Giorgio Brianzi, un uomo per la montagna

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Giorgio Brianzi, un uomo per la montagna
UNA BELLA STORIA
CONCORDIA
Giorgio Brianzi
Un uomo per la montagna
di
S amuele R adice e I gor M algrati
Quando ci è capitato di conoscere la vicenda di Giorgio
Brianzi, ci siamo interrogati molto sul perché alcune storie
siano più conosciute e altre lo siano di meno oppure non
lo siano del tutto. Su Brianzi, accademico del CAAI (Club
Alpino Accademico Italiano) e alpinista di punta del CAI di
Cantù a partire dagli anni ’60 fino alla sua prematura scomparsa nel 1981, si possono trovare pochissime tracce scritte, qualcosa su internet e quasi nulla sui giornali locali. A
spiegazione di ciò ci sono i meccanismi affascinanti secondo
cui l’interesse delle persone si orienta e viene orientato. È al
di fuori di questi meccanismi che la gran parte delle storie
si sviluppa, in modo silenzioso e lontano dall’attenzione e
dalla memoria collettiva. Questa storia è una di queste e noi
pensiamo valga la pena ricordarla. È la storia di un uomo che
aveva una passione, l’ha sviluppata e l’ha coltivata senza clamore, fino a raggiungere luoghi e percorsi unici, sia a livello
geografico che umano.
Durante la sua attività alpinistica, Giorgio Brianzi ha aperto
nuove vie, ha partecipato e guidato spedizioni a vette ambite
e ha contribuito all’ambizioso disegno primordiale dell’alpinismo, la conquista degli “ottomila”, le vette più alte e diffi-
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cili del mondo. Sempre senza clamore e con modestia. Lui
stesso, a prova della sua riservatezza, scriveva in una lettera
del 1971, che “la montagna è sempre stata […] qualcosa di
magnifico, di reale, astratto che non deve essere reclamizzata su tutti i rotocalchi".
Tra le persone che l’hanno conosciuto bene c’è Alberto Pillinini, il presidente del CAI di Cantù dal 1965 all’85. Per lui,
Brianzi “è stato un amico carissimo, una gran brava persona,
al di là dell’alpinista, una persona pulita”. Grazie ai ricordi di
Pillinini e all’enorme quantità di lettere, comunicazioni, pubblicazioni e articoli di giornale che lui ha conservato in quegli
anni, abbiamo potuto ripercorrere la carriera di Brianzi e cominciare questa ricerca. È stato Pillinini che ha seguito gran
parte della carriera alpinistica di Brianzi e quello che ha poi
assistito alle operazioni di soccorso i primi giorni del 1981,
quando Brianzi perse la vita sul Monte Rosa.
Il 30 dicembre 1980, Giorgio Brianzi e Giampiero Volpi (CAI
Legnano) partono alla volta di Macugnaga con l’obiettivo,
partendo dal rifugio Marinelli e passando dalla Sella d'Argento, di raggiungere la Capanna Margherita sul Monte
Rosa (4554 m). Non ci arriveranno. La partenza dal Rifugio
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Marinelli incomincia prestissimo, alle tre del 31 dicembre,
quando in cordata i due alpinisti si incamminano alla volta
della punta Dufour. Sono seguiti con i binocoli da Macugnaga e vengono notati mentre allestiscono il bivacco. Poi, d'improvviso, le condizioni meteo non consentono più nessun
contatto visivo. La comunicazione telefonica con la Capanna
Margherita, dopo un’incomprensione iniziale, appura inequivocabilmente che i due alpinisti non vi sono mai giunti.
Viene dato l’allarme e, il 7 gennaio, scatta la macchina dei
soccorsi coadiuvata dallo stesso Alberto Pillinini che si reca
a Macugnaga. Vani i ripetuti tentativi di ricerca del Soccorso
Alpino del CAI di Macugnaga, della Guardia di Finanza, dei
Carabinieri e dell’Esercito. Sarà l'Air Zermatt Svizzera, il 12
gennaio, a ritrovare i corpi a 4100 m: Volpi giace in un crepaccio, Brianzi su un plateau di neve poco sotto.
Affrontando il Monte Rosa, Brianzi stava allenandosi per la
scalata della quarta montagna più alta della terra, il Lhotse
(8516 m), in una spedizione che lui stesso aveva ideato e
organizzato insieme al CAI di Cantù per il 1981. Se si considera che la prima ascensione italiana a buon fine al Lhotse sarà fatta da Reinhold Messner nel 1986, si comprende
bene come si trattasse di un obiettivo ambizioso. Questo
rappresentava tuttavia il passo successivo di un percorso
progressivo, dato che Brianzi era già stato in grado di scalare nel 1977 l’Annapurna III (7555 m) e nel 1978 il Rasac
Principal (6040 m).
È il 1977 e Brianzi è l’unico componente del CAI di Cantù e
l’unico membro accademico del CAAI a prendere parte alla
spedizione alpinistico-scientifico regionale all’Annapurna III,
la 42esima vetta più alta al mondo e la terza vetta più alta
del massiccio dell’Annapurna, nel Nepal centrale. Giorgio
Brianzi sarà in cordata con Piero Radin del CAI di Vicenza.
La spedizione, composta da 27 alpinisti, parte dall’Italia il
18 settembre, arriva a Kathmandu e riparte per Pochara con
247 portatori e 10 sherpa. L’obiettivo prevede di raggiungere la vetta percorrendo l’ancora inviolata cresta occidentale.
Il 23 ottobre una prima cordata formata da Luigino Henry,
Pino Cheney e lo sherpa Pasang Temba raggiunge la vetta.
Di ritorno, la cordata s’incontra all’ultimo campo (il quinto,
a 6800 m) con Brianzi e Radin, i quali vi trascorreranno la
notte prima dell’attacco finale. Scendendo dall’ultimo campo, Luigino Henry cade in un crepaccio e perde la vita. Il
giorno dopo, ignari dell’accaduto, Brianzi e Radin arrivano
con successo sulla vetta e si apprestano alla discesa. Nel
frattempo, Franco Piana parte dal campo base per informare
Brianzi e Radin di Henry. Durante la discesa, Brianzi scivola
e coinvolge il compagno di cordata che urta la gamba contro
la parete e si frattura la tibia sinistra. È mezzogiorno. Con
grande sforzo, Brianzi riesce a calare Radin lungo il canale
nel mezzo del quale si trovano. Una volta raggiunti i due,
Piana e, successivamente, Luciano Gadenz li aiutano nel
soccorso. Dal campo uno il medico spiega via radio come
immobilizzare la gamba di Radin. Brianzi si toglie i ghettoni e
li cede al compagno di cordata. È ormai notte e ogni discesa
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al campo sottostante è impossibile. Radin e Brianzi vengono
calati in un crepaccio a 6200 m e lì bivaccano mentre gli altri
due ritornano al campo quattro. Per riportare Radin al campo
base ci vorranno sei giorni ma il salvataggio ha buon esito. Il
gesto di altruismo causa a Brianzi un congelamento di primo
grado ai piedi.
Le vicende avvenute sull’Annapurna III e il soccorso di Radin
rappresentano uno spaccato di quanto poteva e può ancora succedere ad alta quota, in quegli innumerevoli episodi
che hanno segnato la storia dell’alpinismo. “Più la montagna
diventa difficile e più butta giù la maschera degli uomini, gli
uomini vengono fuori per quello che sono” ha detto Luigi
Zanzi (storico e alpinista), dando una chiave di lettura non
solo degli episodi e del comportamento umano ma anche
di quella voglia di esplorazione interiore che é spesso tra le
motivazioni dell’esplorazione geografica.
Nel 1978, una spedizione organizzata dal CAI di Cantù
affronta il Rasac Principal (6040 m), vetta della Cordillera
Sopra: portatori verso il campo base e uno dei campi superiori all'AnnapurnaIII. Sotto: Giorgio Brianzi e alcune immagini del recupero di Radin.
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Huayhuash in Perù. Questa montagna è un "osso duro" per il CAI Cantù che qui nel 1971,
insieme al CAI di Melzo, aveva già organizzato l’ascesa alla vetta. Il Rasac Principal si era
però dimostrato indomabile e aveva costretto il gruppo a limitarsi a salire sul più accessibile
Tsacra Chico (5548 m). Di quella spedizione faceva parte Giorgio Brianzi, il quale, sette anni
dopo, ci riprova. Non ha digerito l’ascesa fallita, come testimonia la chiusura dell’articolo
sulla spedizione che lui stesso ha scritto per “Lo Scarpone” del novembre 1971: “A presto
Rasac Principal. La vita è ancora lunga, la passione per la montagna non viene mai meno nei
nostri cuori”.
Ora Brianzi ne ha di nuovo la possibilità e, questa volta, è anche capo spedizione. Il 7 agosto
1978, i sei alpinisti del CAI guidati da Giorgio arrivano in vetta al Rasac Principal. Non paghi,
l'11 agosto scalano il Cerro Messico (5100 m) e il 14 agosto lo Tsacra Chico, affrontandolo
dalla difficile parete Sud. La relazione finale, inviata al Centro Italiano studio e documentazione
alpinismo Extraeuropeo, evidenzia difficoltà alpinistiche paragonabili alle pareti nord delle Alpi.
Era con questi numeri che Brianzi, nel 1980, sostenuto da Pillinini e da tutto il CAI Cantù,
pensava al Lhotse. Era con questi numeri che lui, classe 1935, si avvicinava alla vetta di una
carriera cominciata alla Parrocchia San Paolo a Cantù, alla scuola di Don Nicola, la stessa
in cui si erano formati molti alpinisti dell’epoca. Dopo quei passi iniziali, la sua carriera si era
poi sviluppata con tante arrampicate e con l’apertura di alcune nuove vie che oggi portano un
nome: Brianzi.
Nell'aprile 1960, insieme all'amico Lino Tagliabue, compie la prima ascensione per la parete
est del Medale, nel gruppo delle Grigne, una salita il cui grado di difficoltà tocca il 6° superiore. Il 19 aprile 1964, con l'amico Franco Gastaldelli, detto “Il Califfo”, comincia quello che
sarà un vero e proprio assedio alla Roda di Vael, una delle cime principali del Catinaccio,
sulle Dolomiti. Dopo due notti di bivacco in parete e sotto una forte nevicata viene compiuta
la scalata della Via Maestri per la parete Ovest. Sempre con “Il Califfo", l'anno successivo
porta a compimento un'altra impresa memorabile. È il 13 marzo 1965 e questa volta a cedere
è, a oltre 3100 m, la Cima d'Ambiez, nel Gruppo del Brenta. Si tratta della prima invernale
della via Fox-Stenico per la parete sud-est. Nel Giugno 1968, la Roda di Vael diventa lo scenario per un’ulteriore scalata memorabile. Giorgio e "Il
Califfo" porteranno a compimento la prima ripetizione
della parete rossa per la Via Concilio. Dopo tre giorni
di fatiche, viene fatta quella che verrà definita la direttissima "a goccia d’acqua", ovvero 450 m di roccia in
vertiginosa esposizione.
Lino Mazzola era amico di Giorgio e ha passato con
lui tante avventure in montagna. Insieme hanno vissuto momenti unici sulle pareti e le salite più belle delle
Alpi: Dru, Grand Capucin (per la via Bonatti), Cengalo
e tante altre. Mazzola ci ha raccontato di una persona
Il granito rosso tipico del gruppo del Monte Bianco
con le spettacolari pareti del Dru e del Grand Capucin.
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gentile, premurosa e dedita alla propria viscerale passione.
In montagna ha sentito Brianzi gioire, disperarsi, cantare,
ammutolirsi. Le sue sensazioni sono vive ancora oggi a distanza di oltre trenta anni. Lino Mazzola ci ha raccontato
il coraggio, la generosità in montagna e nella vita di tutti
i giorni, la fermezza nelle proprie convinzioni e soprattutto
la disponibilità a venire in aiuto di chi ne avesse necessità,
anche a costo di rimetterci di propria tasca.
Silvano Ghidelli, oggi presidente del Gruppo Micologico di
Cantù, ci ha parlato delle peculiarità alpinistiche dell’amico.
“Giorgio aveva una struttura fisica e una forza che io raramente ho visto. Ma soprattutto lui sapeva leggere la montagna, vedeva la via giusta da percorrere e lo faceva”.
Rileggendo oggi la vita di Brianzi attraverso i documenti e
parlandone con chi l’ha conosciuto, si ha l’impressione di
una passione molto forte, di un progetto che si sviluppava e cresceva. Lo si immagina sognare la vetta successiva,
tracciare il percorso e pazientare fino al fine settimana per
poterlo compiere. Lo si immagina salire, con lo sguardo sicuro e la presa salda. Toccare la roccia, inserire i chiodi,
maneggiare la corda. Lo si immagina di tanto in tanto fermar-
si, guardare giù e ammirare il frutto della fatica, scambiando
con il compagno di cordata qualche commento sulla bellezza attorno, sulla fatica e sul presente, facendo brevi comparazioni con altre scalate. Lo si immagina, soprattutto, salire.
Nel 1969, 14 anni dopo l‘adesione al CAI, Brianzi ha ormai
un curriculum da scalatore di tutto rispetto. È in quest’anno che Angelo Pizzocolo e Gianluigi Sterna lo introducono
al prestigioso Club Alpino Accademico Italiano (CAAI). Al
CAAI, che promuove l’alpinismo di elevato livello di difficoltà, appartengono i più forti alpinisti italiani e vi si accede
esclusivamente su invito di altri soci. Come si può leggere
nell’annuario CAAI del 1963, “il “vero” alpinista accademico, che forma l’ossatura del Club e potenzialmente i suoi
quadri dirigenti, non è l’alpinista “estremo”, specialista della
roccia o del ghiaccio che vi è ammesso “per forza di cose”,
ma l’alpinista completo, che ha al suo attivo numerose salite
di grande difficoltà su ogni tipo di terreno, ha una solida
preparazione culturale ed è consapevole degli impegni che
assume verso il Club a cui chiede di appartenere”.
A questo punto Giorgio non era più un alpinista come tanti altri, il suo nome andava ad aggiungersi a quelli di coloro che,
dal 1904, anno di fondazione del CAAI, hanno scritto a livello
mondiale le pagine più belle nell'alpinismo: Riccardo Cassin, Walter Bonatti, Emilio Comici, Carlo Mauri e tanti altri.
Al di là delle numerose esperienze, l’importanza e la grandezza della figura di Giorgio Brianzi va esaminata in relazione al contesto. Comparare tout court Brianzi agli alpinisti
che hanno operato nel suo stesso periodo e vengono oggi
ricordati dalla storia dell’alpinismo sarebbe fuori luogo. Non
va infatti dimenticato che la maggior parte di questi alpinisti erano nati o vivevano in montagna, spesso erano guide
alpine e, anche se non si può parlare ancora di alpinismo
professionale, facevano qualcosa di molto vicino, dedicando
gran parte del loro tempo all’esercizio, alla promozione e alla
raccolta fondi per la loro attività. Brianzi, invece, era nato e
aveva sempre risieduto a Cantù, lavorava tutta la settimana
come trasportatore alla Romanatti Salumi di Tavernerio e viveva l’alpinismo non come professione bensì come passione. A differenza dei molti per i quali l’alpinismo era un’attività
esclusiva, lui aveva costruito una famiglia.
Jenny, sua moglie, vive oggi a Cermenate, e tra un tè e dei
pasticcini ci ha parlato di Giorgio e ci ha fatto rivivere la loro
storia. Nella loro casa c’è una foto di lei e Giorgio abbracciati. Si guardano e sorridono.
Jenny ha ricordi indelebili che la legano al marito, a partire
da quando lei, inglese nata a Preston e trasferitasi a Londra,
era venuta in Italia per fare la tata in casa di una signora milanese. Erano i primi anni ‘60 e questa signora, Kiki Marmori,
amava la montagna ed era amica e compagna di scalate di
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Giorgio. Una sera a casa di Kiki, lui, con una delle classiche
spacconate che si fanno tra amici per sconfiggere la paura, aveva scommesso che entro fine serata sarebbe riuscito
a baciare “la Jenny”. Non importava che per vincere avesse dovuto darle un bacio a sorpresa. Importava che, di lì a
poco, lui e “la Jenny” si erano fidanzati.
Dalle parole di Jenny, il fortissimo e coraggioso alpinista
acquista la dimensione intima di marito e padre. “Con noi
parlava poco della montagna. Diceva sempre che, per chi
l’amava, la montagna aveva un richiamo molto forte e lui doveva seguirlo perché era più forte di lui”. Anche oggi sembra
di vedere quest’uomo sempre in partenza, lo stesso che, di
ritorno da una scalata, giocava rincorrendo le tre figlie che
scappavano e ridevano a crepapelle, sotto lo sguardo dolce della moglie, lo stesso sguardo della foto. Quando Jenny
parla d’amore e usa l’oggetto “Lei”, i concetti e le priorità sembrano confondersi dietro a quel pronome femminile.
“Lei” poteva essere indistintamente la montagna, una salita,
Jenny, Antonella, Giulia o Annalisa. Lui le amava tutte.
Il Giorgio irrequieto, il Giorgio sognante, il Giorgio inaffidabile, il Giorgio libero, il Giorgio guascone, il Giorgio altruista, il
Giorgio affascinante sono le sfaccettature numerose ma non
esaustive di un uomo che aveva l’ambizione di vivere intensamente. “Diceva di aver vissuto una vita intensa, di essere
giovane ma di aver collezionato talmente tante esperienze
che nemmeno uno di 70 anni poteva vantarle”.
Jenny ci ha dato una chiave importante per leggere l’attività
alpinistica del marito. “Per lui non era importante la vetta in
Tramonto sui pinnacoli della Grignetta e della Grigna, familiari palestre di roccia di Giorgio.
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quanto tale o quanto ambita potesse essere. Per lui era importante l’atto di scalarla, soprattutto quando era una vetta difficile. In particolare, era importante farlo con un gruppo di amici,
perché per lui la montagna era un’esperienza da vivere con le
persone con cui era in sintonia”.
Jenny, che sin da bambina ha frequentato la prestigiosa Royal
Ballet School di Londra, ha creato negli anni ’70 una scuola di
ballo. “Quello che guadagni tu servirà per la famiglia, gli introiti del mio lavoro per le spedizioni” aveva detto l’incorreggibile
Giorgio alla moglie che già lo sostituiva nel lavoro andando a
prendere gli ordini a Milano quando lui era in qualche spedizione. “Questo era Giorgio e io non ho mai avuto alcun dubbio
perché l’ho amato tanto”. Non deve essere facile passare da
Londra a Cantù e vivere al fianco di un uomo unico e speciale,
ma Jenny l’ha fatto per amore e, quando lo racconta, il suo
sguardo è fermo e la voce non ha esitazioni. Ci ha parlato di
tanti argomenti con estrema serenità: le vicende avvenute sul
Monte Rosa, il funerale e la bella omelia in cui il prete ha incitato
a “vivere come ha fatto Giorgio”, la cremazione e la dispersione
delle ceneri sulle Alpi, sulle Ande, sull’Himalaya, sul K2.
Grazie a Jenny e agli altri intervistati abbiamo compreso che
con Giorgio Brianzi la famiglia, gli amici, il CAI e tutta Cantù
hanno vissuto un periodo unico. In questo articolo ci sono le
voci di Alberto Pillinini, Lino Mazzola, Silvano Ghidelli, Jenny
Rose ma ci sono tantissime altre persone che, nonostante siano
passati oltre 33 anni, si ricordano ancora bene di questa storia.
La tradizione orale è formata da tante piccole fiammelle che
danno un’immagine d’insieme che rischia però col tempo di
perdersi. Con questo intervento speriamo di ravvivare queste
fiammelle e di permettere a più persone di apprezzare una storia che, a nostro avviso, valeva la pena di essere raccontata: la
storia di Giorgio Brianzi, un uomo per la montagna.
Il tenero abbraccio di Giorgio alle tre figlie Antonella,
Giulia, Annalisa e con la moglie Jenny.
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