Rapporto Difesa 2011

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Rapporto Difesa 2011
RAPPORTO DIFESA 2011
a cura di Andrea Nativi
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INDICE
Introduzione
p. 3
Executive Summary
p. 4
Il contesto internazionale
p. 4
Il nuovo corso degli Stati Uniti
p. 7
Come cambia la difesa dei nostri partner
p. 10
La situazione della Difesa Italiana nel 2011
p. 13
Il Bilancio Difesa 2011
p. 15
Le missioni internazionali: voglia di disimpegno
p. 16
Che cosa fare in Afghanistan
p. 20
Una politica di difesa nazionale ed un nuovo strumento militare:
la proposta
p. 22
Procurement
p. 32
Conclusioni
p. 34
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RAPPORTO DIFESA 2011
a cura di Andrea Nativi
Introduzione
Se il 2010 è stato ancora un anno “normale” per la Difesa italiana, il 2011, avrebbe
dovuto essere l’anno del cambiamento, dell’adeguamento alle nuove sfide, al difficile contesto
economico che attanaglia in particolare il Vecchio Continente, l’anno dell’avvio della riforma di
un “sistema difesa” che ha sempre più bisogno di interventi di profonda ristrutturazione, se non
vuole rischiare di subire gli effetti di un decadimento in corso ormai da qualche anno e che è
stato rallentato grazie ad interventi straordinari ed alla capacità delle Forze Armate di supplire
alla mancanza di decisioni.
A dire il vero un tentativo di procedere alla riforma, attraverso un approccio davvero
“minimalista”, condotto in larga misura dalla Difesa al suo interno, senza ricorrere allo
strumento della legge delega e senza un dibattito che coinvolgesse l’intero Paese, istituzioni,
opinione pubblica, media, era in rampa di lancio, ma è stato vittima degli scossoni e delle
incertezze che hanno caratterizzato sinora il quadro politico. Merita di essere registrato anche lo
stimolo a procedere alla razionalizzazione venuto dalla Presidenza della Repubblica, e ribadito
in concomitanza con l’esplosione della crisi libica.
In una condizione “normale” in realtà potrebbe anche essere accettabile temporeggiare,
ma non lo è oggi, perché da un lato i problemi irrisolti della Difesa italiana continuano ad
aggravarsi, dato che lo strumento militare non viene sostenuto in maniera adeguata dal punto di
vista finanziario e organizzativo, e al contempo continua ad essere intensamente sfruttato in
missioni internazionali che logorano personale, mezzi e materiali, perché non c’è la disponibilità
a commisurare le ambizioni e le richieste alle effettive capacità. Se si spende di meno e se non
si spende bene si deve almeno accettare una riduzione degli impegni e delle capacità militari e
strategiche. Questo ridimensionamento potrebbe essere contenuto qualora si riuscisse a
recuperare davvero efficienza all’interno del “sistema”, ma per fare questo occorrono riforme
profonde e sicuramente difficili, che andrebbero poi attuate in tempi estremamente contenuti.
Non sembra purtroppo esserci alcuna volontà in questo senso, né a livello politico, né
tantomeno presso le Forze Armate, che purtroppo sembrano anche aver rinunciato a quello
spirito “joint” che doveva permettere di superare tradizionali e anacronistiche rivalità interforze
per ricercare efficienze e contenimento dei costi ovunque possibile. C’è il rischio concreto di un
“riflusso” antistorico, pur nella consapevolezza che tentando di salvaguardare il proprio orticello
si finisce solo per accelerare il decadimento complessivo.
E il tutto è reso più grave dai rapidi cambiamenti dello scenario internazionale e di
politica estera e di sicurezza, nonché dei provvedimenti e delle scelte in tema di difesa che i
principali partner e concorrenti del nostro Paese hanno già deciso e stanno attuando con
prontezza.
Questo è il secondo Rapporto che la Fondazione ICSA dedica alla Difesa Nazionale. Se
nella prima edizione avevamo necessariamente dedicato ampio spazio all’inquadramento
generale del sistema militare nazionale, compiendo una analisi ricognitiva oltre che propositiva,
questa volta abbiamo approfondito sia ciò che funziona, a dispetto di tutto, sia gli aspetti critici e
formulare proposte concrete per realizzare quel cambiamento che la Difesa attende invano da
troppo tempo. Purtroppo ogni anno che passa senza che si metta mano alla riforma non può che
compromettere le capacità già acquisite con significativi investimenti e grandi sforzi in passato,
le disfunzioni diventano più gravi, le carenze aumentano, anche perché le poche risorse
disponibili non sono impiegate al meglio. Una trasformazione che non potrà più essere
“cosmetica” diventa sempre più urgente.
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Executive Summary
Spendere meglio, affrontare i nodi irrisolti della difesa, a partire da quello della
consistenza del personale e dell’aggiornamento del Modello di Difesa, rendere
più efficiente il sistema Difesa, ridurre ed eliminare gli sprechi, aumentare il
“ritorno” in termini di capacità e di ruolo internazionale che il Paese ottiene con
i suoi investimenti nella Difesa e con la partecipazione alle missioni
internazionali (irrinunciabili per chi vuole sedere al tavolo dei grandi con potere
decisionale), migliorare la politica di procurement, adeguarci tempestivamente a
quello che stanno facendo nel settore Difesa i nostri partner/concorrenti,
prendere atto delle nuove sfide che conseguono dagli sconvolgimenti in Nord
Africa, nel vicino e medio oriente. Tutti queste tematiche sono affrontate nel
Rapporto Difesa 2011, che esamina la situazione e i problemi della Difesa
nazionale alla luce dei cambiamenti internazionali e della reazione dei Paesi
NATO e dell’Unione Europea e prospetta una serie di interventi per far sì che i
“soldi del contribuente” siano spesi al meglio. Il tutto nella consapevolezza che
la situazione economica è difficile e che non si può lasciare le cose come stanno
senza intervenire, senza formulare una nuova politica di Difesa, pena il
depauperamento dello strumento militare e degli investimenti effettuati in questi
anni. Nello studio si prevede una rimodulazione degli investimenti per la Difesa
ed una riduzione della consistenza complessiva delle forze armate: ipotizziamo
forze armate tra 150 e 165.000 effettivi, a fronte di una spesa di circa 16,5
miliardi di euro all’anno. Ci sarebbe ovviamente una diminuzione di capacità e
quindi di livello di ambizione nazionale, ma le capacità perdute sarebbero in
larga misura quelle che oggi esistono solo sulla carta, perché i soldi disponibili
non sono sufficienti per far funzionare l’esistente e sono comunque almeno in
parte spesi male. Lo studio tiene ovviamente conto degli ultimi avvenimenti in
Mediterraneo, che non possono che avere un impatto, già immediatamente,
sulle politiche di difesa nazionali e sul tipo di strumento militare di cui il Paese
avrà bisogno.
Il contesto internazionale
Lo scenario internazionale ha “regalato” tra fine 2010 e inizi 2011 un nuovo arco di
instabilità che coinvolge un po’ tutti i Paesi che si affacciano sulla sponda meridionale del
Mediterraneo, un fenomeno che si sta estendendo anche in altri Paesi medio-orientali, a partire
da quelli più deboli, come è il caso dello Yemen, ma che rischia di contagiare anche le
traballanti monarchie del Golfo, come dimostrato dagli scontri in Bahrein, il più “occidentale” e
aperto paese della regione e le agitazioni in Oman e Qatar. Un fenomeno prevedibile, ma che
non per questo è meno preoccupante. A questo si aggiunge il rischio di destabilizzazione del già
precario Libano. Quello che non è stato evidenziato nelle analisi politico-strategiche di questo
processo sono le sue conseguenze in termini di sicurezza e difesa per i paesi occidentali e in
particolare per quelli, come l’Italia, protesi nel Mediterraneo. Per essere brutalmente diretti: ci si
rende conto di cosa potrebbe portare l’avvento della “democrazia” in Egitto? Cosa accadrebbe
se si insediasse un governo islamico non troppo moderato, considerando che l’Egitto confina
con Israele ed ha forze armate riequipaggiate ed addestrate dall’occidente? Per non parlare delle
velleità del Cairo nel campo delle armi per la distruzione di massa e dei vettori missilistici.
Inoltre, dopo quello che è accaduto in Tunisia, l’Algeria sembra per il momento
controllare le proteste, la stessa Giordania ha dovuto prendere misure straordinarie che
potrebbero non essere sufficienti, e la Siria è a sua volta stata contagiata, con il regime che
risponde con un misto di brutalità e caute aperture. Per non parlare poi della guerra civile in
Libia che ha destabilizzato il Paese, coinvolto nuovamente l’Occidente in un conflitto in un
Paese arabo e senza che sia in vista una soluzione a breve termine. Probabilmente sarà
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necessaria l’ennesima missione di stabilizzazione, nella quale l’Italia sarà forzatamente
coinvolta, mentre la comunità internazionale ha toccato il punto più basso di una storia di
gestione fallimentare delle crisi.
Ribelli libici festanti nei pressi di Brega (Fonte VOA)
Come se non bastasse, l’incubo di un nuovo conflitto arabo-israeliano può divenire
concreto, per non parlare poi dei rischi diretti per l’Europa, in termini di accesso alle fonti
energetiche, alla sicurezza delle linee di comunicazione marittima (a partire dal canale di Suez e
non solo), di minaccia terroristica, di immigrazione illegale, di sfruttamento delle zone
economiche esclusive e, se vogliamo essere pessimisti, di minaccia missilistica e militare
convenzionale.
Questa è una realtà della quale l’Unione Europea, la NATO ed in particolare i Paesi in
“prima linea”, come Italia, Spagna e Francia dovrebbero cominciare a tenere conto in fase di
pianificazione dello strumento militare, di definizione del budget della difesa e di investimenti
nella sicurezza. Mentre si può procedere molto rapidamente nel ridurre gli strumenti militari,
mandare in pensione o vendere mezzi ed equipaggiamenti, rinunciare a capacità è invece lento e
molto costoso. Purtroppo ancora una volta l’Europa resta alla finestra, la dimensione
militare/sicurezza dell’Unione rimane un’incompiuta e al massimo l’Unione è in grado di
svolgere missioni di peacekeeping di basso profilo. Quanto poi a parlare con una sola voce in
occasione di crisi e emergenze…dopo quello che si è visto con la guerra di Libia è difficile
essere ottimisti anche in un’ottica di lungo periodo.
La seconda grande novità viene dal vertice NATO di Lisbona, che ha portato alla
approvazione di un Nuovo Concetto Strategico, all’impegno dell’Alleanza Atlantica nel campo
della difesa antimissile e alla definizione di nuove priorità in termini di capacità che i partner
dovranno (dovrebbero) fornire, nonché del “recupero” del rapporto con la Russia. La NATO,
che in molti davano ormai per irrilevante, conserva ruolo e funzione, sia pure con il
ridimensionamento conseguente al crescente interesse USA per Asia e Pacifico, confermato
dalla prossima riduzione di rango di tutti i comandi statunitensi nel Vecchio Continente. La
NATO dunque conserva una ragione d’essere, viene rilanciata anzi dalla crisi libica e acquisisce
nuovi ruoli, in particolare quello per la difesa antimissile del territorio e della popolazione degli
stati membri (l’Italia potrà contribuire con i sistemi antimissili “tattici” che sta
acquisendo/sviluppando – il MEADS (quest’ultimo peraltro prossimo alla cancellazione dopo
che gli USA hanno unilateralmente deciso di non procedere alla sua acquisizione) e SAMP-T,
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mentre è stato mostrato interesse a sviluppare una capacità antimissile navale per creare uno
“strato” antimissile di livello superiore) nonché nel campo del cyberwarfare e in prospettiva,
della sicurezza energetica e della guerra spaziale/accesso allo spazio. Una nuova enfasi viene
poi attribuita alla creazione di capacità militari dedicate alla controguerriglia ed alla assistenza
militare a partner/alleati per l’addestramento e la preparazione delle proprie forze armate e di
sicurezza. L’Alleanza Atlantica poi è oggettivamente l’unica organizzazione internazionale ad
avere una credibilità, militare e politica, costruita in buona misura dal successo ottenuto nelle
operazioni che ha condotto. Né ONU né UE possono dire altrettanto. Tuttavia il credito non è
illimitato e fa riconfermato in ogni nuova “prova”. Anche per questo i paesi membri dovrebbero
impegnarsi molto di più di quanto non facciano per far si che la NATO possa conseguire gli
obiettivi assegnati, in Afghanistan, nella missione anti-pirateria e in Libia. La posta in gioco è
davvero molto alta.
Al vertice NATO si è parlato anche di disarmo nucleare, ma per ora l’Alleanza
mantiene la sua dimensione atomica e le residue bombe nucleari tattiche statunitensi rimangono
dispiegate in Europa, anche in Italia, la quale si è mostrata molto prudente di fronte alle richieste
di alcuni Paesi di arrivare al completo ritiro di queste armi (cosa che comunque escluderebbe le
armi nucleari nazionali di Francia e Gran Bretagna). A Lisbona si è discusso anche della
riduzione delle armi nucleari strategiche e la NATO ha esercitato ogni pressione affinché il
Congresso statunitense ratificasse il trattato New Start, che limita a 1.500 e 700 vettori per parte
gli arsenali di Russia e Stati Uniti.
L’Alleanza ha poi deciso di dare la massima priorità, proponendole per finanziamenti comuni o
almeno multinazionali, una serie di capacità militari urgenti. La lista, definita Lisbon Capability
Package include:
- un network di comunicazioni/comando unificato per ISAF in Afghanistan
- iniziative a breve, medio e lungo termine per contrastare gli ordigni esplosivi
improvvisati
- il miglioramento delle capacità di trasporto strategico marittimo ed aereo, con specifica
attenzione per gli elicotteri
- contratti comuni per il supporto logistico delle forze
- la difesa antimissile
- la cyber defence
- il sistema di comando e controllo della difesa aerea (e antimissile) ACCS
- il sistema di sorveglianza del campo di battaglia AGS
- nuove capacità di sorveglianza e intelligence attraverso l’iniziativa JISR, Joint
Intelligence Surveillance and Reconnaisance
- Capacità netcentriche e di information superiority.
L’elenco è ragionevole e include capacità, già raccomandate in passato, alcune realizzate, altre
in corso di realizzazione, altre ancora di là da venire e mira anche a chiudere i “gap” che
esistono a livello collettivo e nazionale in settori essenziali. L’Italia, come tutti i 28 paesi NATO
è chiamata a dare il proprio contributo concentrando gli sforzi su questi progetti. Progetti in
qualche caso molto costosi. Per questo la NATO ha raccomandato, così come gli Stati Uniti, gli
alleati Europei di non procedere con tagli dei bilanci della difesa troppo marcati, considerando
che sono già pochissimi i paesi che raggiungono la quota minima del 2% del PIL auspicata
dall’Alleanza.
Uno degli aspetti “marginali” del vertice NATO, che però ha influenza diretta sull’Italia,
riguarda il (lodevole) sforzo per ridurre personale e struttura dei comandi. La NATO vuole
abbattere i costi strutturali e ridurre il personale ed ha approntato un progetto che prevede la
soppressione di 4 (dovevano essere 5) degli 11 comandi integrati, nonché una riduzione delle
agenzie di supporto da 14 a 3, multifunzione. Il conseguente “rimpatrio” di migliaia di ufficiali,
sottufficiali e militari assegnati ai comandi/agenzie NATO avrebbe anche un impatto positivo
presso i Paesi membri, Italia inclusa, perché si tratta di personale molto costoso, in trasferta
permanente all’estero.
Tra i comandi a rischio di soppressione c’è anche quello di Napoli, il quale, essendo stato
“concentrato” sulle operazioni nei Balcani, con la fine di queste missioni rischia di rimanere
parzialmente disoccupato, a differenza di quello di Brunssum, in Olanda, che è impegnato con
l’Afghanistan. L’Italia sta tentando di salvare Napoli, impresa che fino a pochi mesi fa
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sembrava impossibile, con la probabilità che vi rimanesse il solo comando subordinato di
componente navale, anche perché in Italia c’è già il NATO Defence College e il NURC a La
Spezia oltre al comando aereo di Poggio Renatico a doppio cappello. Come sempre, la basi e le
infrastrutture militari sono sempre “odiate”, ma solo fino a quando non vengono chiuse, perché
allora se ne scopre improvvisamente il valore economico diretto e indiretto. Il comando NATO
a Napoli vale come una media-grande industria. La “salvezza” per Napoli probabilmente è
arrivata dalla guerra in Libia…e non si tratta solo della esigenza contingente, quanto delle
prospettive a medio e lungo termine. Il Mediterraneo torna ad essere il fronte caldo.
Il nuovo corso degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti non hanno tagliato la spesa per la difesa per il 2011, come molti
erroneamente pensano, la hanno invece incrementata, come del resto è naturale per un Paese che
è ancora coinvolto massicciamente in almeno due conflitti.
La richiesta formulata del Segretario alla Difesa Gates è stata di 708,2 miliardi di dollari. 548,9
miliardi dollari per il budget ordinario, contro i 530,7 miliardi dell’anno precedente (+1,8% in
termini reali), ai quali vanno aggiunti 159,3 miliardi di dollari per le operazioni di guerra. I
criteri ispiratori sono stati i medesimi, ovvero quelli del bilanciamento, di una maggiore
efficienza nel procurement e di un occhio più attento al personale. E’ stata incrementata
l’attenzione per le capacità di dispiegare e supportare le truppe impegnate negli attuali scenari
bellici. Sono stati inoltre aumentati i 426 milioni di dollari già stanziati nel 2010 per
l’addestramento e la preparazione dei piloti. A questi fondi bisogna poi aggiungere 2,6 miliardi
per la intelligence e la ricognizione e 6,3 miliardi di dollari per le forze speciali (il 6% in più
rispetto al 2010), una parte dei quali dovrà sostenere l’espansione degli organici della comunità
delle forze speciali di 2.800 unità. Le forze speciali sono infatti diventate un elemento essenziale
e molto pregiato nell’ambito delle capacità militari statunitensi. (*)
La tendenza è stata confermata dal progetto di bilancio per il FY 2012, con una richiesta base di
553 miliardi di dollari ai quali si vanno ad aggiungere 118 miliardi di dollari per le spese di
guerra. La riduzione di quest’ultime è legata all’ulteriore ridimensionamento della presenza in
Iraq e ad una positiva evoluzione di quella in Afghanistan. In dettaglio il bilancio prevede 113
miliardi per l’ammodernamento, 75 per la ricerca e sviluppo e 204 per le operazioni e la
manutenzione.
Proseguendo nell’opera di efficientamento, ulteriori programmi ritenuti non più prioritari o che
comunque non rispettano i tempi o incontrano problemi tecnici oppure subiscono incrementi dei
costi, vengono cancellati o ristrutturati. E’ questo il caso ad esempio dei programmi missilistici
antiaerei SLAMRAAM e MEADS, del veicolo da assalto anfibio EFV, del missile navale
Standard Block III. Cancellato anche il programma per lo sviluppo di un motore alternativo,
l’F136, destinato al caccia F-35 il cui programma viene ristrutturato e rallentato. E lo sviluppo
della versione a decollo verticale F-35B viene messo sotto stretta sorveglianza, riceve una sorta
di cartellino giallo: industria e Pentagono…hanno due anni per rimettersi in carreggiata,
altrimenti l’F-35B sarà cancellato. Però se ci sono programmi che vengono arrestati o rimessi in
sesto, ve ne sono altri che sono accelerati e non mancano le nuove iniziative. Ad esempio quella
per realizzare un nuovo bombardiere strategico.
---------------------(*) Questa evoluzione, messa in sistema con altri segnali, come il requisito per un nuovo bombardiere
strategico ed alcuni atteggiamenti delle gerarchie militari e politiche posso fare immaginare uno scenario
neoisolazionistico, che non può essere trascurato. Anche la pressione politica sul Pentagono per ridurre la
spesa militare, fino a mettere a rischio la possibilità di condurre simultaneamente operazioni su vasta
scala in due teatri simultaneamente, conferma una convergenza politica, sia pure per motivi ben diversi,
per ridurre gli investimenti ma, coerentemente, anche il livello di ambizione della politica estera e
strategica.
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Il veicolo anfibio EFV è uno dei programmi che gli Stati Uniti hanno cancellato. (Fonte USMC)
E’ vero dunque che anche per il bilancio della difesa statunitense arriva la stagione dei
tagli…ma sono riduzioni davvero poco significative, specie se confrontate con quanto stanno
attuando gli alleati europei NATO. Il Presidente Obama ha infatti imposto alla Difesa di
risparmiare 78 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi cinque anni, cominciando con 12
miliardi in meno per il bilancio 2012, che comunque si attesta a 553 miliardi di dollari, con un
incremento di circa il 3% in termini reali rispetto a quanto approvato dal parlamento (ancora in
via non definitiva) per il 2011. Ci sarà un incremento modesto anche nel 2013 e nel 2014, per
poi arrivare all’invarianza nel 2015 e nel 2016, quando gli aumenti serviranno solo a
compensare l’inflazione. Non sono peraltro escluse potature addizionali.
Il Segretario alla Difesa Gates e le Forze Armate hanno compiuto un esercizio straordinario per
conciliare questa realtà con le esigenze delle Forze Armate. Essendo ben conscio dei desiderata
di Obama, Gates aveva già ordinato alle Forze Armate di individuare risparmi complessivi per
100 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, che nella idea del Segretario avrebbero dovuto
essere ri-programmati per soddisfare esigenze primarie della Difesa: l’Aeronautica ha proposto
tagli per 34 miliardi, l’Esercito per 29 miliardi e la Marina-Marines per 35 miliardi. Il
Pentagono ha fatto la sua parte, trovando altri 54 miliardi di risparmi, anche grazie a misure
come il congelamento del turnover del personale civile e dei suoi stipendi. I frutti di questa
pulizia domestica saranno così impiegati: 28 miliardi serviranno a far fronte a spese “correnti”
dovute agli impegni operativi, cosa che Gates avrebbe volentieri evitato, altri 70 miliardi
andranno invece in investimenti prioritari. Quanto ai 78 miliardi di tagli concordati con Obama,
ci si arriverà utilizzando i 54 miliardi risparmiati dal Pentagono, nonché 14 miliardi ottenuti
grazie alla minore inflazione e ad aumenti delle retribuzioni rallentati, 4 miliardi deriveranno
dalla rimodulazione del programma JSF F-35, 6 miliardi dalla riduzione della consistenza del
personale delle due forze armate “terrestri”. Il calo del personale sarà avviato però solo dal
2015, quando cioè si spera che l’esigenza più acuta delle operazioni in Afghanistan sia ormai
conclusa. In particolare lo US Army perderà i 22.000 soldati addizionali autorizzati nel 2007
come misura di emergenza. Oltre a questi saranno anche soppressi 27.000 uomini della forza
“permanente”, per un totale di 47.000 soldati in meno. In proporzione saranno ancora più
drastici i tagli per i Marines, che riguarderanno 15-20.000 uomini su un totale di circa 202.000.
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Neanche questa è una soluzione che piace a Gates ed ai militari, ma se diminuiscono i soldi, si
riduce la consistenza organica e si spera…che non si presentino nuove esigenze di impiego su
vasta scala. Peraltro lo US Army e lo USMC anche dopo questi sacrifici saranno più robusti
rispetto ai livelli pre bellici e avranno molti più “guerrieri” che soldati da scrivania in confronto
al passato.
Il Pentagono per risparmiare così tanto ha anche, come detto, cancellato qualche programma,
poi ci sono innumerevoli ristrutturazioni di comandi e enti, con accorpamenti e riduzioni
(sparisce ad esempio il Comando della Seconda Flotta, tutti i comandi Europei vengono
“abbassati” a 3 stelle, a conferma del fatto che l’Europa non è davvero più una regione
prioritaria per la sicurezza statunitense, mentre un comando statunitense, il JFCOM, viene
cancellato ed il 50% delle sue funzioni viene ridistribuito tra i comandi superstiti.
Non parliamo dei risparmi che saranno ottenuti nel settore information technology, dove
davvero gli sprechi e le sovrapposizioni abbondano, e della riorganizzazione della intelligence,
cresciuta senza controlli dopo il 9/11.
Il menù comprende anche gli interventi che non fanno risparmiare tanti soldi, ma danno un
segnale di moralizzazione e di sobrietà: ad esempio c’è la cancellazione di circa 110 posti da
generale/ammiraglio…su un totale attuale di circa 900 (quindi oltre il 10% in meno). Inoltre
vengono anche eliminate ben 200 posizioni “senior” di funzionari civili, su un totale di 1.400. A
dimostrazione che si può far funzionare una macchina così complessa come il Pentagono e le
Forze Armate USA in tempo di guerra pur riducendone la struttura di vertice.
In conclusione, non c’è ministero della difesa europeo che non accetterebbe di cuore un piano di
“tagli” che gli prometta una crescita costante degli stanziamenti in termini reali per i prossimi
tre anni e il mantenimento del potere d’acquisto per i due successivi. E l’impatto delle riduzioni
è ancora più annacquato dalla riforme e dalle decisioni coraggiose prese da Gates in questi anni
per mettere a frutto ogni singolo dollaro.
In questo senso rientra anche la riforma del sistema di acquisizione militare. Negli ultimi dieci
anni, difatti, il Pentagono si era lanciato in una serie di programmi basati su requisiti troppo
futuristici che hanno finito per drenare una quantità enorme di risorse, triplicando talvolta i costi
di acquisizione. Programmi che anche se arrivavano ad un punto morto, di fatto continuano ad
assorbire soldi e risorse.
Per risolvere questi problemi strutturali si è deciso di cambiare radicalmente il modo in cui il
Pentagono decide cosa e come acquistare e come si rapporta con l’industria aerospaziale e della
difesa. Una prima misura è consistita nell’incrementare di ben 20.000 unità il personale addetto
al procurement, rafforzandone la preparazione e le capacità. Il processo di trasformazione,
partito nell’anno fiscale 2010, si concluderà nel 2015 e porterà il totale del personale
amministrativo e tecnico addetto alle acquisizioni a 147.000 unità.
Allo stesso tempo, i maggiori programmi saranno soggetti ad una rigorosa valutazione dei
requisiti e lo sviluppo a pieno ritmo partirà soltanto quando questi saranno definitivamente
consolidati, previa un severo vaglio delle diverse alternative. Comunque saranno previste
periodiche revisioni indipendenti per verificare i progressi, i problemi incontrati, le soluzioni
applicate. Inoltre, per rafforzare le capacità di analisi di costo del Pentagono, è stato attuato il
"Weapons System Acquisition Reform Act” del 2009, che espandeva le capacità e i compiti del
neocostituendo ufficio per la valutazione dei costi e dei programmi (CAPE, Cost Assessment
and Program Evaluation), attivato a livello dell’Office of the Secretary of Defense.
Il processo di ristrutturazione della Difesa americana è stato poi definitivamente consolidato con
la QDR, il Libro Bianco della Difesa USA, e con i progetti di bilancio per gli anni fiscali 2011 e
2012.
La Quadrennial Defense Review 2010, come le precedenti edizioni, rappresenta il più profondo
e articolato esercizio di revisione della politica di difesa degli Stati Uniti ed è volto a presentare
la strategia di difesa, l’aggiornamento della struttura delle forze e a verificare la coerenza con le
risorse finanziarie assegnate al Pentagono. Vengono delineate le principali minacce per la
sicurezza (immediate e future) e si descrivono le capacità necessarie per farvi fronte. Il
documento ha ribadito, in particolare, la necessità di trovare un compromesso tra le esigenze di
combattere le guerre in corso, massimizzando così l’efficacia nel breve periodo, e le riforme
della difesa nel lungo periodo. Al paradigma della “trasformazione”, in voga nell’era di Donald
Rumsfeld durante la presidenza Bush è subentrato così definitivamente quello della “riforma” e
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del “ribilanciamento”. In base a questi due nuovi principi, l’organizzazione e la struttura delle
forze sono modificate, nell’ambito di un processo condotto all’insegna della flessibilità e della
rapidità di adattamento e di risposta all’evoluzione dello scenario e della massimizzazione della
capacità expeditionary, pur mantenendo la capacità di operare in scenari conflittuali
convenzionali.
Figura 1. Le spese americane per la difesa dal 2001.
Fonte: Pentagono (OCO, Overseas Contingencies Operations)
Come cambia la difesa dei nostri partner
Il 2010 ha portato per moltissimi Paesi, quasi tutti quelli Europei, decisioni sulla
ristrutturazione e riduzione degli strumenti militari e della spesa per la difesa. Il 2011 sarà
invece l’anno in cui le nuove linee guida all’insegna della austerità saranno eseguite.
Probabilmente la maggior parte dei nostri partner avrà completato la trasformazione entro l’arco
di 4-5 anni. Va osservato innanzitutto che il fenomeno della riduzione dei bilanci per la difesa
riguarda essenzialmente l’Europa. Gli Stati Uniti, come abbiamo visto, più che altro hanno
deciso un vasto programma di riprogrammazione dei fondi assegnati, ma continuano a sostenere
una crescita del bilancio della difesa, anche al di sopra dell’inflazione, e proseguiranno su
questa strada per i prossimi tre anni almeno. La Russia dal canto suo conduce una moderata
modernizzazione dello strumento militare e dei suoi equipaggiamenti. Certo Mosca non è più la
superpotenza che contestava la leadership militare mondiale agli USA, ma compatibilmente con
la realtà economica, il Cremlino sta cercando di ricostituire una potenza militare credibile.
Infatti ha annunciato un colossale piano a lungo termine di ammodernamento. Si, in parte si
tratta di una rodomontata che difficilmente sarà attuata in toto, ma la visione è ben chiara.
Nel resto del mondo le cose vanno ancora diversamente: vi sono aree dove la spesa per
la difesa conosce un vero boom. E’ il caso del continente asiatico, dove il galoppante
potenziamento militare cinese (si consideri che persino i bugiardissimi dati ufficiali diffusi dal
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governo cinese sull’andamento della spesa militare confermano un trend molto preoccupante)
ha portato ad una serie di reazioni da parte di tutti i principali paesi della regione, a partire
dall’India (la quale acquista a più non posso e cerca anche di sviluppare una industria degli
armamenti nazionale in grado di garantire nel medio termine una indipendenza strategica) , di
Taiwan, ma anche dell’Australia, di Singapore, dell’Indonesia. La Corea del Sud poi si guarda
anche dal pericolo immediato rappresentato dalla Corea del Nord. Il Giappone, prima di essere
annientato dalla combinazione di terremoti, tsunami e catastrofe nucleare, stava procedendo ad
un significativo riarmo. Ora invece Tokyo è fuori gioco, forse per un lustro o più e questo tra
l’altro crea ulteriori potenziali tensioni, perché il Giappone lascia un vuoto militare nella regione
e priva gli USA di un alleato prezioso. Ma la corsa agli armamenti non è solo catalizzata da ciò
che fa Pechino, ma anche dalle mosse dei suoi vicini. Anche nel Golfo e nel Medio Oriente la
spesa militare non viene certo ridimensionata e vi sono Paesi che dedicano alla difesa oltre il
10% del PIL. Sicuramente quanto è avvenuto nei primi mesi dell’anno avrà l’effetto di spingere
ancora gli investimenti nella sicurezza dei Paesi che non sono già stati destabilizzati. Inutile dire
che Israele dovrà considerare in modo diverso la propria sicurezza.
In Sud America gli investimenti per la difesa stanno aumentando, resi possibili da una
robusta crescita economica, ma anche dai programmi di potenziamento militare del Venezuela,
seguiti da una decisa risposta da parte del Brasile (sia pure ora un poco mitigata) e quindi di tutti
gli altri Paesi del continente. Se si guarda alla qualità, più che alla quantità della spesa e si tiene
conto della realtà regionale, la spesa militare cresce anche in Africa. Dunque non si può certo
parlare di “addio alle armi”, tutt’altro. E nella stessa Europa esistono differenze sostanziali: ci
sono Paesi che procedono con tagli molto pesanti ed altri, come ad esempio la Polonia, che
incrementano gli stanziamenti per la Difesa.
Se nel documento dello scorso anno avevamo “fotografato” la realtà militare dei
principali Paesi europei, quest’anno è invece il caso di raccontare come hanno deciso di
affrontare la situazione i nostri partner, aggiungendo qualche altro elemento di raffronto
internazionale.
La Gran Bretagna è quella che ha preso le decisioni più difficili, a causa delle
condizioni economiche, ma anche del “buco” di oltre 38 miliardi di sterline lasciato dai
precedenti governi, i quali hanno sottoscritto una serie di impegni ed avviato grandi programmi,
senza però prevedere le risorse per farvi fronte. Il governo Cameron ha gestito il problema in
modo davvero esemplare, approvando un programma comunque meno aggressivo rispetto a
quanto inizialmente previsto, anche per via delle pressioni statunitensi. E comunque Londra
continua a spendere molto di più rispetto a quasi tutti i paesi NATO, a dispetto di un taglio
dell’8% della spesa militare che sarà applicata nell’arco dei prossimi quattro anni. Il bilancio
della difesa sarà di quasi 34 miliardi di sterline nel 2011-12, di 34,4 miliardi l’anno successivo
per scendere a 33,5 miliardi nel 2014-2015. I tagli vengono attuati difendendo le capacità
operative, per quanto possibile e non risparmiano gli organici, con la soppressione di 25.000
posti di lavoro civili entro il 2015 e di 17.000 posti in uniforme.
La Francia ha tagliato, ma sta cercando di preservare almeno i programmi principali e
gli investimenti in ricerca e sviluppo. Il nuovo piano quinquennale di investimento, approvato a
metà 2009 è in effetti…irrealistico, prevede una crescita della spesa fino al 2013, ma richiede
anche risparmi interni di 3,5 miliardi di Euro nell’arco del primo triennio e ipotizza l’incasso di
1,8 miliardi dalla vendita di proprietà immobiliari, frequenze …un po’ come in Italia. Le
elezioni presidenziali porteranno ad una revisione di questi progetti, anche perché, come in Gran
Bretagna c’è uno scollamento tra impegni e risorse effettivamente disponibili, che secondo gli
studi del partito socialista potrebbe creare un “buco” da 25 miliardi di Euro. E comunque alcuni
programmi sono stati già cancellati o rinviati. Ma la Francia ha ben chiara la volontà di
difendere gli investimenti in ricerca e sviluppo per non perdere il passo competitivo. E nel 2011
spenderà per la difesa 31,2 miliardi di Euro, pari all’1,7 del PIL. E ben 16 miliardi vanno in
procurement, malgrado la forza alle armi sia ancora di 230.000 uomini
La Germania ha avuto il coraggio di superare il tabù del sistema di reclutamento misto e
della coscrizione obbligatoria selettiva: Berlino passerà quindi a forze armate solo professionali,
tagliandone la consistenza da 235.000 a 185.000 (170.000 uomini, compresi i riservisti e 515.000 volontari a ferma breve) uomini, mentre anche il personale civile sarà fortemente ridotto,
da 75.000 a 55.000 unità e lo stesso staff del ministero passerà da 3.000 a 2.000 persone.
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Dimuiscono poi le spese per acquisire nuovi sistemi d’arma. Complessivamente tra il 2011 e il
2014 ci sarà una riduzione di spesa di 8,3 miliardi di Euro. Il bilancio 2011 è di 31,5 miliardi di
Euro. Berlino, dovendo reagire alla nuova collaborazione tra Londra e Parigi, sta cercando di
creare una qualche aggregazione e condivisione di programmi e investimenti con altri Paesi
europei. Segnali analoghi arrivano anche da altre capitali, ma per ora di concreto si è visto
poco. Ci sono comunque iniziative in corso, anche se per lo più bilaterali o multilaterali, mentre
le idee volte a mettere in “pooling” mezzi e capacità troveranno finalmente stimolo. Solo che i
tempi per passare dalle parole ai fatti sono ancora eccessivi.
L’Olanda, che da diversi anni si è distinta per aver creato uno strumento militare
piccolo, ma molto efficiente e ben strutturato e per il modo virtuoso con il quale spende i propri
soldi per l’acquisizione di sistemi e tecnologie, ha a sua volta varato tagli al bilancio della
difesa. Si prevede una riduzione di 10.000 militari su un totale di quasi 69.000 e un taglio di 1
miliardo di Euro al bilancio che ammontava a quasi 8,5 miliardi di Euro.
La Spagna, pur essendo tra i Paesi europei che più stanno soffrendo per la crisi
economica, ha si deciso interventi significativi di riduzione della spesa, come del resto accade
per ogni voce della spesa pubblica, ma ha cercato di salvare i programmi più importanti, così
come l’industria aerospaziale e della difesa nazionale. Il bilancio della difesa 2011 subisce una
riduzione del 7% rispetto al 2010 e scende a 7,15 miliardi di Euro, con 1 miliardo per
l’investimento. La spesa per il personale cala del 5% e gli organici si ridurranno a 82.500
uomini a fine 2011. I tagli sono stati in larga misura concentrati su staff e struttura centrale.
La Grecia invece è stata talmente prostrata dalla catastrofe dei conti nazionali da dover
decidere il congelamento praticamente di tutti i programmi di modernizzazione, avviando anche
una riduzione della consistenza delle Forze Armate e tagliando anche stipendi (cosa che ha
provocato proteste clamorose) e i soldi per l’esercizio.
L’Irlanda, travolta dalla crisi finanziaria, ha proceduto a tagli pesanti, ma non così
severi rispetto a quanto ci sarebbe potuto aspettare ed il bilancio della difesa, che peraltro
ammonta ad appena 707 milioni di Euro nel 2010, dovrà ridursi del 15% entro il 2014, con
effetti immediati già dal 2011 e poi a seguire nel 2012.
L’Austria ha deciso di sacrificare in particolare la componente corazzata pesante, nel
quadro di un progetto che prevede un taglio complessivo di 530 milioni di euro alla spesa per la
difesa tra il 2011 e il 2014, partendo da un bilancio 2010 di 2,2 miliardi di Euro. Una notevole
porzione di mezzi e materiali saranno ritirati e posti in vendita sul mercato dell’usato e alcuni
programmi verranno ridotti o cancellati mentre, ci sarà una riduzione di 1.000 militari, dei quali
400 andranno al ministero delle finanze e 200 alle forze di polizia e il resto…in pensione.
Israele sarà costretta dalla situazione in medio oriente a compiere una radicale revisione
della propria difesa e sicuramente dovrà incrementare le capacità “convenzionali” e accrescere
un bilancio della difesa che nel recente passato era di circa 13,5 miliardi di dollari, incluso il
“contributo” statunitense. Il piano quinquennale Tefen 2012 prevedeva complessivamente
investimenti per 60 miliardi di dollari a partire dal 2008, ma è probabile un ritocco immediato e
una diversa formulazione del successivo piano quinquennale.
La Russia sta cercando di condurre in porto un piano di ammodernamento mirato al
2020 (troppo ottimistico, come al solito) che prevede una ampia ristrutturazione delle Forze
Armate. La spesa per la difesa, che era pari a circa il 2,6 del PIL negli anni di Putin, è stata
ridotta a seguito della crisi nel 2009 (-15%) ma è tornata a crescere nel 2011 di ben il 20% sul
2010, a 48,6 miliardi di dollari. La Russia spende circa il 3% del PIL per la difesa ed ha ancora
un milione di militari Con le elezioni del 2012 ormai vicine, una compagna elettorale
combattuta anche sul nazionalismo, l’incremento delle entrate da petrolio/gas e la ripresa
economica la spesa militare aumenterà. Certo gli annunci di investimenti per 653 miliardi di
dollari entro il 2020, per acquistare 20 sottomarini, 600 aerei da combattimento, 1.000 elicotteri
e 100 unità navali sono davvero assolutamente irrealistici.
L’Australia, ben cosciente delle tensioni che si accumulano nel Pacifico, ha pianificato
una crescita reale del bilancio della difesa del 3% fino al 2017-2018, per poi “accontentarsi” di
un incremento annuale reale del 2,2% fino al 2030! E ci sarà un aumento automatico del 2,5%
all’anno per compensare l’inflazione. Questa è evidentemente la programmazione di un Paese
che ha una percezione molto chiara dei suoi potenziali problemi di sicurezza. La consistenza
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delle forze armate professionali è cresciuta a quasi 57.000 uomini e gli investimenti sono mirati
a migliorare capacità e livello tecnologico.
L’India non è da meno, avendo deciso un incremento del bilancio 2011 del 12% rispetto
a quello dell’anno precedente, portando così la spesa militare a 36,5 miliardi di dollari. Peraltro
in India l’inflazione galoppa ad oltre il 9%. La difesa chiede di portare la spesa militare al 33,5% del PIL, il che significherebbe un raddoppio rispetto ai livelli attuali (1,83% del PIL): una
aspirazione utopistica anche per una economia in piena salute. Non di meno la spesa militare
continuerà ad aumentare.
La Cina dal canto suo ha un bilancio ufficiale che mantiene un tasso di crescita
prossimo o superiore alla doppia cifra, anno dopo anno. E si parla di bilancio ufficiale. Per il
2011 lo stanziamento è cresciuto del 12,7%, a circa 91,5 miliardi di dollari. Non si tratta però di
una spesa sproporzionata considerando lo stato di salute dell’economia cinese e il suo tasso di
crescita. E’ anche il caso di precisare che secondo gli Stati Uniti la spesa di Pechino per la
difesa è almeno doppia rispetto a quella ufficiale.
La situazione della Difesa Italiana nel 2011
Per la Difesa italiana il 2011 sarà ancora un anno difficile. I soldi stanziati sono pochi,
se raffrontati alle esigenze ed alla consistenza della macchina militare. Le riforme promesse e
lungamente studiate non sono state neanche presentate ufficialmente e non potranno essere
attuate nel brevissimo termine, a maggior ragione visto il contesto politico. Quindi le Forze
Armate dovranno continuare ad “arrangiarsi”, concentrando tutto il possibile per garantire
l’espletamento dei compiti fondamentali e lo svolgimento delle missioni internazionali, nonché
alcune attività magari “coreografiche” e sussidiarie, come la pulizia delle strade campane dalla
immondizia, la sorveglianza di obiettivi sensibili ed ultimamente addirittura il presidio dei
cantieri della autostrada per Reggio Calabria ed altri compiti di pubblica sicurezza che non vi è
motivo non siano eseguiti da chi vi è preposto. Per non parlare di esperimenti come quello della
“mini naja”, che, se progettato e condotto con un approccio completamente diverso e in
collaborazione con il ministero della Istruzione e purché adeguatamente finanziato, potrebbe
avere anche un senso concreto. Tuttavia, considerando la formula attualmente adottata e il fatto
che le Forze Armate non hanno problemi di reclutamento (anzi, dovranno trovare il modo per
collocare il personale in esubero) e considerando lo stato disastrato delle casse del dicastero
proprio per quanto riguarda le attività di formazione e addestramento …si può considerare tale
spesa come relativamente utile e sacrificabile in tempi difficili.
In ogni caso il livello di efficienza complessiva dello strumento militare ha subito un
nuovo decadimento nel corso del 2010 e le cose peggioreranno nel 2011. Non poteva che essere
così considerando i continui tagli subiti dagli stanziamenti che consentono il funzionamento
delle Forze Armate: semplicemente detto, meno ore di moto per le navi della Marina, meno ore
di volo per i velivoli dell’Aeronautica, meno ore di funzionamento per i mezzi dell’Esercito, ma
anche meno giornate in poligono, meno corsi di addestramento, riduzione di tutte le attività
addestrative complesse ed anche impossibilità di effettuare la regolare manutenzione dei mezzi,
ordinaria e straordinaria, e di acquistare pezzi di ricambio. La macchina militare italiana si sta
fermando, un pezzo alla volta.
L’”emergenza” libica, alla quale le Forze Armate hanno risposto ancora una volta in
modo esemplare, mobilitando infrastrutture, personale e mezzi in tutto il Paese conferma la
capacità straordinaria di reazione del sistema, ma compromette una situazione già difficile e
“brucerà” risorse che non si sa se, come e quando saranno ripristinate.
L’unica “oasi felice” (relativamente) è rappresentata dai reparti, dai mezzi e dal
personale che prende parte alle operazioni reali all’estero. Per il resto il quadro è peggiorato.
Basterebbe dare un’occhiata alla disponibilità operativa dei mezzi più significativi: possiamo
continuare a far fronte a quella che è ormai diventata una “routine” operativa, ma solamente agli
attuali livelli di forza. Se vi fosse la necessità di compiere uno sforzo ulteriore di grande entità e
di significativa durata…per la prima volta in tanti anni la Difesa dovrebbe ammettere di non
essere in grado di effettuarlo. Perché molte delle capacità militari italiane esistono…solo sulla
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carta. Per tornare ad essere operative richiederebbero un periodo di tempo che continua ad
allungarsi ed investimenti sempre più ingenti. Non ci si illuda da quanto è stata fatto per la
Libia…si è davvero raschiato il fondo del barile. Ed è una fortuna che l’avversario sia così
scalcinato, altrimenti si sarebbero rimpiante a caro prezzo le qualifiche e i livelli addestrativi
perduti da parte di troppi piloti… Inoltre in Libia stiamo impegnando quelle forze che in larga
misura non sono già coinvolte nelle missioni internazionali: parliamo infatti di aerei da
combattimento e unità navali, non ancora di truppe e di elicotteri. E’ per questo che riusciamo a
fare la nostra parte. E i caccia della difesa aerea sono per forza di cose in un discreto stato di
prontezza, mentre i TORNADO ECR non sono mai stati impiegati né in Iraq né in Afghanistan.
TORNADO ECR ed IDS a Trapani durante la crisi libica. (Fonte AM)
I programmi di acquisizione in corso, salvo qualche eccezione, sono proseguiti e
proseguono, perché gli stanziamenti per l’ammodernamento rimangono costanti, nelle diverse
articolazioni: come noto non tutte le risorse per l’investimento passano attraverso il bilancio
Difesa. E questo ha consentito alla Difesa di immettere in servizio nuovi materiali ed
equipaggiamenti. In generale i programmi relativi all’equipaggiamento dei militari impegnati
all’estero hanno la massima priorità e la Difesa è anche riuscita ad attivare procedure che, per il
sistema Italia, sono innovative (rappresentano invece una prassi consolidata in altri Paesi dove
le operazioni di combattimento sono la norma) e che consentono di superare parte delle
lungaggini procedurali ed amministrative per acquisire e inviare sul campo quanto è necessario
o per apportare speciali modifiche ai mezzi e materiali già in servizio.
Le tre Forze Armate tradizionali (Esercito, Aeronautica e Marina) hanno una consistenza di
circa 178.000 uomini. L’Esercito ha circa 104.000 effettivi, 42.300 uomini e donne sono in
servizio con l’Aeronautica e 32.300 con la Marina. I numeri non possono essere precisi, anche
perché sono stati effettuati tentativi in atto per difendere livelli organici più elevati. C’è
comunque un vistoso calo rispetto allo scorso anno (circa 184.300 effettivi), dovuto ai tagli
automatici degli organici imposto dai provvedimenti…tremontiani. Ma sono tagli non razionali,
perché colpiscono in buona misura il personale impiegabile, non invece quello “accumulato” a
causa di interventi legislativi sciagurati. Va anche registrato il calo del personale civile della
Difesa, sceso a 31.148 uomini e donne, con una riduzione di altre 1.700 unità, dovuto
essenzialmente al blocco del turn-over. Anche nel 2011 quindi non si sta facendo nulla per
risolvere le gravissime disfunzioni nel settore del personale.
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Tabella 1 - Forze Armate per Paese
Paese
Esercito
Marina
Aeronautica
Totale
Italia
104.000
32.300
42.300
178.600
Gran Bretagna
102.000
35.000
40.000
177.000
Francia
120.000
52.000
54.000
226.000
Germania
92.000
43.000
17.000
152.000
Spagna
80.000
30.000
25.000
135.000
Olanda
25.500
10.000
9.200
44.700
Canada
21.500 (21.800)
8.300 (4.500)
12.000 (3.300)
41.800 (29.600)
USA
547.000 (563.000) 530.000 (107.400) (1) 331.700 (174.000) 1.408.700 (902.500)
Fonte: ICSA
* Tra parentesi gli uomini appartenenti a Guardia Nazionale e/o Riserva
(1) Di cui 328.000 appartenenti all’US Navy e 202.000 appartenenti al corpo dei Marines (67.800 della riserva
della US Navy e 39.600 dei Marines)
Il Bilancio Difesa 2011
Il bilancio della Difesa reale va considerato limitatamente alla sola Funzione Difesa, escludendo
le somme stanziate per l’Arma dei Carabinieri, per le pensioni provvisorie e per le funzioni
esterne. Per il 2011 si tratta quindi di 14,32 miliardi di Euro. L’incremento monetario è appena
dello 0,2%, il che, considerando una inflazione prevista all’1,5%....equivale ad una diminuzione
in termini reali. La spesa per la Difesa quindi rappresenta solo lo 0,89 del PIL ed è in costante
decremento percentuale dal 2008.
La Legge di Stabilità, che peraltro considera anche gli stanziamenti “esterni” alla Funzione
Difesa, delinea un andamento negativo, considerando la crescita della inflazione e l’incremento
delle spese per il personale, anche nei i prossimi due anni: sono infatti programmati 21 miliardi
per il 2012 e 21,36 miliardi nel 2013.
Le risorse per la Funzione Difesa peraltro non sono le uniche presenti nel bilancio dello stato di
cui beneficia la Difesa, perché, per quanto concerne ammodernamento e ricerca, si devono
anche contare i fondi nel bilancio del MiSE (Ministero della Sviluppo Economico), senza i quali
moltissimi programmi (dal TYPHOON alle FREMM ai FRECCIA) non potrebbero essere
finanziati, nonché quelli del MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca), specie in
campo spaziale. Però è anche vero che questi dicasteri hanno visto ridotti i propri bilanci ed è
quindi diminuita la loro capacità di integrare i fondi della Difesa.
Ecco perché nell’ambito della Funzione Difesa si registra una crescita consistente (+8,4%
quest’anno) dei fondi per l’investimento, che arrivano a 3,4 miliardi di Euro, consentendo di
continuare a finanziare i progetti in corso e di avviare qualche piccola nuova iniziativa. Però
visto che lo stanziamento complessivo per la Funzione Difesa rimane grossomodo costante, se si
deve aumentare l’investimento, si deve tagliare da qualche altra parte. Per ragioni politiche
comprensibilissime, ma che poco hanno a che fare con i criteri di “buona amministrazione”, non
si è fatto nulla per ridurre in modo razionale la consistenza del personale militare (per quello
civile invece si cerca di far calare gli organici il più rapidamente possibile), con il risultato che
la spesa per il personale invece di diminuire aumenta di quasi l’1%, toccando quota 9,44
miliardi di Euro e rappresenta ormai oltre i due terzi del bilancio. Accrescendo la spesa per
investimenti e difendendo gli organici, l’unica soluzione per far quadrare i conti è stata quella di
falciare ancora una volta i soldi per l’esercizio, quelli cioè che consentono alla macchina
militare di funzionare. La potatura è stata addirittura del 18,2% , con un calo di 320 milioni, a
1,44 miliardi di Euro.
Procedendo ogni anno a massacrare l’esercizio, ormai il “deficit” in questa area sfiora il 50%:
sono disponibili 1,4 miliardi e ne servirebbero quasi 3. Questo perché, in assenza di una drastica
ristrutturazione che porti a eliminare ciò che non è più necessario o indispensabile ed a
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perseguire soluzioni interforze ovunque sia conveniente, non si riesce a ridurre più di tanto i
costi di funzionamento. Procedendo con una riforma neanche troppo aggressiva si potrebbero
risparmiare almeno 400 milioni di Euro all’anno. Così invece si aggravano le disfunzioni già
denunciate in passato: ci sarà dunque un ulteriore abbassamento dei livelli addestrativi, della
capacità operativa, della efficienza di mezzi magari nuovi che non possono funzionare perché
mancano i pezzi di ricambio, mentre si continua a rimandare manutenzione e aggiornamenti dei
materiali in servizio. Manca persino il carburante. Va precisato che grazie ai fondi “extra” per le
Missioni Internazionali almeno chi va in missione in Afghanistan o in Libano è bene
equipaggiato ed addestrato a dovere.
E chi in missione non ci va e resta in patria? La situazione è gravissima. Molti reparti, unità,
mezzi sono a tutti gli effetti in posizione “quadro”, non sono in grado di operare, né il personale
né i materiali sono combat ready e anzi non potrebbero neanche essere portati ad uno standard
adeguato se non previ cospicui investimenti e un congruo arco di tempo. E il tasso di
inefficienza continuerà a crescere, visto che i soldi per l’esercizio continuano a scemare.
Il 2011 quindi non è affatto un anno di svolta, si procede sulla falsariga di quanto…non si è
fatto negli anni precedenti e i nodi non risolti diventano sempre più ingarbugliati.
Le missioni internazionali: voglia di disimpegno
La voglia di disimpegno c’è, è forte. È evidente, gli Italiani, che sono ormai ben consci della
effettiva natura delle attività di stabilizzazione condotte in Afghanistan, sono meno disponibili a
sostenere gli impegni militari internazionali. Quella ambiguità che ancora regge in Parlamento,
non funziona nel Paese reale, anche a causa della serie di eventi luttuosi che hanno
caratterizzato gli ultimi mesi in Afghanistan, come del resto era logico aspettarsi nel momento
in cui la NATO e gli USA hanno completato la “surge”, ovvero il potenziamento degli organici
ed hanno cercato non solo di strappare sempre nuovi territori ai Talebani, ma anche di
mantenerne poi il controllo. I Talebani non sono disposti a farsi facilmente da parte e quindi
quando è necessario…si combatte. E logicamente si subiscono anche perdite, oltre ad
infliggerne. Ci sono naturalmente attività di “ricostruzione”, ma anche quelle di imposizione
della sicurezza e di combattimento, che, tra l’altro, hanno portato a risultati molto positivi,
riconosciutici a livello internazionale, cominciando dagli Stati Uniti.
L’impegno militare nazionale, che è arrivato a contare 4.200 uomini e ben 4 battle groups,
ovvero gruppi da combattimento a livello battaglione, con relativi supporti, anche aerei, è
veramente significativo e contribuisce non poco a sostenere lo “standing” italiano a livello
internazionale, perché oggi si conta solo per il contributo che si offre effettivamente alla
sicurezza collettiva. Non basta averne la capacità. Occorre la volontà politica di usare queste
capacità e di farlo nel tempo. (e amare lezioni potranno essere tratte dalle scelte e dai tempi
delle scelte italiane in occasione della crisi in Libia, che rischiamo di pagare a caro prezzo).
Del resto è proprio la proiezione di potenza militare nell’intero spettro delle possibili missioni a
costituire la ragione d’essere di un moderno e costoso strumento militare professionale. Questo
almeno fino a quando non torneranno a manifestarsi minacce dirette al territorio nazionale. Il
che, vista l’evoluzione dello scenario mediterraneo, non rappresenta più solo un tema di
esercitazione da Stato Maggiore, purtroppo sta diventando una prospettiva concreta.
Naturalmente le missioni internazionali sono costose e i costi aumentano in rapporto al livello di
impegno “bellico” e alla distanza del teatro operativo e della sua accessibilità, specie per chi,
come l’Italia, non ha basi o punti di appoggio strategici sparsi per il globo.
Quindi la missione in Afghanistan è estremamente costosa (lo stanziamento per la prima metà
dell’anno è di 380,77 milioni di Euro), anche per via del cospicuo schieramento di mezzi e
velivoli che supportano i militari: si tratta di quasi 850 mezzi e 34 velivoli ad ala fissa e rotante,
con e senza pilota.
L’attenzione politica e della opinione pubblica è stata a lungo concentrata sulla missione NATO
ISAF in Afghanistan e sia per ragioni di costi, sia per scelta politica l’orientamento del governo
è quello di ridurre lo sforzo militare già nel corso di quest’anno. In particolare si vorrebbe
concludere già dall’estate la nostra mini-surge, così come sperano peraltro di fare gli Stati Uniti
e la NATO, a dispetto delle perplessità dei comandanti operativi. Certo è che se gli USA
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inizieranno davvero a ritirare parte delle proprie truppe sarà praticamente impossibile per gli
alleati NATO non fare la stessa cosa.
La prima opportunità consisterebbe nel ritiro di uno dei quattro battle groups/battaglioni, quello
di Herat se, come sperato, ci sarà il passaggio di consegne tra le nostre truppe e una brigata
dell’ANA, l’Esercito Nazionale Afgano. NATO ed USA ci hanno chiesto di mantenere queste
truppe combattenti e di schierarle in altre aree dell’Afghanistan. La risposta giunta da Roma è
stata negativa, al massimo si provvederà a inviare un numero equivalente di addestratori,
comunque molto richiesti dalla NATO ed in ogni caso verrà mantenuto il “caveat” geografico.
Diminuirebbero così i rischi e anche i costi. Però il quadro si è complicato in conseguenza della
intensificazione degli scontri e degli attacchi dall’inizio del nuovo anno e la situazione certo non
migliora con la stagione primaverile, con condizioni climatiche migliori che rendono meno
complicato ai Talebani condurre le proprie operazioni. Potrebbe però risultare impossibile
ridurre la presenza di truppe combat italiane o quanto meno i tempi del cambio della guardia ad
Herat potrebbero allungarsi, mentre non si può escludere necessario rinforzare gli altri settori
sempre nell’ambito della regione Ovest.
Un blindato FRECCIA in appoggio ai soldati italiani in Afghanistan. (Fonte NATO ISAF)
L’Italia continua ad essere fortemente impegnata anche con la UNIFIL, la missione ONU in
Libano, dove sono impegnati circa 1.800 uomini e donne, con 850 mezzi e 4 elicotteri. Una
missione che costerà nel primo semestre poco più di 106 milioni di Euro: è evidente quanto sia
più “economica” questa missione rispetto a quella afgana. UNIFIL non è particolarmente
“apprezzata” dal governo, diversi esponenti del quale hanno espresso la volontà di “uscire” dal
Libano. E in effetti c’è stata una diminuzione quantitativa del contingente, così come del livello
di comando e già alla fine di ottobre 2010 è stata ritirata l’unità navale in precedenza assegnata
alla Maritime Task Force, la componente navale che supporta UNIFIL. Peraltro sono state
esercitate robuste pressioni politiche affinché l’Italia non si tiri indietro. Pressioni dall’ONU,
dagli Stati Uniti, da Israele la quale, per quanto critichi la scarsa efficacia di UNIFIL, al
contempo è perfettamente conscia di quale immenso contributo alla sua sicurezza forniscano i
caschi blu, nonché dei costi astronomici che dovrebbe sostenere qualora l’ONU ritirasse le sue
forze e toccasse nuovamente all’Esercito Israeliano difendere e sorvegliare i confini con il
Libano e tornare a confrontarsi direttamente con Hezbollah. Peraltro l’evoluzione dello scenario
in Libano è tale che oggi risulta più difficile che mai pensare ad un ritiro del contingente
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italiano: il paese rischia di precipitare in una nuova crisi interna, se non in una guerra civile, con
lo spettro di un coinvolgimento di Israele. Nel medio termine tuttavia la permanenza di UNIFIL
sul terreno andrà ridiscussa, perché presto i venti di guerra potrebbero tornare a spirare nella
regione. Se rimane, UNIFIL deve essere messa in grado quantomeno di garantire la propria
sicurezza, come precondizione per poter svolgere il mandato assegnato. A maggior ragione visto
il disastro che coinvolge quasi tutti i Paesi medio-orientali.
Dove invece è già in corso una rapida riduzione della presenza militare è il teatro balcanico,
dove peraltro sono ancora impegnati circa 1.600 militari. Qui a dire il vero l’Italia è in buona
compagnia, perché sia la NATO sia la UE vogliono al più presto concludere la stagione delle
missioni di stabilizzazione nella regione, a partire da quelle militari, anche considerando che in
Bosnia la NATO entrò nel 1993 e in Kosovo nel 1999. Il piano DETERRENT PRESENCE
della NATO ha già portato a tagliare a 10.000 uomini la forza complessiva in Kosovo
impegnato nella missione JOINT ENTERPRISE, si è già passato il traguardo Gate 2 che
consentirà entro l’estate di ridurre da 1.400 a 650 il numero dei nostri soldati. Poi, sperabilmente
già entro fine settembre, si dovrebbe arrivare al Gate 3, con una ulteriore riduzione a 540
soldati. E il traguardo di un ritiro completo non è poi così lontano. Ovviamente i costi della
missione NATO e di quelle relative al Kosovo sono relativamente modesti, circa 36 milioni di
Euro per il primo semestre. Intanto già a fine 2010 ha già chiuso i battenti la presenza militare
nazionale in Bosnia, nella missione UE ALTHEA: i 220 soldati italiani sono rientrati e ora è
rimasto solo un pugno di addestratori. E si sta tentando anche di sospendere il contributo di una
decina di Carabinieri alla EUPM, missione di polizia in Bosnia.
Se queste sono le missioni principali, vi è poi il corollario di tutte le missioni minori, come la
MINURSO (UN Mission for the Referendum in Western Sahara) in Marocco, la UNMOGIP
(UN Military Observer Group in India and Pakistan), la missione navale MFO (Multinational
Force and Observers) nel Sinai, la TIPH 2 a Hebron, la EUBAM a Rafah, la missione di
addestramento del personale iracheno NTM, a guida NATO. Vanno poi citate le missioni di
assistenza e mentoring come la MIATM (Missione Italiana di Assistenza Tecnico-Militare) e la
DIE (Delegazione Italiana di Esperti) in Albania. Ci sono missioni nelle quali la presenza
italiana si sostanzia in un pugno di uomini…costano poco e comunque fanno presenza.
Un discorso diverso vale per le operazioni navali finalizzate al contrasto al terrorismo
ed alla pirateria, come la ACTIVE ENDEAVOUR della NATO, in corso dal 2001 nel
Mediterraneo e che ha visto aumentare progressivamente l’area di responsabilità. Quanto alla
lotta alla pirateria l’Italia prende parte alla missione a guida UE, ATALANTA, nonché alla
missione NATO OCEAN SHIELD, della quale l’Italia prenderà il comando nel secondo
semestre dell’anno. Il costo di queste missioni navali le quali, vista l’incapacità della comunità
internazionale di trovare una soluzione definitiva al problema dei pirati rischiano di diventare
permanenti, è relativamente elevato e dipende dal tipo di unità navali assegnate: per il primo
semestre complessivamente gli oneri ammonteranno a 25 milioni di Euro.
Complessivamente l’Italia impiega nelle missioni internazionali 8.300 uomini, dei quali circa
1/10 sono rappresentati dagli equipaggi delle unità navali.
Dato che gli effettivi sono circa 177.000, non è che l’Italia stia facendo niente di straordinario,
anche ammettendo che per ogni soldato in azione ce ne debbano essere tre o quattro a casa
impegnati in attività di “ricostituzione”, addestramento primario ed avanzato o in prontezza.
Altri Eserciti hanno tassi di impiego/disponibilità operativa molto superiori ai nostri. Con gli
organici attuali dovremmo essere in grado di sostenere lo spiegamento operativo all’estero di
almeno 10.000 uomini per periodi prolungati. In teoria. Di fatto questo non è possibile a causa
della mancanza di fondi per l’addestramento e la preparazione del personale (il famoso
“esercizio”) nonché per le disfunzioni nella distribuzione del personale, con troppi uomini che
non sono di fatto impiegabili in missioni operative. Certo è che visto che tutti in Europa e nella
NATO stanno cercando di aumentare la percentuale di truppe impiegabili/addestrate malgrado i
tagli di bilancio, ristrutturando la propria organizzazione e privilegiando i “denti” rispetto alla
“coda” l’Italia non può restare a guardare.
Vi è poi il problema dei soldi. Il Governo ha faticato per trovare i 750 milioni di Euro destinati a
finanziare le missioni internazionali nel primo semestre. Ancora non è chiaro come e dove si
reperiranno le risorse per pagare i conti relativi al secondo semestre.
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Certo sostenere costi di 1,5 miliardi di euro all’anno per le missioni militari nel contesto
economico attuale è difficile ed allora diventa essenziale concentrare gli sforzi in quelle
missioni che hanno il massimo interesse per il paese, interesse che comprende anche il “ritorno”
in termini di prestigio e potere decisionale nei contesti internazionali. In particolare questo ci
porta alla opportunità di rivedere la “generosità” con la quale contribuiamo alle missioni ONU.
Fino a qualche tempo fa questo attivismo italiano era strumentale alla speranza di ricevere un
ritorno in sede di riforma dei meccanismi di funzionamento delle Nazioni Unite ed in particolare
del Consiglio di Sicurezza. Visto come sono andate e andranno le cose…non c’è motivo di
insistere, la battaglia è perduta, possiamo solo contenere i danni. Ma se le cose stanno così, la
disponibilità italiana a farsi coinvolgere militarmente in operazioni ONU va riconsiderata al
ribasso. In termini metodologici l’Italia deve in generale affrontare il tema delle operazioni
militari internazionali con un approccio integrato, che coinvolga oltre alla Difesa anche Esteri e
Interni (Forze di Polizia) sul piano operativo ed Economia per gli aspetti finanziari. Mentre le
decisioni in materia devono essere prese in modo meditato al massimo livello istituzionale.
Bisogna decidere sulla base di un rigoroso criterio costi/benefici a quali missioni partecipare, a
che livello, in che modo, senza escludere a priori neanche le missioni “di combattimento”.
Anche politicamente ha più senso dire chiaramente quale è la natura della missione alla quale ci
si appresta a partecipare piuttosto che infilarsi nel ginepraio delle finte verità che poi tengono le
missioni stesse ostaggio di infinite discussioni politiche. Del resto le forze armate sono in grado
di effettuare missioni “full spectrum”, lo stanno dimostrando quotidianamente. Piuttosto se si
mettesse fine alle ipocrisie si potrebbero meglio calibrare ed equipaggiare i contingenti,
sfruttando tutte le capacità militari disponibili e tenendo anche conto che in molti casi impiegare
determinati mezzi e sistemi “pregiati” consente di ridurre l’impegno di personale, che poi è
proprio la componente più sensibile politicamente e di fronte alla opinione pubblica. In parole
povere, se servono aerei da combattimento…mandiamoli e usiamoli, se serve artiglieria di
precisione, schieriamola. Il ragionamento si applica anche in modo inverso…se la esigenza
primaria riguarda istruttori e consiglieri militari, chi dispone di questo personale può
“cavarsela” fornendo un contributo prezioso e avendo un valido motivo per inviare meno truppe
combattenti. E va sicuramente sfruttata meglio la capacità di formazione/assistenza che l’Italia
può vantare nel settore Forze di Polizia, che siamo riusciti solo parzialmente a far pesare e a
valorizzare.
Quanto ai profili finanziari, è assurdo che si proceda “ a vista” nella definizione degli
stanziamenti, con provvedimenti semestrali che non sempre sono approvati tempestivamente,
portando ad una sorta di esercizio provvisorio basato sulla assegnazione dei fondi a
“dodicesimi” e sulla base dei volumi approvati l’anno precedente. Occorrono stanziamenti certi
e annuali, salvo poi provvedere ad integrazioni in corso d’anno se si verificassero esigenze
impreviste. Gli stanziamenti devono anche essere allocati considerando la dimensione militare,
quella della cooperazione e quella della sicurezza (Forze di Polizia) in modo più organico e
integrato.
Circa l’entità dei costi…le cifre sono alte perché solo ricorrendo ai fondi extra bilancio è
possibile evitare che la Difesa debba attingere in misura troppo marcata ai fondi “ordinari” per
equipaggiare e addestrare a dovere le forze che inviamo in missione. Con gli stanziamenti del
bilancio Difesa dedicati all’esercizio ridotti al lumicino solo con le risorse “extra” si può evitare
di mandare i nostri soldati allo sbaraglio. E quindi prima di decidere risparmi in questo settore
occorre ben ponderare quali sono le conseguenze in termini di minore sicurezza per i nostri
soldati. Nella consapevolezza che non si può ottenere la sicurezza assoluta e che comunque le
missioni vanno affrontate con ciò di cui si dispone occorre un delicato esercizio di
bilanciamento, che va risolto in sede tecnico-governativa, non nelle aule parlamentari.
Queste considerazioni diventano più pressanti alla luce di quanto sta accadendo sulla sponda
meridionale del Nord Africa. Come prevedibile l’Italia non è potuta “restare” alla finestra a
lungo ed è stata coinvolta massicciamente nelle missioni finalmente transitate nell’alveo NATO.
L’Italia deve giocare un ruolo di primo piano in quello che è il “cortile e la piscina di casa”,
altrimenti pregiudicherebbe i propri interessi essenziali (a partire dall’accesso al gas e petrolio
per non parlare del controllo immigrazione). Non potevamo certo limitarci a qualche missione
umanitaria indiretta. Con la imposizione della no fly zone e con l’intervento “umanitario” stile
Kossovo benedetto dall’ONU e dalla Lega Araba non era sufficiente mettere a disposizione
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degli alleati basi e infrastrutture e giocare un ruolo logistico. E se si arriverà ad una missione di
stabilizzazione in Libia non potremo tirarci indietro, anzi, dovremo cercare di ottenere la
leadership. E per comandare bisogna mettere in campo mezzi e personale in quantità e qualità
tali da legittimare la richiesta.
Certo, se si verifica una crisi “domestica” il baricentro delle attività militari deve essere
riorientato, ma visto che dall’Afghanistan non si può scappare, se non insieme agli altri, si può
sperare di spostare solo una parte delle forze colà impiegate. Per il resto si tratterebbe di uno
sforzo ulteriore. Che richiederebbe non solo soldi in più.
Che cosa fare in Afghanistan
La Fondazione ICSA lo scorso anno ha elaborato una propria proposta organica a proposito di
quale dovrebbe e potrebbe essere il ruolo dell’Italia, nel contesto NATO, per contribuire a
raggiungere una stabilizzazione dell’Afghanistan. La formula prospettata si incardina nel
contesto del “comprehensive approach” che combina l’indispensabile azione militare con tutte
le altre leve (civili, politiche e diplomatiche), perché senza sicurezza non vi può essere alcun
progresso, né una ricostruzione 1.
Indubbiamente chi sperava si potesse arrivare ad una soluzione e ad un disimpegno occidentale
dall’Afghanistan in tempi rapidi è rimasto disilluso, ma non era questa la nostra previsione,
nella consapevolezza che lo sforzo da compiere fosse colossale. Anche la possibilità che le
condizioni sul campo mutino in senso così favorevole da consentire un passaggio di consegne
dalla coalizione all’ANA (Esercito Afgano) e alle forze di Polizia entro il 2014, riducendo il
ruolo di ISAF a quello di forza di “supporto” appare davvero ottimistica. E’ anche vero che in
Iraq l’amministrazione statunitense ha dichiarato l’inizio della nuova missione New Dawn, di
solo supporto (con 50.000 uomini!) quando di fatto i reparti sul campo, i mezzi e le attività
concrete sono rimaste simili a quelle svolte in precedenza. Ed è utopistico pensare che le forze
USA si ritireranno completamento entro fine 2011, come è in teoria previsto. Qualcosa del
genere potrebbe accadere anche in Afghanistan. E’ chiaro che, per quanto riguarda la sicurezza,
i risultati che si sperava di ottenere con la “surge”, il potenziamento temporaneo dei contingenti
USA e NATO, non maturano con la rapidità inizialmente auspicata. E questo è un grosso
problema, specie perché la Casa Bianca vorrebbe iniziare il ritiro, almeno delle forze
addizionali, a partire da luglio. Un traguardo che oggi appare remoto. Anche l’ennesimo cambio
della guardia al vertice di ISAF, con la probabile sostituzione del generale Petraeus (terzo
comandante silurato) non costituisce un segnale positivo. Sembra quasi che l’Amministrazione
USA voglia avere al comando un generale “morbido” che possa certificare un progresso sul
terreno tale da legittimare la scelta politica di iniziare il ritiro. Perché al momento i vertici
militari alleati non solo ritengono che non ci possa essere alcun ritiro, ma anzi hanno chiesto di
poter disporre di ulteriori rinforzi (in parte concessi). Del resto anche se è stato accelerato al
massimo, il programma di addestramento, formazione, equipaggiamento delle formazioni
dell’Esercito e in particolare delle unità delle forze di Polizia afgane non può permettersi di
raggiungere i risultati richiesti nei tempi previsti bruciando le tappe, altrimenti si rischia di
compromettere tutto. La situazione resta complicata anche in Pakistan, ma se non altro le
operazioni molto aggressive condotte dai reparti speciali militari, dalle forze paramilitari e dai
mercenari locali a terra, accompagnate da un uso massiccio di velivoli senza pilota hanno
aumentato la pressione in modo molto efficace sui guerriglieri. Va anche segnalato come fattore
positivo l’accordo NATO-Russia (e Italia-Russia) per ottenere il passaggio dei convogli
ferroviari che sostengono logisticamente ISAF attraverso il territorio russo (e ci sarà accesso
1
In risposta al problema della stabilizzazione dell'Afghanistan, sin dagli inizi del 2008, la Comunità
Internazionale ha elaborato il concetto di comprehensive approach da applicare alla situazione del Paese.
Tale concetto, recepito al vertice di Bucarest della NATO (aprile 2008) si basa sulla convinzione che solo
attraverso un più stretto coordinamento tra le diverse organizzazioni internazionali operanti sul territorio,
una maggiore responsabilizzazione del governo afgano e notevoli investimenti in risorse civili è possibile
rispondere alla questione, non solo militare, ma anche politica della stabilità del Paese asiatico.
20
allo spazio aereo russo anche per aerei militari), riducendo il ricorso alle vie logistiche che
attraversano il Pakistan.
Complessivamente se una exit strategy è stata delineata in termini di che cosa si vuole fare, la
tempistica per attuarla, presentata come cogente, è invece aleatoria, almeno se non si vuole
rischiare che il Paese torni a precipitare nel caos.
In questo contesto, le raccomandazioni che abbiamo formulato lo scorso anno restano
sicuramente valide, compresa quella di legare in modo efficace le attività militari con quelle di
assistenza civile, economica, politica e di ricostruzione. Va anche potenziata l’attività di
cooperazione e intensificato il coordinamento Esteri-Difesa. In particolare se si arriverà al
passaggio di consegne in una prima provincia, quella di Herat, tra forze militari ISAF e forze
ANA, occorrerà sfruttare al meglio una opportunità che costituisce anche una sfida importante.
Per quanto riguarda l’impegno militare, ferma restando la necessità di mantenere il pieno
comando e controllo nella regione Ovest, resistendo ai reiterati tentativi di ridimensionare il
ruolo italiano, dovrà essere deciso a che livello e con quale scopo mantenere la presenza
militare. In linea di principio, se USA e NATO proseguono lo sforzo ai livelli attuali non è
pensabile sganciarci unilateralmente. In parole povere…se la surge continua non è
strategicamente condivisibile procedere ad un ridimensionamento di un contingente di 4.200
uomini. Anzi, come avevamo già scritto, è opportuno che il contingente sia irrobustito almeno
sotto il versante dei mezzi, ferma restando la necessità di mantenere ai massimi livelli la
preparazione e l’addestramento del personale inviato in teatro, tanto più visto che la stagione
primaverile ed estiva sono sempre molto “calde” e tenendo conto che quel che serve in larga
misura è già disponibile oppure può essere acquistato e reso operativo in un arco di tempo
ragionevole e sempre avendo in mente che i nostri soldati resteranno nel paese ben oltre il 2014
e quindi si deve guardare all’immediato, ma anche al medio termine.
In particolare riteniamo che si debba:
- potenziare la componente terrestre, schierando blindo Centauro e carri Ariete, da
utilizzare a discrezione dei comandi quando e dove fosse necessario. Oggi infatti l’arma
più pesante a tiro diretto di cui dispongono i nostri soldati è una mitragliera da 25 mm,
quando i nostri alleati hanno carri armati con cannoni da 120 mm!
- Acquisire e schierare al più presto i mortai da 81 mm già programmati per colmare il
vuoto tra i mortai da assalto da 60 mm e quelli pesanti (spesso troppo pesanti) da 120
mm.
- Schierare appena possibile i lanciarazzi pesanti MLRS aggiornati e dotati di nuovi razzi
guidati di precisione e nel frattempo inviare alcuni semoventi d’artiglieria PZH2000 da
155 mm.
- Potenziare la componente del genio e tutte le capacità necessarie allo sminamento ed al
contrasto degli ordigni esplosivi improvvisati, comprese quelle aeree (nuovi pod
sperimentali da impiegare sugli aerei C-27J).
- Potenziare al massimo la dotazione di velivoli senza pilota, procedendo allo
schieramento degli MQ-9 Reaper in approntamento al più presto possibile, mantenendo
anche gli attuali Predator ed acquisendo/noleggiando anche velivoli più leggeri, come
gli ScanEagle. Per quanto riguarda gli UAV, occorre al più presto dotarli della
possibilità di impiegare missili aria-superficie Hellfire, così come avviene per i velivoli
dello stesso tipo utilizzati da USA e UK. Una capacità operativa potrebbe essere
acquisita nel giro di 6 mesi dalla decisione. Gli UAV armati aumenterebbero
enormemente il livello di “force protection” per le nostre truppe e quelle alleate.
- Accelerare lo spiegamento dei materiali e degli equipaggiamenti in sviluppo nel quadro
del programma “Soldato Futuro”.
- Autorizzare l’impiego dei cacciabombardieri dell’Aeronautica in missioni di supporto
tattico ravvicinato impiegando armamento di precisione, già in dotazione. Tali
armamenti consentono una grande efficacia con minimo rischio di provocare danni
collaterali. Peraltro non ha senso non utilizzare le nostre capacità e poi in caso di guai
chiedere l’intervento di aerei alleati…meno disponibili… e che usano esattamente le
stesse armi. In prospettiva, procedere alla acquisizione di ulteriori armi di precisione
“leggeri”, come razzi a guida laser per elicotteri e per aerei ad ala fissa.
21
-
Irrobustire la consistenza della componente aerea, sia per quanto riguarda gli elicotteri
da trasporto e combattimento sia gli aerei da trasporto tattico sia i cacciabombardieri
ricognitori. Occorre aumentare il numero di elicotteri che si sono rivelati essenziali in
Afghanistan. E tutti questi mezzi devono poter “generare” un maggior numero di ore di
volo, grazie ad una maggiore disponibilità di ricambi e di supporto logistico. In realtà
fino ad oggi la componente aerea, così importante proprio in un contesto come quello
afgano è stata sotto-utilizzata avendo riguardo sia per le capacità disponibili sia per le
esigenze.
Per quanto concerne infine il futuro assetto del contingente, condividiamo l’opportunità che
se in estate il battle group a livello di battaglione schierato ad Herat dovesse essere sostituito
da reparti dell’ANA, esso non venga reso disponibile per l’impiego in altre regioni
operative, ma sia invece rischierato nell’ambito della regione Ovest, visto che ISAF
continua ad avere un controllo limitato dell’immenso territorio e visto la rinnovata
aggressività della guerriglia. Sostituire personale “combat” con un analogo numero di
istruttori per forze di polizia/militari ridurrebbe i costi di funzionamento, ma non porterebbe
ad un reale aumento del livello di sicurezza per i nostri militari o per la popolazione civile,
proprio perché a dispetto della surge, le forze a disposizione non sono sufficienti.
Una politica di difesa nazionale ed un nuovo strumento militare: la proposta
L’Italia rimane purtroppo priva di una politica di difesa che sia compiutamente determinata dal
governo. La politica di difesa deve poi essere puntualmente applicata ed eseguita dalle Forze
Armate. Tale politica dovrebbe essere naturalmente costantemente aggiornata per tenere conto
dell’evoluzione dello scenario internazionale e della più ampia politica nazionale.
Magari da noi i “pezzi di carta” esistono, ma sono per lo più pro-forma e non vengono poi
attuati o attualizzati. In Italia del resto non si vede un Libro Bianco vero e proprio da anni
(l’ultimo è addirittura del 2002!), a dispetto degli straordinari cambiamenti occorsi in questo
ultimo decennio, né c’è la prassi di procedere ad un aggiornamento del Modello di Difesa, che
pure era stato a suo tempo previsto, e gli strumenti di programmazione degli investimenti a
lungo termine esistono esclusivamente all’interno del dicastero, non sono pubblici né tantomeno
esistono strumenti di legge che definiscano a medio termine i grandi programmi di
ammodernamento della difesa e provvedano a garantire le risorse finanziarie per consentirne
l’attuazione.
Da noi c’è il vuoto. Se si escludono i documenti che illustrano il bilancio della difesa (Nota
Aggiuntiva al Bilancio della Difesa) e che ovviamente hanno una portata molto relativa.
In questo contesto ribadiamo la necessità di rivedere il ruolo, le funzioni, le attribuzioni del
Consiglio Supremo di Difesa il quale è oggi di fatto l’organismo dove viene formulata la
politica di Difesa nazionale e si prendono tutte le decisioni critiche relative alle Forze Armate. Il
Consiglio Supremo di Difesa potrebbe trasformarsi in un Consiglio per la Sicurezza Nazionale
(CSN). Peraltro in attesa di una futuribile riforma costituzionale un CSN che si occupi di difesa
a sicurezza interna andrebbe creato al più presto.
E in attesa di queste revisioni è almeno indispensabile che si dia piena attuazione alla riforme
tentate nel passato, in particolare alla “Legge sui Vertici”, con piena assunzione di
responsabilità da parte del Capo di Stato Maggiore della Difesa per realizzare quelle operazioni
di efficientamento e riorganizzazione possibili solo muovendo con una visione “joint”.
Un nuovo strumento militare
Come si è notato, quasi tutti i principali Paesi con i quali l’Italia collabora sul piano della difesa
e della sicurezza stanno rivoluzionando i rispettivi apparati militari. Le scelte sono già state
compiute. Ora si sta procedendo ad eseguirle. L’Italia, purtroppo, è rimasta alla finestra.
Abbiamo perso tempo prezioso. Il costo del “non decidere” è elevato perché si continuano a
sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo.
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Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate,
anche qualora l’iniziativa Crosetto-Cossiga diventasse realtà in tempi brevi (il che non è detto).
ICSA ha analizzato a fondo la situazione ed ha compiutamente elaborato una proposta, che
muove dalla analisi effettuata lo scorso anno, ma che tiene conto del mutamento del contesto
internazionale. Già, perché come abbiamo evidenziato, lo sconvolgimento in atto sulla sponda
meridionale del Mediterraneo e di tutto il Medio oriente e del Golfo ci riguarda direttamente,
con evidenti implicazioni in termini non solo di sicurezza, ma anche di Difesa.
Quindi ICSA conferma l’approccio riduttivo…intelligente, volto a preservare le capacità
militari essenziali e pregiate, mirando al raggiungimento della massima efficienza, eliminando
ogni fonte di spreco e privilegiando le componenti operative, all’insegna del principio secondo
il quale tutto è utile, non tutto è necessario.
Si tratta quindi di passare dalla ambizione utopistica di realizzare uno strumento militare
bilanciato, con capacità in ogni settore, sia pure quantitativamente minima, inseguendo il sogno
di poter condurre operazioni militari indipendenti, per puntare invece a Forze Armate integrate
ed integrabili con quelle di partner ed alleati. Dalla Forza Bilanciata alla Forza Integrata. Del
resto non ci sono molte alternative: una Forza Bilanciata non ce la possiamo permettere e fino
ad oggi abbiamo, in larga misura, fatto finta di averla realizzata. La Forza Integrata la possiamo
invece realizzare, purché si abbia la consapevolezza del fatto che quando ci si “integra” con
qualcuno, poi non si può negare la disponibilità delle capacità che ci si è impegnati a mettere in
qualche misura a fattor comune. L’integrazione comporta una perdita di autonomia decisionale.
Del resto ciò che sta avvenendo in seno alla NATO e alla UE conferma la validità di questo
approccio: persino la Gran Bretagna e la Francia, ovvero i Paesi che più spendono per la difesa e
che hanno anche una politica estera e difesa autonoma, nonché una serie di impegni, interessi e
presenze globali, vestigia del passato coloniale, hanno deciso, sono state costrette a rinunciare ai
sogni sciovinistici. Londra e Parigi hanno deciso di collaborare a tutti i livelli nel campo della
difesa: politico, militare, industriale, tecnologico. C’è chi pensa che si andrà ad un nuovo
fallimento, rievocando il tentativo di Saint-Malo. Ma non è così, questa volta lo scenario è
diverso, perché all’epoca si trattava di compiere una scelta piuttosto che un’altra, ora si tratta di
fare di necessità virtù. Ed a nostro avviso, alla prima serie di impegni sottoscritti, anche in aree
delicate, come il coordinamento e la messa in comune di parte delle attività di ricerca e sviluppo
e delle ricerche nucleari militari, per non parlare della costituzione di forze di intervento
congiunte, della turnazione concordata nello spiegamento delle portaerei, dell’impiego di
cacciabombardieri navali francesi sulla portaerei britannica, delle missioni di pattugliamento dei
sottomarini lanciamissili nucleari, seguiranno ulteriori passi in futuro. L’Italia purtroppo ha
perso l’occasione unica di unirsi a Londra e Parigi per trasformare in iniziativa trilaterale quello
che è partito come asse bilaterale. Anche la Germania e la Spagna per ora sono escluse.
L’Olanda forse sarà “attratta” da Londra. Non è detto che non riesca un avvicinamento ed un
ampliamento a chi per ora è rimasto alla finestra, ma per ora quella che è in corso è una
iniziativa bilaterale. Iniziativa che rivoluziona anche gli equilibri in seno alla NATO ed alla
dimensione difesa della UE. E ce ne siamo già accorti in occasione della crisi libica, che ha
visto il direttorio Anglo-Britannico saldarsi con Washington, anche grazie alla auto-esclusione
tedesca e ai balbettii italiani.
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Prove di integrazione franco-britannica: durante le missioni contro la Libia un pilota della RAF ha volato
sui MIRAGE francesi.
(Fonte Ministero della difesa francese)
E evidente che se i due “grandi” ammettono di non poter fare da soli e dover integrare in misura
crescente le proprie capacità militari, accettando quindi una minore indipendenza politica,
strategica e militare…tutti gli altri dovranno fare molto, ma molto di più per non rischiare
l’irrilevanza. E in questo senso ci sono state autorevoli prese di posizioni in ambito NATO, UE
e da parte di singoli governi. L’Italia ha quindi di fronte a se una sfida/opportunità. Che va
affrontata nel più breve tempo politico. Da un lato deve cercare di…rientrare nel gioco,
cercando di agganciare Londra e Parigi o, se questo non fosse possibile, puntare a forme di
collaborazione con gli altri “esclusi”, cercando per una volta di essere politicamente propositiva
e quindi di guidare il gioco, invece di accodarsi o sgomitare una volta che i giochi saranno fatti.
Dal punto di vista militare, lo strumento militare deve essere riformato, subito, per adeguarsi ai
nuovi standard NATO/Europei, cercando magari di coordinarsi già con qualche alleato o
quantomeno di puntare sulle quelle capacità che:
a) sono comunque irrinunciabili per la sicurezza nazionale;
b) sono ricercate/pregiate e quindi il possederle ed essere disposti ad impiegarle ha una
significativa valenza politica-strategica. E per individuarle basta scorrere le wish list
della NATO e della Unione Europea.
Certo non si può più procedere con una riduzione proporzionale delle singole Forze Armate e
delle singole capacità. Questo sarebbe l’approccio meno doloroso, che apparentemente fa
soffrire tutti allo stesso modo. Ma è una soluzione sbagliata. Perché le rigide ripartizioni
stabilite sulla base di criteri forse validi 20 o 30 anni fa non hanno più alcun senso. Bisogna
avere il coraggio di decidere cosa serve davvero, a prescindere da chi è che può fornirlo. E la
trasformazione deve avvenire sulla base di uno spirito interforze. Spirito che, bisogna dirlo, si è
perso in questi ultimi tempi. A dispetto da quanto previsto dalle riforme degli scorsi anni, si è
tornati alla logica delle “parrocchie”, con il conclave del Comitato dei Capi di Stati Maggiore
che decide per consenso e tenendo troppo in considerazione le richieste delle singole Forze
Armate. Nella situazione in cui si trova l’Italia c’è bisogno di decisioni prese sulla base
dell’interesse nazionale e della Difesa, non della singola Forza Armata. Decisioni chiare,
applicate in fretta. Per questo occorre tornare allo spirito originario della riforma (a questo punto
si deve dire mancata) interforze e ristabilire la preminenza gerarchica del Capo di Stato
Maggiore della Difesa nell’area operativa e del DGA/Segredifesa in quella amministrativa e
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tecnica. Sarebbe poi opportuno approfondire l’opportunità di separare le responsabilità di chi si
occupa di procurement da quelle amministrative della difesa, come del resto accade in quasi
tutti i Paesi. Ma nella consapevolezza che il procurement è settore delicatissimo che richiede
professionalità di altissimo livello se si vogliono evitare disastri. Mentre procedure
ottocentesche andrebbero aggiornate…alla best practice internazionale.
A proposito di procurement, occorre certamente rivedere il concetto di “Difesa Servizi”,
concepita con finalità che sono poi mutate e che comunque non è ancora decollata. Nell’ottica
della ricerca dell’efficienza si deve esaminare se sia quella della società semi-esterna la via
migliore per ottenere i risparmi e le efficienze previste, soprattutto considerando gli immensi
esuberi di personale che la Difesa deve risolvere e la quantità di enti e strutture esistenti. Forse è
il caso di accertare se le funzioni che dovevano essere attribuite a Difesa Servizi non possano
essere assolte all’interno della Difesa.
Gran parte dei risultati desiderati possono essere conseguiti in qualche misura senza neanche
ricorrere allo strumento legislativo, ma anche solo attraverso atti amministrativi.
Non è certo possibile in un documento di questo tipo fornire una indicazione specifica di quali
sono le capacità “essenziali” e quali invece possono essere sacrificate. Questo esercizio deve
essere condotto appunto nel contesto di scelte politico-strategiche. Le responsabilità in materia,
definire compiti e ruoli delle Forze Armate sono della politica. La politica deve anche garantire
le risorse finanziarie necessarie per realizzare quanto chiede. Il come spetta ovviamente ai
tecnici.
I criteri sulla base dei quali scegliere sono però delineati. E il tutto deve avvenire, lo ribadiamo
ancora, in ottica interforze, per evitare duplicazioni. Basta pensare a settori come quelli delle
Forze Speciali, oppure dei mezzi elicotteristici, degli UAV, della difesa contraerea, della
protezione delle forze, del cyberwarfare, della IT. E che dire della incredibile moltiplicazione
dei centri sperimentali aerei: prima ce n’era uno solo, logicamente dell’Aeronautica, poi è nato
quello della Marina, ma anche l’Esercito vuole il suo. E andare tutti a Pratica di Mare e usare le
strutture A.M. no? Almeno quest’ultima disfunzione sembrava essere stata risolta, ma potrebbe
ora esserci qualche nuovo “ripensamento”.
Per non parlare della logistica, della sanità. Avere una pluralità di attori e “fornitori di capacità”
è un lusso che non ci possiamo più permettere, ma è utopistico pensare che le Forze Armate
siano disponibili a rinunciare a parte delle proprie competenze e capacità…spontaneamente.
Una operazione del genere potrà anche portare il passaggio di reparti, mezzi e personale da una
Forza Armata all’altra. Da noi potrebbe sembrare fantascienza, ma all’estero è una prassi del
tutto normale.
Ci sono anche capacità addizionali che si renderanno indispensabili, ad esempio proprio nel
cyberwarfare, ma anche nella difesa antimissile, nella difesa aerea, nella sorveglianza satellitare,
aerea e navale, nell’intelligence, nella protezione degli spazi marittimi. Già, perché nessuno può
garantire cosa accadrà sulla sponda meridionale del Mediterraneo nell’arco di un lustro. E chi è
pessimista… rischia di aver ragione.
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Il cacciatorpediniere ANDREA DORIA potrebbe essere dotato di capacità antibalistiche. (Fonte MM)
Per quanto riguarda poi i tagli strutturali da apportare per recuperare soldi, personale ed
efficienza, la ricetta non può che prevedere interventi sulla organizzazione amministrativa e
territoriale che miracolosamente esce in larga misura indenne da ogni ristrutturazione, mentre in
genere si sacrificano le forze operative. Ovvero si fa il contrario di ciò che sarebbe virtuoso. Le
idee su cosa fare, partendo dalle macro regioni territoriali/amministrative interforze ci sono.
Basta attuarle.
Ci sono i macrointerventi, ma anche quelli minori, che hanno un significato di moralizzazione
dovrebbero essere realizzati in fretta: ad esempio intervenendo nell’area dello “sport con le
stellette” che risulta comunque costosa e produce poco in termini di ritorno di immagine per le
Forze Armate. E’ il caso di tornare all’antico, privilegiando quelle poche, pochissime discipline
che hanno una chiara attinenza con la Difesa e comunque solo se le forme con le quali si investe
in atleti e strutture producono un beneficio evidente per la Difesa. Quanto poi a organizzazioni
anacronistiche, come il CISM, sopravvissuto alla Guerra Fredda, va semplicemente eliminato.
Le olimpiadi militari non hanno più alcun reale valore. Se ne può fare a meno. Casomai i
contributi del CONI potrebbero essere meglio utilizzati destinandoli a potenziare le strutture che
possono consentire ai militari (e magari anche ai civili) di mantenere i nuovi, sempre più elevati
standard di efficienza fisica: palestre, piscine etc.
Poi bisogna avere il coraggio di affrontare il nodo della proliferazione degli organismi di
vertice. Oggi ci sono di fatto 5 stati maggiori. Senza contare l’enorme staff del ministro, la cui
organizzazione è stata oggetto di una recente riforma, che tutto ha fatto…tranne ridurne la
consistenza a livelli di sobrietà che sarebbero indispensabili. Occorre rivedere compiti,
responsabilità e piante organiche. E poi intervenire non con le forbici, ma con la mannaia.
Quali risorse?
Se ci si ostinasse a voler compiutamente realizzare e far funzionare uno strumento
militare della consistenza e con le capacità teoriche attuali occorrerebbero circa 21 miliardi di
euro all’anno, beninteso per la sola Funzione Difesa. Il bilancio 2011 prevede invece 14
miliardi. Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo
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totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale. Non è realistico ipotizzare che la spesa reale
per la difesa possa salire di 4,5 miliardi di euro. E allora? Allora bisogna intanto procedere ad
un recupero di efficienza ovunque possibile, attraverso una draconiana opera di riduzione delle
strutture e delle infrastrutture, recupero di personale a ruoli operativi, efficientamenti.
Ipotizzando di continuare a spendere almeno 4,5 miliardi di Euro all’anno in ammodernamento
e ricerca (compresi i fondi extra Difesa) e qualcosa come 2,8 miliardi di Euro per l’esercizio,
oltre a 1,5 miliardi per le missioni…la spesa per il personale non potrebbe andare oltre i 7,5
miliardi di Euro all’anno, portando la spesa complessiva effettiva per la Funzione Difesa a circa
16,3 miliardi di Euro all’anno, missioni incluse. Uno sforzo ragionevole, considerando che
l’Italia dedica oggi alla funzione difesa meno dell’1% del PIL e che l’obiettivo del governo per
la corrente legislatura era quello di arrivare a 1,3% del PIL.
Se si deve dunque “rientrare” ad un totale di 16 miliardi e mantenere i rapporti di
equilibrio ottimali tra le diverse voci di spesa (50% per il personale e 50% tra ammodernamento
e esercizio), ne deriva che sarebbe necessario ridurre la spesa per il personale di circa 2 miliardi
di Euro all’anno. Il che non deve sorprendere. E’ evidente che se la voce di spesa principale del
bilancio della difesa italiano è quella per il personale è lì che deve essere ottenuto il risparmio
più consistente, specie considerando che il costo del personale pesa ormai per oltre il 65% degli
stanziamenti complessivi. Del resto le Forze Armate moderne hanno un tasso di
“capitalizzazione”, investimento per ogni militare, molto elevato. E’ questo vantaggio
qualitativo che ci permette di affrontare i Talebani con un “rapporto di scambio” tra perdite
subite e perdite inflitte estremamente favorevole. E che deve migliorare ancora. Inoltre grazie
alla tecnologia si riduce la consistenza degli equipaggi delle unità navali, dei mezzi terrestri,
mentre i velivoli senza pilota si affiancano e in qualche caso sostituiscono i velivoli pilotati.
Certo, nelle formazioni terrestri il soldato rimane “il sistema d’arma base” e fino a quando non
avremo robot-soldato non ci saranno alternative. Né la tecnologia consente di sostituire i “boots
on the ground” più di tanto. E proprio per questo quando si dovranno tagliare gli organici
occorrerà andarci…piano proprio con l’Esercito. Il quale peraltro deve rendere operativamente
impiegabile una aliquota molto più consistente del proprio personale.
Personale dell’Esercito in Afghanistan, il taglio degli organici dovrà tenere conto dell’importanza dei
“boots on the ground”. (Fonte NATO ISAF)
L’entità del bilancio della difesa “ideale” che prospettiamo è inferiore a quella indicata nel
documento dello scorso anno. Questo perché si è tenuto conto della tendenza generale in atto in
Europa e in altri Paesi. Peraltro va anche precisato che l’Italia non può permettersi di “tagliare”
molto, perché già spende pochissimo per la difesa. Può e deve però spendere meglio.
E’ anche evidente che investendo complessivamente poco più di 16 miliardi di Euro all’anno,
missioni incluse, si dovrebbe accettare una diminuzione delle capacità militari…ma in larga
misura si andrebbero a perdere capacità…virtuali, oppure si andrebbe ad incidere su quella
immensa struttura che di operativo produce ben poco e si risolve soltanto in un costo. Detto in
27
altri termini, con investimento di 16,5 miliardi di Euro all’anno l’Italia potrebbe conseguire una
capacità militare effettiva superiore a quella attuale ed in linea con il livello di ambizione
internazionale del Paese.
Vi è poi un’ultima considerazione. L’Italia per molti anni ha potuto considerare la difesa del suo
territorio, della popolazione, degli spazi aerei e marittimi, delle vie di comunicazione come
qualcosa di garantito e sicuro. A nostro avviso questo assunto, purtroppo, va rivisto alla luce di
quello che sta accadendo in Nord Africa, nel Medio Oriente e nel Golfo. Questo significa
rivedere le priorità e i programmi di investimento e, come accennato, cercare di dotarsi di
capacità oggi assenti o minimali, possibilmente nel contesto internazionale o almeno nel quadro
di una collaborazione rinforzata con chi si trova a condividere, anche solo per ragioni
geografiche, la nostra situazione. E se la instabilità aumentasse il livello indicato potrebbe
risultare insufficiente. La cifra quantificata già ipotizza un “rischio calcolato” e presuppone una
solida solidarietà europea e NATO. Questo è un caveat che deve essere tenuto ben presente.
Non va neanche sottovalutato come la crisi libica abbia fatto rinascere nel cittadino una
consapevolezza di “minaccia”, militare e non solo, che non si riscontrava più da anni.
Decisamente superiore al “panico irrazionale” che portò nel 1991 a saccheggiare i supermercati
o persino alla preoccupazione diffusa durante la guerra alla Serbia del 1999 o all’angoscia
generata all’indomani del 9/11. E il cittadino non è cosciente della reale livello delle capacità di
difesa del territorio italiano oggi esistenti. E’ possibile che l’opinione pubblica torni a
“dimenticare” e passi ad altro in fretta dopo la conclusione della vicenda libica. Ma se
l’instabilità dovesse continuare o ad aggravarsi nel Mediterraneo forse per la prima volta il tema
Difesa potrebbero diventare uno di quelli “importanti” persino per l’opinione pubblica e la
politica italiane.
Tabella 2 – Spesa per la Difesa nazionale in rapporto al PIL, per Paese
Paese
Italia
Gran Bretagna
Francia
Germania
Spagna
Olanda
Canada
USA
Fonte: ICSA
Spesa per la Difesa nazionale /PIL (val. %)
0,98
2,37
1,61
1,28
0.8
1,5
1,4
4,3
Va infine ancora una volta precisato che il Bilancio della Difesa italiano non rappresenta la reale
spesa per la difesa, perché include gli stanziamenti per l’Arma dei Carabinieri, che quest’anno
ammonta a 5,7 miliardi di Euro. L’Arma è formalmente Forza Armata (un unicum italiano
davvero discutibile), in realtà è dedita al 90% al settore della sicurezza. .
Altra voce di spesa che nel Bilancio Difesa non dovrebbe stare è quella alle “pensioni
provvisorie” del personale in ausiliaria (istituto da sopprimere) di naturale competenza, ovvero
il Ministero dell’Economia. E quest’anno si tratta di 326 milioni di euro.
Infine ci sono le “Funzioni Esterne”, che ricomprendono di tutto un po’, dai “voli di
stato” della Presidenza del Consiglio, al rifornimento idrico delle isole minori siciliane, ai
contributi alla CRI. Nonostante le riduzioni sono ancora 100 milioni di Euro all’anno. E il
danno per la Difesa propriamente detta è ancora più grave, perché spesso è la Difesa che deve
anticipare il pagamento dei costi di ulteriori attività “esterne” senza che poi arrivino i rimborsi
previsti. Caso tipico quello dei voli di stato, con la Presidenza del Consiglio che ormai ha debiti
verso la Difesa per circa 250 milioni di Euro.
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Il personale
Ormai è chiaro che uno dei fulcri della riforma del sistema difesa nazionale riguarda il
personale, sia quello militare sia quello civile. Se non si interviene in quest’area sarà impossibile
rendere efficiente la difesa. Due sono i problemi cruciali:
a)
Una struttura degli organici e una normativa di avanzamento “top heavy”,
con troppi comandanti e pochi sottoposti, con un sistema che garantisce la
progressione di carriera anche quando ormai la crescita dello stipendio non è
più legata al grado (in larga misura), ma solo all’anzianità di servizio. Inutile
dire che anche quest’ultimo sistema di aumento automatico degli stipendi in
virtù dell’invecchiamento, mutuato dalla peggiore prassi del pubblico
impiego, va riformata. Non si può pensare che un tenente colonnello
“trombato” e che in un sistema che funziona sarebbe mandato in pensione
possa guadagnare come un generale in “corsa”. Occorre un diverso sistema
di avanzamento ed un diverso sistema retributivo. Gli stipendi “base” devono
essere in linea con gli standard internazionali, a parità di potere d’acquisto,
ma nel mondo militare non si può essere promossi per anzianità e lo
stipendio va legato al grado e alle responsabilità, mentre chi non funziona
non deve rimanere in divisa “a prescindere”, ma scartato, perché nel nuovo
contesto non si può aspettare di essere in combattimento in Afghanistan per
scoprire se qualcuno…non è all’altezza o doveva fare un diverso lavoro.
b)
Una distribuzione del personale nei vari gradi…assurda, a causa di interventi
legislativi improvvidi e al tentativo di assimilare a tutti i costi il soldato ad un
dipendente statale da scrivania. Gli esuberi, concentrati nei gradi apicali degli
ufficiali e dei sottufficiali devono essere smaltiti, e in fretta, attraverso
provvedimenti straordinari. In caso contrario le Forze Armate continueranno
ad essere penalizzate da una “zavorra” di personale non impiegabile
operativamente e molto costoso, la cui presenza crea anche problemi di
gestione, perché il peso delle operazioni reali viene concentrato su una
aliquota ridotta di uomini e donne sottoposti a veri tour de force, anche
perché il sistema italiano non consente di effettuare rotazioni “lunghe” del
personale (ad esempio 1 anno di impiego operativo e 2 anni domestici) e
impone al contrario un cambiamento relativamente frequente (2,4,6 mesi al
massimo) del personale, con costi altissimi (anche quando non si muovono i
mezzi ma solo gli uomini), con conseguenze negative in teatro a causa della
continua alternanza (anche nei rapporti con alleati locali e internazionali e
con la popolazione) e con altrettante troppe rapide fasi di “riposo” e
ripreparazione. Naturalmente per evitare che le disfunzioni si ripetano,
occorre non solo evitare nuove…regalie da parte del Parlamento, ma
soprattutto rivedere le piante organiche, ferme ai tempi della guerra fredda:
l’Italia ha quasi 500 ufficiali generali…gli USA come visto ne avevano 900.
Questo è inammissibile. Ad essere generosi nei rapporti di
inquadramento…di generali ne basterebbero 150. Identico discorso per i
colonnelli, i tenenti colonnelli. E se andiamo a guardare la situazione tra i
sottufficiali il quadro che emerge è persino peggiore: oggi abbiamo in
servizio 57.000 marescialli su 177.000 militari. Il vecchio modello a 190.000
ipotizzava 25.400 marescialli. Ce ne sono almeno 32.000 di troppo. In
compenso mancano i sergenti: solo 15.000, su una previsione di 38.000. Ma
i pasticci non sono solo in cima alla piramide…perché se guardiamo alla
base scopriamo che ci sono ben 15.000 soldati in ferma annuale, che tutto
sono tranne “guerrieri” impiegabili in missioni operative. Si tratta invece di
personale che svolge compiti ausiliari e in molti casi non necessari…. Il
nuovo sistema dovrà correggere anche questa disfunzione.
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Siamo arrivati a questi punto perché, quando si è stabilita la consistenza del Modello
professionale di difesa, con il DLGS 215/01, modificato dalla Legge 226/04, si è ipotizzata una
forza complessiva di 190.000 militari professionisti e volontari…. che non ci possiamo
permettere. Già allora si sarebbe dovuto puntare su una forza complessiva inferiore. In ogni
caso, visto che la dinamica dei costi divenne presto evidente, si sarebbe dovuto intervenire con
una certa frequenza per aggiustare il tiro…al ribasso. E invece sono passati 10 anni…i numeri
sono rimasti quelli e la Difesa ha ovviamente cercato di raggiungerli, con quella gradualità
tipica della macchina statale italiana. In teoria si sarebbe dovuto raggiungere l’equilibrio…in 20
anni!!! Quando altri Paesi sono passati dalla leva al professionale in 3-5 anni. Ecco dove crolla
il sistema italiano in confronto ai concorrenti stranieri. Quindi, si è proceduto troppo lentamente
e in modo colpevolmente suicida. Sì, è vero che al contempo l’Italia è sempre riuscita a far
fronte agli impegni reali internazionali e di questo bisogna dare il giusto credito alle Forze
Armate che non hanno mai detto…no, però non impegnando mai più di 10-12.000 effettivi e
mai tutti in missioni “combat”.
Ora occorre definire un nuovo modello organico. E, visto ciò che stanno facendo i nostri
partner…quella soglia a 177.000 uomini individuata dai documenti interni della Difesa (che di
Modelli ne ha elaborati in quantità) è oggi troppo elevata. L’obiettivo oggi dovrebbe essere
realisticamente compreso tra 150.000 e 165.000 effettivi. Possono sembrare pochi, ma…non ne
possiamo stipendiare di più, con le risorse ragionevolmente disponibili. Possono essere
sufficienti, se si tratta di personale “giusto” impiegabile, giovane, bene addestrato ed
equipaggiato.
Naturalmente si verranno a creare esuberi di personale, che vanno affrontati. Già oggi
la rigidità della struttura del personale con una massa di “anziani” non utilizzabili e
difficilmente motivabili o recuperabili crea un “tappo” che blocca l’assorbimento dei giovani
che hanno fatto una esperienza positiva in divisa e vorrebbero proseguire la carriera in
uniforme. Di fatto solo un volontario su quattro riesce a continuare a fare…un mestiere che sa
fare e che gli piace, gli altri devono trovare qualcosa d’altro. E hanno anche difficoltà a
individuare sbocchi anche in altri corpi armati o comunque nella Pubblica Amministrazione.
Come riuscire dunque a far finalmente partire un sistema di tunover continuo, oggi
invece di fatto bloccato (un esercito che funziona non può che essere “giovane”) e a smaltire i
“vecchi”? La soluzione più “soffice” e politicamente più accettabile sarebbe, more solito, il
ricorso a prepensionamenti di massa, con elargizione di contributi figurativi. Ma una scelta del
genere è immorale, specie nell’attuale contesto economico (e il ministero dell’Economia
giustamente su questo versante oppone resistenza) e tenendo conto che a tutti gli italiani si sta
chiedendo di andare in pensione sempre più tardi.
Meglio pensare a trasferimenti trasversali all’interno della Difesa (molti militari
potrebbero smettere la divisa e svolgere ruoli preziosi da borghesi, perché non si dimentichi che
la Difesa ha anche 31.000 dipendenti civili: anche ammettendo che questo livello si riduca a
25.000 unità o meno…c’è spazio per recuperare ex militari con le nuove qualifiche richieste)
nonché in altri settori della Pubblica Amministrazione, che lamentano carenze organiche (dalle
Forze di Polizia alla Protezione Civile etc.). Certo non manca chi si oppone e ci sono lobbies
molto potenti che proprio non ne vogliono sapere di dover rinunciare a concorsi e gestione delle
assunzioni in favore degli ex militari. Ma è compito della politica prendere anche scelte
impopolari. La Difesa le sta provando tutte, ad esempio si è prospettato di trasferire personale al
Ministero della Giustizia, con la Difesa disposta a farsi carico del “differenziale” retributivo in
svantaggio del militare (il quale però ha obblighi e impiego ben diverso). La questione non può
che essere affrontata con uno strumento legislativo, collegialmente dal governo e con un
sostegno bi-partisan per quanto possibile. E’ questa la chiave di volta per rimettere in sesto la
Difesa italiana, occorre partire dagli uomini. E il disastro è tale che ora occorre una azione “una
tantum” ad ampio spettro costosa e non gradita al “sistema” e che per di più va eseguita
rapidamente, non con il solito piano ventennale.
Il cambiamento è indispensabile anche per il personale civile della Difesa. Oggi la Difesa
non ha le professionalità civili che sarebbero necessarie, in compenso ha sovrabbondanza di
personale non qualificato e difficilmente impiegabile a dispetto degli sforzi di riqualificazione.
La Difesa e i sindacati dei dipendenti civili si oppongono al passaggio al settore civile della
Difesa di ex militari in esubero, ma questa sarebbe in realtà una soluzione “interna” che
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consentirebbe di smaltire almeno in parte gli esuberi senza dover ricorrere a formule costose e
di difficile attuazione.
Funzionamento e formazione
La continua riduzione dei fondi che consentono alla macchina militare di funzionare,
ovvero i soldi per l’esercizio sta “azzoppando” il sistema militare nazionale. Da una parte i
mezzi sono bloccati perché non si riesce neanche a pagare il carburante, figuriamoci la
manutenzione, le munizioni o i pezzi di ricambio, dall’altro è impossibile far addestrare e
preparare il personale, se si escludono i “soliti noti” impegnati nelle missioni all’estero. Il tasso
di efficienza e disponibilità operativa sta precipitando e la emergenza libica ha messo in
evidenza questa situazione incresciosa, anche se, come al solito, la realtà è stata nascosta al
Parlamento ed al Paese. E proprio per evitare qualunque critica è stata imposto anche da questo
governo un umiliante divieto ai vertici delle Forze Armate di raccontare la crisi della Difesa e i
problemi nel quale si dibatte lo strumento militare. Un tempo il tabù riguardava soltanto la reale
natura delle operazioni militari all’estero, oggi sulle missioni c’è maggiore trasparenza, in
compenso c’è la consegna del silenzio sullo stato di salute delle Forze Armate. Fateci caso, i
vertici militari parlano solo in sedi ed occasioni ufficiali e badando bene di non illustrare quanto
sia grave la situazione, mentre non ci sono né conferenze stampa né possono essere rilasciate
interviste se non su argomenti marginali.
L’aula magna di MARISCUOLA a Taranto. Formazione ed esercizio dovranno essere potenziati.
(FONTE MM)
Però non è possibile che una porzione crescente delle Forze Armate sia di fatto “non
impiegabile”, quindi inutile. In pratica si sostiene un costo non trascurabile (personale e
strutture) senza averne un ritorno in termini di sicurezza o capacità operativa. O i reparti, mezzi
e personale sono impiegabili e quindi addestrati, preparati, efficienti o altrimenti se ne può fare
a meno.
Per quanto riguarda la logistica si erano riposte grandi aspettative nella Difesa Servizi
Spa, la società che avrebbe dovuto assumere responsabilità logistiche “generali” che non
necessariamente devono essere svolte da personale in uniforme. Difesa Servizi peraltro ha avuto
un parto molto travagliato, si è vista privare di buona parte delle competenze inizialmente
previste e di fatto ad oggi non ha ancora cominciato a funzionare. Come già accennato, la
creazione di una nuova struttura comporta costi di funzionamento e di personale che potrebbero
essere giustificati solo se la nuova entità producesse risparmi significativi, facendo quello che
fino ad oggi ha fatto la Difesa, ma a costi inferiori e con risultati migliori. Per ora niente del
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genere è accaduto e mentre Difesa Servizi stenta a decollare il sistema Difesa continua con le
vecchie pratiche. La transizione non sembra essere né rapida né efficace. Come spesso accade in
Italia, si crea qualcosa di nuovo con la promessa di mirabolanti benefici, ma le strutture preesistenti rimangono in piedi o si re-inventano una missione, i costi complessivi invece di
ridursi…aumentano. Ed è sicuramente eccessivo il battage che si è fatto sulla possibilità di “fare
soldi” valorizzando emblemi e brand militari…Andiamo, queste cose le Forze Armate già le
facevano, anche se magari in modo un po’ ruspante (all’inizio) ed ottenendo poco, ma la Difesa
Italiana non risolverà i suoi problemi solo perché concede l’uso di marchi e loghi a questa o
quella ditta di abbigliamento! Queste sono “noccioline” che certo non giustificano la struttura.
Va quindi valutato accuratamente se non sia il caso di…soprassedere o di utilizzare personale
militare evitando ogni rischio di duplicazione e decidendo solo sulla base di stretti criteri di
costo/efficienza. E si potrebbe poi riorientare Difesa Servizi per far fruttare meglio ciò che la
Difesa mette a disposizione senza ottenere un ritorno adeguato: ad esempio strutture ed enti
militari, i cui costi di manutenzione e aggiornamento andrebbero pro quota ripartiti, oppure il
“nodo” della assistenza al controllo del traffico aereo, le spese di aeroporti militari utilizzati
dall’aviazione civile e commerciale, lo stesso servizio meteo dell’Aeronautica, per non dire
della attività che la sanità militare svolge a beneficio di utenti civili.
Toccando poi il problema delle infrastrutture, ICSA continua a ritenere che sia
indispensabile procedere a concentrare il personale ed i reparti in un piccolo numero di
infrastrutture grandi e moderne e che garantiscano gli standard di vita che militari professionisti
meritano e che non sono certo quelli dei soldati di leva. Poche strutture, magari collocate in
prossimità dei bacini di reclutamento (che certo non si trovano al nord Italia), grandi, razionali,
moderne, con possibilità di utilizzare aree addestrative e poligoni altrettanto adeguati. E si
rinunci a tutto il resto. La storia della cessioni degli immobili ex difesa è stata fino ad oggi quasi
una catastrofe, della quale certo non ha beneficiato né il Paese né tantomeno lo strumento
militare. Occorre un nuovo approccio, in fretta e senza svendere o regalare a comuni in
difficoltà beni che hanno un valore di mercato più che significativo. E la lista delle infrastrutture
da dismettere va aggiornata al più presto. ICSA sostiene anche la necessità di ridurre le strutture
centrali della Difesa, magari concentrando gli Stati Maggiori in quel polo di Centocelle dove
non si è neanche riusciti a trasferire il solo Stato Maggiore Difesa, cosa che forse potrà avvenire
nel 2013. Se la Francia mette tutte le “teste” delle Forze Armate in un Pentagono alla periferia
di Parigi, non si capisce perché una cosa del genere non possa avvenire anche in Italia. E se
Berlino riduce lo staff centrale del ministero a 1.500 elementi rispetto ai precedenti 3.000…
Anche il sistema di formazione e addestramento delle Forze Armate deve essere al più
presto rivisto e ottimizzato in chiave interforze. Oggi ciascuna Forza Armata continua a fare da
sé e anche se ci sono stati significativi cambiamenti con il passaggio dalla leva al reclutamento
di volontari e professionisti, il sistema rimane nel suo complesso largamente sovradimensionato
e poco efficiente. Lo stesso dicasi anche per la stessa struttura centrale interforze
(CASD/IASD/ISMI). Vi sono troppe duplicazioni mentre i costi di sistema/strutture rischiano di
diventare del tutto spropositati in confronto al numero di allievi/studenti che si devono
“produrre”. Come per la logistica, occorre studiare un cambiamento radicale. Mentre deve
anche essere ben chiarito che la frequentazione di corsi di formazione superiore non deve essere
considerato alla stregua di un periodo “sabbatico” o di una perdita di tempo, ma come un
momento fondamentale nel processo di crescita personale e professionale. Il sistema deve essere
quindi molto più selettivo e naturalmente a frequentare i corsi devono essere solo gli elementi
che sono già stati selezionati per aspirare ai livelli apicali.
Procurement
La Difesa deve in fretta cambiare il modo, i tempi con i quali procede all’ammodernamento
acquistando nuovi mezzi e materiali e deve cambiare anche il suo rapporto con l’industria della
difesa, facendo riferimento a quello che stanno facendo i partner internazionali e alla evoluzione
del rapporto domanda-offerta. Inutile negarlo, con meno soldi a disposizione la Difesa dovrà
abdicare alle vecchie abitudini, ovviamente incoraggiate dall’industria, di farsi sviluppare e
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produrre sistemi e tecnologie “su misura”, anche quando le esigenze sono più o meno identiche
a quelle di Paesi amici ed alleati. E’ chiaro, se si fa tutto in casa si possono determinare
caratteristiche e prestazioni a piacimento e si ha un rapporto diretto ed esclusivo con il fornitore.
Ma se i pezzi da acquistare sono sempre meno numerosi e tecnologicamente sofisticati
l’autarchia non è più sostenibile. In questi anni si è fatto ricorso alla collaborazione
internazionale solo quando non era proprio pensabile fare da soli. Bene, la “ricreazione” è finita.
Dobbiamo dare ascolto alla NATO, alle istituzioni Europee ed alle voci che si levano da diversi
Paesi per creare quella cooperazione virtuosa e integrazione che finora non c’è stata. Ed anzi,
deve essere l’Italia, specie se rimarrà esclusa dall’asse bipolare Franco-Britannico, a muoversi
rapidamente e senza preclusioni. E scegliendo anche con chi e per cosa lavorare insieme a
partners…disastri come quello del programma missilistico Meads non devono più ripetersi.
Questo vuol dire accettare limitazioni alla indipendenza e sovranità nazionale, ma non
c’è alternativa. Non solo, dovremo anche accettare il principio di acquistare un’aliquota
significativa di sistemi e tecnologie “off the shelf”, quindi sul mercato, con un minimo (davvero
minimo) di adattamento e giocando in modo più intelligente la carta delle compensazioni
industriali (offsets) richiesti al venditore straniero: non si può più pensare di chiedere offset
diretti di scarso significato tecnologico come troppo spesso accade o di strapagare (gold plating)
una qualche personalizzazione, mentre se i pezzi da acquistare sono pochi la produzione o
persino l’assemblaggio su licenza risulterebbero economicamente insostenibili. La partita offset
va giocata a livello nazionale e di “barter deal” (io ti compro questo e tu mi compri quello). Non
solo, bisogna anche smetterla di fare gli schizzinosi e se è conveniente economicamente ed
operativamente si deve valutare, come accennato, l’acquisto di usato di qualità all’estero, come
fanno quasi tutti i Paesi Europei, anche quelli più ricchi. Perché se l’alternativa è tra non avere
una capacità giudicata essenziale, o averla solo parzialmente attraverso l’acquisto di sistemi
usati, ma efficaci ed efficienti…non vi è dubbio su che scelte fare. Pensiamo ad esempio ai
velivoli AEW. L’Italia ha condotto pochissime operazioni di questo tipo, essenzialmente in
campo aeronautico (leasing di caccia Tornado ADV britannici, parzialmente riuscito e leasing di
caccia F-16 statunitensi…pienamente riuscito). Ora si dovrà seguire un approccio del genere su
più vasta scala e più frequentemente.
Il leasing degli F-16 da parte dell’AM rappresenta un esempio da seguire.
(Fonte AM)
Perché la priorità della Difesa sarà quello di ottenere il prodotto migliore, al prezzo più basso, il
più in fretta possibile. Sembra un’ovvietà. Ma così non è stato per decenni. Solo che nella
stagione delle operazioni reali si compra quello che serve realmente e nelle quantità davvero
necessarie e occorre che i requisiti siano redatti per bene, da soli o con altri partner, e poi ci si
astenga da continui cambiamenti in corsa. In passato invece si è fatto finta di poter comprare
quantità enormi di mezzi e materiali, salvo poi ridurre drasticamente i numeri, facendo saltare i
presupposti economici e industriali del programma (e la convenienza a sviluppare invece che
comprare) e finendo per spendere troppo in ricerca e sviluppo visto l’ “output” produttivo
realmente richiesto. Si potrebbero fare decine di esempi.
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Allo stesso modo l’ammodernamento deve riguardare tutte le capacità essenziali, se procedendo
per la via nazionale si può comprare solo un tipo di sistema alla volta…bene, si fa altrimenti. E
se un programma non funziona, supera i costi, i tempi, incontra difficoltà tecniche
insormontabili…beh si deve avere il coraggio di cancellare il tutto e se necessario trovare
un’alternativa. Sono pratiche che nell’Italia della difesa risultano sconosciute o quasi. E al fine
di verificare la coerenza e il successo dei piani di procurement il Parlamento, attraverso le
commissioni di difesa potrebbe giocare un ruolo rilevante, purché….fossero in grado di lavorare
come organismi analoghi di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti. Se così non fosse, tanto
varrebbe continuare con lo standard attuale, che rende le commissioni del tutto irrilevanti ed
incapaci di esercitare controllo o stimolo sulla Difesa (per non parlare di iniziative folkloristiche
come quelle volte a spostare risorse dal procurement militare…alla lotta ai tumori o anche ad
altre meno nobili finalità).
Tutto questo richiede naturalmente la creazione di un nuovo rapporto tra Difesa e l’industria
nazionale, che non può più pensare di poter soddisfare in toto le esigenze nazionali e che deve
essere guidata a concentrare gli investimenti e a strutturarsi per fornire quello che è considerato
strategico ed irrinunciabile per il Paese. Ecco: qualcuno deve dire chiaramente all’industria dove
puntare e cosa tralasciare e poi le decisioni devono essere mantenute e inserite nel quadro di
programmi pluriennali a medio termine di investimento che dia certezze su cosa, quando e sulle
risorse stanziate. Ci deve anche essere un effettivo travaso di responsabilità per quanto riguarda
il supporto logistico e la manutenzione e perché no la formazione: le industrie si possono
occupare di questi “servizi”, che in tutto il mondo sono in larga misura svolti in outsourcing
lasciando che i militari si concentrino sull’impiego dei mezzi, fatte salve ovviamente capacità
essenziali o “campali” (ma fino ad un certo punto). In questo modo l’industria potrebbe
compensare la riduzione di fatturato. E potrebbe anche assorbire una quantità di tecnici
specializzati in servizio nelle Forze Armate ed oggi in buona misura in esubero. Perché in questi
anni avendo personale in eccedenza la Difesa ha riportato nel proprio alveo anche attività che
aveva esternalizzato. Ovviamente il costo dei servizi in outsourcing deve essere…onesto e i
contratti assegnati su base competitiva.
A questo si deve accompagnare una vera revisione delle normative export, da armonizzare a
quelle dei partners/concorrenti internazionali per non perdere competitività, rinunciando a
ipocrisie non tollerabili, almeno se si vuole mantenere una presenza industriale di alto livello in
questo campo strategicamente cruciale. Perché anche vendendo vestiti si fanno soldi
all’estero…ma non si rimane nel novero dei paesi industrialmente e tecnologicamente avanzati.
E l’export per funzionare deve poter contare sul supporto dell’intero sistema Paese, ai più alti
livelli politico-istituzionali e senza trascurare il sistema bancario e assicurativo.
Conclusioni
La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare
quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno
già realizzato. Le risorse che il Paese dedica alla difesa sono poche, ma non sempre sono spese
al meglio. Non di meno fino ad oggi le Forze Armate hanno assolto splendidamente i compiti
assegnati, in particolare nelle missioni all’estero. Ma questo non è sufficiente. Occorre
“produrre” di più a parità di risorse. Se ci saranno tagli, la riduzione delle capacità dovrà essere
compensata attraverso la ricerca di efficienze che rimangono potenzialmente molto consistenti.
Ma naturalmente non si può pretendere di fare di più con meno. E quanto sta accadendo in Nord
Africa, in Medio Oriente e nel Golfo certo cambia i presupposti della politica di difesa
nazionale. Va anche tenuto conto che ogni ristrutturazione ben eseguita permette di ottenere
risparmi e miglioramenti strutturali solo dopo aver affrontato un costo iniziale. Almeno questi
soldi extra devono essere garantiti, anche per risolvere il problema strutturale del personale.
Mentre le risorse per l’esercizio e il funzionamento devono essere non solo rimodulate, ma
anche accresciute, malgrado l'obiettivo complessivo sia quello di addivenire ad uno strumento
più piccolo e più efficiente. Solo in questo modo si potrà garantire al cittadino quel bene
primario che è la difesa nazionale e degli interessi nazionali.
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