questa esperienza nel 1950.
Fu la volta del quarto matrimonio e del suo ritorno a Cuba dove simpatizzò con il
movimento di Fidel Castro. A Cuba Hemingway trovò l’ispirazione per il suo breve
romanzo The Old Man and The Sea (Il Vecchio e il Mare). Durante uno dei suoi safari
in Africa fu coinvolto in un incidente aereo da cui si salvò. Nel 1954 vinse il premio
Nobel, ma non partecipò alla premiazione per motivi di salute. Trascorse gli ultimi anni,
di cui si sa poco, combattendo contro problemi fisici e mentali. Nel 1961 Hemingway
mise fine alla sua vita sparandosi.
I romanzi di Hemingway originano da sue esperienze in guerra, da sport pericolosi, da amori tumultuosi, da amicizie che vengono ricordati con nostalgia. Ad esempio,
ne I Quarantanove Racconti, il protagonista della maggior parte di essi è Nick Adams,
personaggio scopertamente autobiografico la cui vita ripercorre le tappe di quella del
suo creatore. In Fiesta (1926), Hemingway rappresenta la vita di un gruppo di “expatriate” americani ed inglesi che vivono in Francia, una “lost generation” di giovani
disillusi, nulla facenti, privi di valori diversi dall’esibizione quotidiana della loro capacità di reggere gli alcolici.
Addio alle Armi (1929) è autobiograficamente la storia di un ufficiale dell’ambulanza volontario al fronte italiano nella prima guerra mondiale e del suo amore per
un’infermiera militare; è anche simbolicamente, dopo la disillusione dei nobili ideali di
patriottismo di fronte alla cruda realtà della guerra, la vicenda di una diserzione, la
“pace separata” del protagonista, ribellione ed atto di rottura dello scrittore e del suo
personaggio con la società. Per chi suona la campana (1940) è una storia di guerra e
di politica dove l’eroe abbraccia la causa della guerra civile di Spagna per la quale perderà la vita in un attentato ad un ponte. La grande conoscenza dell’attività della pesca
è l’elemento autobiografico più evidente ne Il Vecchio e il Mare (1952); un pescatore
cubano, Santiago, riesce a prendere un enorme pescespada in mezzo all’oceano, ma
deve difendere la sua preda dagli squali. Non ci riesce e a casa riporterà solo la carcassa dell’animale e la sua propria salvezza.
In molti modi Hemingway ha descritto sia il ciclo vittoria-sconfitta dell’eroe, dell’uomo ferito nell’infanzia, nell’adolescenza, nella giovinezza e nella vecchiaia, sia il
suo coraggioso tentativo di reazione al trauma subito, sebbene spesso nella consapevolezza che la vittoria non comporta nessuna conquista concreta. L’opera di E.
Hemingway è stata letta alla luce dell’ampio disegno che descrive le fasi di questo ciclo
vittoria-sconfitta. Il trauma è descritto in Addio alle Armi e ne I Quarantanove Racconti,
la ferita del trauma è ben visibile nel disperato universo psichico in cui si muovono i personaggi in Fiesta; in Addio alle Armi troviamo anche la consapevole rottura con la
Quaderno n. 2, Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento di Carla Martellotti
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società ed infine ne Il Vecchio e il Mare, ma anche in Per Chi suona la campana troviamo il codice espressivo dell’eroe: il coraggio.
L’esperienza della vita risulta dolorosa in quanto riesce a distruggere tutta l’innocenza, pur lasciando addosso all’eroe e allo scrittore tutta la nostalgia; gli eroi
hemingwayani non sembrano mai essere divenuti degli adulti e questo sembra anche
essere un tratto tipico della letteratura americana, come più volte è stato notato. Essi
sono dei delusi dalla Storia, come fu lo stesso Hemingway, e, in mancanza di un appiglio filosofico positivo, investono tutto nel coraggio che sembra restituire dignità alla
condizione umana.
La vita e l’attività di scrittore per Hemingway si spiegano attraverso la metafora
della corrida a cui egli si era molto appassionato: l’uomo e lo scrittore sono come il
torero nell’arena che avverte la presenza del pubblico, ma, per vincere, deve dimenticarla. Così vivono lo scrittore e l’eroe, dimentichi il più possibile di che li circonda e li giudica.
E’ stato detto che le tipologie degli eroi hemingwayani sono due: c’è l’eroe giovane, sensibile, autolesionista, appassionato al punto da immolarsi, amante degli sport
estremi pur nel timore della morte, pieno di umanità e di debolezze, raffinato pensatore
a caccia del senso delle cose, di solito di nazionalità americana; c’è poi l’eroe più maturo, pieno di dignità, razionale, molto poco istintivo, amante di una vita vissuta in condizioni estreme, rude, poco umano, uomo d’azione, con valori solidi ma non quelli tradizionali, di solito non di nazionalità americana. Unendo le due tipologie di eroi ai singoli romanzi, ne emerge un’evoluzione politica del pensiero di Hemingway passato da una
prima fase anarchico-individualista ad una dove l’individualismo viene messo più in
secondo piano a favore di un itinerario più impegnato; a conciliare il dramma esistenziale e quello sociale degli eroi hemingwayani interviene il valore etico del coraggio e
della dignità.
Hemingway ha avuto il merito assoluto di rinnovare definitivamente il linguaggio
letterario americano. Le caratteristiche dello stile hemingwayano sono quelle già rintracciabili nelle innovazioni introdotte da coloro che lo hanno preceduto in questa opera di
rinnovamento: stile impassibile con poche convenzioni letterarie, forza della prosa non
letteraria, periodo semplice con grande uso di proposizioni dichiarative, uso predominante del sostantivo, nitidezza del discorso, presenza massiccia di dialoghi semplici più
reali di quelli reali, fotografia di cose e gesti. Il significato della scelta di questo stile è
la scelta della prosa d’azione, del pragmatismo rispetto al trascendentalismo, dello stile
del reporter usato non più per riferire ma per inventare e narrare la realtà in prosa.
Spesso nell’opera di Hemingway si trova un io narrante che fa da filtro tra lo
scrittore che inventa delle maschere ed il lettore che viene tenuto ad una distanza
di sicurezza mai tale da fargli perdere di vista la carica fortemente autobiografica
del racconto.
A conclusione viene riportato un breve brano da Il Vecchio e il Mare, racconto breve
in grado di sintetizzare in sé quelle grandi innovazioni tra tradizione locale, favola, rifiuto dell’eloquenza vittoriana e sperimentalismo modernista che furono realizzate dalla
narrativa americana nella sua breve esistenza:
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
“ ‘Fish,’ the old man said. ‘Fish, you are going to have to die anyway. Do you have
to kill me too?’
That way nothing is accomplished, he thought. His mouth was too dry to speak but
he could not reach for the water now. I must get him alongside this time, he thought. I
am not good for many more turns. Yes, you are, he told himself. You’re good for ever.
On the next turn, he nearly had him. But again the fish righted himself and swam
slowly away.
You are killing me, fish, the old man thought. But you have a right to. Never have
I seen a greater, or more beautiful, or a calmer or more noble thing than you, brother.
Come on and kill me. I do not care who kills who.
Now you are getting confused in the head, he thought. You must keep your head
clear. Keep your head clear and know how to suffer like a man. Or a fish, he thought.”
“ ‘Pesce’, disse il vecchio. ‘Pesce, dovrai pur morire in ogni caso. Vuoi uccidere
anche me?’
Così non si combina niente, pensò. Aveva la bocca troppo asciutta per parlare, ma
ora non riusciva ad arrivare a prendere la bottiglia dell’acqua. Devo farlo venir vicino
questa volta, pensò. Non ce la farò con molte altre svolte.
Sì, ce la farai, disse a se stesso. Ce la farai sempre.
Alla prossima svolta l’aveva quasi preso. Ma di nuovo il pesce si rizzò e si allontanò lentamente.
Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai il diritto di farlo. Non ho mai
visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi. Non
m’importa, chi sarà a uccidere l’altro.
Ora stai perdendo la testa, pensò. Devi tenere la testa lucida. Tieni la testa lucida
e fa vedere come sa soffrire un uomo. O un pesce, pensò”.
[traduz. di Fernanda Pivano, Il Vecchio e il Mare, Mondadori, 1952]
Nota bibliografica
The New Pelican Guide to English Literature: A m e rican literat u re (vol. 9), edited by Boris Ford, Penguin Books,
1988
SPIAZZI TAVELLA, Only Connect 3: The Twentieth Century, Zanichelli, 1997
BIGGI-CORRADI-DE BLASIO, The 20th C e n t u r y, Principato, 1997
BAIN-BEATY-HUNTER, The Norton Introduction to Literature, Norton, New York, 1973
The World Book Encyclopedia, Field Enterprises Educational Corporation, Chicago, 1950 - 1967
I giganti della letteratura mondiale, Mondadori, 1970
I Premi Nobel per la Letteratura, Editions Rombaldi, Paris, 1966
Album Hemingway I Meridiani, Mondadori Editore, 1988
Calvino e Pa s o l i n i , i n t e l l e t t u a l i
t ra impegno e disimpeg n o
di Lina D’Andrea
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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La funzione dell’intellettuale negli anni 1923-1985
Definire il ruolo dell’intellettuale in rapporto alle caratteristiche e alle peculiarità del
Novecento in ambito letterario rappresenta un problema di non facile soluzione.
Delimitando la nostra analisi al periodo che va dal 1955 ai nostri giorni ci ritroviamo comunque dinanzi ad una complessità di eventi e di fenomeni sociali che evidenziano la crisi dell’intellettuale soprattutto con l’affermarsi dell’industria delle comunicazioni e dello spettacolo, veicoli privilegiati di opinioni e di miti di massa. L’intellettuale si
esprime in questo periodo soprattutto nel rapporto realtà - finzione con il rituale della
visibilità e con caratteristiche funzionali alla visibilità stessa.
Entra perciò in crisi la figura dell’intellettuale-umanista e dell’intellettuale - legisla tore, portatore di valori e ideologie; a livello alto si diffondono invece le figure dell’in tellettuale-esperto, dell’intellettuale-manager e dell’intellettuale-intrattenitore inserito
nei mass-media.1
E. Gioanola, integrando la riflessione precedente, afferma che la letteratura di que sto secolo ha tutti i caratteri della negatività, informata com’è al pessimismo, alla
nevrosi, al non-senso, ma è pur vero che essa ha giocato una disperata partita per la
sopravvivenza contro una cultura sempre più funzionalizzata ai valori borghesi dell’ef ficienza e della produttività economica. Per questo ha rifiutato tutte le maschere del
perbenismo e delle illusioni idealistiche, svuotandosi dei valori tradizionali, ma assicu rando così la presenza di quel valore che essa stessa di per sè rappresenta (la “poesie
pure” dei simbolisti), come possibilità di alternativa alle varie forme di razionalizzazio ne e come custodia dell’“altro” .2
Questa riflessione affronta il tentativo di penetrare nella complessità labirintica del
problema integrando le due chiavi interpretative esposte: la prima prevalentemente
sociologica, la seconda prevalentemente psicoanalitica, per affermare, ad esempio, non
più la contrapposizione Calvino-Pasolini, ma piuttosto la loro convergenza sul terreno
di comune riflessione sull’essere attraverso modalità ideative differenziate: la parolaimago e l’immagine-imago.
I due intellettuali sono stati assunti come modelli per le peculiarità espresse nella
loro attività letteraria ed i segni lasciati nel nostro Novecento.
Calvino-Pasolini: storie di carta e d’inchiostro e storie di carne e di sangue
Caro Pierpaolo, l’ho letto tutto. E’ bellissimo.3 Con uno stacco netto su tutti gli altri
nostri libri. E’ il tipo di libro che bisognava scrivere. Tutte (o quasi) le cose che io
1 R. Luperini - P. Cataldi - L. Marchiani - F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione, G. B. Palumbo,1999,
3, III pag. 543
2 E. Gioanola, Il Novecento, Colonna Edizioni, Milano, 1999, pag. 109
3 In questa lettera Calvino fa riferimento a Una vita violenta di Pasolini edita da Garzanti nel 1959. Anche a P.
Citati in una lettera dell’8 giugno esprime giudizio analogamente positivo: Il Pasolini è un bellissimo libro.
Bellissimo. Uno dei più bei libri italiani del dopoguerra, uno dei più bei libri degli ultimi anni in senso assoluto.
(I. Calvino, Lettere 1940-1985, Meridiani, Mondadori, 2000, p. 598)
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
voglio ci siano in un libro ci sono. E’ un libro come avrei voluto scrivere io (con tutte
quelle cose dentro, poi diversissimo) e forse mai scriverò, ma sono contento che sia
stato scritto cioè che la letteratura oggi non sia tanto diversa da come la vorrei. C’è il
salto qualitativo da “Ragazzi di vita”, perché in Ragazzi di vita (pur bellissimo come
poema lirico) mancava la tensione individuale, l’attrito col mondo, e l’umanità era
marmellata.4
L’entusiasmo della lettera testimonia un rapporto fra i due autori molto autentico
nella sua dialetticità, un rapporto documentato nelle raccolte di Lettere di entrambi 5
nelle quali molto frequentemente si definisce il ruolo della letteratura attraverso l’ispirazione del momento di due intellettuali italiani spesso contrapposti. La lettera riportata
è significativa per l’affermazione della stima di Calvino per un collega che ha fatto una
scelta di “impegno” diversa dalla sua. Queste scelte diversificate fanno scrivere a
Pasolini nel 1973: Poi Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me.” 6
E Calvino nella sua accorata risposta fornisce la risposta anche all’interrogativo che
anima da anni un dibattito critico tra i più accesi. Quale la funzione della letteratura e
dell’intellettuale nella società: passionale impegno o eburneo disimpegno?
Caro Pier Paolo, solo ieri ho letto il tuo articolo bellissimo7 e sono felice che anco ra lo scrivere mi riservi la sorpresa di un dialogo come questo, un discorso come il tuo
tutto di rapporto diretto e intelligenza vitale, fuori da ogni prevedibile meccanismo del
discorso critico. […] Una parola sul nostro”aver cessato di sentirci vicini” negli ulti mi dieci anni o giù di lì. Sei tu che sei andato molto lontano, vuoi dire: non solo nel cine ma che è quello che più di lontano ci può essere dal ritmo mentale di un topo di biblio teca quale io nel frattempo sono diventato, ma perché anche il tuo uso della parola s’è
adeguato a comunicare traumaticamente una presenza come proiettandola su grandi
schermi: un modo di rapido intervento sull’attualità che io ho scartato in partenza.[…]
l’essere presente per dire la tua sull’attualità secondo l’ottica dei giornali, col metro
dell’attualità dei giornali e in presa diretta sull’‘‘opinione pubblica” dà certo una
grande sensazione di vita, ma è vita nel mondo degli effetti, non in quello delle lente
ragioni. E’ dunque il tuo “modo di aver scelto l’attualità” che ci ha diviso: non il mio,
che non esiste; nell’attualità ho capito spesso di non aver posto e sono rimasto da parte,
magari rodendomi il fegato, ma restando in silenzio, come tu dici del resto, tanto anche
se avessi parlato non c’era nessuno disposto a starmi a sentire e a rispondermi.[…]
Quello che tu dici della mia immagine che ha cominciato a ingiallire e a scolorire cor risponde bene alle mie intenzioni. I morti, a non essere più in un mondo in cui troppe
cose non gli appartengono più, devono provare un misto di dispetto e di sollievo, non
diverso dal mio stato d’animo. Non per niente sono andato a vivere in una grande città
dove non conosco nessuno e nessuno sa che esisto: e così ho potuto realizzare un tipo
4 I. Calvino, Lettere 1940-1985, Meridiani, Mondadori, 2000, p. 596
5 Vedi P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino, 1988
6 P. Pasolini, Lettere 1955-1975, op. cit., pp. CXLVI-CXLVIII
7 Riferimento alla recensione delle Città invisibili sul settimanale Tempo del 28 gennaio 1973
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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di vita che era almeno una delle tante vite che ho sempre sognato: passo dodici ore al
giorno a leggere, la maggior parte dei giorni dell’anno. Cercherò di leggerti sempre su
“Tempo”. Abbiti i miei ringraziamenti e saluti con la mia vecchia amicizia.8
Questa lettera esprime una sintetica, ma acuta e sentita analisi dell’essere intellettuali in quegli anni così ideologicamente segnati e con assunti relativi alla figura dell’intellettuale in età post-moderna... Lo scoiattolo della penna, come Pavese definì Calvino,
con la sua incisiva leggerezza nel dominio assoluto di forma e costruzione spiega la
distanza, o meglio, il non sentirsi vicini intuito e denunciato da Pasolini, intellettuale
inserito nei mass-media con la dominanza della categoria della visibilità e della vita e
passione. Non appartiene a Calvino questa categoria, questo modo di aver scelto l’attualità: preferisce, e lo dichiara, il nascondimento isolato nelle sue storie di carta e d’inchio stro alla impegnata visibilità di un Pasolini, dedito alle storie di carne e di sangue 9, che
non accetta di scomparire dietro il testo, dietro le maschere della narrazione e le frantumazioni dell’identità.
Forma e costruzione contro vita e passione?
A ragione A. Asor Rosa afferma che il Novecento che vedevamo diviso si è oggi
tutto riunificato alle nostre spalle e le battaglie anche di poetica ipotizzabili oggi sono
irreversibilmente compiute senza alcuna possibilità di interventi riparatori con possibilità di interpretare e comprendere un secolo che non è più il nostro futuro, ma un pas sato compiuto. La contemporaneistica è duplice, la prospettiva storica è monastica: noi
siamo allo stesso tempo gli storici e i contemporanei di noi stessi.10 Questa premessa ci
autorizza a scoprire in un Novecento riunificato nella prospettiva letteraria il terreno di
confronto - conflitto con i processi di modernizzazione tendenti a travolgere e annullare ogni opportunità di produrre immagini con parole originali e sensate. L’antinomia
Forma - Costruzione contro Vita - Passione può essere superata, come individuato da
Asor Rosa, nel comune terreno di Immaginazione e Linguaggio e risolta, aggiungeremo,
con l’esito di un utilizzo di linguaggi diversamente espressivi della facoltà immaginativa: linguaggio iconico-verbale nella produzione filmica di Pasolini e linguaggio di parola scritta in Calvino, particolarmente negli ultimi anni. Restringendo ancora di più il
campo di osservazione al rapporto dei due autori con i classici si potrà scoprire nella
religiosità dell’essere la chiave ermeneutica che entrambi utilizzano per interpretare la
realtà attraverso i classici della letteratura di tutti i tempi.
Calvino e la parola-imago
Sono due le posizioni critiche che Calvino assume nel suo iter di formazione letteraria. La prima è riassumibile nella presentazione di Una pietra sopra del 1980 cui espone il suo progetto per una letteratura utile alla “ricostruzione”:
8 I. Calvino, Lettere 1940-85, op. cit., pp. 1196-1198
9 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, 1998
10 A. Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento - Bilancio di un secolo, Einaudi, 2000, pp. 5-6
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
In questo volume ho messo insieme scritti che contengono dichiarazioni di poetica,
tracciati di rotta da seguire, bilanci critici, sistemazioni complessive del passato e pre sente e futuro, quali sono andato successivamente elaborando e mettendo da parte
durante gli ultimi venticinque anni. […] L’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse
è stata quella del progetto di costruzione d’una nuova letteratura che a sua volta ser visse alla costruzione d’una nuova società. […] Certo il mondo che ho oggi sotto gli
occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni
costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana,
come cancrena. […]11
Subentra, nel successivo processo di delusione, disillusione e disincanto un atteggiamento di distacco dall’attualità, come affermato nella lettera a Pasolini e come già
annuncia in questa presentazione. Il discorso sembrerebbe concluso con l’atteggiamento di aristocratico e addolorato ritiro nella torre eburnea della scrittura se non ci fosse un
testamento morale di fedeltà alla letteratura, unica e privilegiata depositaria di valori
utili per il nuovo millennio.
La mia fiducia nella Letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la
Letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. Vorrei dunque dedicare queste mie confe renze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolar mente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del secondo millennio.12
Questa premessa allude ai six memos, ai sei “appunti” - categorie di valori, rappresentati da classici individuati all’interno delle sei categorie. Perché si esprime attraverso i classici rivisitati e non attraverso un romanzo? Ce lo spiega lo stesso autore in
Perché leggere i classici:13
I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo...” e mai “Sto
leggendo...” […] I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia
delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato
nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguag gio o nel costume). [...] Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulvi scolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso. [...] Chiamasi
classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi
talismani. [...] Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve
per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui. [...] Un classico è un
libro che viene prima di altri classici, ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello,
riconosce subito il suo posto nella genealogia. [...] E’ classico ciò che tende a relegare
l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo
non può fare a meno. [...] E’ classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là
dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.
11 I. Calvino Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, Collana “Gli Struzzi”.
12 I. Calvino, Lezioni americane, Introduzione, Mondadori Milano, 1993
13 I. Calvino Perché leggere i classici, con prefazione di Esther Calvino, Milano, Arnoldo Mondadori, 1991,
pp. 5-13
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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Cambio di rotta? Maturazione della persona-autore in anni di formazione anche
esperenziale? La risposta possiamo trovarla in una formula indicata dallo stesso Calvino
già nel 1959: mimesi attiva della negatività che risponde in questo modo alla sfida dei
mutamenti sociali, negativamente manifestatisi, con l’imitazione della stessa negatività
in forma attiva e con la conseguente tensione all’attenzione costante per immaginazione e linguaggio. Calvino risponde con la crisi personale alla crisi etica della società che
ai suoi occhi si manifestava come collasso, come frana, come cancrena e alla quale
negli ultimi anni oppone la letteratura, intesa soprattutto come letteratura di valori trasmessi, attraverso i classici di ogni tempo, dalla forza immaginativa della parola-imago
nell’intento di comunicazione immediata che la scrittura stabilisce quando evoca nella
nostra mente immagini visive secondo la vocazione propria del linguaggio scritto. Ecco
allora apparire la fiducia anche nell’uomo non solo destinatario, ma soprattutto decodificatore in comunicazione con la letteratura come universo dei segni. La parola acquista il suo senso enfatico-religioso nella comunicazione cosmica e nella possibilità combinatoria di questi segni, sia all’interno della parola stessa, sia nella combinazione di una
espressione scritta. Quando leggiamo la nostra mente avvia un processo di successione
di immagini che ci mettono in sintonia con l’autore e questo processo, apparentemente
così scontato, avviene per la forza rappresentativa della parola scritta nella sua funzione di imago, di immagine che utilizza e sviluppa la nostra facoltà immaginativa. Le due
immagini, quella scritta e quella immaginata entrano magicamente in sintonia e si attiva quello che Calvino chiama cinema mentale dell’immaginazione. Nel capitolo dedicato alla Visibilità si chiede anche quale sia l’origine di queste immagini che cadono nella
nostra fantasia, anzi, come ricorda sempre Calvino, Dante per riferirsi a questo meccanismo, usa l’espressione, essa stessa di forte impatto immaginativo, Poi piovve dentro a
l’alta fantasia.
Il nostro autore, nel descrivere il suo percorso ideativo, conclude che il processo in
vari modi spiegato si riferisce comunque ad un processo intangibile legato alla ispirazione divina, all’incoscio individuale o collettivo e che quindi l’immaginazione è o strumento di conoscenza o identificazione con l’anima del mondo. La sua razionalità non può
escludere la prima ipotesi, ma è forte la tentazione per la seconda ipotesi alla fine così rielaborata nelle conclusioni per una spiegazione della parte visuale dell’immaginazione letteraria. Diciamo che diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immagi nazione letteraria: l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmati ca e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un proces so d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importan za decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero.14
Alla fine di tutto rimane il pensiero che appartiene all’uomo anche oltre l’uomo
come vorrebbe Asor Rosa nel suo interessante saggio Calvino e la narrativa struttura le15 in cui afferma che oltre le strutture mentali Calvino scopre la contemplazione del -
14 I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 106
15 A. Asor Rosa, op. cit., pp. 471-472
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
l’essere: quello che sta prima (o dopo) che l’uomo con la sua infaticabile e inesauribi le attività disgiuntiva e associativa, lo abbia sistemato, catalogato, neutralizzato in
sistemi logici ed espressivi. […]Oltre il pensiero c’è l’essere e con l’essere c’è la fine
dell’essere e con la fine dell’essere c’è la fine del pensiero, della parola, del segno, delle
forme, ecc...; ossia la contemplazione, lucida e disincantata, del limite insuperabile di
ogni conoscenza umana, anche la più raffinata e profonda. Ma siamo sicuri che la via
della conoscenza sia limitata dalla morte? Se si vuole davvero credere nella forza e nella
potenza della parola evocatrice di immagini possiamo anche credere che esista un meccanismo di sovrapposizione di immagini che va oltre le singole vite e costituisca, come
afferma Starobinski ne L’impero dell’immaginario16, l’anima del mondo che viene
guardato dall’alto come fa il Barone rampante.
A quest’anima in senso laicamente religioso, è affidata la sopravvivenza della paro la-imago, una parola che non nasce e non muore, ma che si è radicata in questa anima
cosmica e vive sempre con tutti e per tutti. Calvino credeva in questa eternità della parola scritta, aveva almeno questa di inconsapevole e scomoda credenza che testimoniava
in qualche modo l’eternità almeno di un’anima, quella cosmica. Negare tutto questo
avrebbe determinato togliere la vita alla parola scritta, ad un sistema di segni che si combina in un numero infinito di soluzioni: per questo la conoscenza non può essere limitata alla vita del singolo, ma si alimenta della continuità delle conoscenze in una catena
infinita.
Alla fine Calvino avrebbe potuto affermare, se solo lo avesse voluto: “Io credo nella
parola di chi scrive Storie di carta e d’inchiostro perché mi fa credere nell’eternità”.
Pasolini e la immagine imago
Anche per Pasolini la risposta all’affermazione che lo vede autore di “storie di carne
e di sangue” risiede nell’uso dell’immagine evocatrice di immagini, sul comune terreno
di immaginazione e linguaggio che condivide per la parola con Calvino. L’immagine è
nel cinema di Pasolini religiosamente poetica soprattutto quando si rivolge alla trattazione di opere classiche e attinge alla perizia poetica dell’autore. Ma il cinema pasoliniano
spesso soccombe sotto il peso dello scandalo e la battaglia più faticosa che deve fare un
insegnante oggi per parlare di Pasolini alle nuove generazioni è sgombrare il campo dal
pregiudizio scandalistico. Anche in questo caso alcune riflessioni dell’autore e di altri
autori aiutano nell’operazione di riabilitazione. Nei due passi seguenti, a conferma dell’alone profetico che lo circonda, l’autore parla della morte e dello scandalo, invitando
gli amici a non lasciarsi toccare dal contagio scandalistico.
E’ dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo
di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attri buiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di
relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo
montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non
16 J. Starobinski in La relation critique, Gallimard, 1970
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
161
più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in suc cessione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguistica mente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben
descrivibile (nell’ambito appunto di una Semiologia generale). Solo grazie alla morte,
la nostra vita ci serve ad esprimerci.17
Non rinuncerò mai a nulla per la reputazione. Io spero che coloro che mi sono
amici, o personali, o in quanto lettori, o come compagni di lotta (e nei cui occhi, lo so,
cala un’ombra, ogni volta che la mia reputazione è in gioco: un’ombra che mi dà un
dolore terribile) siano così critici, così rigorosi, così puri, da non lasciarsi intaccare dal
contagio scandalistico: se così fosse, gli sconfitti sarebbero loro; se solo cedessero per
un attimo e dessero un minimo valore alla campagna dei nemici, essi farebbero il gioco
dei nemici. Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi,
con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle
coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.18
Franco Fortini risponderà a questo invito, dopo lunghi anni di contatti interrotti,
esprimendosi con parole molto convincenti: “Meno commozione per Pasolini, più
amore e intelligenza per quello che egli ci ha detto”.
Il solo modo di parlare di Pasolini, in mezzo al vocio autopunitivo di questi giorni,
è leggerlo.[…] Per questo non ho nulla da dire per la morte di Pasolini che non sia stato
detto in questi giorni, anche egregiamente, dai miei colleghi in letteratura; fuor del con siglio di prendere i suoi libri di versi e capirli. Gli sono stato amico per molti anni;
avverso per altri; sempre ho cercato di intenderlo e amarlo. Ho in comune con lui la
divisione, la duplicità, di cui si fa, quando si fa, la poesia. Nel testo autentico, d’altron de, come nell’attimo della morte, coincidono elezione e destino, scelta e inevitabilità.
Meno commozione per Pasolini, più amore e intelligenza per quello che egli ci ha
detto.19
Accogliendo l’invito di Fortini, indaghiamo questo Pasolini della poesia e del cinema, ambiti dove al meglio si è espressa la sua facoltà immaginativa legata all’immagine poetica e all’immagine filmica.
La facoltà immaginativa: gli approcci alla musica e alle arti figurative
Durante la seconda guerra mondiale Pasolini conosce a Casarsa la violinista slovena Pina Kalc, rifugiata in casa di parenti, e prende da lei lezioni di violino; nel 1944 scriverà uno studio sulle sonate di Bach con molti riferimenti a versi poetici. Funzionale
all’aderenza alla realtà del nuovo filone neorealista, Pasolini da Accattone a Salò propende spesso per attori non professionisti, come i ragazzi di strada di Accattone o alcuni personaggi del Decameron. Questa scelta è determinata, come afferma M. Valente,
dalla concezione di cinema di poesia che ispirò Pasolini, un cinema, come si è detto, che
17 P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano
18 P. Pasolini, Vie Nuove n. 51 del 28 dicembre 1961
19 F. Fortini, Il Manifesto, 7 novembre 1975
162
Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
molto attinge dalla propensione poetica e che si fonda sulla soppressione delle regole
decodificate e sulla trasgressione stilistica nell’intento di esprimere la facoltà immaginativa in forme espressive assolutamente libere, poeticamente libere; si superano gli
schemi classici dei film popolari a favore di un cinema dove l’autore sia l’unico protagonista e dove il poeta-regista tende ad un linguaggio iconico fortemente caratterizzato
da inquadrature e sequenze brevi e dal ritmo molto rapido dove la recitazione risulti polverizzata ricorrendo a brevi battute e alla mimica per valorizzare uno stato d’animo; successivamente il regista poeta polverizza ulteriormente le inquadrature con un’ulteriore
frammentazione delle sequenze. A Bologna nel 1941 Pasolini aveva seguìto i corsi di
Storia dell’Arte medievale e moderna di R. Longhi e anche questo contribuirà a costruire con grande gusto figurativo le inquadrature dei suoi film e ad orientarlo in alcune
soluzioni come quelle di rappresentare apostoli e santi soprattutto nella loro appartenenza a ceti popolari. Sui propositi figurativi scrive A. Bertini:
All’uso semplificato e rigoroso degli obiettivi 50 e 75, impiegati in Accattone,
Pasolini aggiunge il pancinor o zum. Si tratta di un obiettivo, come si sa, che permette
di passare (senza soluzione di continuità) dall’inquadratura di un dettaglio o di un
primo piano fino a un totale o a un campo lungo. [...] Sembra quasi ci sia la volontà da parte del regista - di togliere all’immagine filmica l’impressione di tridimensiona lità, di profondità di campo (dovuta soprattutto all’immagine in movimento, al movi mento all’interno dell’inquadratura) per ricondurla in un ambito figurativo e pittorico.
Il richiamo a Masaccio (che ritorna spesso nelle dichiarazioni della sua tecnica)
non è casuale. L’obiettivo viene paragonato a un pennello nelle mani di un pittore, un
pennello leggero e agile che, tuttavia, ha la forza di rendere greve, massiccia la mate ria, con una forte accentuazione del chiaroscuro.20
L’attenzione ad un’immagine che sia altamente e poeticamente evocativa ha una
valenza fortissima nel cinema-poesia e viene fortemente potenziata all’uso della musica. Frequentemente usate le musiche di Bach, ben note all’autore e da lui particolarmente amate: utilizza le musiche de La Passione secondo Matteo in Accattone, prima opera,
e ne Il Vangelo secondo Matteo.
L’incontro con Bach è un incontro felice per elementi particolari introdotti dal compositore nelle Passioni, sviluppatesi dal XV secolo, nelle quali inserisce l’azione di tre
personaggi: Cristo, un Diacono e un Evangelista; con il coro si rappresentava “il popolo”, talvolta con spunti polifonici. Per la prima volta nella storia della creazione artistica musicale, Bach riunì nelle Passioni elementi eterogenei, e tenne conto al tempo stesso di tutto quanto storicamente gli era noto sulla musica, compiendone una mirabile sintesi. Ne La Passione secondo Matteo, l’opera più vasta che Bach abbia scritto, anche per
il ricco complesso vocale e strumentale previsto, piuttosto che ripercorrere il calvario di
Cristo, il compositore preferì evocarne e meditarne la morte.
La caratteristica che contraddistingue la Passione secondo Matteo è l’impiego di un
doppio coro, non come mezzo impiegato per ottenere efficaci artifici sonori, ma come
20 A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni Editore, 1979
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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uno strumento indispensabile per rendere più incisivo l’elemento dialogico che è l’aspetto prevalente nella Passione secondo Matteo, nonché un modo efficacissimo per
esprimere e per far percepire una intensa emozione.21
Quando nel 1961 Pasolini inizia la lavorazione della prima pellicola cinematografica con un soggetto da lui scritto e diretto, Accattone, “ha idee ben chiare per quanto
riguarda la musica che avrebbe adoperato. E’ convinto - come regola generale a cui
rimarrà sostanzialmente fedele, sia pure con qualche eccezione - che è preferibile usare
musica di repertorio (cioè brani classici o leggeri di autori noti) piuttosto che farla
espressamente comporre. Questo perché, secondo Pasolini, è più efficace una buona
musica già collaudata piuttosto che una mediocre partitura che, il più delle volte, è un
cattivo rifacimento di temi e motivi già noti.”22
Elsa Morante, sua cara amica con la sua ricca collezione di dischi, sarà da allora in
poi una preziosa risorsa cui Pasolini farà ricorso per realizzare il commento musicale dei
suoi film. In Accattone il commento musicale in gran parte è affidato a brani di Bach e
a l’utilizzo di canzoni popolari e di stornelli con testi parodiati: c’è una scena in cui
domina il bellissimo blues di William Primrose St James Infirmary.
“La Passione secondo Matteo di Bach - come scrive Pasolini - nel momento della
rissa di Accattone, assume questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione fra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale. È l’amalgama
(il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach.23 [...] La musica si rivolge
allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte a una rissa di
stile neorealista, folklorica, bensì a una lotta epica che sbocca nel sacro, nel religioso. [...]
Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’,
l’ho aggiunto con la musica. Ho detto cioè che la degradazione di Accattone è, sì, una
degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far
capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni”.24
Il Coro finale della Passione secondo Matteo viene inserito dal regista sia nella
scena sopra ricordata sia nelle ultime inquadrature del film, quando si compie il tragico
destino di Accattone e sopravviene la morte, unica vera libertà concessa dalla società a
uomini “privi di dignità” che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le
leggi della “ragione dominante”.
Sempre in Accattone, il secondo movimento del Concerto brandeburghese n. 2 di
Bach viene utilizzato per creare forte contrasto nei confronti delle immagini che frattanto scorrono sullo schermo, quelle cioè in cui la prostituta Maddalena viene malmenata
nella radura dell’Acqua Santa dai ragazzi di vita amici del suo sfruttatore. E Pasolini
chiarisce:
21 Vedi contributi di M. Valente e di A. Molteni in www.pasolini.net
22 A. Bertini, op. cit.
23 Pasolini si riferisce a un passo di Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale (1946)
24 Quaderni di filmcritica - Con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni, Roma, 1977
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
“ [...] Questo aver contaminato una musica coltissima, raffinata come quella di
Bach con queste immagini, corrisponde nei romanzi all’unire insieme il dialetto, il
gergo della borgata, con un linguaggio letterario che per me è di derivazione proustia na o joissiana. È l’ultimo elemento di questa contaminazione che rimane così un po’
esteriore nel film. Quanto alla scelta, è una scelta molto irrazionale, perché prima
ancora di pensare ad Accattone quando pensavo genericamente di fare un film, pensa vo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach: un po’ per ché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica a
sé, la musica in assoluto.[...] Quando pensavo ad un commento musicale, pensavo sem pre a Bach, irrazionalmente, e così ho mantenuto, un po’ irrazionalmente, questa pre dilezione iniziale.”25
Anche la formazione pittorica di Pasolini entra in gioco, a partire da Accattone:
“Come modello formale pensa alla grande tradizione pittorica italiana del TreQuattrocento, a Giotto, a Masaccio e quindi all’esigenza di rappresentare i suoi personaggi frontalmente, fortemente chiaroscurati, statuari”. E, riguardo al luogo prescelto
per le ultime inquadrature del film, Pasolini scriverà: “[...] era soprattutto su Olevano
[una località del sud del Lazio] che puntavo, come luogo dipinto da Corot. Ricordavo le
sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza
contro un cielo del loro stesso colore.”26
Tra il 1962 e il 1964 l’autore elabora una successione di progetti. Casualmente rilegge il Vangelo di San Matteo durante un convegno ad Assisi nel 1962 e scopre quanto del
contesto contadino dell’età di Cristo emerga dalle pagine dell’evangelista Matteo da lui
considerato “il più rivoluzionario perché il più realista”. Pasolini racconta di aver letto
il Vangelo per la prima volta nel 1942 e, quando ebbe l’idea di un film sul Vangelo sceglie non a caso la versione di San Matteo perché quella che più d’ogni altra esalta l’umanità del Cristo, il suo essere uomo tra gli uomini. Pasolini non è un cattolico, “non
sono nemmeno cresimato” dirà rispondendo alle critiche provenienti da ambienti marxisti, ribadendo il suo ateismo. Questo suo distacco, questa mancanza di “resistenze interne” lo convincerà a terminare questo ambizioso e rischioso progetto. Il Vangelo è anche
il risultato di una crisi personale di Pasolini e, più in generale, di una crisi della cultura
italiana:
“... Tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni cinquanta, non solo in me
ma in tutta la letteratura, è in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incer tezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c’è aria di crisi dappertutto e evi dentemente c’era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi
religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si
debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto
25 Ibidem
26 “Quaderni rossi del ’46”, in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del ’42. [...]
Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l’ho ripreso in un momen to di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non
m’accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare
il Vangelo”.27
Le musiche sono di Bach, Mozart, Prokofiev e Webern. Le musiche originali di Luis
E. Bacalov. Come nelle opere cinematografiche precedenti non a caso Pasolini affida a
un linguaggio sonoro raffinato tutte le vicende più significative narrate nel film non perché la musica debba essere al servizio del cinema e viceversa, ma perché sono entrambe espressioni artistiche che utilizzano linguaggi non verbali e che tuttavia sono assolutamente differenti e agiscono in modo diverso e indipendente sulla percezione e, inoltre,
come puntualizza lo stesso Pasolini, “I valori che essa [la musica] aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e
riconducono il cinema alla realtà, dove la fonte dei suoni ha appunto una profondità
reale, e non illusoria come nello schermo”.28
Per il suo Vangelo il ricorso alla Passione secondo Matteo di Bach è quasi d’obbligo. Ma, in particolare, alla morte di Gesù, egli associa la Musica funebre massonica, che
è a sua volta una delle più alte creazioni di Mozart, che in essa ha anche espresso la propria immagine della morte non come titanica lotta contro il destino ineluttabile, ma
come “cara amica”; nella musica stessa si percepisce il dolore per la separazione, a cui
Mozart si lascia andare senza esserne tuttavia sopraffatto.
Vi è un momento isolato della lunga sequenza della crocefissione e della morte in
cui il racconto non è affidato al solo indivisibile binomio “immagine-musica”: è quello
in cui Cristo pronuncia queste ultime parole: “Voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo
si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie…”
Nelle ultime immagini del film si può ascoltare un canto che richiama in modo
significativo il Gloria di una messa cantata congolese con il testo in latino e la musica
ricca di tutti gli accenti, gli strumenti e i ritmi del folclore africano, quasi a sottolineare
l’universalità di un profondo sentimento religioso. Suggestiva anche la scena in cui
Maria, interpretata non a caso dalla stessa madre di Pasolini, si reca con le altre donne
alla tomba del figlio. In altre occasioni lo scrittore ha espresso il suo religioso sentimento filiale in un rapporto struggente madre-figlio che molto si ritrova nel film. La sublimazione di questa relazione con tutte le implicazioni di Passione che possono essere
facilmente intese, si ritrova in forma poetica nella Supplica a mia madre da Poesia in
forma di rosa del 1964:
27 Quaderni di Filmcritica. Con Pier Paolo Pasolini, op. cit.
28 A. Bertini, op.cit.
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
Alla solitudine la vita che mi hai data.
Alla Madre-Maria Pasolini affianca in Affabulazione un Padre al quale rivolge non una
supplica come quella precedente, ma una preghiera ugualmente disperata:
Padre nostro che sei nei cieli:
ecco un tuo figlio che, in terra è padre…
E’ a terra, non si difende più…
Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti
……………………………………………….
chiacchiererò con la mancanza di pudore
della gente inferiore, che ti è tanto cara.
Sei contento? Ti confido il mio dolore;
e sto qui ad aspettare la tua risposta
come un miserabile e buon gatto aspetta
gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,
come un bambino imbambolato e senza dignità.
Un senso di forte religiosità laica pervade i due testi nei quali diventa religioso
anche il sentimento filiale, quasi di omerica memoria. Difficile conciliare in quei tempi
così segnati ideologicamente ateismo e religione. Lo stesso Pasolini, nel tentativo di
chiarire il suo rapporto di ateo con la religione, intravede, paradossalmente, nell’ateismo
comunista una qualche religiosità in quanto “si possono sempre ritrovare quei momenti
di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volontà conoscitiva, di fede che sono elementi, sia pur disgregati, di religione”.29
La critica del tempo non sembra comunque cogliere il senso del film e, come spesso accade, coglie l’occasione per polemizzare su e contro Pasolini che chiarirà come non
vi sia nel film una ricostruzione storica, ma “... una specie di ricostruzioni per analogie.
Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti
con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la
r i c o s t r u z i o n e ” .3 0
Non quindi, un film storico, non una ricerca illustrativa, ma un film che vuole dare
il senso della poesia che c’è nel Vangelo: “La mia idea è questa: seguire punto per punto
29 Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma
30 Quaderni di Filmcritica. Con Pier Paolo Pasolini, op. cit.
Quaderno n. 2, Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno di Lina D’Andrea
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il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche
i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una
frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita
potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel
senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto
semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente,
almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità
sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo”.31
Pasolini, non cattolico, seguace di Matteo, riesce a raccontare nel suo Vangelo, la
sua religiosità di filialità e di genitorialità non praticata, ma comunque vissuta per i suoi
ragazzi di vita. Annuncia nel suo Vangelo la più alta aderenza al messaggio cristiano
grazie alla sua distaccata non omologazione all’ortodossia comunista e alla sua totale
libertà da schematismi precostituiti. E così la storia di Cristo dopo due millenni di interpretazione cristiana supera la realtà storica per accedere all’immaginario mitico in cui
questo mito fosse un’idea centrale per un film e in cui la facoltà immaginativa potesse
esprimersi nella visibilità.
Conclusioni
Il senso di religiosità della parola e dell’immagine.
Per Pasolini la riproduzione audiovisiva è diventata una forma decisiva di rappresentazione e di interpretazione della realtà: il passaggio dalla letteratura al cinema non
è un cambiamento di tecnica letteraria, ma è utilizzo di un’altra lingua, di un altro sistema di segni che non usa simboli come le parole, ma la realtà stessa. In questa operazione la musica supporta il sistema di segni integrati adottato dal regista e diventa poesia,
cinema-poesia, l’unico sistema capace di esprimere la disperazione della solitudine di
una “creatura” che conosce il suo dramma interiore e che chiede aiuto ad una umanità
sorda e piena di pregiudizio.
Anche Calvino usa religiosamente la facoltà immaginativa, il mito della parola, ma
per penetrare la realtà attraverso la parola stessa e riprodurre l’universo indagato dal suo
animo di scienziato; per raggiungere questo obiettivo si serve di uno “schermo vuoto”
da riempire con la visibilità delle parole. Per Starobinski il motivo del vuoto occupa un
posto considerevole in Calvino: il vuoto è certamente necessario perché vi si produca
la caduta degli atomi di cui sono composti tutti i corpi immaginabili; ma dato che il
31 Pier Paolo Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Rienzo Colla, La Locusta, 1985
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Quaderno n. 2, Sentieri letterari del Novecento
vuoto se fosse lasciato spalancato, sarebbe angosciante, occorre allora coprirlo,
mascherarlo, popolarlo, farne lo schermo su cui proiettare le immagini, perché “il
dentro assoluto è intollerabile senza un fuori e il fuori assoluto è irrespirabile senza
un dentro.
E’ necessario quindi creare passaggi e vie di comunicazione tra il fuori e il dentro.
Il che significa ricorrere alle parole. La gratitudine che si prova nei confronti di
Calvino è dovuta al modo con cui andava oltre la realtà, il che gli richiedeva coraggio,
agilità e intelligenza.32
Lo stesso coraggio, la stessa intelligenza e la stessa agilità che usa Pasolini nella poesia,
nella narrativa e alla fine nei suoi film quando lascia cadere nel suo “schermo vuoto” le
sue immagini-imago.
I due autori, in conclusione, riescono ad emozionarci attraverso modalità diverse,
ma parallele, convergendo sull’attenzione centrata sull’essere e sulla sua sacralità. Le
storie di carne pasoliniane ci emozionano nel rappresentare il mistero della realtà attraverso le immagini poetiche, cinematografiche e musicali; le storie d’inchiostro calviniane ci fanno volare sulle parole con la leggerezza dell’ippogrifo per rappresentare analogamente il mistero dell’uomo e dell’universo.
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Sentieri letterari del Novecento
2002 - 2003
Calendario degli incontri
11 marzo 2003 - 27 maggio 2003
AULA MAGNA LICEO “G. GALILEI”
Ore 16 - 18
Martedì Il Gattopardo, un caso letterario
11 marzo Relatore prof. O. TROTTA
Martedì Gadda e lo sperimentalismo linguistico nella Letteratura italiana
18 marzo Relatore prof. M. FERRARI
Martedì Eduardo e la humanitas del Novecento
25 marzo Relatrice prof.ssa L. D’ANDREA - Contributo della prof.ssa C. MARTELLOTTI per la
lettura da La Tempesta di W. Shakespeare
Mercoledì Montale e le filosofie coeve
9 aprile
Relatore prof. A. AGOSTA
Martedì
15 aprile
Il moralismo di Moravia da Gli Indifferenti a L’attenzione
Relatrice prof.ssa S. BISCONTINI
Martedì Il sentimento religioso nella poesia di Luzi
6 maggio Relatore prof. E. MERCATI
Mercoledì Fenoglio tra neorealismo e sperimentalismo linguistico
14 maggio Relatrice prof.ssa P. HERBIN
La letteratura inglese e la lingua inglese ne Il Partigiano Johnny di Fenoglio
Contributo della prof.ssa C. MARTELLOTTI per la Letteratura anglo-americana
Martedì Pintor, Pavese e Vittorini, il mito americano nella cultura italiana degli Anni Trenta
20 maggio Relatore prof. V. ROMANO
Il panorama letterario americano fra Ottocento e Novecento
Contributo della prof.ssa C. MARTELLOTTI per la Letteratura anglo-americana
Martedì Calvino e Pasolini, intellettuali tra impegno e disimpegno
27 maggio Relatrice prof.ssa L. D’ANDREA
Coordinatrice prof.ssa Lina D’Andrea
Centro Stampa Provincia di Perugia