Rapporto Difesa 2011
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Rapporto Difesa 2011
RAPPORTO DIFESA 2011 a cura di Andrea Nativi 1 INDICE Introduzione p. 3 Executive Summary p. 4 Il contesto internazionale p. 4 Il nuovo corso degli Stati Uniti p. 7 Come cambia la difesa dei nostri partner p. 10 La situazione della Difesa Italiana nel 2011 p. 13 Il Bilancio Difesa 2011 p. 15 Le missioni internazionali: voglia di disimpegno p. 16 Che cosa fare in Afghanistan p. 20 Una politica di difesa nazionale ed un nuovo strumento militare: la proposta p. 22 Procurement p. 32 Conclusioni p. 34 2 RAPPORTO DIFESA 2011 a cura di Andrea Nativi Introduzione Se il 2010 è stato ancora un anno “normale” per la Difesa italiana, il 2011, avrebbe dovuto essere l’anno del cambiamento, dell’adeguamento alle nuove sfide, al difficile contesto economico che attanaglia in particolare il Vecchio Continente, l’anno dell’avvio della riforma di un “sistema difesa” che ha sempre più bisogno di interventi di profonda ristrutturazione, se non vuole rischiare di subire gli effetti di un decadimento in corso ormai da qualche anno e che è stato rallentato grazie ad interventi straordinari ed alla capacità delle Forze Armate di supplire alla mancanza di decisioni. A dire il vero un tentativo di procedere alla riforma, attraverso un approccio davvero “minimalista”, condotto in larga misura dalla Difesa al suo interno, senza ricorrere allo strumento della legge delega e senza un dibattito che coinvolgesse l’intero Paese, istituzioni, opinione pubblica, media, era in rampa di lancio, ma è stato vittima degli scossoni e delle incertezze che hanno caratterizzato sinora il quadro politico. Merita di essere registrato anche lo stimolo a procedere alla razionalizzazione venuto dalla Presidenza della Repubblica, e ribadito in concomitanza con l’esplosione della crisi libica. In una condizione “normale” in realtà potrebbe anche essere accettabile temporeggiare, ma non lo è oggi, perché da un lato i problemi irrisolti della Difesa italiana continuano ad aggravarsi, dato che lo strumento militare non viene sostenuto in maniera adeguata dal punto di vista finanziario e organizzativo, e al contempo continua ad essere intensamente sfruttato in missioni internazionali che logorano personale, mezzi e materiali, perché non c’è la disponibilità a commisurare le ambizioni e le richieste alle effettive capacità. Se si spende di meno e se non si spende bene si deve almeno accettare una riduzione degli impegni e delle capacità militari e strategiche. Questo ridimensionamento potrebbe essere contenuto qualora si riuscisse a recuperare davvero efficienza all’interno del “sistema”, ma per fare questo occorrono riforme profonde e sicuramente difficili, che andrebbero poi attuate in tempi estremamente contenuti. Non sembra purtroppo esserci alcuna volontà in questo senso, né a livello politico, né tantomeno presso le Forze Armate, che purtroppo sembrano anche aver rinunciato a quello spirito “joint” che doveva permettere di superare tradizionali e anacronistiche rivalità interforze per ricercare efficienze e contenimento dei costi ovunque possibile. C’è il rischio concreto di un “riflusso” antistorico, pur nella consapevolezza che tentando di salvaguardare il proprio orticello si finisce solo per accelerare il decadimento complessivo. E il tutto è reso più grave dai rapidi cambiamenti dello scenario internazionale e di politica estera e di sicurezza, nonché dei provvedimenti e delle scelte in tema di difesa che i principali partner e concorrenti del nostro Paese hanno già deciso e stanno attuando con prontezza. Questo è il secondo Rapporto che la Fondazione ICSA dedica alla Difesa Nazionale. Se nella prima edizione avevamo necessariamente dedicato ampio spazio all’inquadramento generale del sistema militare nazionale, compiendo una analisi ricognitiva oltre che propositiva, questa volta abbiamo approfondito sia ciò che funziona, a dispetto di tutto, sia gli aspetti critici e formulare proposte concrete per realizzare quel cambiamento che la Difesa attende invano da troppo tempo. Purtroppo ogni anno che passa senza che si metta mano alla riforma non può che compromettere le capacità già acquisite con significativi investimenti e grandi sforzi in passato, le disfunzioni diventano più gravi, le carenze aumentano, anche perché le poche risorse disponibili non sono impiegate al meglio. Una trasformazione che non potrà più essere “cosmetica” diventa sempre più urgente. 3 Executive Summary Spendere meglio, affrontare i nodi irrisolti della difesa, a partire da quello della consistenza del personale e dell’aggiornamento del Modello di Difesa, rendere più efficiente il sistema Difesa, ridurre ed eliminare gli sprechi, aumentare il “ritorno” in termini di capacità e di ruolo internazionale che il Paese ottiene con i suoi investimenti nella Difesa e con la partecipazione alle missioni internazionali (irrinunciabili per chi vuole sedere al tavolo dei grandi con potere decisionale), migliorare la politica di procurement, adeguarci tempestivamente a quello che stanno facendo nel settore Difesa i nostri partner/concorrenti, prendere atto delle nuove sfide che conseguono dagli sconvolgimenti in Nord Africa, nel vicino e medio oriente. Tutti queste tematiche sono affrontate nel Rapporto Difesa 2011, che esamina la situazione e i problemi della Difesa nazionale alla luce dei cambiamenti internazionali e della reazione dei Paesi NATO e dell’Unione Europea e prospetta una serie di interventi per far sì che i “soldi del contribuente” siano spesi al meglio. Il tutto nella consapevolezza che la situazione economica è difficile e che non si può lasciare le cose come stanno senza intervenire, senza formulare una nuova politica di Difesa, pena il depauperamento dello strumento militare e degli investimenti effettuati in questi anni. Nello studio si prevede una rimodulazione degli investimenti per la Difesa ed una riduzione della consistenza complessiva delle forze armate: ipotizziamo forze armate tra 150 e 165.000 effettivi, a fronte di una spesa di circa 16,5 miliardi di euro all’anno. Ci sarebbe ovviamente una diminuzione di capacità e quindi di livello di ambizione nazionale, ma le capacità perdute sarebbero in larga misura quelle che oggi esistono solo sulla carta, perché i soldi disponibili non sono sufficienti per far funzionare l’esistente e sono comunque almeno in parte spesi male. Lo studio tiene ovviamente conto degli ultimi avvenimenti in Mediterraneo, che non possono che avere un impatto, già immediatamente, sulle politiche di difesa nazionali e sul tipo di strumento militare di cui il Paese avrà bisogno. Il contesto internazionale Lo scenario internazionale ha “regalato” tra fine 2010 e inizi 2011 un nuovo arco di instabilità che coinvolge un po’ tutti i Paesi che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo, un fenomeno che si sta estendendo anche in altri Paesi medio-orientali, a partire da quelli più deboli, come è il caso dello Yemen, ma che rischia di contagiare anche le traballanti monarchie del Golfo, come dimostrato dagli scontri in Bahrein, il più “occidentale” e aperto paese della regione e le agitazioni in Oman e Qatar. Un fenomeno prevedibile, ma che non per questo è meno preoccupante. A questo si aggiunge il rischio di destabilizzazione del già precario Libano. Quello che non è stato evidenziato nelle analisi politico-strategiche di questo processo sono le sue conseguenze in termini di sicurezza e difesa per i paesi occidentali e in particolare per quelli, come l’Italia, protesi nel Mediterraneo. Per essere brutalmente diretti: ci si rende conto di cosa potrebbe portare l’avvento della “democrazia” in Egitto? Cosa accadrebbe se si insediasse un governo islamico non troppo moderato, considerando che l’Egitto confina con Israele ed ha forze armate riequipaggiate ed addestrate dall’occidente? Per non parlare delle velleità del Cairo nel campo delle armi per la distruzione di massa e dei vettori missilistici. Inoltre, dopo quello che è accaduto in Tunisia, l’Algeria sembra per il momento controllare le proteste, la stessa Giordania ha dovuto prendere misure straordinarie che potrebbero non essere sufficienti, e la Siria è a sua volta stata contagiata, con il regime che risponde con un misto di brutalità e caute aperture. Per non parlare poi della guerra civile in Libia che ha destabilizzato il Paese, coinvolto nuovamente l’Occidente in un conflitto in un Paese arabo e senza che sia in vista una soluzione a breve termine. Probabilmente sarà 4 necessaria l’ennesima missione di stabilizzazione, nella quale l’Italia sarà forzatamente coinvolta, mentre la comunità internazionale ha toccato il punto più basso di una storia di gestione fallimentare delle crisi. Ribelli libici festanti nei pressi di Brega (Fonte VOA) Come se non bastasse, l’incubo di un nuovo conflitto arabo-israeliano può divenire concreto, per non parlare poi dei rischi diretti per l’Europa, in termini di accesso alle fonti energetiche, alla sicurezza delle linee di comunicazione marittima (a partire dal canale di Suez e non solo), di minaccia terroristica, di immigrazione illegale, di sfruttamento delle zone economiche esclusive e, se vogliamo essere pessimisti, di minaccia missilistica e militare convenzionale. Questa è una realtà della quale l’Unione Europea, la NATO ed in particolare i Paesi in “prima linea”, come Italia, Spagna e Francia dovrebbero cominciare a tenere conto in fase di pianificazione dello strumento militare, di definizione del budget della difesa e di investimenti nella sicurezza. Mentre si può procedere molto rapidamente nel ridurre gli strumenti militari, mandare in pensione o vendere mezzi ed equipaggiamenti, rinunciare a capacità è invece lento e molto costoso. Purtroppo ancora una volta l’Europa resta alla finestra, la dimensione militare/sicurezza dell’Unione rimane un’incompiuta e al massimo l’Unione è in grado di svolgere missioni di peacekeeping di basso profilo. Quanto poi a parlare con una sola voce in occasione di crisi e emergenze…dopo quello che si è visto con la guerra di Libia è difficile essere ottimisti anche in un’ottica di lungo periodo. La seconda grande novità viene dal vertice NATO di Lisbona, che ha portato alla approvazione di un Nuovo Concetto Strategico, all’impegno dell’Alleanza Atlantica nel campo della difesa antimissile e alla definizione di nuove priorità in termini di capacità che i partner dovranno (dovrebbero) fornire, nonché del “recupero” del rapporto con la Russia. La NATO, che in molti davano ormai per irrilevante, conserva ruolo e funzione, sia pure con il ridimensionamento conseguente al crescente interesse USA per Asia e Pacifico, confermato dalla prossima riduzione di rango di tutti i comandi statunitensi nel Vecchio Continente. La NATO dunque conserva una ragione d’essere, viene rilanciata anzi dalla crisi libica e acquisisce nuovi ruoli, in particolare quello per la difesa antimissile del territorio e della popolazione degli stati membri (l’Italia potrà contribuire con i sistemi antimissili “tattici” che sta acquisendo/sviluppando – il MEADS (quest’ultimo peraltro prossimo alla cancellazione dopo che gli USA hanno unilateralmente deciso di non procedere alla sua acquisizione) e SAMP-T, 5 mentre è stato mostrato interesse a sviluppare una capacità antimissile navale per creare uno “strato” antimissile di livello superiore) nonché nel campo del cyberwarfare e in prospettiva, della sicurezza energetica e della guerra spaziale/accesso allo spazio. Una nuova enfasi viene poi attribuita alla creazione di capacità militari dedicate alla controguerriglia ed alla assistenza militare a partner/alleati per l’addestramento e la preparazione delle proprie forze armate e di sicurezza. L’Alleanza Atlantica poi è oggettivamente l’unica organizzazione internazionale ad avere una credibilità, militare e politica, costruita in buona misura dal successo ottenuto nelle operazioni che ha condotto. Né ONU né UE possono dire altrettanto. Tuttavia il credito non è illimitato e fa riconfermato in ogni nuova “prova”. Anche per questo i paesi membri dovrebbero impegnarsi molto di più di quanto non facciano per far si che la NATO possa conseguire gli obiettivi assegnati, in Afghanistan, nella missione anti-pirateria e in Libia. La posta in gioco è davvero molto alta. Al vertice NATO si è parlato anche di disarmo nucleare, ma per ora l’Alleanza mantiene la sua dimensione atomica e le residue bombe nucleari tattiche statunitensi rimangono dispiegate in Europa, anche in Italia, la quale si è mostrata molto prudente di fronte alle richieste di alcuni Paesi di arrivare al completo ritiro di queste armi (cosa che comunque escluderebbe le armi nucleari nazionali di Francia e Gran Bretagna). A Lisbona si è discusso anche della riduzione delle armi nucleari strategiche e la NATO ha esercitato ogni pressione affinché il Congresso statunitense ratificasse il trattato New Start, che limita a 1.500 e 700 vettori per parte gli arsenali di Russia e Stati Uniti. L’Alleanza ha poi deciso di dare la massima priorità, proponendole per finanziamenti comuni o almeno multinazionali, una serie di capacità militari urgenti. La lista, definita Lisbon Capability Package include: - un network di comunicazioni/comando unificato per ISAF in Afghanistan - iniziative a breve, medio e lungo termine per contrastare gli ordigni esplosivi improvvisati - il miglioramento delle capacità di trasporto strategico marittimo ed aereo, con specifica attenzione per gli elicotteri - contratti comuni per il supporto logistico delle forze - la difesa antimissile - la cyber defence - il sistema di comando e controllo della difesa aerea (e antimissile) ACCS - il sistema di sorveglianza del campo di battaglia AGS - nuove capacità di sorveglianza e intelligence attraverso l’iniziativa JISR, Joint Intelligence Surveillance and Reconnaisance - Capacità netcentriche e di information superiority. L’elenco è ragionevole e include capacità, già raccomandate in passato, alcune realizzate, altre in corso di realizzazione, altre ancora di là da venire e mira anche a chiudere i “gap” che esistono a livello collettivo e nazionale in settori essenziali. L’Italia, come tutti i 28 paesi NATO è chiamata a dare il proprio contributo concentrando gli sforzi su questi progetti. Progetti in qualche caso molto costosi. Per questo la NATO ha raccomandato, così come gli Stati Uniti, gli alleati Europei di non procedere con tagli dei bilanci della difesa troppo marcati, considerando che sono già pochissimi i paesi che raggiungono la quota minima del 2% del PIL auspicata dall’Alleanza. Uno degli aspetti “marginali” del vertice NATO, che però ha influenza diretta sull’Italia, riguarda il (lodevole) sforzo per ridurre personale e struttura dei comandi. La NATO vuole abbattere i costi strutturali e ridurre il personale ed ha approntato un progetto che prevede la soppressione di 4 (dovevano essere 5) degli 11 comandi integrati, nonché una riduzione delle agenzie di supporto da 14 a 3, multifunzione. Il conseguente “rimpatrio” di migliaia di ufficiali, sottufficiali e militari assegnati ai comandi/agenzie NATO avrebbe anche un impatto positivo presso i Paesi membri, Italia inclusa, perché si tratta di personale molto costoso, in trasferta permanente all’estero. Tra i comandi a rischio di soppressione c’è anche quello di Napoli, il quale, essendo stato “concentrato” sulle operazioni nei Balcani, con la fine di queste missioni rischia di rimanere parzialmente disoccupato, a differenza di quello di Brunssum, in Olanda, che è impegnato con l’Afghanistan. L’Italia sta tentando di salvare Napoli, impresa che fino a pochi mesi fa 6 sembrava impossibile, con la probabilità che vi rimanesse il solo comando subordinato di componente navale, anche perché in Italia c’è già il NATO Defence College e il NURC a La Spezia oltre al comando aereo di Poggio Renatico a doppio cappello. Come sempre, la basi e le infrastrutture militari sono sempre “odiate”, ma solo fino a quando non vengono chiuse, perché allora se ne scopre improvvisamente il valore economico diretto e indiretto. Il comando NATO a Napoli vale come una media-grande industria. La “salvezza” per Napoli probabilmente è arrivata dalla guerra in Libia…e non si tratta solo della esigenza contingente, quanto delle prospettive a medio e lungo termine. Il Mediterraneo torna ad essere il fronte caldo. Il nuovo corso degli Stati Uniti Gli Stati Uniti non hanno tagliato la spesa per la difesa per il 2011, come molti erroneamente pensano, la hanno invece incrementata, come del resto è naturale per un Paese che è ancora coinvolto massicciamente in almeno due conflitti. La richiesta formulata del Segretario alla Difesa Gates è stata di 708,2 miliardi di dollari. 548,9 miliardi dollari per il budget ordinario, contro i 530,7 miliardi dell’anno precedente (+1,8% in termini reali), ai quali vanno aggiunti 159,3 miliardi di dollari per le operazioni di guerra. I criteri ispiratori sono stati i medesimi, ovvero quelli del bilanciamento, di una maggiore efficienza nel procurement e di un occhio più attento al personale. E’ stata incrementata l’attenzione per le capacità di dispiegare e supportare le truppe impegnate negli attuali scenari bellici. Sono stati inoltre aumentati i 426 milioni di dollari già stanziati nel 2010 per l’addestramento e la preparazione dei piloti. A questi fondi bisogna poi aggiungere 2,6 miliardi per la intelligence e la ricognizione e 6,3 miliardi di dollari per le forze speciali (il 6% in più rispetto al 2010), una parte dei quali dovrà sostenere l’espansione degli organici della comunità delle forze speciali di 2.800 unità. Le forze speciali sono infatti diventate un elemento essenziale e molto pregiato nell’ambito delle capacità militari statunitensi. (*) La tendenza è stata confermata dal progetto di bilancio per il FY 2012, con una richiesta base di 553 miliardi di dollari ai quali si vanno ad aggiungere 118 miliardi di dollari per le spese di guerra. La riduzione di quest’ultime è legata all’ulteriore ridimensionamento della presenza in Iraq e ad una positiva evoluzione di quella in Afghanistan. In dettaglio il bilancio prevede 113 miliardi per l’ammodernamento, 75 per la ricerca e sviluppo e 204 per le operazioni e la manutenzione. Proseguendo nell’opera di efficientamento, ulteriori programmi ritenuti non più prioritari o che comunque non rispettano i tempi o incontrano problemi tecnici oppure subiscono incrementi dei costi, vengono cancellati o ristrutturati. E’ questo il caso ad esempio dei programmi missilistici antiaerei SLAMRAAM e MEADS, del veicolo da assalto anfibio EFV, del missile navale Standard Block III. Cancellato anche il programma per lo sviluppo di un motore alternativo, l’F136, destinato al caccia F-35 il cui programma viene ristrutturato e rallentato. E lo sviluppo della versione a decollo verticale F-35B viene messo sotto stretta sorveglianza, riceve una sorta di cartellino giallo: industria e Pentagono…hanno due anni per rimettersi in carreggiata, altrimenti l’F-35B sarà cancellato. Però se ci sono programmi che vengono arrestati o rimessi in sesto, ve ne sono altri che sono accelerati e non mancano le nuove iniziative. Ad esempio quella per realizzare un nuovo bombardiere strategico. ---------------------(*) Questa evoluzione, messa in sistema con altri segnali, come il requisito per un nuovo bombardiere strategico ed alcuni atteggiamenti delle gerarchie militari e politiche posso fare immaginare uno scenario neoisolazionistico, che non può essere trascurato. Anche la pressione politica sul Pentagono per ridurre la spesa militare, fino a mettere a rischio la possibilità di condurre simultaneamente operazioni su vasta scala in due teatri simultaneamente, conferma una convergenza politica, sia pure per motivi ben diversi, per ridurre gli investimenti ma, coerentemente, anche il livello di ambizione della politica estera e strategica. 7 Il veicolo anfibio EFV è uno dei programmi che gli Stati Uniti hanno cancellato. (Fonte USMC) E’ vero dunque che anche per il bilancio della difesa statunitense arriva la stagione dei tagli…ma sono riduzioni davvero poco significative, specie se confrontate con quanto stanno attuando gli alleati europei NATO. Il Presidente Obama ha infatti imposto alla Difesa di risparmiare 78 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi cinque anni, cominciando con 12 miliardi in meno per il bilancio 2012, che comunque si attesta a 553 miliardi di dollari, con un incremento di circa il 3% in termini reali rispetto a quanto approvato dal parlamento (ancora in via non definitiva) per il 2011. Ci sarà un incremento modesto anche nel 2013 e nel 2014, per poi arrivare all’invarianza nel 2015 e nel 2016, quando gli aumenti serviranno solo a compensare l’inflazione. Non sono peraltro escluse potature addizionali. Il Segretario alla Difesa Gates e le Forze Armate hanno compiuto un esercizio straordinario per conciliare questa realtà con le esigenze delle Forze Armate. Essendo ben conscio dei desiderata di Obama, Gates aveva già ordinato alle Forze Armate di individuare risparmi complessivi per 100 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, che nella idea del Segretario avrebbero dovuto essere ri-programmati per soddisfare esigenze primarie della Difesa: l’Aeronautica ha proposto tagli per 34 miliardi, l’Esercito per 29 miliardi e la Marina-Marines per 35 miliardi. Il Pentagono ha fatto la sua parte, trovando altri 54 miliardi di risparmi, anche grazie a misure come il congelamento del turnover del personale civile e dei suoi stipendi. I frutti di questa pulizia domestica saranno così impiegati: 28 miliardi serviranno a far fronte a spese “correnti” dovute agli impegni operativi, cosa che Gates avrebbe volentieri evitato, altri 70 miliardi andranno invece in investimenti prioritari. Quanto ai 78 miliardi di tagli concordati con Obama, ci si arriverà utilizzando i 54 miliardi risparmiati dal Pentagono, nonché 14 miliardi ottenuti grazie alla minore inflazione e ad aumenti delle retribuzioni rallentati, 4 miliardi deriveranno dalla rimodulazione del programma JSF F-35, 6 miliardi dalla riduzione della consistenza del personale delle due forze armate “terrestri”. Il calo del personale sarà avviato però solo dal 2015, quando cioè si spera che l’esigenza più acuta delle operazioni in Afghanistan sia ormai conclusa. In particolare lo US Army perderà i 22.000 soldati addizionali autorizzati nel 2007 come misura di emergenza. Oltre a questi saranno anche soppressi 27.000 uomini della forza “permanente”, per un totale di 47.000 soldati in meno. In proporzione saranno ancora più drastici i tagli per i Marines, che riguarderanno 15-20.000 uomini su un totale di circa 202.000. 8 Neanche questa è una soluzione che piace a Gates ed ai militari, ma se diminuiscono i soldi, si riduce la consistenza organica e si spera…che non si presentino nuove esigenze di impiego su vasta scala. Peraltro lo US Army e lo USMC anche dopo questi sacrifici saranno più robusti rispetto ai livelli pre bellici e avranno molti più “guerrieri” che soldati da scrivania in confronto al passato. Il Pentagono per risparmiare così tanto ha anche, come detto, cancellato qualche programma, poi ci sono innumerevoli ristrutturazioni di comandi e enti, con accorpamenti e riduzioni (sparisce ad esempio il Comando della Seconda Flotta, tutti i comandi Europei vengono “abbassati” a 3 stelle, a conferma del fatto che l’Europa non è davvero più una regione prioritaria per la sicurezza statunitense, mentre un comando statunitense, il JFCOM, viene cancellato ed il 50% delle sue funzioni viene ridistribuito tra i comandi superstiti. Non parliamo dei risparmi che saranno ottenuti nel settore information technology, dove davvero gli sprechi e le sovrapposizioni abbondano, e della riorganizzazione della intelligence, cresciuta senza controlli dopo il 9/11. Il menù comprende anche gli interventi che non fanno risparmiare tanti soldi, ma danno un segnale di moralizzazione e di sobrietà: ad esempio c’è la cancellazione di circa 110 posti da generale/ammiraglio…su un totale attuale di circa 900 (quindi oltre il 10% in meno). Inoltre vengono anche eliminate ben 200 posizioni “senior” di funzionari civili, su un totale di 1.400. A dimostrazione che si può far funzionare una macchina così complessa come il Pentagono e le Forze Armate USA in tempo di guerra pur riducendone la struttura di vertice. In conclusione, non c’è ministero della difesa europeo che non accetterebbe di cuore un piano di “tagli” che gli prometta una crescita costante degli stanziamenti in termini reali per i prossimi tre anni e il mantenimento del potere d’acquisto per i due successivi. E l’impatto delle riduzioni è ancora più annacquato dalla riforme e dalle decisioni coraggiose prese da Gates in questi anni per mettere a frutto ogni singolo dollaro. In questo senso rientra anche la riforma del sistema di acquisizione militare. Negli ultimi dieci anni, difatti, il Pentagono si era lanciato in una serie di programmi basati su requisiti troppo futuristici che hanno finito per drenare una quantità enorme di risorse, triplicando talvolta i costi di acquisizione. Programmi che anche se arrivavano ad un punto morto, di fatto continuano ad assorbire soldi e risorse. Per risolvere questi problemi strutturali si è deciso di cambiare radicalmente il modo in cui il Pentagono decide cosa e come acquistare e come si rapporta con l’industria aerospaziale e della difesa. Una prima misura è consistita nell’incrementare di ben 20.000 unità il personale addetto al procurement, rafforzandone la preparazione e le capacità. Il processo di trasformazione, partito nell’anno fiscale 2010, si concluderà nel 2015 e porterà il totale del personale amministrativo e tecnico addetto alle acquisizioni a 147.000 unità. Allo stesso tempo, i maggiori programmi saranno soggetti ad una rigorosa valutazione dei requisiti e lo sviluppo a pieno ritmo partirà soltanto quando questi saranno definitivamente consolidati, previa un severo vaglio delle diverse alternative. Comunque saranno previste periodiche revisioni indipendenti per verificare i progressi, i problemi incontrati, le soluzioni applicate. Inoltre, per rafforzare le capacità di analisi di costo del Pentagono, è stato attuato il "Weapons System Acquisition Reform Act” del 2009, che espandeva le capacità e i compiti del neocostituendo ufficio per la valutazione dei costi e dei programmi (CAPE, Cost Assessment and Program Evaluation), attivato a livello dell’Office of the Secretary of Defense. Il processo di ristrutturazione della Difesa americana è stato poi definitivamente consolidato con la QDR, il Libro Bianco della Difesa USA, e con i progetti di bilancio per gli anni fiscali 2011 e 2012. La Quadrennial Defense Review 2010, come le precedenti edizioni, rappresenta il più profondo e articolato esercizio di revisione della politica di difesa degli Stati Uniti ed è volto a presentare la strategia di difesa, l’aggiornamento della struttura delle forze e a verificare la coerenza con le risorse finanziarie assegnate al Pentagono. Vengono delineate le principali minacce per la sicurezza (immediate e future) e si descrivono le capacità necessarie per farvi fronte. Il documento ha ribadito, in particolare, la necessità di trovare un compromesso tra le esigenze di combattere le guerre in corso, massimizzando così l’efficacia nel breve periodo, e le riforme della difesa nel lungo periodo. Al paradigma della “trasformazione”, in voga nell’era di Donald Rumsfeld durante la presidenza Bush è subentrato così definitivamente quello della “riforma” e 9 del “ribilanciamento”. In base a questi due nuovi principi, l’organizzazione e la struttura delle forze sono modificate, nell’ambito di un processo condotto all’insegna della flessibilità e della rapidità di adattamento e di risposta all’evoluzione dello scenario e della massimizzazione della capacità expeditionary, pur mantenendo la capacità di operare in scenari conflittuali convenzionali. Figura 1. Le spese americane per la difesa dal 2001. Fonte: Pentagono (OCO, Overseas Contingencies Operations) Come cambia la difesa dei nostri partner Il 2010 ha portato per moltissimi Paesi, quasi tutti quelli Europei, decisioni sulla ristrutturazione e riduzione degli strumenti militari e della spesa per la difesa. Il 2011 sarà invece l’anno in cui le nuove linee guida all’insegna della austerità saranno eseguite. Probabilmente la maggior parte dei nostri partner avrà completato la trasformazione entro l’arco di 4-5 anni. Va osservato innanzitutto che il fenomeno della riduzione dei bilanci per la difesa riguarda essenzialmente l’Europa. Gli Stati Uniti, come abbiamo visto, più che altro hanno deciso un vasto programma di riprogrammazione dei fondi assegnati, ma continuano a sostenere una crescita del bilancio della difesa, anche al di sopra dell’inflazione, e proseguiranno su questa strada per i prossimi tre anni almeno. La Russia dal canto suo conduce una moderata modernizzazione dello strumento militare e dei suoi equipaggiamenti. Certo Mosca non è più la superpotenza che contestava la leadership militare mondiale agli USA, ma compatibilmente con la realtà economica, il Cremlino sta cercando di ricostituire una potenza militare credibile. Infatti ha annunciato un colossale piano a lungo termine di ammodernamento. Si, in parte si tratta di una rodomontata che difficilmente sarà attuata in toto, ma la visione è ben chiara. Nel resto del mondo le cose vanno ancora diversamente: vi sono aree dove la spesa per la difesa conosce un vero boom. E’ il caso del continente asiatico, dove il galoppante potenziamento militare cinese (si consideri che persino i bugiardissimi dati ufficiali diffusi dal 10 governo cinese sull’andamento della spesa militare confermano un trend molto preoccupante) ha portato ad una serie di reazioni da parte di tutti i principali paesi della regione, a partire dall’India (la quale acquista a più non posso e cerca anche di sviluppare una industria degli armamenti nazionale in grado di garantire nel medio termine una indipendenza strategica) , di Taiwan, ma anche dell’Australia, di Singapore, dell’Indonesia. La Corea del Sud poi si guarda anche dal pericolo immediato rappresentato dalla Corea del Nord. Il Giappone, prima di essere annientato dalla combinazione di terremoti, tsunami e catastrofe nucleare, stava procedendo ad un significativo riarmo. Ora invece Tokyo è fuori gioco, forse per un lustro o più e questo tra l’altro crea ulteriori potenziali tensioni, perché il Giappone lascia un vuoto militare nella regione e priva gli USA di un alleato prezioso. Ma la corsa agli armamenti non è solo catalizzata da ciò che fa Pechino, ma anche dalle mosse dei suoi vicini. Anche nel Golfo e nel Medio Oriente la spesa militare non viene certo ridimensionata e vi sono Paesi che dedicano alla difesa oltre il 10% del PIL. Sicuramente quanto è avvenuto nei primi mesi dell’anno avrà l’effetto di spingere ancora gli investimenti nella sicurezza dei Paesi che non sono già stati destabilizzati. Inutile dire che Israele dovrà considerare in modo diverso la propria sicurezza. In Sud America gli investimenti per la difesa stanno aumentando, resi possibili da una robusta crescita economica, ma anche dai programmi di potenziamento militare del Venezuela, seguiti da una decisa risposta da parte del Brasile (sia pure ora un poco mitigata) e quindi di tutti gli altri Paesi del continente. Se si guarda alla qualità, più che alla quantità della spesa e si tiene conto della realtà regionale, la spesa militare cresce anche in Africa. Dunque non si può certo parlare di “addio alle armi”, tutt’altro. E nella stessa Europa esistono differenze sostanziali: ci sono Paesi che procedono con tagli molto pesanti ed altri, come ad esempio la Polonia, che incrementano gli stanziamenti per la Difesa. Se nel documento dello scorso anno avevamo “fotografato” la realtà militare dei principali Paesi europei, quest’anno è invece il caso di raccontare come hanno deciso di affrontare la situazione i nostri partner, aggiungendo qualche altro elemento di raffronto internazionale. La Gran Bretagna è quella che ha preso le decisioni più difficili, a causa delle condizioni economiche, ma anche del “buco” di oltre 38 miliardi di sterline lasciato dai precedenti governi, i quali hanno sottoscritto una serie di impegni ed avviato grandi programmi, senza però prevedere le risorse per farvi fronte. Il governo Cameron ha gestito il problema in modo davvero esemplare, approvando un programma comunque meno aggressivo rispetto a quanto inizialmente previsto, anche per via delle pressioni statunitensi. E comunque Londra continua a spendere molto di più rispetto a quasi tutti i paesi NATO, a dispetto di un taglio dell’8% della spesa militare che sarà applicata nell’arco dei prossimi quattro anni. Il bilancio della difesa sarà di quasi 34 miliardi di sterline nel 2011-12, di 34,4 miliardi l’anno successivo per scendere a 33,5 miliardi nel 2014-2015. I tagli vengono attuati difendendo le capacità operative, per quanto possibile e non risparmiano gli organici, con la soppressione di 25.000 posti di lavoro civili entro il 2015 e di 17.000 posti in uniforme. La Francia ha tagliato, ma sta cercando di preservare almeno i programmi principali e gli investimenti in ricerca e sviluppo. Il nuovo piano quinquennale di investimento, approvato a metà 2009 è in effetti…irrealistico, prevede una crescita della spesa fino al 2013, ma richiede anche risparmi interni di 3,5 miliardi di Euro nell’arco del primo triennio e ipotizza l’incasso di 1,8 miliardi dalla vendita di proprietà immobiliari, frequenze …un po’ come in Italia. Le elezioni presidenziali porteranno ad una revisione di questi progetti, anche perché, come in Gran Bretagna c’è uno scollamento tra impegni e risorse effettivamente disponibili, che secondo gli studi del partito socialista potrebbe creare un “buco” da 25 miliardi di Euro. E comunque alcuni programmi sono stati già cancellati o rinviati. Ma la Francia ha ben chiara la volontà di difendere gli investimenti in ricerca e sviluppo per non perdere il passo competitivo. E nel 2011 spenderà per la difesa 31,2 miliardi di Euro, pari all’1,7 del PIL. E ben 16 miliardi vanno in procurement, malgrado la forza alle armi sia ancora di 230.000 uomini La Germania ha avuto il coraggio di superare il tabù del sistema di reclutamento misto e della coscrizione obbligatoria selettiva: Berlino passerà quindi a forze armate solo professionali, tagliandone la consistenza da 235.000 a 185.000 (170.000 uomini, compresi i riservisti e 515.000 volontari a ferma breve) uomini, mentre anche il personale civile sarà fortemente ridotto, da 75.000 a 55.000 unità e lo stesso staff del ministero passerà da 3.000 a 2.000 persone. 11 Dimuiscono poi le spese per acquisire nuovi sistemi d’arma. Complessivamente tra il 2011 e il 2014 ci sarà una riduzione di spesa di 8,3 miliardi di Euro. Il bilancio 2011 è di 31,5 miliardi di Euro. Berlino, dovendo reagire alla nuova collaborazione tra Londra e Parigi, sta cercando di creare una qualche aggregazione e condivisione di programmi e investimenti con altri Paesi europei. Segnali analoghi arrivano anche da altre capitali, ma per ora di concreto si è visto poco. Ci sono comunque iniziative in corso, anche se per lo più bilaterali o multilaterali, mentre le idee volte a mettere in “pooling” mezzi e capacità troveranno finalmente stimolo. Solo che i tempi per passare dalle parole ai fatti sono ancora eccessivi. L’Olanda, che da diversi anni si è distinta per aver creato uno strumento militare piccolo, ma molto efficiente e ben strutturato e per il modo virtuoso con il quale spende i propri soldi per l’acquisizione di sistemi e tecnologie, ha a sua volta varato tagli al bilancio della difesa. Si prevede una riduzione di 10.000 militari su un totale di quasi 69.000 e un taglio di 1 miliardo di Euro al bilancio che ammontava a quasi 8,5 miliardi di Euro. La Spagna, pur essendo tra i Paesi europei che più stanno soffrendo per la crisi economica, ha si deciso interventi significativi di riduzione della spesa, come del resto accade per ogni voce della spesa pubblica, ma ha cercato di salvare i programmi più importanti, così come l’industria aerospaziale e della difesa nazionale. Il bilancio della difesa 2011 subisce una riduzione del 7% rispetto al 2010 e scende a 7,15 miliardi di Euro, con 1 miliardo per l’investimento. La spesa per il personale cala del 5% e gli organici si ridurranno a 82.500 uomini a fine 2011. I tagli sono stati in larga misura concentrati su staff e struttura centrale. La Grecia invece è stata talmente prostrata dalla catastrofe dei conti nazionali da dover decidere il congelamento praticamente di tutti i programmi di modernizzazione, avviando anche una riduzione della consistenza delle Forze Armate e tagliando anche stipendi (cosa che ha provocato proteste clamorose) e i soldi per l’esercizio. L’Irlanda, travolta dalla crisi finanziaria, ha proceduto a tagli pesanti, ma non così severi rispetto a quanto ci sarebbe potuto aspettare ed il bilancio della difesa, che peraltro ammonta ad appena 707 milioni di Euro nel 2010, dovrà ridursi del 15% entro il 2014, con effetti immediati già dal 2011 e poi a seguire nel 2012. L’Austria ha deciso di sacrificare in particolare la componente corazzata pesante, nel quadro di un progetto che prevede un taglio complessivo di 530 milioni di euro alla spesa per la difesa tra il 2011 e il 2014, partendo da un bilancio 2010 di 2,2 miliardi di Euro. Una notevole porzione di mezzi e materiali saranno ritirati e posti in vendita sul mercato dell’usato e alcuni programmi verranno ridotti o cancellati mentre, ci sarà una riduzione di 1.000 militari, dei quali 400 andranno al ministero delle finanze e 200 alle forze di polizia e il resto…in pensione. Israele sarà costretta dalla situazione in medio oriente a compiere una radicale revisione della propria difesa e sicuramente dovrà incrementare le capacità “convenzionali” e accrescere un bilancio della difesa che nel recente passato era di circa 13,5 miliardi di dollari, incluso il “contributo” statunitense. Il piano quinquennale Tefen 2012 prevedeva complessivamente investimenti per 60 miliardi di dollari a partire dal 2008, ma è probabile un ritocco immediato e una diversa formulazione del successivo piano quinquennale. La Russia sta cercando di condurre in porto un piano di ammodernamento mirato al 2020 (troppo ottimistico, come al solito) che prevede una ampia ristrutturazione delle Forze Armate. La spesa per la difesa, che era pari a circa il 2,6 del PIL negli anni di Putin, è stata ridotta a seguito della crisi nel 2009 (-15%) ma è tornata a crescere nel 2011 di ben il 20% sul 2010, a 48,6 miliardi di dollari. La Russia spende circa il 3% del PIL per la difesa ed ha ancora un milione di militari Con le elezioni del 2012 ormai vicine, una compagna elettorale combattuta anche sul nazionalismo, l’incremento delle entrate da petrolio/gas e la ripresa economica la spesa militare aumenterà. Certo gli annunci di investimenti per 653 miliardi di dollari entro il 2020, per acquistare 20 sottomarini, 600 aerei da combattimento, 1.000 elicotteri e 100 unità navali sono davvero assolutamente irrealistici. L’Australia, ben cosciente delle tensioni che si accumulano nel Pacifico, ha pianificato una crescita reale del bilancio della difesa del 3% fino al 2017-2018, per poi “accontentarsi” di un incremento annuale reale del 2,2% fino al 2030! E ci sarà un aumento automatico del 2,5% all’anno per compensare l’inflazione. Questa è evidentemente la programmazione di un Paese che ha una percezione molto chiara dei suoi potenziali problemi di sicurezza. La consistenza 12 delle forze armate professionali è cresciuta a quasi 57.000 uomini e gli investimenti sono mirati a migliorare capacità e livello tecnologico. L’India non è da meno, avendo deciso un incremento del bilancio 2011 del 12% rispetto a quello dell’anno precedente, portando così la spesa militare a 36,5 miliardi di dollari. Peraltro in India l’inflazione galoppa ad oltre il 9%. La difesa chiede di portare la spesa militare al 33,5% del PIL, il che significherebbe un raddoppio rispetto ai livelli attuali (1,83% del PIL): una aspirazione utopistica anche per una economia in piena salute. Non di meno la spesa militare continuerà ad aumentare. La Cina dal canto suo ha un bilancio ufficiale che mantiene un tasso di crescita prossimo o superiore alla doppia cifra, anno dopo anno. E si parla di bilancio ufficiale. Per il 2011 lo stanziamento è cresciuto del 12,7%, a circa 91,5 miliardi di dollari. Non si tratta però di una spesa sproporzionata considerando lo stato di salute dell’economia cinese e il suo tasso di crescita. E’ anche il caso di precisare che secondo gli Stati Uniti la spesa di Pechino per la difesa è almeno doppia rispetto a quella ufficiale. La situazione della Difesa Italiana nel 2011 Per la Difesa italiana il 2011 sarà ancora un anno difficile. I soldi stanziati sono pochi, se raffrontati alle esigenze ed alla consistenza della macchina militare. Le riforme promesse e lungamente studiate non sono state neanche presentate ufficialmente e non potranno essere attuate nel brevissimo termine, a maggior ragione visto il contesto politico. Quindi le Forze Armate dovranno continuare ad “arrangiarsi”, concentrando tutto il possibile per garantire l’espletamento dei compiti fondamentali e lo svolgimento delle missioni internazionali, nonché alcune attività magari “coreografiche” e sussidiarie, come la pulizia delle strade campane dalla immondizia, la sorveglianza di obiettivi sensibili ed ultimamente addirittura il presidio dei cantieri della autostrada per Reggio Calabria ed altri compiti di pubblica sicurezza che non vi è motivo non siano eseguiti da chi vi è preposto. Per non parlare di esperimenti come quello della “mini naja”, che, se progettato e condotto con un approccio completamente diverso e in collaborazione con il ministero della Istruzione e purché adeguatamente finanziato, potrebbe avere anche un senso concreto. Tuttavia, considerando la formula attualmente adottata e il fatto che le Forze Armate non hanno problemi di reclutamento (anzi, dovranno trovare il modo per collocare il personale in esubero) e considerando lo stato disastrato delle casse del dicastero proprio per quanto riguarda le attività di formazione e addestramento …si può considerare tale spesa come relativamente utile e sacrificabile in tempi difficili. In ogni caso il livello di efficienza complessiva dello strumento militare ha subito un nuovo decadimento nel corso del 2010 e le cose peggioreranno nel 2011. Non poteva che essere così considerando i continui tagli subiti dagli stanziamenti che consentono il funzionamento delle Forze Armate: semplicemente detto, meno ore di moto per le navi della Marina, meno ore di volo per i velivoli dell’Aeronautica, meno ore di funzionamento per i mezzi dell’Esercito, ma anche meno giornate in poligono, meno corsi di addestramento, riduzione di tutte le attività addestrative complesse ed anche impossibilità di effettuare la regolare manutenzione dei mezzi, ordinaria e straordinaria, e di acquistare pezzi di ricambio. La macchina militare italiana si sta fermando, un pezzo alla volta. L’”emergenza” libica, alla quale le Forze Armate hanno risposto ancora una volta in modo esemplare, mobilitando infrastrutture, personale e mezzi in tutto il Paese conferma la capacità straordinaria di reazione del sistema, ma compromette una situazione già difficile e “brucerà” risorse che non si sa se, come e quando saranno ripristinate. L’unica “oasi felice” (relativamente) è rappresentata dai reparti, dai mezzi e dal personale che prende parte alle operazioni reali all’estero. Per il resto il quadro è peggiorato. Basterebbe dare un’occhiata alla disponibilità operativa dei mezzi più significativi: possiamo continuare a far fronte a quella che è ormai diventata una “routine” operativa, ma solamente agli attuali livelli di forza. Se vi fosse la necessità di compiere uno sforzo ulteriore di grande entità e di significativa durata…per la prima volta in tanti anni la Difesa dovrebbe ammettere di non essere in grado di effettuarlo. Perché molte delle capacità militari italiane esistono…solo sulla 13 carta. Per tornare ad essere operative richiederebbero un periodo di tempo che continua ad allungarsi ed investimenti sempre più ingenti. Non ci si illuda da quanto è stata fatto per la Libia…si è davvero raschiato il fondo del barile. Ed è una fortuna che l’avversario sia così scalcinato, altrimenti si sarebbero rimpiante a caro prezzo le qualifiche e i livelli addestrativi perduti da parte di troppi piloti… Inoltre in Libia stiamo impegnando quelle forze che in larga misura non sono già coinvolte nelle missioni internazionali: parliamo infatti di aerei da combattimento e unità navali, non ancora di truppe e di elicotteri. E’ per questo che riusciamo a fare la nostra parte. E i caccia della difesa aerea sono per forza di cose in un discreto stato di prontezza, mentre i TORNADO ECR non sono mai stati impiegati né in Iraq né in Afghanistan. TORNADO ECR ed IDS a Trapani durante la crisi libica. (Fonte AM) I programmi di acquisizione in corso, salvo qualche eccezione, sono proseguiti e proseguono, perché gli stanziamenti per l’ammodernamento rimangono costanti, nelle diverse articolazioni: come noto non tutte le risorse per l’investimento passano attraverso il bilancio Difesa. E questo ha consentito alla Difesa di immettere in servizio nuovi materiali ed equipaggiamenti. In generale i programmi relativi all’equipaggiamento dei militari impegnati all’estero hanno la massima priorità e la Difesa è anche riuscita ad attivare procedure che, per il sistema Italia, sono innovative (rappresentano invece una prassi consolidata in altri Paesi dove le operazioni di combattimento sono la norma) e che consentono di superare parte delle lungaggini procedurali ed amministrative per acquisire e inviare sul campo quanto è necessario o per apportare speciali modifiche ai mezzi e materiali già in servizio. Le tre Forze Armate tradizionali (Esercito, Aeronautica e Marina) hanno una consistenza di circa 178.000 uomini. L’Esercito ha circa 104.000 effettivi, 42.300 uomini e donne sono in servizio con l’Aeronautica e 32.300 con la Marina. I numeri non possono essere precisi, anche perché sono stati effettuati tentativi in atto per difendere livelli organici più elevati. C’è comunque un vistoso calo rispetto allo scorso anno (circa 184.300 effettivi), dovuto ai tagli automatici degli organici imposto dai provvedimenti…tremontiani. Ma sono tagli non razionali, perché colpiscono in buona misura il personale impiegabile, non invece quello “accumulato” a causa di interventi legislativi sciagurati. Va anche registrato il calo del personale civile della Difesa, sceso a 31.148 uomini e donne, con una riduzione di altre 1.700 unità, dovuto essenzialmente al blocco del turn-over. Anche nel 2011 quindi non si sta facendo nulla per risolvere le gravissime disfunzioni nel settore del personale. 14 Tabella 1 - Forze Armate per Paese Paese Esercito Marina Aeronautica Totale Italia 104.000 32.300 42.300 178.600 Gran Bretagna 102.000 35.000 40.000 177.000 Francia 120.000 52.000 54.000 226.000 Germania 92.000 43.000 17.000 152.000 Spagna 80.000 30.000 25.000 135.000 Olanda 25.500 10.000 9.200 44.700 Canada 21.500 (21.800) 8.300 (4.500) 12.000 (3.300) 41.800 (29.600) USA 547.000 (563.000) 530.000 (107.400) (1) 331.700 (174.000) 1.408.700 (902.500) Fonte: ICSA * Tra parentesi gli uomini appartenenti a Guardia Nazionale e/o Riserva (1) Di cui 328.000 appartenenti all’US Navy e 202.000 appartenenti al corpo dei Marines (67.800 della riserva della US Navy e 39.600 dei Marines) Il Bilancio Difesa 2011 Il bilancio della Difesa reale va considerato limitatamente alla sola Funzione Difesa, escludendo le somme stanziate per l’Arma dei Carabinieri, per le pensioni provvisorie e per le funzioni esterne. Per il 2011 si tratta quindi di 14,32 miliardi di Euro. L’incremento monetario è appena dello 0,2%, il che, considerando una inflazione prevista all’1,5%....equivale ad una diminuzione in termini reali. La spesa per la Difesa quindi rappresenta solo lo 0,89 del PIL ed è in costante decremento percentuale dal 2008. La Legge di Stabilità, che peraltro considera anche gli stanziamenti “esterni” alla Funzione Difesa, delinea un andamento negativo, considerando la crescita della inflazione e l’incremento delle spese per il personale, anche nei i prossimi due anni: sono infatti programmati 21 miliardi per il 2012 e 21,36 miliardi nel 2013. Le risorse per la Funzione Difesa peraltro non sono le uniche presenti nel bilancio dello stato di cui beneficia la Difesa, perché, per quanto concerne ammodernamento e ricerca, si devono anche contare i fondi nel bilancio del MiSE (Ministero della Sviluppo Economico), senza i quali moltissimi programmi (dal TYPHOON alle FREMM ai FRECCIA) non potrebbero essere finanziati, nonché quelli del MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca), specie in campo spaziale. Però è anche vero che questi dicasteri hanno visto ridotti i propri bilanci ed è quindi diminuita la loro capacità di integrare i fondi della Difesa. Ecco perché nell’ambito della Funzione Difesa si registra una crescita consistente (+8,4% quest’anno) dei fondi per l’investimento, che arrivano a 3,4 miliardi di Euro, consentendo di continuare a finanziare i progetti in corso e di avviare qualche piccola nuova iniziativa. Però visto che lo stanziamento complessivo per la Funzione Difesa rimane grossomodo costante, se si deve aumentare l’investimento, si deve tagliare da qualche altra parte. Per ragioni politiche comprensibilissime, ma che poco hanno a che fare con i criteri di “buona amministrazione”, non si è fatto nulla per ridurre in modo razionale la consistenza del personale militare (per quello civile invece si cerca di far calare gli organici il più rapidamente possibile), con il risultato che la spesa per il personale invece di diminuire aumenta di quasi l’1%, toccando quota 9,44 miliardi di Euro e rappresenta ormai oltre i due terzi del bilancio. Accrescendo la spesa per investimenti e difendendo gli organici, l’unica soluzione per far quadrare i conti è stata quella di falciare ancora una volta i soldi per l’esercizio, quelli cioè che consentono alla macchina militare di funzionare. La potatura è stata addirittura del 18,2% , con un calo di 320 milioni, a 1,44 miliardi di Euro. Procedendo ogni anno a massacrare l’esercizio, ormai il “deficit” in questa area sfiora il 50%: sono disponibili 1,4 miliardi e ne servirebbero quasi 3. Questo perché, in assenza di una drastica ristrutturazione che porti a eliminare ciò che non è più necessario o indispensabile ed a 15 perseguire soluzioni interforze ovunque sia conveniente, non si riesce a ridurre più di tanto i costi di funzionamento. Procedendo con una riforma neanche troppo aggressiva si potrebbero risparmiare almeno 400 milioni di Euro all’anno. Così invece si aggravano le disfunzioni già denunciate in passato: ci sarà dunque un ulteriore abbassamento dei livelli addestrativi, della capacità operativa, della efficienza di mezzi magari nuovi che non possono funzionare perché mancano i pezzi di ricambio, mentre si continua a rimandare manutenzione e aggiornamenti dei materiali in servizio. Manca persino il carburante. Va precisato che grazie ai fondi “extra” per le Missioni Internazionali almeno chi va in missione in Afghanistan o in Libano è bene equipaggiato ed addestrato a dovere. E chi in missione non ci va e resta in patria? La situazione è gravissima. Molti reparti, unità, mezzi sono a tutti gli effetti in posizione “quadro”, non sono in grado di operare, né il personale né i materiali sono combat ready e anzi non potrebbero neanche essere portati ad uno standard adeguato se non previ cospicui investimenti e un congruo arco di tempo. E il tasso di inefficienza continuerà a crescere, visto che i soldi per l’esercizio continuano a scemare. Il 2011 quindi non è affatto un anno di svolta, si procede sulla falsariga di quanto…non si è fatto negli anni precedenti e i nodi non risolti diventano sempre più ingarbugliati. Le missioni internazionali: voglia di disimpegno La voglia di disimpegno c’è, è forte. È evidente, gli Italiani, che sono ormai ben consci della effettiva natura delle attività di stabilizzazione condotte in Afghanistan, sono meno disponibili a sostenere gli impegni militari internazionali. Quella ambiguità che ancora regge in Parlamento, non funziona nel Paese reale, anche a causa della serie di eventi luttuosi che hanno caratterizzato gli ultimi mesi in Afghanistan, come del resto era logico aspettarsi nel momento in cui la NATO e gli USA hanno completato la “surge”, ovvero il potenziamento degli organici ed hanno cercato non solo di strappare sempre nuovi territori ai Talebani, ma anche di mantenerne poi il controllo. I Talebani non sono disposti a farsi facilmente da parte e quindi quando è necessario…si combatte. E logicamente si subiscono anche perdite, oltre ad infliggerne. Ci sono naturalmente attività di “ricostruzione”, ma anche quelle di imposizione della sicurezza e di combattimento, che, tra l’altro, hanno portato a risultati molto positivi, riconosciutici a livello internazionale, cominciando dagli Stati Uniti. L’impegno militare nazionale, che è arrivato a contare 4.200 uomini e ben 4 battle groups, ovvero gruppi da combattimento a livello battaglione, con relativi supporti, anche aerei, è veramente significativo e contribuisce non poco a sostenere lo “standing” italiano a livello internazionale, perché oggi si conta solo per il contributo che si offre effettivamente alla sicurezza collettiva. Non basta averne la capacità. Occorre la volontà politica di usare queste capacità e di farlo nel tempo. (e amare lezioni potranno essere tratte dalle scelte e dai tempi delle scelte italiane in occasione della crisi in Libia, che rischiamo di pagare a caro prezzo). Del resto è proprio la proiezione di potenza militare nell’intero spettro delle possibili missioni a costituire la ragione d’essere di un moderno e costoso strumento militare professionale. Questo almeno fino a quando non torneranno a manifestarsi minacce dirette al territorio nazionale. Il che, vista l’evoluzione dello scenario mediterraneo, non rappresenta più solo un tema di esercitazione da Stato Maggiore, purtroppo sta diventando una prospettiva concreta. Naturalmente le missioni internazionali sono costose e i costi aumentano in rapporto al livello di impegno “bellico” e alla distanza del teatro operativo e della sua accessibilità, specie per chi, come l’Italia, non ha basi o punti di appoggio strategici sparsi per il globo. Quindi la missione in Afghanistan è estremamente costosa (lo stanziamento per la prima metà dell’anno è di 380,77 milioni di Euro), anche per via del cospicuo schieramento di mezzi e velivoli che supportano i militari: si tratta di quasi 850 mezzi e 34 velivoli ad ala fissa e rotante, con e senza pilota. L’attenzione politica e della opinione pubblica è stata a lungo concentrata sulla missione NATO ISAF in Afghanistan e sia per ragioni di costi, sia per scelta politica l’orientamento del governo è quello di ridurre lo sforzo militare già nel corso di quest’anno. In particolare si vorrebbe concludere già dall’estate la nostra mini-surge, così come sperano peraltro di fare gli Stati Uniti e la NATO, a dispetto delle perplessità dei comandanti operativi. Certo è che se gli USA 16 inizieranno davvero a ritirare parte delle proprie truppe sarà praticamente impossibile per gli alleati NATO non fare la stessa cosa. La prima opportunità consisterebbe nel ritiro di uno dei quattro battle groups/battaglioni, quello di Herat se, come sperato, ci sarà il passaggio di consegne tra le nostre truppe e una brigata dell’ANA, l’Esercito Nazionale Afgano. NATO ed USA ci hanno chiesto di mantenere queste truppe combattenti e di schierarle in altre aree dell’Afghanistan. La risposta giunta da Roma è stata negativa, al massimo si provvederà a inviare un numero equivalente di addestratori, comunque molto richiesti dalla NATO ed in ogni caso verrà mantenuto il “caveat” geografico. Diminuirebbero così i rischi e anche i costi. Però il quadro si è complicato in conseguenza della intensificazione degli scontri e degli attacchi dall’inizio del nuovo anno e la situazione certo non migliora con la stagione primaverile, con condizioni climatiche migliori che rendono meno complicato ai Talebani condurre le proprie operazioni. Potrebbe però risultare impossibile ridurre la presenza di truppe combat italiane o quanto meno i tempi del cambio della guardia ad Herat potrebbero allungarsi, mentre non si può escludere necessario rinforzare gli altri settori sempre nell’ambito della regione Ovest. Un blindato FRECCIA in appoggio ai soldati italiani in Afghanistan. (Fonte NATO ISAF) L’Italia continua ad essere fortemente impegnata anche con la UNIFIL, la missione ONU in Libano, dove sono impegnati circa 1.800 uomini e donne, con 850 mezzi e 4 elicotteri. Una missione che costerà nel primo semestre poco più di 106 milioni di Euro: è evidente quanto sia più “economica” questa missione rispetto a quella afgana. UNIFIL non è particolarmente “apprezzata” dal governo, diversi esponenti del quale hanno espresso la volontà di “uscire” dal Libano. E in effetti c’è stata una diminuzione quantitativa del contingente, così come del livello di comando e già alla fine di ottobre 2010 è stata ritirata l’unità navale in precedenza assegnata alla Maritime Task Force, la componente navale che supporta UNIFIL. Peraltro sono state esercitate robuste pressioni politiche affinché l’Italia non si tiri indietro. Pressioni dall’ONU, dagli Stati Uniti, da Israele la quale, per quanto critichi la scarsa efficacia di UNIFIL, al contempo è perfettamente conscia di quale immenso contributo alla sua sicurezza forniscano i caschi blu, nonché dei costi astronomici che dovrebbe sostenere qualora l’ONU ritirasse le sue forze e toccasse nuovamente all’Esercito Israeliano difendere e sorvegliare i confini con il Libano e tornare a confrontarsi direttamente con Hezbollah. Peraltro l’evoluzione dello scenario in Libano è tale che oggi risulta più difficile che mai pensare ad un ritiro del contingente 17 italiano: il paese rischia di precipitare in una nuova crisi interna, se non in una guerra civile, con lo spettro di un coinvolgimento di Israele. Nel medio termine tuttavia la permanenza di UNIFIL sul terreno andrà ridiscussa, perché presto i venti di guerra potrebbero tornare a spirare nella regione. Se rimane, UNIFIL deve essere messa in grado quantomeno di garantire la propria sicurezza, come precondizione per poter svolgere il mandato assegnato. A maggior ragione visto il disastro che coinvolge quasi tutti i Paesi medio-orientali. Dove invece è già in corso una rapida riduzione della presenza militare è il teatro balcanico, dove peraltro sono ancora impegnati circa 1.600 militari. Qui a dire il vero l’Italia è in buona compagnia, perché sia la NATO sia la UE vogliono al più presto concludere la stagione delle missioni di stabilizzazione nella regione, a partire da quelle militari, anche considerando che in Bosnia la NATO entrò nel 1993 e in Kosovo nel 1999. Il piano DETERRENT PRESENCE della NATO ha già portato a tagliare a 10.000 uomini la forza complessiva in Kosovo impegnato nella missione JOINT ENTERPRISE, si è già passato il traguardo Gate 2 che consentirà entro l’estate di ridurre da 1.400 a 650 il numero dei nostri soldati. Poi, sperabilmente già entro fine settembre, si dovrebbe arrivare al Gate 3, con una ulteriore riduzione a 540 soldati. E il traguardo di un ritiro completo non è poi così lontano. Ovviamente i costi della missione NATO e di quelle relative al Kosovo sono relativamente modesti, circa 36 milioni di Euro per il primo semestre. Intanto già a fine 2010 ha già chiuso i battenti la presenza militare nazionale in Bosnia, nella missione UE ALTHEA: i 220 soldati italiani sono rientrati e ora è rimasto solo un pugno di addestratori. E si sta tentando anche di sospendere il contributo di una decina di Carabinieri alla EUPM, missione di polizia in Bosnia. Se queste sono le missioni principali, vi è poi il corollario di tutte le missioni minori, come la MINURSO (UN Mission for the Referendum in Western Sahara) in Marocco, la UNMOGIP (UN Military Observer Group in India and Pakistan), la missione navale MFO (Multinational Force and Observers) nel Sinai, la TIPH 2 a Hebron, la EUBAM a Rafah, la missione di addestramento del personale iracheno NTM, a guida NATO. Vanno poi citate le missioni di assistenza e mentoring come la MIATM (Missione Italiana di Assistenza Tecnico-Militare) e la DIE (Delegazione Italiana di Esperti) in Albania. Ci sono missioni nelle quali la presenza italiana si sostanzia in un pugno di uomini…costano poco e comunque fanno presenza. Un discorso diverso vale per le operazioni navali finalizzate al contrasto al terrorismo ed alla pirateria, come la ACTIVE ENDEAVOUR della NATO, in corso dal 2001 nel Mediterraneo e che ha visto aumentare progressivamente l’area di responsabilità. Quanto alla lotta alla pirateria l’Italia prende parte alla missione a guida UE, ATALANTA, nonché alla missione NATO OCEAN SHIELD, della quale l’Italia prenderà il comando nel secondo semestre dell’anno. Il costo di queste missioni navali le quali, vista l’incapacità della comunità internazionale di trovare una soluzione definitiva al problema dei pirati rischiano di diventare permanenti, è relativamente elevato e dipende dal tipo di unità navali assegnate: per il primo semestre complessivamente gli oneri ammonteranno a 25 milioni di Euro. Complessivamente l’Italia impiega nelle missioni internazionali 8.300 uomini, dei quali circa 1/10 sono rappresentati dagli equipaggi delle unità navali. Dato che gli effettivi sono circa 177.000, non è che l’Italia stia facendo niente di straordinario, anche ammettendo che per ogni soldato in azione ce ne debbano essere tre o quattro a casa impegnati in attività di “ricostituzione”, addestramento primario ed avanzato o in prontezza. Altri Eserciti hanno tassi di impiego/disponibilità operativa molto superiori ai nostri. Con gli organici attuali dovremmo essere in grado di sostenere lo spiegamento operativo all’estero di almeno 10.000 uomini per periodi prolungati. In teoria. Di fatto questo non è possibile a causa della mancanza di fondi per l’addestramento e la preparazione del personale (il famoso “esercizio”) nonché per le disfunzioni nella distribuzione del personale, con troppi uomini che non sono di fatto impiegabili in missioni operative. Certo è che visto che tutti in Europa e nella NATO stanno cercando di aumentare la percentuale di truppe impiegabili/addestrate malgrado i tagli di bilancio, ristrutturando la propria organizzazione e privilegiando i “denti” rispetto alla “coda” l’Italia non può restare a guardare. Vi è poi il problema dei soldi. Il Governo ha faticato per trovare i 750 milioni di Euro destinati a finanziare le missioni internazionali nel primo semestre. Ancora non è chiaro come e dove si reperiranno le risorse per pagare i conti relativi al secondo semestre. 18 Certo sostenere costi di 1,5 miliardi di euro all’anno per le missioni militari nel contesto economico attuale è difficile ed allora diventa essenziale concentrare gli sforzi in quelle missioni che hanno il massimo interesse per il paese, interesse che comprende anche il “ritorno” in termini di prestigio e potere decisionale nei contesti internazionali. In particolare questo ci porta alla opportunità di rivedere la “generosità” con la quale contribuiamo alle missioni ONU. Fino a qualche tempo fa questo attivismo italiano era strumentale alla speranza di ricevere un ritorno in sede di riforma dei meccanismi di funzionamento delle Nazioni Unite ed in particolare del Consiglio di Sicurezza. Visto come sono andate e andranno le cose…non c’è motivo di insistere, la battaglia è perduta, possiamo solo contenere i danni. Ma se le cose stanno così, la disponibilità italiana a farsi coinvolgere militarmente in operazioni ONU va riconsiderata al ribasso. In termini metodologici l’Italia deve in generale affrontare il tema delle operazioni militari internazionali con un approccio integrato, che coinvolga oltre alla Difesa anche Esteri e Interni (Forze di Polizia) sul piano operativo ed Economia per gli aspetti finanziari. Mentre le decisioni in materia devono essere prese in modo meditato al massimo livello istituzionale. Bisogna decidere sulla base di un rigoroso criterio costi/benefici a quali missioni partecipare, a che livello, in che modo, senza escludere a priori neanche le missioni “di combattimento”. Anche politicamente ha più senso dire chiaramente quale è la natura della missione alla quale ci si appresta a partecipare piuttosto che infilarsi nel ginepraio delle finte verità che poi tengono le missioni stesse ostaggio di infinite discussioni politiche. Del resto le forze armate sono in grado di effettuare missioni “full spectrum”, lo stanno dimostrando quotidianamente. Piuttosto se si mettesse fine alle ipocrisie si potrebbero meglio calibrare ed equipaggiare i contingenti, sfruttando tutte le capacità militari disponibili e tenendo anche conto che in molti casi impiegare determinati mezzi e sistemi “pregiati” consente di ridurre l’impegno di personale, che poi è proprio la componente più sensibile politicamente e di fronte alla opinione pubblica. In parole povere, se servono aerei da combattimento…mandiamoli e usiamoli, se serve artiglieria di precisione, schieriamola. Il ragionamento si applica anche in modo inverso…se la esigenza primaria riguarda istruttori e consiglieri militari, chi dispone di questo personale può “cavarsela” fornendo un contributo prezioso e avendo un valido motivo per inviare meno truppe combattenti. E va sicuramente sfruttata meglio la capacità di formazione/assistenza che l’Italia può vantare nel settore Forze di Polizia, che siamo riusciti solo parzialmente a far pesare e a valorizzare. Quanto ai profili finanziari, è assurdo che si proceda “ a vista” nella definizione degli stanziamenti, con provvedimenti semestrali che non sempre sono approvati tempestivamente, portando ad una sorta di esercizio provvisorio basato sulla assegnazione dei fondi a “dodicesimi” e sulla base dei volumi approvati l’anno precedente. Occorrono stanziamenti certi e annuali, salvo poi provvedere ad integrazioni in corso d’anno se si verificassero esigenze impreviste. Gli stanziamenti devono anche essere allocati considerando la dimensione militare, quella della cooperazione e quella della sicurezza (Forze di Polizia) in modo più organico e integrato. Circa l’entità dei costi…le cifre sono alte perché solo ricorrendo ai fondi extra bilancio è possibile evitare che la Difesa debba attingere in misura troppo marcata ai fondi “ordinari” per equipaggiare e addestrare a dovere le forze che inviamo in missione. Con gli stanziamenti del bilancio Difesa dedicati all’esercizio ridotti al lumicino solo con le risorse “extra” si può evitare di mandare i nostri soldati allo sbaraglio. E quindi prima di decidere risparmi in questo settore occorre ben ponderare quali sono le conseguenze in termini di minore sicurezza per i nostri soldati. Nella consapevolezza che non si può ottenere la sicurezza assoluta e che comunque le missioni vanno affrontate con ciò di cui si dispone occorre un delicato esercizio di bilanciamento, che va risolto in sede tecnico-governativa, non nelle aule parlamentari. Queste considerazioni diventano più pressanti alla luce di quanto sta accadendo sulla sponda meridionale del Nord Africa. Come prevedibile l’Italia non è potuta “restare” alla finestra a lungo ed è stata coinvolta massicciamente nelle missioni finalmente transitate nell’alveo NATO. L’Italia deve giocare un ruolo di primo piano in quello che è il “cortile e la piscina di casa”, altrimenti pregiudicherebbe i propri interessi essenziali (a partire dall’accesso al gas e petrolio per non parlare del controllo immigrazione). Non potevamo certo limitarci a qualche missione umanitaria indiretta. Con la imposizione della no fly zone e con l’intervento “umanitario” stile Kossovo benedetto dall’ONU e dalla Lega Araba non era sufficiente mettere a disposizione 19 degli alleati basi e infrastrutture e giocare un ruolo logistico. E se si arriverà ad una missione di stabilizzazione in Libia non potremo tirarci indietro, anzi, dovremo cercare di ottenere la leadership. E per comandare bisogna mettere in campo mezzi e personale in quantità e qualità tali da legittimare la richiesta. Certo, se si verifica una crisi “domestica” il baricentro delle attività militari deve essere riorientato, ma visto che dall’Afghanistan non si può scappare, se non insieme agli altri, si può sperare di spostare solo una parte delle forze colà impiegate. Per il resto si tratterebbe di uno sforzo ulteriore. Che richiederebbe non solo soldi in più. Che cosa fare in Afghanistan La Fondazione ICSA lo scorso anno ha elaborato una propria proposta organica a proposito di quale dovrebbe e potrebbe essere il ruolo dell’Italia, nel contesto NATO, per contribuire a raggiungere una stabilizzazione dell’Afghanistan. La formula prospettata si incardina nel contesto del “comprehensive approach” che combina l’indispensabile azione militare con tutte le altre leve (civili, politiche e diplomatiche), perché senza sicurezza non vi può essere alcun progresso, né una ricostruzione 1. Indubbiamente chi sperava si potesse arrivare ad una soluzione e ad un disimpegno occidentale dall’Afghanistan in tempi rapidi è rimasto disilluso, ma non era questa la nostra previsione, nella consapevolezza che lo sforzo da compiere fosse colossale. Anche la possibilità che le condizioni sul campo mutino in senso così favorevole da consentire un passaggio di consegne dalla coalizione all’ANA (Esercito Afgano) e alle forze di Polizia entro il 2014, riducendo il ruolo di ISAF a quello di forza di “supporto” appare davvero ottimistica. E’ anche vero che in Iraq l’amministrazione statunitense ha dichiarato l’inizio della nuova missione New Dawn, di solo supporto (con 50.000 uomini!) quando di fatto i reparti sul campo, i mezzi e le attività concrete sono rimaste simili a quelle svolte in precedenza. Ed è utopistico pensare che le forze USA si ritireranno completamento entro fine 2011, come è in teoria previsto. Qualcosa del genere potrebbe accadere anche in Afghanistan. E’ chiaro che, per quanto riguarda la sicurezza, i risultati che si sperava di ottenere con la “surge”, il potenziamento temporaneo dei contingenti USA e NATO, non maturano con la rapidità inizialmente auspicata. E questo è un grosso problema, specie perché la Casa Bianca vorrebbe iniziare il ritiro, almeno delle forze addizionali, a partire da luglio. Un traguardo che oggi appare remoto. Anche l’ennesimo cambio della guardia al vertice di ISAF, con la probabile sostituzione del generale Petraeus (terzo comandante silurato) non costituisce un segnale positivo. Sembra quasi che l’Amministrazione USA voglia avere al comando un generale “morbido” che possa certificare un progresso sul terreno tale da legittimare la scelta politica di iniziare il ritiro. Perché al momento i vertici militari alleati non solo ritengono che non ci possa essere alcun ritiro, ma anzi hanno chiesto di poter disporre di ulteriori rinforzi (in parte concessi). Del resto anche se è stato accelerato al massimo, il programma di addestramento, formazione, equipaggiamento delle formazioni dell’Esercito e in particolare delle unità delle forze di Polizia afgane non può permettersi di raggiungere i risultati richiesti nei tempi previsti bruciando le tappe, altrimenti si rischia di compromettere tutto. La situazione resta complicata anche in Pakistan, ma se non altro le operazioni molto aggressive condotte dai reparti speciali militari, dalle forze paramilitari e dai mercenari locali a terra, accompagnate da un uso massiccio di velivoli senza pilota hanno aumentato la pressione in modo molto efficace sui guerriglieri. Va anche segnalato come fattore positivo l’accordo NATO-Russia (e Italia-Russia) per ottenere il passaggio dei convogli ferroviari che sostengono logisticamente ISAF attraverso il territorio russo (e ci sarà accesso 1 In risposta al problema della stabilizzazione dell'Afghanistan, sin dagli inizi del 2008, la Comunità Internazionale ha elaborato il concetto di comprehensive approach da applicare alla situazione del Paese. Tale concetto, recepito al vertice di Bucarest della NATO (aprile 2008) si basa sulla convinzione che solo attraverso un più stretto coordinamento tra le diverse organizzazioni internazionali operanti sul territorio, una maggiore responsabilizzazione del governo afgano e notevoli investimenti in risorse civili è possibile rispondere alla questione, non solo militare, ma anche politica della stabilità del Paese asiatico. 20 allo spazio aereo russo anche per aerei militari), riducendo il ricorso alle vie logistiche che attraversano il Pakistan. Complessivamente se una exit strategy è stata delineata in termini di che cosa si vuole fare, la tempistica per attuarla, presentata come cogente, è invece aleatoria, almeno se non si vuole rischiare che il Paese torni a precipitare nel caos. In questo contesto, le raccomandazioni che abbiamo formulato lo scorso anno restano sicuramente valide, compresa quella di legare in modo efficace le attività militari con quelle di assistenza civile, economica, politica e di ricostruzione. Va anche potenziata l’attività di cooperazione e intensificato il coordinamento Esteri-Difesa. In particolare se si arriverà al passaggio di consegne in una prima provincia, quella di Herat, tra forze militari ISAF e forze ANA, occorrerà sfruttare al meglio una opportunità che costituisce anche una sfida importante. Per quanto riguarda l’impegno militare, ferma restando la necessità di mantenere il pieno comando e controllo nella regione Ovest, resistendo ai reiterati tentativi di ridimensionare il ruolo italiano, dovrà essere deciso a che livello e con quale scopo mantenere la presenza militare. In linea di principio, se USA e NATO proseguono lo sforzo ai livelli attuali non è pensabile sganciarci unilateralmente. In parole povere…se la surge continua non è strategicamente condivisibile procedere ad un ridimensionamento di un contingente di 4.200 uomini. Anzi, come avevamo già scritto, è opportuno che il contingente sia irrobustito almeno sotto il versante dei mezzi, ferma restando la necessità di mantenere ai massimi livelli la preparazione e l’addestramento del personale inviato in teatro, tanto più visto che la stagione primaverile ed estiva sono sempre molto “calde” e tenendo conto che quel che serve in larga misura è già disponibile oppure può essere acquistato e reso operativo in un arco di tempo ragionevole e sempre avendo in mente che i nostri soldati resteranno nel paese ben oltre il 2014 e quindi si deve guardare all’immediato, ma anche al medio termine. In particolare riteniamo che si debba: - potenziare la componente terrestre, schierando blindo Centauro e carri Ariete, da utilizzare a discrezione dei comandi quando e dove fosse necessario. Oggi infatti l’arma più pesante a tiro diretto di cui dispongono i nostri soldati è una mitragliera da 25 mm, quando i nostri alleati hanno carri armati con cannoni da 120 mm! - Acquisire e schierare al più presto i mortai da 81 mm già programmati per colmare il vuoto tra i mortai da assalto da 60 mm e quelli pesanti (spesso troppo pesanti) da 120 mm. - Schierare appena possibile i lanciarazzi pesanti MLRS aggiornati e dotati di nuovi razzi guidati di precisione e nel frattempo inviare alcuni semoventi d’artiglieria PZH2000 da 155 mm. - Potenziare la componente del genio e tutte le capacità necessarie allo sminamento ed al contrasto degli ordigni esplosivi improvvisati, comprese quelle aeree (nuovi pod sperimentali da impiegare sugli aerei C-27J). - Potenziare al massimo la dotazione di velivoli senza pilota, procedendo allo schieramento degli MQ-9 Reaper in approntamento al più presto possibile, mantenendo anche gli attuali Predator ed acquisendo/noleggiando anche velivoli più leggeri, come gli ScanEagle. Per quanto riguarda gli UAV, occorre al più presto dotarli della possibilità di impiegare missili aria-superficie Hellfire, così come avviene per i velivoli dello stesso tipo utilizzati da USA e UK. Una capacità operativa potrebbe essere acquisita nel giro di 6 mesi dalla decisione. Gli UAV armati aumenterebbero enormemente il livello di “force protection” per le nostre truppe e quelle alleate. - Accelerare lo spiegamento dei materiali e degli equipaggiamenti in sviluppo nel quadro del programma “Soldato Futuro”. - Autorizzare l’impiego dei cacciabombardieri dell’Aeronautica in missioni di supporto tattico ravvicinato impiegando armamento di precisione, già in dotazione. Tali armamenti consentono una grande efficacia con minimo rischio di provocare danni collaterali. Peraltro non ha senso non utilizzare le nostre capacità e poi in caso di guai chiedere l’intervento di aerei alleati…meno disponibili… e che usano esattamente le stesse armi. In prospettiva, procedere alla acquisizione di ulteriori armi di precisione “leggeri”, come razzi a guida laser per elicotteri e per aerei ad ala fissa. 21 - Irrobustire la consistenza della componente aerea, sia per quanto riguarda gli elicotteri da trasporto e combattimento sia gli aerei da trasporto tattico sia i cacciabombardieri ricognitori. Occorre aumentare il numero di elicotteri che si sono rivelati essenziali in Afghanistan. E tutti questi mezzi devono poter “generare” un maggior numero di ore di volo, grazie ad una maggiore disponibilità di ricambi e di supporto logistico. In realtà fino ad oggi la componente aerea, così importante proprio in un contesto come quello afgano è stata sotto-utilizzata avendo riguardo sia per le capacità disponibili sia per le esigenze. Per quanto concerne infine il futuro assetto del contingente, condividiamo l’opportunità che se in estate il battle group a livello di battaglione schierato ad Herat dovesse essere sostituito da reparti dell’ANA, esso non venga reso disponibile per l’impiego in altre regioni operative, ma sia invece rischierato nell’ambito della regione Ovest, visto che ISAF continua ad avere un controllo limitato dell’immenso territorio e visto la rinnovata aggressività della guerriglia. Sostituire personale “combat” con un analogo numero di istruttori per forze di polizia/militari ridurrebbe i costi di funzionamento, ma non porterebbe ad un reale aumento del livello di sicurezza per i nostri militari o per la popolazione civile, proprio perché a dispetto della surge, le forze a disposizione non sono sufficienti. Una politica di difesa nazionale ed un nuovo strumento militare: la proposta L’Italia rimane purtroppo priva di una politica di difesa che sia compiutamente determinata dal governo. La politica di difesa deve poi essere puntualmente applicata ed eseguita dalle Forze Armate. Tale politica dovrebbe essere naturalmente costantemente aggiornata per tenere conto dell’evoluzione dello scenario internazionale e della più ampia politica nazionale. Magari da noi i “pezzi di carta” esistono, ma sono per lo più pro-forma e non vengono poi attuati o attualizzati. In Italia del resto non si vede un Libro Bianco vero e proprio da anni (l’ultimo è addirittura del 2002!), a dispetto degli straordinari cambiamenti occorsi in questo ultimo decennio, né c’è la prassi di procedere ad un aggiornamento del Modello di Difesa, che pure era stato a suo tempo previsto, e gli strumenti di programmazione degli investimenti a lungo termine esistono esclusivamente all’interno del dicastero, non sono pubblici né tantomeno esistono strumenti di legge che definiscano a medio termine i grandi programmi di ammodernamento della difesa e provvedano a garantire le risorse finanziarie per consentirne l’attuazione. Da noi c’è il vuoto. Se si escludono i documenti che illustrano il bilancio della difesa (Nota Aggiuntiva al Bilancio della Difesa) e che ovviamente hanno una portata molto relativa. In questo contesto ribadiamo la necessità di rivedere il ruolo, le funzioni, le attribuzioni del Consiglio Supremo di Difesa il quale è oggi di fatto l’organismo dove viene formulata la politica di Difesa nazionale e si prendono tutte le decisioni critiche relative alle Forze Armate. Il Consiglio Supremo di Difesa potrebbe trasformarsi in un Consiglio per la Sicurezza Nazionale (CSN). Peraltro in attesa di una futuribile riforma costituzionale un CSN che si occupi di difesa a sicurezza interna andrebbe creato al più presto. E in attesa di queste revisioni è almeno indispensabile che si dia piena attuazione alla riforme tentate nel passato, in particolare alla “Legge sui Vertici”, con piena assunzione di responsabilità da parte del Capo di Stato Maggiore della Difesa per realizzare quelle operazioni di efficientamento e riorganizzazione possibili solo muovendo con una visione “joint”. Un nuovo strumento militare Come si è notato, quasi tutti i principali Paesi con i quali l’Italia collabora sul piano della difesa e della sicurezza stanno rivoluzionando i rispettivi apparati militari. Le scelte sono già state compiute. Ora si sta procedendo ad eseguirle. L’Italia, purtroppo, è rimasta alla finestra. Abbiamo perso tempo prezioso. Il costo del “non decidere” è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo. 22 Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate, anche qualora l’iniziativa Crosetto-Cossiga diventasse realtà in tempi brevi (il che non è detto). ICSA ha analizzato a fondo la situazione ed ha compiutamente elaborato una proposta, che muove dalla analisi effettuata lo scorso anno, ma che tiene conto del mutamento del contesto internazionale. Già, perché come abbiamo evidenziato, lo sconvolgimento in atto sulla sponda meridionale del Mediterraneo e di tutto il Medio oriente e del Golfo ci riguarda direttamente, con evidenti implicazioni in termini non solo di sicurezza, ma anche di Difesa. Quindi ICSA conferma l’approccio riduttivo…intelligente, volto a preservare le capacità militari essenziali e pregiate, mirando al raggiungimento della massima efficienza, eliminando ogni fonte di spreco e privilegiando le componenti operative, all’insegna del principio secondo il quale tutto è utile, non tutto è necessario. Si tratta quindi di passare dalla ambizione utopistica di realizzare uno strumento militare bilanciato, con capacità in ogni settore, sia pure quantitativamente minima, inseguendo il sogno di poter condurre operazioni militari indipendenti, per puntare invece a Forze Armate integrate ed integrabili con quelle di partner ed alleati. Dalla Forza Bilanciata alla Forza Integrata. Del resto non ci sono molte alternative: una Forza Bilanciata non ce la possiamo permettere e fino ad oggi abbiamo, in larga misura, fatto finta di averla realizzata. La Forza Integrata la possiamo invece realizzare, purché si abbia la consapevolezza del fatto che quando ci si “integra” con qualcuno, poi non si può negare la disponibilità delle capacità che ci si è impegnati a mettere in qualche misura a fattor comune. L’integrazione comporta una perdita di autonomia decisionale. Del resto ciò che sta avvenendo in seno alla NATO e alla UE conferma la validità di questo approccio: persino la Gran Bretagna e la Francia, ovvero i Paesi che più spendono per la difesa e che hanno anche una politica estera e difesa autonoma, nonché una serie di impegni, interessi e presenze globali, vestigia del passato coloniale, hanno deciso, sono state costrette a rinunciare ai sogni sciovinistici. Londra e Parigi hanno deciso di collaborare a tutti i livelli nel campo della difesa: politico, militare, industriale, tecnologico. C’è chi pensa che si andrà ad un nuovo fallimento, rievocando il tentativo di Saint-Malo. Ma non è così, questa volta lo scenario è diverso, perché all’epoca si trattava di compiere una scelta piuttosto che un’altra, ora si tratta di fare di necessità virtù. Ed a nostro avviso, alla prima serie di impegni sottoscritti, anche in aree delicate, come il coordinamento e la messa in comune di parte delle attività di ricerca e sviluppo e delle ricerche nucleari militari, per non parlare della costituzione di forze di intervento congiunte, della turnazione concordata nello spiegamento delle portaerei, dell’impiego di cacciabombardieri navali francesi sulla portaerei britannica, delle missioni di pattugliamento dei sottomarini lanciamissili nucleari, seguiranno ulteriori passi in futuro. L’Italia purtroppo ha perso l’occasione unica di unirsi a Londra e Parigi per trasformare in iniziativa trilaterale quello che è partito come asse bilaterale. Anche la Germania e la Spagna per ora sono escluse. L’Olanda forse sarà “attratta” da Londra. Non è detto che non riesca un avvicinamento ed un ampliamento a chi per ora è rimasto alla finestra, ma per ora quella che è in corso è una iniziativa bilaterale. Iniziativa che rivoluziona anche gli equilibri in seno alla NATO ed alla dimensione difesa della UE. E ce ne siamo già accorti in occasione della crisi libica, che ha visto il direttorio Anglo-Britannico saldarsi con Washington, anche grazie alla auto-esclusione tedesca e ai balbettii italiani. 23 Prove di integrazione franco-britannica: durante le missioni contro la Libia un pilota della RAF ha volato sui MIRAGE francesi. (Fonte Ministero della difesa francese) E evidente che se i due “grandi” ammettono di non poter fare da soli e dover integrare in misura crescente le proprie capacità militari, accettando quindi una minore indipendenza politica, strategica e militare…tutti gli altri dovranno fare molto, ma molto di più per non rischiare l’irrilevanza. E in questo senso ci sono state autorevoli prese di posizioni in ambito NATO, UE e da parte di singoli governi. L’Italia ha quindi di fronte a se una sfida/opportunità. Che va affrontata nel più breve tempo politico. Da un lato deve cercare di…rientrare nel gioco, cercando di agganciare Londra e Parigi o, se questo non fosse possibile, puntare a forme di collaborazione con gli altri “esclusi”, cercando per una volta di essere politicamente propositiva e quindi di guidare il gioco, invece di accodarsi o sgomitare una volta che i giochi saranno fatti. Dal punto di vista militare, lo strumento militare deve essere riformato, subito, per adeguarsi ai nuovi standard NATO/Europei, cercando magari di coordinarsi già con qualche alleato o quantomeno di puntare sulle quelle capacità che: a) sono comunque irrinunciabili per la sicurezza nazionale; b) sono ricercate/pregiate e quindi il possederle ed essere disposti ad impiegarle ha una significativa valenza politica-strategica. E per individuarle basta scorrere le wish list della NATO e della Unione Europea. Certo non si può più procedere con una riduzione proporzionale delle singole Forze Armate e delle singole capacità. Questo sarebbe l’approccio meno doloroso, che apparentemente fa soffrire tutti allo stesso modo. Ma è una soluzione sbagliata. Perché le rigide ripartizioni stabilite sulla base di criteri forse validi 20 o 30 anni fa non hanno più alcun senso. Bisogna avere il coraggio di decidere cosa serve davvero, a prescindere da chi è che può fornirlo. E la trasformazione deve avvenire sulla base di uno spirito interforze. Spirito che, bisogna dirlo, si è perso in questi ultimi tempi. A dispetto da quanto previsto dalle riforme degli scorsi anni, si è tornati alla logica delle “parrocchie”, con il conclave del Comitato dei Capi di Stati Maggiore che decide per consenso e tenendo troppo in considerazione le richieste delle singole Forze Armate. Nella situazione in cui si trova l’Italia c’è bisogno di decisioni prese sulla base dell’interesse nazionale e della Difesa, non della singola Forza Armata. Decisioni chiare, applicate in fretta. Per questo occorre tornare allo spirito originario della riforma (a questo punto si deve dire mancata) interforze e ristabilire la preminenza gerarchica del Capo di Stato Maggiore della Difesa nell’area operativa e del DGA/Segredifesa in quella amministrativa e 24 tecnica. Sarebbe poi opportuno approfondire l’opportunità di separare le responsabilità di chi si occupa di procurement da quelle amministrative della difesa, come del resto accade in quasi tutti i Paesi. Ma nella consapevolezza che il procurement è settore delicatissimo che richiede professionalità di altissimo livello se si vogliono evitare disastri. Mentre procedure ottocentesche andrebbero aggiornate…alla best practice internazionale. A proposito di procurement, occorre certamente rivedere il concetto di “Difesa Servizi”, concepita con finalità che sono poi mutate e che comunque non è ancora decollata. Nell’ottica della ricerca dell’efficienza si deve esaminare se sia quella della società semi-esterna la via migliore per ottenere i risparmi e le efficienze previste, soprattutto considerando gli immensi esuberi di personale che la Difesa deve risolvere e la quantità di enti e strutture esistenti. Forse è il caso di accertare se le funzioni che dovevano essere attribuite a Difesa Servizi non possano essere assolte all’interno della Difesa. Gran parte dei risultati desiderati possono essere conseguiti in qualche misura senza neanche ricorrere allo strumento legislativo, ma anche solo attraverso atti amministrativi. Non è certo possibile in un documento di questo tipo fornire una indicazione specifica di quali sono le capacità “essenziali” e quali invece possono essere sacrificate. Questo esercizio deve essere condotto appunto nel contesto di scelte politico-strategiche. Le responsabilità in materia, definire compiti e ruoli delle Forze Armate sono della politica. La politica deve anche garantire le risorse finanziarie necessarie per realizzare quanto chiede. Il come spetta ovviamente ai tecnici. I criteri sulla base dei quali scegliere sono però delineati. E il tutto deve avvenire, lo ribadiamo ancora, in ottica interforze, per evitare duplicazioni. Basta pensare a settori come quelli delle Forze Speciali, oppure dei mezzi elicotteristici, degli UAV, della difesa contraerea, della protezione delle forze, del cyberwarfare, della IT. E che dire della incredibile moltiplicazione dei centri sperimentali aerei: prima ce n’era uno solo, logicamente dell’Aeronautica, poi è nato quello della Marina, ma anche l’Esercito vuole il suo. E andare tutti a Pratica di Mare e usare le strutture A.M. no? Almeno quest’ultima disfunzione sembrava essere stata risolta, ma potrebbe ora esserci qualche nuovo “ripensamento”. Per non parlare della logistica, della sanità. Avere una pluralità di attori e “fornitori di capacità” è un lusso che non ci possiamo più permettere, ma è utopistico pensare che le Forze Armate siano disponibili a rinunciare a parte delle proprie competenze e capacità…spontaneamente. Una operazione del genere potrà anche portare il passaggio di reparti, mezzi e personale da una Forza Armata all’altra. Da noi potrebbe sembrare fantascienza, ma all’estero è una prassi del tutto normale. Ci sono anche capacità addizionali che si renderanno indispensabili, ad esempio proprio nel cyberwarfare, ma anche nella difesa antimissile, nella difesa aerea, nella sorveglianza satellitare, aerea e navale, nell’intelligence, nella protezione degli spazi marittimi. Già, perché nessuno può garantire cosa accadrà sulla sponda meridionale del Mediterraneo nell’arco di un lustro. E chi è pessimista… rischia di aver ragione. 25 Il cacciatorpediniere ANDREA DORIA potrebbe essere dotato di capacità antibalistiche. (Fonte MM) Per quanto riguarda poi i tagli strutturali da apportare per recuperare soldi, personale ed efficienza, la ricetta non può che prevedere interventi sulla organizzazione amministrativa e territoriale che miracolosamente esce in larga misura indenne da ogni ristrutturazione, mentre in genere si sacrificano le forze operative. Ovvero si fa il contrario di ciò che sarebbe virtuoso. Le idee su cosa fare, partendo dalle macro regioni territoriali/amministrative interforze ci sono. Basta attuarle. Ci sono i macrointerventi, ma anche quelli minori, che hanno un significato di moralizzazione dovrebbero essere realizzati in fretta: ad esempio intervenendo nell’area dello “sport con le stellette” che risulta comunque costosa e produce poco in termini di ritorno di immagine per le Forze Armate. E’ il caso di tornare all’antico, privilegiando quelle poche, pochissime discipline che hanno una chiara attinenza con la Difesa e comunque solo se le forme con le quali si investe in atleti e strutture producono un beneficio evidente per la Difesa. Quanto poi a organizzazioni anacronistiche, come il CISM, sopravvissuto alla Guerra Fredda, va semplicemente eliminato. Le olimpiadi militari non hanno più alcun reale valore. Se ne può fare a meno. Casomai i contributi del CONI potrebbero essere meglio utilizzati destinandoli a potenziare le strutture che possono consentire ai militari (e magari anche ai civili) di mantenere i nuovi, sempre più elevati standard di efficienza fisica: palestre, piscine etc. Poi bisogna avere il coraggio di affrontare il nodo della proliferazione degli organismi di vertice. Oggi ci sono di fatto 5 stati maggiori. Senza contare l’enorme staff del ministro, la cui organizzazione è stata oggetto di una recente riforma, che tutto ha fatto…tranne ridurne la consistenza a livelli di sobrietà che sarebbero indispensabili. Occorre rivedere compiti, responsabilità e piante organiche. E poi intervenire non con le forbici, ma con la mannaia. Quali risorse? Se ci si ostinasse a voler compiutamente realizzare e far funzionare uno strumento militare della consistenza e con le capacità teoriche attuali occorrerebbero circa 21 miliardi di euro all’anno, beninteso per la sola Funzione Difesa. Il bilancio 2011 prevede invece 14 miliardi. Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo 26 totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale. Non è realistico ipotizzare che la spesa reale per la difesa possa salire di 4,5 miliardi di euro. E allora? Allora bisogna intanto procedere ad un recupero di efficienza ovunque possibile, attraverso una draconiana opera di riduzione delle strutture e delle infrastrutture, recupero di personale a ruoli operativi, efficientamenti. Ipotizzando di continuare a spendere almeno 4,5 miliardi di Euro all’anno in ammodernamento e ricerca (compresi i fondi extra Difesa) e qualcosa come 2,8 miliardi di Euro per l’esercizio, oltre a 1,5 miliardi per le missioni…la spesa per il personale non potrebbe andare oltre i 7,5 miliardi di Euro all’anno, portando la spesa complessiva effettiva per la Funzione Difesa a circa 16,3 miliardi di Euro all’anno, missioni incluse. Uno sforzo ragionevole, considerando che l’Italia dedica oggi alla funzione difesa meno dell’1% del PIL e che l’obiettivo del governo per la corrente legislatura era quello di arrivare a 1,3% del PIL. Se si deve dunque “rientrare” ad un totale di 16 miliardi e mantenere i rapporti di equilibrio ottimali tra le diverse voci di spesa (50% per il personale e 50% tra ammodernamento e esercizio), ne deriva che sarebbe necessario ridurre la spesa per il personale di circa 2 miliardi di Euro all’anno. Il che non deve sorprendere. E’ evidente che se la voce di spesa principale del bilancio della difesa italiano è quella per il personale è lì che deve essere ottenuto il risparmio più consistente, specie considerando che il costo del personale pesa ormai per oltre il 65% degli stanziamenti complessivi. Del resto le Forze Armate moderne hanno un tasso di “capitalizzazione”, investimento per ogni militare, molto elevato. E’ questo vantaggio qualitativo che ci permette di affrontare i Talebani con un “rapporto di scambio” tra perdite subite e perdite inflitte estremamente favorevole. E che deve migliorare ancora. Inoltre grazie alla tecnologia si riduce la consistenza degli equipaggi delle unità navali, dei mezzi terrestri, mentre i velivoli senza pilota si affiancano e in qualche caso sostituiscono i velivoli pilotati. Certo, nelle formazioni terrestri il soldato rimane “il sistema d’arma base” e fino a quando non avremo robot-soldato non ci saranno alternative. Né la tecnologia consente di sostituire i “boots on the ground” più di tanto. E proprio per questo quando si dovranno tagliare gli organici occorrerà andarci…piano proprio con l’Esercito. Il quale peraltro deve rendere operativamente impiegabile una aliquota molto più consistente del proprio personale. Personale dell’Esercito in Afghanistan, il taglio degli organici dovrà tenere conto dell’importanza dei “boots on the ground”. (Fonte NATO ISAF) L’entità del bilancio della difesa “ideale” che prospettiamo è inferiore a quella indicata nel documento dello scorso anno. Questo perché si è tenuto conto della tendenza generale in atto in Europa e in altri Paesi. Peraltro va anche precisato che l’Italia non può permettersi di “tagliare” molto, perché già spende pochissimo per la difesa. Può e deve però spendere meglio. E’ anche evidente che investendo complessivamente poco più di 16 miliardi di Euro all’anno, missioni incluse, si dovrebbe accettare una diminuzione delle capacità militari…ma in larga misura si andrebbero a perdere capacità…virtuali, oppure si andrebbe ad incidere su quella immensa struttura che di operativo produce ben poco e si risolve soltanto in un costo. Detto in 27 altri termini, con investimento di 16,5 miliardi di Euro all’anno l’Italia potrebbe conseguire una capacità militare effettiva superiore a quella attuale ed in linea con il livello di ambizione internazionale del Paese. Vi è poi un’ultima considerazione. L’Italia per molti anni ha potuto considerare la difesa del suo territorio, della popolazione, degli spazi aerei e marittimi, delle vie di comunicazione come qualcosa di garantito e sicuro. A nostro avviso questo assunto, purtroppo, va rivisto alla luce di quello che sta accadendo in Nord Africa, nel Medio Oriente e nel Golfo. Questo significa rivedere le priorità e i programmi di investimento e, come accennato, cercare di dotarsi di capacità oggi assenti o minimali, possibilmente nel contesto internazionale o almeno nel quadro di una collaborazione rinforzata con chi si trova a condividere, anche solo per ragioni geografiche, la nostra situazione. E se la instabilità aumentasse il livello indicato potrebbe risultare insufficiente. La cifra quantificata già ipotizza un “rischio calcolato” e presuppone una solida solidarietà europea e NATO. Questo è un caveat che deve essere tenuto ben presente. Non va neanche sottovalutato come la crisi libica abbia fatto rinascere nel cittadino una consapevolezza di “minaccia”, militare e non solo, che non si riscontrava più da anni. Decisamente superiore al “panico irrazionale” che portò nel 1991 a saccheggiare i supermercati o persino alla preoccupazione diffusa durante la guerra alla Serbia del 1999 o all’angoscia generata all’indomani del 9/11. E il cittadino non è cosciente della reale livello delle capacità di difesa del territorio italiano oggi esistenti. E’ possibile che l’opinione pubblica torni a “dimenticare” e passi ad altro in fretta dopo la conclusione della vicenda libica. Ma se l’instabilità dovesse continuare o ad aggravarsi nel Mediterraneo forse per la prima volta il tema Difesa potrebbero diventare uno di quelli “importanti” persino per l’opinione pubblica e la politica italiane. Tabella 2 – Spesa per la Difesa nazionale in rapporto al PIL, per Paese Paese Italia Gran Bretagna Francia Germania Spagna Olanda Canada USA Fonte: ICSA Spesa per la Difesa nazionale /PIL (val. %) 0,98 2,37 1,61 1,28 0.8 1,5 1,4 4,3 Va infine ancora una volta precisato che il Bilancio della Difesa italiano non rappresenta la reale spesa per la difesa, perché include gli stanziamenti per l’Arma dei Carabinieri, che quest’anno ammonta a 5,7 miliardi di Euro. L’Arma è formalmente Forza Armata (un unicum italiano davvero discutibile), in realtà è dedita al 90% al settore della sicurezza. . Altra voce di spesa che nel Bilancio Difesa non dovrebbe stare è quella alle “pensioni provvisorie” del personale in ausiliaria (istituto da sopprimere) di naturale competenza, ovvero il Ministero dell’Economia. E quest’anno si tratta di 326 milioni di euro. Infine ci sono le “Funzioni Esterne”, che ricomprendono di tutto un po’, dai “voli di stato” della Presidenza del Consiglio, al rifornimento idrico delle isole minori siciliane, ai contributi alla CRI. Nonostante le riduzioni sono ancora 100 milioni di Euro all’anno. E il danno per la Difesa propriamente detta è ancora più grave, perché spesso è la Difesa che deve anticipare il pagamento dei costi di ulteriori attività “esterne” senza che poi arrivino i rimborsi previsti. Caso tipico quello dei voli di stato, con la Presidenza del Consiglio che ormai ha debiti verso la Difesa per circa 250 milioni di Euro. 28 Il personale Ormai è chiaro che uno dei fulcri della riforma del sistema difesa nazionale riguarda il personale, sia quello militare sia quello civile. Se non si interviene in quest’area sarà impossibile rendere efficiente la difesa. Due sono i problemi cruciali: a) Una struttura degli organici e una normativa di avanzamento “top heavy”, con troppi comandanti e pochi sottoposti, con un sistema che garantisce la progressione di carriera anche quando ormai la crescita dello stipendio non è più legata al grado (in larga misura), ma solo all’anzianità di servizio. Inutile dire che anche quest’ultimo sistema di aumento automatico degli stipendi in virtù dell’invecchiamento, mutuato dalla peggiore prassi del pubblico impiego, va riformata. Non si può pensare che un tenente colonnello “trombato” e che in un sistema che funziona sarebbe mandato in pensione possa guadagnare come un generale in “corsa”. Occorre un diverso sistema di avanzamento ed un diverso sistema retributivo. Gli stipendi “base” devono essere in linea con gli standard internazionali, a parità di potere d’acquisto, ma nel mondo militare non si può essere promossi per anzianità e lo stipendio va legato al grado e alle responsabilità, mentre chi non funziona non deve rimanere in divisa “a prescindere”, ma scartato, perché nel nuovo contesto non si può aspettare di essere in combattimento in Afghanistan per scoprire se qualcuno…non è all’altezza o doveva fare un diverso lavoro. b) Una distribuzione del personale nei vari gradi…assurda, a causa di interventi legislativi improvvidi e al tentativo di assimilare a tutti i costi il soldato ad un dipendente statale da scrivania. Gli esuberi, concentrati nei gradi apicali degli ufficiali e dei sottufficiali devono essere smaltiti, e in fretta, attraverso provvedimenti straordinari. In caso contrario le Forze Armate continueranno ad essere penalizzate da una “zavorra” di personale non impiegabile operativamente e molto costoso, la cui presenza crea anche problemi di gestione, perché il peso delle operazioni reali viene concentrato su una aliquota ridotta di uomini e donne sottoposti a veri tour de force, anche perché il sistema italiano non consente di effettuare rotazioni “lunghe” del personale (ad esempio 1 anno di impiego operativo e 2 anni domestici) e impone al contrario un cambiamento relativamente frequente (2,4,6 mesi al massimo) del personale, con costi altissimi (anche quando non si muovono i mezzi ma solo gli uomini), con conseguenze negative in teatro a causa della continua alternanza (anche nei rapporti con alleati locali e internazionali e con la popolazione) e con altrettante troppe rapide fasi di “riposo” e ripreparazione. Naturalmente per evitare che le disfunzioni si ripetano, occorre non solo evitare nuove…regalie da parte del Parlamento, ma soprattutto rivedere le piante organiche, ferme ai tempi della guerra fredda: l’Italia ha quasi 500 ufficiali generali…gli USA come visto ne avevano 900. Questo è inammissibile. Ad essere generosi nei rapporti di inquadramento…di generali ne basterebbero 150. Identico discorso per i colonnelli, i tenenti colonnelli. E se andiamo a guardare la situazione tra i sottufficiali il quadro che emerge è persino peggiore: oggi abbiamo in servizio 57.000 marescialli su 177.000 militari. Il vecchio modello a 190.000 ipotizzava 25.400 marescialli. Ce ne sono almeno 32.000 di troppo. In compenso mancano i sergenti: solo 15.000, su una previsione di 38.000. Ma i pasticci non sono solo in cima alla piramide…perché se guardiamo alla base scopriamo che ci sono ben 15.000 soldati in ferma annuale, che tutto sono tranne “guerrieri” impiegabili in missioni operative. Si tratta invece di personale che svolge compiti ausiliari e in molti casi non necessari…. Il nuovo sistema dovrà correggere anche questa disfunzione. 29 Siamo arrivati a questi punto perché, quando si è stabilita la consistenza del Modello professionale di difesa, con il DLGS 215/01, modificato dalla Legge 226/04, si è ipotizzata una forza complessiva di 190.000 militari professionisti e volontari…. che non ci possiamo permettere. Già allora si sarebbe dovuto puntare su una forza complessiva inferiore. In ogni caso, visto che la dinamica dei costi divenne presto evidente, si sarebbe dovuto intervenire con una certa frequenza per aggiustare il tiro…al ribasso. E invece sono passati 10 anni…i numeri sono rimasti quelli e la Difesa ha ovviamente cercato di raggiungerli, con quella gradualità tipica della macchina statale italiana. In teoria si sarebbe dovuto raggiungere l’equilibrio…in 20 anni!!! Quando altri Paesi sono passati dalla leva al professionale in 3-5 anni. Ecco dove crolla il sistema italiano in confronto ai concorrenti stranieri. Quindi, si è proceduto troppo lentamente e in modo colpevolmente suicida. Sì, è vero che al contempo l’Italia è sempre riuscita a far fronte agli impegni reali internazionali e di questo bisogna dare il giusto credito alle Forze Armate che non hanno mai detto…no, però non impegnando mai più di 10-12.000 effettivi e mai tutti in missioni “combat”. Ora occorre definire un nuovo modello organico. E, visto ciò che stanno facendo i nostri partner…quella soglia a 177.000 uomini individuata dai documenti interni della Difesa (che di Modelli ne ha elaborati in quantità) è oggi troppo elevata. L’obiettivo oggi dovrebbe essere realisticamente compreso tra 150.000 e 165.000 effettivi. Possono sembrare pochi, ma…non ne possiamo stipendiare di più, con le risorse ragionevolmente disponibili. Possono essere sufficienti, se si tratta di personale “giusto” impiegabile, giovane, bene addestrato ed equipaggiato. Naturalmente si verranno a creare esuberi di personale, che vanno affrontati. Già oggi la rigidità della struttura del personale con una massa di “anziani” non utilizzabili e difficilmente motivabili o recuperabili crea un “tappo” che blocca l’assorbimento dei giovani che hanno fatto una esperienza positiva in divisa e vorrebbero proseguire la carriera in uniforme. Di fatto solo un volontario su quattro riesce a continuare a fare…un mestiere che sa fare e che gli piace, gli altri devono trovare qualcosa d’altro. E hanno anche difficoltà a individuare sbocchi anche in altri corpi armati o comunque nella Pubblica Amministrazione. Come riuscire dunque a far finalmente partire un sistema di tunover continuo, oggi invece di fatto bloccato (un esercito che funziona non può che essere “giovane”) e a smaltire i “vecchi”? La soluzione più “soffice” e politicamente più accettabile sarebbe, more solito, il ricorso a prepensionamenti di massa, con elargizione di contributi figurativi. Ma una scelta del genere è immorale, specie nell’attuale contesto economico (e il ministero dell’Economia giustamente su questo versante oppone resistenza) e tenendo conto che a tutti gli italiani si sta chiedendo di andare in pensione sempre più tardi. Meglio pensare a trasferimenti trasversali all’interno della Difesa (molti militari potrebbero smettere la divisa e svolgere ruoli preziosi da borghesi, perché non si dimentichi che la Difesa ha anche 31.000 dipendenti civili: anche ammettendo che questo livello si riduca a 25.000 unità o meno…c’è spazio per recuperare ex militari con le nuove qualifiche richieste) nonché in altri settori della Pubblica Amministrazione, che lamentano carenze organiche (dalle Forze di Polizia alla Protezione Civile etc.). Certo non manca chi si oppone e ci sono lobbies molto potenti che proprio non ne vogliono sapere di dover rinunciare a concorsi e gestione delle assunzioni in favore degli ex militari. Ma è compito della politica prendere anche scelte impopolari. La Difesa le sta provando tutte, ad esempio si è prospettato di trasferire personale al Ministero della Giustizia, con la Difesa disposta a farsi carico del “differenziale” retributivo in svantaggio del militare (il quale però ha obblighi e impiego ben diverso). La questione non può che essere affrontata con uno strumento legislativo, collegialmente dal governo e con un sostegno bi-partisan per quanto possibile. E’ questa la chiave di volta per rimettere in sesto la Difesa italiana, occorre partire dagli uomini. E il disastro è tale che ora occorre una azione “una tantum” ad ampio spettro costosa e non gradita al “sistema” e che per di più va eseguita rapidamente, non con il solito piano ventennale. Il cambiamento è indispensabile anche per il personale civile della Difesa. Oggi la Difesa non ha le professionalità civili che sarebbero necessarie, in compenso ha sovrabbondanza di personale non qualificato e difficilmente impiegabile a dispetto degli sforzi di riqualificazione. La Difesa e i sindacati dei dipendenti civili si oppongono al passaggio al settore civile della Difesa di ex militari in esubero, ma questa sarebbe in realtà una soluzione “interna” che 30 consentirebbe di smaltire almeno in parte gli esuberi senza dover ricorrere a formule costose e di difficile attuazione. Funzionamento e formazione La continua riduzione dei fondi che consentono alla macchina militare di funzionare, ovvero i soldi per l’esercizio sta “azzoppando” il sistema militare nazionale. Da una parte i mezzi sono bloccati perché non si riesce neanche a pagare il carburante, figuriamoci la manutenzione, le munizioni o i pezzi di ricambio, dall’altro è impossibile far addestrare e preparare il personale, se si escludono i “soliti noti” impegnati nelle missioni all’estero. Il tasso di efficienza e disponibilità operativa sta precipitando e la emergenza libica ha messo in evidenza questa situazione incresciosa, anche se, come al solito, la realtà è stata nascosta al Parlamento ed al Paese. E proprio per evitare qualunque critica è stata imposto anche da questo governo un umiliante divieto ai vertici delle Forze Armate di raccontare la crisi della Difesa e i problemi nel quale si dibatte lo strumento militare. Un tempo il tabù riguardava soltanto la reale natura delle operazioni militari all’estero, oggi sulle missioni c’è maggiore trasparenza, in compenso c’è la consegna del silenzio sullo stato di salute delle Forze Armate. Fateci caso, i vertici militari parlano solo in sedi ed occasioni ufficiali e badando bene di non illustrare quanto sia grave la situazione, mentre non ci sono né conferenze stampa né possono essere rilasciate interviste se non su argomenti marginali. L’aula magna di MARISCUOLA a Taranto. Formazione ed esercizio dovranno essere potenziati. (FONTE MM) Però non è possibile che una porzione crescente delle Forze Armate sia di fatto “non impiegabile”, quindi inutile. In pratica si sostiene un costo non trascurabile (personale e strutture) senza averne un ritorno in termini di sicurezza o capacità operativa. O i reparti, mezzi e personale sono impiegabili e quindi addestrati, preparati, efficienti o altrimenti se ne può fare a meno. Per quanto riguarda la logistica si erano riposte grandi aspettative nella Difesa Servizi Spa, la società che avrebbe dovuto assumere responsabilità logistiche “generali” che non necessariamente devono essere svolte da personale in uniforme. Difesa Servizi peraltro ha avuto un parto molto travagliato, si è vista privare di buona parte delle competenze inizialmente previste e di fatto ad oggi non ha ancora cominciato a funzionare. Come già accennato, la creazione di una nuova struttura comporta costi di funzionamento e di personale che potrebbero essere giustificati solo se la nuova entità producesse risparmi significativi, facendo quello che fino ad oggi ha fatto la Difesa, ma a costi inferiori e con risultati migliori. Per ora niente del 31 genere è accaduto e mentre Difesa Servizi stenta a decollare il sistema Difesa continua con le vecchie pratiche. La transizione non sembra essere né rapida né efficace. Come spesso accade in Italia, si crea qualcosa di nuovo con la promessa di mirabolanti benefici, ma le strutture preesistenti rimangono in piedi o si re-inventano una missione, i costi complessivi invece di ridursi…aumentano. Ed è sicuramente eccessivo il battage che si è fatto sulla possibilità di “fare soldi” valorizzando emblemi e brand militari…Andiamo, queste cose le Forze Armate già le facevano, anche se magari in modo un po’ ruspante (all’inizio) ed ottenendo poco, ma la Difesa Italiana non risolverà i suoi problemi solo perché concede l’uso di marchi e loghi a questa o quella ditta di abbigliamento! Queste sono “noccioline” che certo non giustificano la struttura. Va quindi valutato accuratamente se non sia il caso di…soprassedere o di utilizzare personale militare evitando ogni rischio di duplicazione e decidendo solo sulla base di stretti criteri di costo/efficienza. E si potrebbe poi riorientare Difesa Servizi per far fruttare meglio ciò che la Difesa mette a disposizione senza ottenere un ritorno adeguato: ad esempio strutture ed enti militari, i cui costi di manutenzione e aggiornamento andrebbero pro quota ripartiti, oppure il “nodo” della assistenza al controllo del traffico aereo, le spese di aeroporti militari utilizzati dall’aviazione civile e commerciale, lo stesso servizio meteo dell’Aeronautica, per non dire della attività che la sanità militare svolge a beneficio di utenti civili. Toccando poi il problema delle infrastrutture, ICSA continua a ritenere che sia indispensabile procedere a concentrare il personale ed i reparti in un piccolo numero di infrastrutture grandi e moderne e che garantiscano gli standard di vita che militari professionisti meritano e che non sono certo quelli dei soldati di leva. Poche strutture, magari collocate in prossimità dei bacini di reclutamento (che certo non si trovano al nord Italia), grandi, razionali, moderne, con possibilità di utilizzare aree addestrative e poligoni altrettanto adeguati. E si rinunci a tutto il resto. La storia della cessioni degli immobili ex difesa è stata fino ad oggi quasi una catastrofe, della quale certo non ha beneficiato né il Paese né tantomeno lo strumento militare. Occorre un nuovo approccio, in fretta e senza svendere o regalare a comuni in difficoltà beni che hanno un valore di mercato più che significativo. E la lista delle infrastrutture da dismettere va aggiornata al più presto. ICSA sostiene anche la necessità di ridurre le strutture centrali della Difesa, magari concentrando gli Stati Maggiori in quel polo di Centocelle dove non si è neanche riusciti a trasferire il solo Stato Maggiore Difesa, cosa che forse potrà avvenire nel 2013. Se la Francia mette tutte le “teste” delle Forze Armate in un Pentagono alla periferia di Parigi, non si capisce perché una cosa del genere non possa avvenire anche in Italia. E se Berlino riduce lo staff centrale del ministero a 1.500 elementi rispetto ai precedenti 3.000… Anche il sistema di formazione e addestramento delle Forze Armate deve essere al più presto rivisto e ottimizzato in chiave interforze. Oggi ciascuna Forza Armata continua a fare da sé e anche se ci sono stati significativi cambiamenti con il passaggio dalla leva al reclutamento di volontari e professionisti, il sistema rimane nel suo complesso largamente sovradimensionato e poco efficiente. Lo stesso dicasi anche per la stessa struttura centrale interforze (CASD/IASD/ISMI). Vi sono troppe duplicazioni mentre i costi di sistema/strutture rischiano di diventare del tutto spropositati in confronto al numero di allievi/studenti che si devono “produrre”. Come per la logistica, occorre studiare un cambiamento radicale. Mentre deve anche essere ben chiarito che la frequentazione di corsi di formazione superiore non deve essere considerato alla stregua di un periodo “sabbatico” o di una perdita di tempo, ma come un momento fondamentale nel processo di crescita personale e professionale. Il sistema deve essere quindi molto più selettivo e naturalmente a frequentare i corsi devono essere solo gli elementi che sono già stati selezionati per aspirare ai livelli apicali. Procurement La Difesa deve in fretta cambiare il modo, i tempi con i quali procede all’ammodernamento acquistando nuovi mezzi e materiali e deve cambiare anche il suo rapporto con l’industria della difesa, facendo riferimento a quello che stanno facendo i partner internazionali e alla evoluzione del rapporto domanda-offerta. Inutile negarlo, con meno soldi a disposizione la Difesa dovrà abdicare alle vecchie abitudini, ovviamente incoraggiate dall’industria, di farsi sviluppare e 32 produrre sistemi e tecnologie “su misura”, anche quando le esigenze sono più o meno identiche a quelle di Paesi amici ed alleati. E’ chiaro, se si fa tutto in casa si possono determinare caratteristiche e prestazioni a piacimento e si ha un rapporto diretto ed esclusivo con il fornitore. Ma se i pezzi da acquistare sono sempre meno numerosi e tecnologicamente sofisticati l’autarchia non è più sostenibile. In questi anni si è fatto ricorso alla collaborazione internazionale solo quando non era proprio pensabile fare da soli. Bene, la “ricreazione” è finita. Dobbiamo dare ascolto alla NATO, alle istituzioni Europee ed alle voci che si levano da diversi Paesi per creare quella cooperazione virtuosa e integrazione che finora non c’è stata. Ed anzi, deve essere l’Italia, specie se rimarrà esclusa dall’asse bipolare Franco-Britannico, a muoversi rapidamente e senza preclusioni. E scegliendo anche con chi e per cosa lavorare insieme a partners…disastri come quello del programma missilistico Meads non devono più ripetersi. Questo vuol dire accettare limitazioni alla indipendenza e sovranità nazionale, ma non c’è alternativa. Non solo, dovremo anche accettare il principio di acquistare un’aliquota significativa di sistemi e tecnologie “off the shelf”, quindi sul mercato, con un minimo (davvero minimo) di adattamento e giocando in modo più intelligente la carta delle compensazioni industriali (offsets) richiesti al venditore straniero: non si può più pensare di chiedere offset diretti di scarso significato tecnologico come troppo spesso accade o di strapagare (gold plating) una qualche personalizzazione, mentre se i pezzi da acquistare sono pochi la produzione o persino l’assemblaggio su licenza risulterebbero economicamente insostenibili. La partita offset va giocata a livello nazionale e di “barter deal” (io ti compro questo e tu mi compri quello). Non solo, bisogna anche smetterla di fare gli schizzinosi e se è conveniente economicamente ed operativamente si deve valutare, come accennato, l’acquisto di usato di qualità all’estero, come fanno quasi tutti i Paesi Europei, anche quelli più ricchi. Perché se l’alternativa è tra non avere una capacità giudicata essenziale, o averla solo parzialmente attraverso l’acquisto di sistemi usati, ma efficaci ed efficienti…non vi è dubbio su che scelte fare. Pensiamo ad esempio ai velivoli AEW. L’Italia ha condotto pochissime operazioni di questo tipo, essenzialmente in campo aeronautico (leasing di caccia Tornado ADV britannici, parzialmente riuscito e leasing di caccia F-16 statunitensi…pienamente riuscito). Ora si dovrà seguire un approccio del genere su più vasta scala e più frequentemente. Il leasing degli F-16 da parte dell’AM rappresenta un esempio da seguire. (Fonte AM) Perché la priorità della Difesa sarà quello di ottenere il prodotto migliore, al prezzo più basso, il più in fretta possibile. Sembra un’ovvietà. Ma così non è stato per decenni. Solo che nella stagione delle operazioni reali si compra quello che serve realmente e nelle quantità davvero necessarie e occorre che i requisiti siano redatti per bene, da soli o con altri partner, e poi ci si astenga da continui cambiamenti in corsa. In passato invece si è fatto finta di poter comprare quantità enormi di mezzi e materiali, salvo poi ridurre drasticamente i numeri, facendo saltare i presupposti economici e industriali del programma (e la convenienza a sviluppare invece che comprare) e finendo per spendere troppo in ricerca e sviluppo visto l’ “output” produttivo realmente richiesto. Si potrebbero fare decine di esempi. 33 Allo stesso modo l’ammodernamento deve riguardare tutte le capacità essenziali, se procedendo per la via nazionale si può comprare solo un tipo di sistema alla volta…bene, si fa altrimenti. E se un programma non funziona, supera i costi, i tempi, incontra difficoltà tecniche insormontabili…beh si deve avere il coraggio di cancellare il tutto e se necessario trovare un’alternativa. Sono pratiche che nell’Italia della difesa risultano sconosciute o quasi. E al fine di verificare la coerenza e il successo dei piani di procurement il Parlamento, attraverso le commissioni di difesa potrebbe giocare un ruolo rilevante, purché….fossero in grado di lavorare come organismi analoghi di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti. Se così non fosse, tanto varrebbe continuare con lo standard attuale, che rende le commissioni del tutto irrilevanti ed incapaci di esercitare controllo o stimolo sulla Difesa (per non parlare di iniziative folkloristiche come quelle volte a spostare risorse dal procurement militare…alla lotta ai tumori o anche ad altre meno nobili finalità). Tutto questo richiede naturalmente la creazione di un nuovo rapporto tra Difesa e l’industria nazionale, che non può più pensare di poter soddisfare in toto le esigenze nazionali e che deve essere guidata a concentrare gli investimenti e a strutturarsi per fornire quello che è considerato strategico ed irrinunciabile per il Paese. Ecco: qualcuno deve dire chiaramente all’industria dove puntare e cosa tralasciare e poi le decisioni devono essere mantenute e inserite nel quadro di programmi pluriennali a medio termine di investimento che dia certezze su cosa, quando e sulle risorse stanziate. Ci deve anche essere un effettivo travaso di responsabilità per quanto riguarda il supporto logistico e la manutenzione e perché no la formazione: le industrie si possono occupare di questi “servizi”, che in tutto il mondo sono in larga misura svolti in outsourcing lasciando che i militari si concentrino sull’impiego dei mezzi, fatte salve ovviamente capacità essenziali o “campali” (ma fino ad un certo punto). In questo modo l’industria potrebbe compensare la riduzione di fatturato. E potrebbe anche assorbire una quantità di tecnici specializzati in servizio nelle Forze Armate ed oggi in buona misura in esubero. Perché in questi anni avendo personale in eccedenza la Difesa ha riportato nel proprio alveo anche attività che aveva esternalizzato. Ovviamente il costo dei servizi in outsourcing deve essere…onesto e i contratti assegnati su base competitiva. A questo si deve accompagnare una vera revisione delle normative export, da armonizzare a quelle dei partners/concorrenti internazionali per non perdere competitività, rinunciando a ipocrisie non tollerabili, almeno se si vuole mantenere una presenza industriale di alto livello in questo campo strategicamente cruciale. Perché anche vendendo vestiti si fanno soldi all’estero…ma non si rimane nel novero dei paesi industrialmente e tecnologicamente avanzati. E l’export per funzionare deve poter contare sul supporto dell’intero sistema Paese, ai più alti livelli politico-istituzionali e senza trascurare il sistema bancario e assicurativo. Conclusioni La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato. Le risorse che il Paese dedica alla difesa sono poche, ma non sempre sono spese al meglio. Non di meno fino ad oggi le Forze Armate hanno assolto splendidamente i compiti assegnati, in particolare nelle missioni all’estero. Ma questo non è sufficiente. Occorre “produrre” di più a parità di risorse. Se ci saranno tagli, la riduzione delle capacità dovrà essere compensata attraverso la ricerca di efficienze che rimangono potenzialmente molto consistenti. Ma naturalmente non si può pretendere di fare di più con meno. E quanto sta accadendo in Nord Africa, in Medio Oriente e nel Golfo certo cambia i presupposti della politica di difesa nazionale. Va anche tenuto conto che ogni ristrutturazione ben eseguita permette di ottenere risparmi e miglioramenti strutturali solo dopo aver affrontato un costo iniziale. Almeno questi soldi extra devono essere garantiti, anche per risolvere il problema strutturale del personale. Mentre le risorse per l’esercizio e il funzionamento devono essere non solo rimodulate, ma anche accresciute, malgrado l'obiettivo complessivo sia quello di addivenire ad uno strumento più piccolo e più efficiente. Solo in questo modo si potrà garantire al cittadino quel bene primario che è la difesa nazionale e degli interessi nazionali. 34