capitolo i - Dike Giuridica Editrice

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capitolo i - Dike Giuridica Editrice
CAPITOLO I
La sfuggente nozione di ente pubblico
Sommario: Sezione I. I temi – 1. Il pluralismo della pubblica amministrazione: l’importanza
della qualificazione pubblicistica – 2. La sfuggente nozione di ente pubblico tra legge ed
indici sintomatici: la natura ambigua delle s.p.a. pubbliche – 2.1. Natura pubblica della persona giuridica: base legislativa e indici rivelatori – 2.2. La soggettività pubblica nel diritto
dell’Unione Europea: l’organismo di diritto pubblico e la riqualificazione in senso pubblicistico – 2.3. La posizione della giurisprudenza nazionale – 3. Dallo status di ente pubblico
alla logica delle geometrie variabili: la nozione comunitaria di pubblica amministrazione –
4. L’organismo di diritto pubblico – 4.1. La personalità giuridica – 4.2. L’influenza pubblica dominante – 4.3. Il requisito teleologico – 4.4. Organismo di diritto pubblico e impresa
pubblica: la vexata quaestio della loro esatta individuazione approda innanzi all’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato – 5. Ente pubblico e riparto di giurisdizione alla luce del
codice del processo (art. 7, co. 2) – 5.1. L’incerta perimetrazione della giurisdizione del
g.a. nelle controversie involgenti le società a partecipazione pubblica: gli atti “a monte” del
contratto societario… – 5.2. Segue. La posizione delle Sezioni Unite in materia di riparto
di giurisdizione sugli atti “a valle” del contratto sociale – 5.2.1. Lo stato dell’arte della
giurisprudenza – 5.2.2. Riflessioni critiche – 5.3. Gli ultimi arresti della giurisprudenza
– Sezione ii. La giurisprudenza – 1. Corte Cost. 27 giugno 2012, n. 161 estende anche
alle Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona le medesime conclusioni rassegnate per le
IPAB: la natura pubblica degli enti non è una questione nominalistica e va valutata case by
case – 2. Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2012, n. 3820 perimetra la nozione di ente pubblico:
non ha natura pubblicistica l’ente nel quale la P.A. abbia il potere di revocare gli amministratori delle società partecipate – 3. Cass. civ., sez. un., 07 luglio 2011, n. 14958 fa il punto
sui requisiti dell’organismo di diritto pubblico – 4. Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2012,
n. 8511 indaga il ruolo del regime concorrenziale nell’individuazione degli organismi di
diritto pubblico – 5. Cons. Stato, ad. plen., 01 agosto 2011, n. 16 mette a fuoco analogie e
differenze tra impresa pubblica ed organismo di diritto pubblico – 6. Cons. Stato, sez. VI,
20 marzo 2012, n. 1574 conferma la posizione della Plenaria: il diverso ruolo del requisito
dell’influenza pubblica in impresa pubblica ed organismo di diritto pubblico – 7. Cons.
Stato, sez. VI, 23 novembre 2010, n. 5379 afferma la natura di organismo di diritto pubblico della RAI s.p.a., con la conseguente devoluzione della giurisdizione al g.a. – 8. Cass.
civ., sez. un., 22 dicembre 2011, n. 28329 afferma la doppia natura di impresa pubblica ed
organismo di diritto pubblico della RAI s.p.a., con la conseguente soggezione a diverse
giurisdizioni, in ragione di un criterio ratione materiae – 9. Cons. Stato, ad. plen., 03 giugno
2011, n. 10 devolve al g.a. le controversie relative ad atti prodromici alla stipula del contratto sociale – 10. Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30167 afferma la giurisdizione
del G.O. per la caducazione del contratto societario conseguente all’annullamento della
scelta del contraente privato – 11. Cass. civ., sez. un., 05 aprile 2012, n. 5446 fa il punto sul
riparto di giurisdizione in tema di contratti di società a partecipazione pubblica
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Sezione i
i temi
1. Il pluralismo della Pubblica Amministrazione: l’importanza della
qualificazione pubblicistica
Nell’ordinamento italiano vige il principio del pluralismo della P.A., per cui
coesistono, accanto allo Stato, altri soggetti, dotati, oltre che di capacità
giuridica privata, anche di capacità giuridica pubblica, che perseguono fini
di interesse pubblico.
La pluralità dei soggetti giuridici pubblici è al centro di un intensissimo
dibattito dottrinario e giurisprudenziale: lungi dal costituire una questione
meramente classificatoria, la qualificazione pubblica di un ente comporta
rilevanti conseguenze pratiche sul piano disciplinatorio.
In primo luogo, ogni ente pubblico, anche se svolge attività largamente o esclusivamente privatistica (ivi compresi quindi gli enti pubblici economici, che agiscono prevalentemente jure privatorum), dispone sempre di
un potere pubblicistico, il cui contenuto minimo si sostanzia nel potere di
auto-organizzarsi, dettando, in via statutaria o regolamentare, le regole
fondamentali della propria organizzazione interna. Ai sensi dell’art. 2 del
T.U. n. 165/2001, tali atti restano espressione di un potere pubblicistico
di auto-organizzazione, al cospetto del quale residuano posizioni di mero
interesse legittimo.
Sul piano disciplinatorio, una seconda rilevante conseguenza concerne il
rapporto di lavoro. Dalla qualificazione pubblicistica dell’ente-datore di lavoro, infatti, discende la correlativa qualificazione pubblicistica del rapporto
di lavoro alle dipendenze dell’ente. Infatti, anche a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, la regolamentazione del rapporto di lavoro alle
dipendenze degli enti pubblici (segnatamente quelli non economici: art. 1,
comma 2, T.U.) conosce alcune peculiarità relative proprio alla soggettività
pubblica dell’ente-datore di lavoro. Non bisogna dimenticare, invero, che,
gli atti con cui l’Amministrazione gestisce il rapporto di lavoro privatizzato
rimangono pur sempre atti finalizzati al perseguimento di un interesse pubblico. Ciò comporta l’assoggettamento degli atti di gestione del rapporto
di lavoro al controllo giurisdizionale di rispondenza all’interesse pubblico,
nonché ad alcune regole, motivazionali e procedimentali, che hanno natura
anch’esse sostanzialmente pubblicistica.
Ancora, dalla qualifica di ente pubblico discende l’assoggettamento alle
regole sul procedimento amministrativo contenute nella L. 241/1990,
che disciplinano l’attività degli enti pubblici (v. art. 29 della L. 241/1990,
che assoggetta alle disposizioni della legge le pubbliche amministrazioni
nonché le società a partecipazione pubblica totalitaria o prevalente).
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Da contraltare ai poteri speciali di cui dispone l’ente pubblico, che condensano la c.d. “supremazia speciale” verso i privati, si pongono una serie di
limitazioni alla libertà d’azione che contraddistinguono i soggetti pubblici rispetto ai soggetti privati.
Un primo limite si rinviene nei controlli, di varia natura (sugli atti, sugli
organi, gestionali, interni o esterni, contabili), di cui sono oggetto tutti gli
enti pubblici, finalizzati a valutare la legittimità dell’attività dell’ente e la
rispondenza all’interesse pubblico.
Una fortissima limitazione è costituita, inoltre, dall’assenza di una
completa e perfetta libertà negoziale, caratterizzata da numerosi vincoli,
regole e limiti pubblicistici, finalizzati alla procedimentalizzazione trasparente della scelta contrattuale, in merito all’an, al contenuto del contratto e
alla scelta del partner negoziale.
Più in generale, l’azione delle pubbliche amministrazioni, anche quando
si svolge con moduli privatistici, non è mai libera nei fini e non è, quindi,
espressione di un potere di autodeterminazione assimilabile all’autonomia
negoziale dei privati, essendo, invece, costantemente funzionale all’interesse
pubblico che deve perseguire ai sensi dell’art. 97 Cost. Trattasi quindi di
un’attività sempre funzionale e non libera; caratterizzata, cioè, da un vincolo teleologico suscettibile di controllo e sindacato in sede giurisdizionale.
Un ulteriore limite derivante dalla natura pubblica degli enti concerne
il regime dei beni pubblici (demaniali e patrimoniali indisponibili), che
soggiace ai limiti dettati nel pubblico interesse dagli artt. 822 ss. c.c., nonché
dalle norme di diritto speciale.
A fronte di tali limitazioni, si collocano una serie di privilegi che derivano dalla qualificazione pubblica dell’ente, in ossequio alla sua natura di ente
deputato alla cura di interessi pubblici, meritevole pertanto di uno statuto
speciale di favore.
In primo luogo, gli enti pubblici hanno il potere di adottare unilateralmente atti che incidono negativamente nella sfera giuridica altrui.
Detti poteri, in particolare, si compendiano nell’autarchia e nell’autotutela.
La prima consiste nell’attribuzione della titolarità di pubblici poteri a
una persona giuridica diversa dallo Stato, con compiti o funzioni di interesse
pubblico, mediante l’equiparazione degli atti da questa emanati a quelli dello Stato. L’autotutela amministrativa, invece, si sostanzia nella possibilità
riconosciuta dalla legge alla P.A. di risolvere i conflitti potenziali o attuali
nascenti dalla propria attività, con i mezzi a sua disposizione, e segnatamente annullando e revocando i provvedimenti illegittimi o inopportuni (artt.
21-quinquies e 21-nonies L. 241/1990), senza bisogno di ricorrere all’autorità
giudiziaria.
Le P.A. si sottraggono, inoltre, alle ordinarie regole del fallimento, essendo consentito alle imprese pubbliche, di continuare a operare sul
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mercato anche in condizioni di disfunzione, in ragione dei preminenti fini
pubblici perseguiti.
Sotto il profilo patrimoniale, poi, i beni demaniali e indisponibili delle P.A. non sono suscettibili di esecuzione forzata, secondo le ordinarie
regole del codice di procedura civile, né di espropriazione per pubblica utilità, salvi i casi eccezionali di cui al T.U. sull’espropriazione (art. 4, D.P.R.
327/2001).
La qualificazione pubblicistica di un soggetto, infine, incide anche sul riparto di giurisdizione: la natura pubblicistica di un ente, invero, comporta
l’assoggettamento del contenzioso relativo ai loro provvedimenti (e, nelle
materie devolute alla giurisdizione esclusiva, anche delle condotte connesse
all’esplicazione di detti poteri) alla giurisdizione del giudice amministrativo.
L’art. 103 Cost., invero, qualifica il giudice amministrativo come il giudice
munito di “giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei
diritti soggettivi”, con la conseguenza che, per definizione, in assenza di un
soggetto qualificato come pubblico, la giurisdizione non spetta al G.A. (v.
parr. 5. e segg.).
2. La natura ambigua delle s.p.a. pubbliche tra legge ed indici
sintomatici*1
2.1. Natura pubblica della persona giuridica: base legislativa e indici rivelatori
Si è detto che il tema della soggettività pubblica costituisce uno degli argomenti ancora molto dibattuti in dottrina e giurisprudenza, e ciò anche
per effetto dell’evoluzione ordinamentale interna - nella sua articolazione
statale e regionale - e comunitaria, che nel tempo ha scardinato la coincidenza tra soggettività pubblica e svolgimento di attività di interesse
pubblico, ravvisandosi talora l’esistenza di soggetti pubblici preposti allo
svolgimento di attività avente natura precipuamente privatistica, nonché di
soggetti privati chiamati, per legge o per effetto di provvedimenti amministrativi, allo svolgimento di pubbliche funzioni. Questi ultimi sono chiamati
ad esercitare l’attività amministrativa loro demandata assicurando il rispetto dei criteri e principi generali che dominano l’agere pubblico con un livello
di garanzia, ha precisato il legislatore con la L. 190/2012, non inferiore a
quello cui sono tenute le Pubbliche Amministrazioni in forza della legge
generale sul procedimento amministrativo.
Numerose sono le disposizioni di rango costituzionale che, trattando in
maniera più o meno diretta dell’organizzazione amministrativa, involgono
* Il presente paragrafo è tratto da G. La Greca, La sfuggente nozione di ente pubblico tra legge
ed indici sintomatici, in Il Nuovo Diritto Amministrativo 2013, 1.
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la definizione di soggetto pubblico: artt. 5 e 114, relativi al riconoscimento
delle autonomie locali; art. 28, relativo alla responsabilità dei funzionari e
i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici; art. 95, relativo all’unità di
indirizzo politico ed amministrativo del Governo; art. 97 (da ultimo modificato con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1), relativo al principio di
imparzialità, al mantenimento dell’equilibrio dei bilanci, alle attribuzioni e
responsabilità dei funzionari pubblici ed alla regola del concorso per il relativo reclutamento; artt. 24 e 113 in tema di tutela giurisdizionale rispetto
agli atti della pubblica amministrazione, art. 118 inerente ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
La dottrina definisce la persona giuridica «pubblica» in ragione dei fini
che la stessa persegue; il predicato «pubblico» rimanderebbe alla collettività di persone alla quale i fini si riferiscono (la società organizzata in Stato,
o suoi segmenti come la comunità regionale o la comunità di persone che
fanno parte di un medesimo comune) (Corso). La natura dei fini influisce
sul contenuto dei diritti, dei poteri e dei doveri della persona giuridica pubblica.
Anche il codice civile contempla specifiche previsioni relative alla soggettività pubblica: l’art. 11, in particolare, stabilisce che «le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche, godono dei diritti
secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico».
È stato da sempre affermato il carattere ancipite della norma, nel senso
che la stessa può essere interpretata come quella che conferma la capacità generale delle persone giuridiche pubbliche, salve le limitazioni poste
dal diritto pubblico, ovvero come quella che esclude le persone giuridiche
pubbliche dall’applicazione della disciplina comune, sottoponendole senz’altro alle discipline differenziate di diritto pubblico, esse cioè godrebbero dei
diritti, non secondo le leggi civili ma secondo le leggi di diritto pubblico
(Galgano).
Se ne deduce l’immanente applicazione delle disposizioni civilistiche anche alle pubbliche amministrazioni ad esclusione delle attività che comportano esercizio di potere attribuito sulla base delle «leggi e gli usi osservati
come diritto pubblico».
La legge 20 marzo 1970, n. 75 ha dettato una disciplina generale in
materia di soggettività pubblica ed ha posto la regola che nessun ente
pubblico può essere istituito o riconosciuto tale se non per espressa disposizione di legge: anteriormente alla predetta legge il riconoscimento della personalità giuridica pubblica poteva avvenire anche in forza di
provvedimento amministrativo, che disponeva la creazione ex novo, oppure attribuiva la qualifica ad un ente già provvisto della personalità giuridica di diritto privato acquistata ai sensi dell’art. 12 c.c. (Cass. civ., sez.
VI, 25 maggio 1979, n. 384).
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L’individuazione di un ente quale «pubblico» può costituire oggetto di un’espressa e «nominativa» previsione legislativa.
Talora, come detto, tale qualificazione, in assenza di un catalogo di
enti pubblici, fa sì che, invece, essa sia il frutto di una disposizione
legislativa che si limiti ad istituire l’ente e non ne attribuisca espressamente il carattere pubblicistico. In siffatti casi diviene necessario giungere alla qualificazione o meno dell’ente quale pubblico e ciò sulla base di
specifici indici sintomatici.
Le varie teorie hanno individuato il carattere pubblico di un ente sulla
base delle finalità di cura e tutela di interessi pubblici che astrattamente
connotano la relativa attività, ovvero nell’esistenza di un «rapporto di servizio» con l’ente pubblico di riferimento.
È stato affermato che gli indici rivelatori della natura pubblica della
persona giuridica si rinvengono dall’insieme delle norme che complessivamente disciplinano la nascita e l’attività dell’ente, natura pubblica
che costituisce strumento per individuare a sua volta le norme da applicarsi (Corradino).
L’attribuzione ovvero il mantenimento del carattere pubblico di un ente
da parte del legislatore non può considerarsi del tutto libera: in tal senso
va ricordata la giurisprudenza formatasi sulle IPAB, per le quali la Corte
Costituzionale con sentenza n. 396 del 1988 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della cd. Legge Crispi del 1890. La Corte ha sottolineato che il regime di pubblicizzazione previsto nella predetta Legge Crispi
per le istituzioni di assistenza e beneficienza pubblica va ritenuto superato,
considerato l’assetto della Carta Costituzionale che all’art. 38 stabilisce un
favor per l’autonomia privata («Questa esigenza è imposta dal principio pluralistico che ispira nel suo complesso la Costituzione repubblicana e che, nel campo della
assistenza, è garantito, quanto alle iniziative private, dall’ultimo comma dell’art.
38, rispetto al quale è divenuto ormai incompatibile il monopolio pubblico delle
istituzioni relative», sent. n. 396/1988 cit.).
Dopo la sentenza della Corte, il legislatore ha profondamente riformato le
istituzioni di assistenza e beneficienza, trasformandole in aziende di servizi
alla persona (ASP). La Corte Costituzionale, con la recente sentenza 27
giugno 2012, n. 161, ha ribadito l’estensione dell’applicazione delle regole
di finanza pubblica che riguardano gli enti locali anche alle (trasformande)
IPAB (e, per alcuni aspetti alle ASP), sostenendo che «l’importanza rivestita
in un lungo arco temporale da tali Istituzioni di natura pubblica, la rilevanza degli
statuti e delle tavole di fondazione, peraltro notevolmente eterogenei, ed i poteri di
vigilanza e di tutela pubblica inducono ad affermare un’indubbia peculiarità di
questo genere di soggetti, non catalogabili in precise categorie di enti pubblici».
Il tradizionale modello teorico sulla base del quale dottrina e giurisprudenza hanno basato la definizione di ente pubblico, seppur da sempre
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avulso da una catalogazione degli enti pubblici e connotato da una certa
elasticità fondata (oltre che sulla base legislativa) sugli indici sintomatici, è entrato in crisi a seguito dei diversi processi di privatizzazione
che, nell’ultimo ventennio, sono intervenuti nel panorama ordinamentale
nazionale, oltre che, come sopra anticipato, per effetto della disciplina
comunitaria.
A seguito della prima privatizzazione intervenuta nei primi anni Novanta è stato infatti affermato che, pur in presenza di un dato formale di tipo
privatistico, la sostanziale connotazione pubblica degli enti trasformati non
era venuta meno, con conservazione di ogni potere di controllo da parte
delle amministrazioni di riferimento e da parte della Corte dei Conti: «La
semplice trasformazione degli enti pubblici economici di cui all’art. 15 della legge
n. 359 del 1992 non può essere, infatti, ritenuto motivo sufficiente a determinare
l’estinzione del controllo di cui all’art. 12 della legge n. 259 del 1958, fino a
quando permanga inalterato nella sostanza l’apporto finanziario dello Stato alla
struttura economica dei nuovi soggetti, cioè fino a quando lo Stato conservi nella
propria disponibilità la gestione economica delle nuove società mediante una partecipazione esclusiva o prevalente al capitale azionario delle stesse» (Corte Cost.,
28 dicembre 1993, n. 466).
Il predetto processo di privatizzazione che nell’ultimo decennio ha dato
luogo alla costituzione di numerose società «pubbliche», ossia società con
rilevante partecipazione pubblica, ha posto il problema della qualificazione delle predette persone giuridiche, le quali indubbiamente rivestono una
struttura di tipo privatistico con applicazione delle regole stabilite dalla legge per ogni altra società di diritto privato e che, tuttavia, qualora si tratti di
determinare la responsabilità degli amministratori per mala gestio ovvero le
procedure per l’assunzione delle necessarie risorse umane vengono assimilate a veri e propri enti pubblici.
Analoga assimilazione è avvenuta con riferimento alle disposizioni che
hanno assoggettato le società partecipate dagli enti locali alle disposizioni
sul patto di stabilità interno come previsto dapprima dall’art. 23-bis, comma
10, del D.L. n. 112 del 2008 e, successivamente, dall’art. 4, comma 14, del
D.L. n 138 del 2011 (modificato dall’art. 53, comma 1, lett. b), n. 3, del D.L.
22 giugno 2012, n. 83), disposizione, quest’ultima, oggetto di una recente
pronuncia di incostituzionalità per violazione dell’art. 75 Cost. (Corte cost.,
20 luglio 2012, n. 199. Sul tema si rinvia all’apposito volume della presente
collana).
Circa la configurabilità di enti pubblici a struttura societaria, il dibattito si è polarizzato intorno alla questione se la finalizzazione pubblicistica dell’ente societario e l’alterazione del modello societario tipico possano indurre ad affermare l’attrazione alla sfera pubblica delle c.d. società
partecipate. La dottrina sostiene, sul punto, che l’istituzione per legge o, su
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specifica autorizzazione legislativa, ad opera di una Pubblica Amministrazione, la determinazione in via legislativa di determinazione e scopo, nonché, infine, la prescritta pertinenza della società all’ente pubblico per una
quota maggioritaria, se rappresentano, per così dire, il nucleo indefettibile
di requisiti di cui occorre verificare l’esistenza onde procedere ad una qualificazione in senso pubblicistico dell’organismo societario, non esauriscono,
ancora, il novero degli elementi necessari a far transitare nell’alveo pubblicistico un ente avente forma tipicamente privatistica: occorre, infatti, non
perdere mai di vista il dato della precisa indicazione che, pur non incompatibile con una qualificazione pubblicistica, impone all’interprete un ulteriore
sforzo, volto alla ricerca di elementi sintomatici della pubblicità dell’ente
che si aggiungano a quelli formulati nel tentativo di dare una soluzione alla
più generale problematica della concreta individuazione degli enti pubblici
(Caringella).
In realtà, negli ultimi anni, gli interventi legislativi, anche di settore,
che hanno disciplinato l’attività ed il funzionamento di soggetti privati
partecipati da enti pubblici e che sono stati a loro volta destinati, per legge o per statuto, a svolgere attività di interesse pubblico, hanno prodotto
una sorta di sostanziale assimilazione di dette persone giuridiche – che,
tuttavia, mantengono la loro formale struttura di soggetti privati – agli
enti pubblici.
Tale assimilazione è avvenuta fondamentalmente per ragioni di tutela della finanza pubblica, considerato che spesso il modulo privatistico
costituisce un mezzo elusivo di disposizioni che risultano indubitabilmente
cogenti per gli enti (pubblici) partecipanti ma non anche per i soggetti privati dagli stessi costituiti o partecipati.
In linea generale, va rilevato come ormai si tenda ad un’identificazione
tra ente pubblico ed enti inseriti nel conto consolidato della Pubblica
Amministrazione: a quest’ultimo frequentemente il legislatore fa riferimento per attrarre i soggetti privati all’orbita pubblicistica e, segnatamente,
per estendere l’applicazione di disposizioni legislative che limitano la relativa attività per ragioni di finanza pubblica.
In precedenza, l’elenco delle amministrazioni ai fini del concorso al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale
era disciplinato dall’art. 1, comma 5, della L. 311/2004, disposizione, questa,
sostituita dall’art. 1, comma 2 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, ai sensi
del quale «Ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza
pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono, per l’anno 2011, gli enti e i
soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) in data 24 luglio 2010, pubblicato in pari data nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 171, nonché a decorrere dall’anno
2012 gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dal predetto Istituto nell’elenco
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oggetto del comunicato del medesimo Istituto in data 30 settembre 2011, pubblicato
in pari data nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 228, e successivi
aggiornamenti ai sensi del comma 3 del presente articolo, effettuati sulla base delle
definizioni di cui agli specifici regolamenti dell’Unione europea, le Autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni».
La tematica dell’inserimento di enti privati nell’ambito dell’elenco di
cui alla L. n. 196 del 2009 soprarichiamata è stata di recente affrontata dal
Consiglio di Stato, con riferimento all’applicazione di alcune disposizioni di
settore quale quella che prevede l’esclusione del rimborso degli oneri sostenuti dai datori di lavoro per le funzioni elettive (e non) svolte dal personale
dipendente di enti privati o di enti pubblici economici.
Ai sensi dell’art. 80 del D. LGS. 18 agosto 2000, n. 267, infatti, gli oneri
per i permessi retribuiti dei lavoratori «dipendenti da privati o da enti pubblici
economici» sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche e l’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni
ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore che
svolge la funzione pubblica (consigliere comunale o provinciale, sindaco,
assessore, ecc.).
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (parere n. 706-4782/2011 del
22 dicembre 2011) ha ritenuto che in tale seppur limitato contesto, vanno
considerate amministrazioni pubbliche, in difetto di una specifica disciplina di riferimento, tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
165/2001; gli enti e gli altri soggetti inseriti nel conto economico consolidato individuati, ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 196/2009,
dall’ISTAT. Lo stesso Consesso ha conseguentemente affermato che sono
da considerarsi soggetti «privati», ai sensi dell’art. 80, secondo periodo, del
d.lgs. n. 267/2000 – e, quindi, non sono a loro carico gli oneri dei propri dipendenti per i permessi retribuiti conseguenti all’esercizio delle funzioni pubbliche di cui al precedente art. 79 – tutte le società pubbliche ad
esclusione di quelle inserite nel conto economico consolidato e individuate
dall’ISTAT e di quelle che hanno per legge «personalità giuridica di diritto
pubblico».
Tale pronunciamento rileva come in realtà, al fine di individuare le amministrazioni pubbliche in quanto tali non aventi diritto al rimborso per gli
oneri sostenuti, va invocata una «soluzione di certezza giuridica che regga su
dati normativi testuali e prescinda da interpretazioni legate all’accertamento della
natura delle singole situazioni», per cui, ai tali fini, va ritenuto che «sono amministrazioni pubbliche:
a) tutte quelle elencate dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001;
b) gli enti e gli altri soggetti inseriti nel conto economico consolidato individuati,
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ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 196/2009, dall’ISTAT. Si veda da
ultimo l’elenco di cui al comunicato 24 luglio 2010 e a quello 30 settembre 2011,
che comprende varie società pubbliche – quali, ad esempio Anas S.p.A., Coni Servizi
S.p.A., Italia Lavoro S.p.A., Patrimonio dello Stato S.p.A. - ma non Ferrovie dello
Stato S.p.A., Trenitalia S.p.A. e Poste Italiane S.p.A.;
c) quelle società alle quali la legge attribuisce espressamente “personalità giuridica
di diritto pubblico” (ad es. si veda l’art. 18, comma 9, della l. 22 dicembre 1984, n.
887 con riguardo all’Agecontrol)».
Ciò precisato, diversi sono gli elementi normativi e gli approdi giurisprudenziali dai quali poter desumere una sostanziale effettiva attrazione
delle persone giuridiche private partecipate da enti pubblici all’orbita
pubblicistica.
In primo luogo va richiamata la giurisprudenza della Cassazione sulla
responsabilità degli amministratori delle società partecipate e sulle
connesse questioni di giurisdizione: per il giudice del riparto va valutato se la società per azioni sia un soggetto non solo formalmente ma anche
«sostanzialmente» privato ovvero se essa sia un mero modello organizzatorio del quale si avvalga la P.A. al fine di perseguire le proprie finalità, con
conseguente eventuale giurisdizione della Corte dei conti per i danni subiti
dall’ente a causa della mala gestio dei suoi organi sociali (Cass. civ., Sez. un., 9
maggio 2011, ord. n. 10063. Sul punto v. i successivi parr. 2.3. e 5 e segg.).
Anche per il reclutamento delle risorse umane la persona giuridica
partecipata deve seguire le procedure proprie degli enti pubblici con le connesse limitazioni, ove disposte. L’art. 7 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168
(Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica),
ha ribadito l’obbligo per le società a partecipazione pubblica che gestiscono
servizi pubblici locali - ad esclusione delle società quotate in mercati regolamentati - di adottare, secondo quanto già previsto dall’art. 18, comma 1, del
decreto legge n. 112 del 2008, con propri provvedimenti, criteri e modalità
per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel
rispetto dei principi previsti dal Testo unico del pubblico impiego (e, segnatamente, l’obbligo di dare adeguata pubblicità della selezione, l’obbligo
di adottare modalità di svolgimento della procedura di reclutamento che
garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento).
2.2. La soggettività pubblica nel diritto dell’Unione Europea: l’organismo di
diritto pubblico e la riqualificazione in senso pubblicistico
L’ordinamento comunitario ancora oggi non reca una definizione univoca di
Pubblica Amministrazione.
I Trattati comunitari precedenti a quello di Lisbona, entrato in vigore
nel 2009, non prevedevano alcuna disposizione riferita alla Pubblica Ammi-
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nistrazione intesa in senso generale, pur contemplando specifiche previsioni
inerenti altrettante specifiche fattispecie relative alle attività della Comunità
(accesso agli impieghi nella P.A., responsabilità dell’amministrazione per
fatti illeciti, disciplina degli aiuti di stato, ecc.).
L’assenza di una disposizione generale che, quanto meno, declinasse una
definizione astratta di pubblica amministrazione ha lasciato ampi spazi interpretativi alla Corte di Giustizia la quale, anch’essa, ha sostenuto opzioni ermeneutiche differenziate in relazione agli specifici ambiti ai quali
il concetto di pubblica amministrazione va riferito.
La Corte si è orientata per un’impostazione di tipo restrittivo quando,
con la sentenza Pilar Allué e Carmel Mary Coonan (30 maggio 1989, causa
C-33/88), ha evidenziato che i posti di insegnante - in generale - e quelli di
lettore di lingua straniera nelle università - in particolare - non sono impieghi nella pubblica amministrazione ai sensi dell’ art. 48, n. 4, del Trattato
e ciò poiché detti posti non implicano la partecipazione diretta o indiretta
all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche e
non presuppongono, nei loro titolari, un rapporto particolare di solidarietà
nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità dei diritti e dei doveri che
costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza.
Con sentenza 20 settembre 1988, causa C-31/87, Gebroeders Beentjes BV, la Corte di giustizia ha affermato che della nozione di Stato,
ai sensi dell’art. 1. lett. b) della direttiva 71/2005/CE, si deve dare
un’interpretazione funzionale. La finalità della direttiva, consistente nella
effettiva attuazione della libertà di stabilimento e della libera prestazione di
servizi in materia di appalti di lavori pubblici, sarebbe infatti compromessa
se l’applicazione del regime della direttiva stessa dovesse essere esclusa per
il solo fatto che un appalto di lavori pubblici è stato aggiudicato da un ente
che, pur essendo stato creato per svolgere funzioni attribuitegli dalla legge,
non rientra formalmente nell’amministrazione statale.
Il Trattato di Lisbona ha previsto per la prima volta una disposizione
generale sulla pubblica amministrazione, l’art. 298 TFUE («Nell’assolvere
i loro compiti le istituzioni, organi e organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione europea aperta, efficace ed indipendente», comma 1), con una formulazione che, pur ritenendo essa voglia affermare che le istituzioni, organi
ed organismi dell’Unione operano in modo indipendente e nel rispetto dei
principi di trasparenza ed efficacia, ad avviso di un autorevole studioso rimane «infelice» (Chiti).
Come sopra accennato l’ambito nel quale la vicenda della soggettività
pubblica ha conosciuto in sede comunitaria la sua vera evoluzione è quello rappresentato dalla nascita dell’organismo di diritto pubblico e dalla
sua definizione che ha dato luogo ad una nozione aperta di amministrazio-
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ne aggiudicatrice tale da superare gli schermi di tipo privatistico che, in
quanto tali, sotto il profilo formale, avrebbero impedito l’applicazione della
disciplina di stampo pubblicistico in materia di affidamento di commesse
pubbliche.
Rinviando per l’approfondimento della disciplina dell’organismo di diritto pubblico e dalle connesse differenze con l’impresa pubblica nella nozione tracciata dalla direttiva 2004/17/CE (sulle quali v. i successivi parr.
4 e segg.), va rilevato come l’approccio nazionale allo studio ed al concreto
svolgersi dell’applicazione di siffatto istituto ha condotto, almeno in Italia,
ad una sorta di pubblicizzazione complessiva della persona giuridica
privata tenuta all’applicazione della disciplina comunitaria in materia
di contratti pubblici.
La dottrina più recente (Torchia) ha evidenziato come in realtà parte
della giurisprudenza nazionale abbia estremizzato i punti di contatto tra
organismo di diritto pubblico e Pubblica Amministrazione in senso stretto,
procedendo ad un’operazione diversa da quella svolta dai giudici comunitari - lettura di tipo funzionale ancorata al caso concreto - e consistente
nella riqualificazione «in senso pubblicistico» dei soggetti interessati, con
conseguente riespansione della sfera pubblica ed applicazione a detti soggetti di tutto lo statuto pubblicistico e la sottoposizione dei relativi atti, in
presenza degli ulteriori presupposti di legge, alla giurisdizione del giudice
amministrativo.
È chiaro che ogni lettura estensiva, con approccio di tipo pubblicistico, dell’istituto dell’organismo di diritto pubblico, nei limiti in cui essa
può essere ammessa, deve essere giustificata dalla strumentalità dell’istituto
rispetto all’applicazione delle regole relative all’affidamento delle commesse
pubbliche, per cui mentre da un lato, ad esempio, si giustifica l’applicazione
delle disposizioni in materia di riparto di competenze degli organi dell’ente
locale anche alla società partecipata per le attività connesse all’affidamento
del contratto - si pensi alla figura del responsabile del procedimento ovvero
a quella del presidente di gara ex art. 107 d. lgs. n. 267 del 2000 - la configurazione dell’organismo di diritto pubblico non può da sola, invece,
ritenersi sufficiente a giustificare la giurisdizione del giudice amministrativo su atti che, poiché estranei al complessivo procedimento relativo
all’affidamento del contratto, da tale giurisdizione sono esclusi in quanto
promananti da soggetto privato.
Ed, invero, va ricordata l’avvenuta esclusione, in passato (Cons. di Stato,
Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 269), della giurisdizione del giudice amministrativo sulle procedure di reclutamento di personale poste in essere da
organismi partecipati, e ciò sulla base della ritenuta assenza di un’attività
riconducibile allo schema norma-potere-effetto, pur costituendo gli stessi
enti partecipati «organismi di diritto pubblico» nell’accezione comunitaria
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delineata dalle direttive 2004/18/CE e 2004/18/CE (nonché nell’omologa
disposizione di recepimento contenuta nell’art. 3, comma 26, del d. lgs. n.
163 del 2006).
Sulla rilevanza della qualificazione pubblica degli enti ai fini del riparto
di giurisdizione v. parr. 5 e segg.
2.3. La posizione della giurisprudenza nazionale
L’influenza esercitata dal diritto dell’Unione che ha imposto agli Stati
membri una dimensione funzionale delle nozioni e tra queste di quella di
soggetto pubblico, ha spostato l’attenzione dal piano della netta distinzione
tra pubblico e privato a quella della individuazione dei criteri di coesistenza
tra i due fenomeni, così che il riconoscimento della natura pubblica o privata di un soggetto rappresenta il primo passo che deve essere seguito dalla
successiva individuazione della disciplina in concreto applicabile. Pertanto,
la ricerca di quel fine pubblico, non più sufficiente per ascrivere l’attività di
un soggetto pubblico nell’alveo esclusivo del diritto pubblico, viene traslata
nella disamina della ratio della disciplina in concreto applicabile alla fattispecie. L’eterodeterminazione del fine tipica caratterizzazione del soggetto
pubblico non rappresenta, quindi, più il requisito unico di individuazione
della disciplina pubblicistica da applicare con ciò che ne consegue in termini
di giurisdizione.
Il problema è stato affrontato dai giudici di casa nostra soprattutto
con riferimento al potere di revoca dei rappresentanti di enti pubblici
in seno a fondazioni ed altri soggetti di diritto privato partecipati.
L’elaborazione pretoria sul punto, invero, è stata particolarmente prolifica.
In particolare, merita menzione la decisione Cons. Stato, n. 5107/2008,
la quale ha affermato la prevalenza della disciplina legislativa primaria sugli
statuti degli enti di diritto privato: “pur se la norma statutaria di una istituzione, azienda o ente avesse contemplato il divieto di revoca dei soggetti nominati,
per il principio della gerarchia delle fonti del diritto, sarebbe stata comunque una
norma non applicabile in quanto contra legem. L’articolo 50 reca, in definitiva,
una regola generale che prevale sulle norme statutarie anteriori dei diversi enti,
aziende ed istituzioni, che eventualmente stabilissero in senso difforme. […] Ove
lo statuto attribuisca al sindaco detto potere di nomina, lo stesso può disporne anche
la revoca, pur in difetto di esplicita previsione statutaria, quando il soggetto di
pubblica designazione opera discostandosi dalla linea di azione che, invece, l’orientamento politico-amministrativo dell’ente locale suggerirebbe. […] Il potere del
Sindaco di procedere alla revoca dei rappresentanti del comune presso enti, aziende
ed istituzioni, ecc. sussiste, infatti, non solo nelle ipotesi di rapporto di strumentalità
o subordinazione esistente tra il comune e l’ente nei cui confronti la nomina ha effetto, ma anche nei confronti degli enti sovvenzionati ovvero sottoposti a vigilanza