Una voce al centro della tradizione indiana

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Una voce al centro della tradizione indiana
N T E R V I S TA
AMELIA CUNI
Una voce al centro
della tradizione indiana
CLAUDIO CHIANURA
Ogni tanto passa ancora da Milano, Amelia Cuni, tra le ricercatrici vocali più interessanti del nostro tempo. Ma la sua casa è da molti anni a Berlino e in Italia torna soprattutto per
il suo insegnamento al Conservatorio di Vicenza, un’isola felice dove è possibile seguire i suoi corsi di canto tradizionale indiano. Di questo abbiamo parlato nell’intervista che segue e di come possa una cantante come lei innamorarsi della cultura indiana fino a diventarne un’interprete fra le più
apprezzate al mondo.
IS - Cominciamo dagli inizi?
Cuni - Sono una milanese che non ha origini milanesi, come
del resto molti da queste parti (l’intervista è stata realizzata
nella nostra redazione a Milano, N.d.R.). Ma quando incontro
dei milanesi in giro per il mondo sento di avere questa impronta. Il mio interesse iniziale per le musiche meno ortodosse lo devo a Marco Vecchi, lo conosci?
IS - Parli di Marco “Bill” Vecchi, che insieme a Walter Prati si
occupa di elettronica nell’Elektroacustic Ensemble di Evan Parker? Certamente!
Cuni - Ecco, era mio compagno di classe. Non lo vedo da molto tempo, ma lui è stato quello che mi ha aperto occhi e orecchie quando a sedici anni ho iniziato ad ascoltare i dischi della Cramps, piuttosto che la musica dei Soft Machine, generi
musicali molto ricercati. Così ebbi modo di conoscere anche
John Cage, Demetrio Stratos…
Fin dalle mie prime esperienze di bambina, quando mi dedicavo allo studio della musica, ho sempre trovato frustrante la
lettura. Trovavo incomprensibile che si dovesse studiare la
musica passando dalla lettura e non dall’ascolto. Così non sono mai riuscita ad approfondire nessuno strumento, per quanto ne abbia iniziati diversi. Mi è sempre piaciuto cantare invece, insieme a mia madre che conosceva molte canzoni francesi. Ma l’unica possibilità di studiare la voce era rappresentata
dal canto lirico. E quella non era proprio la mia strada. Finalmente negli anni Settanta conobbi la musica indiana, attraverso i dischi di Ravi Shankar e altri. L’ascolto di quelle sonorità particolari mi affascinò subito. Quando incontrai i primi
musicisti che giravano in Europa insegnando quella musica
iniziai a prendere lezioni e finalmente non dovevo leggere lo
spartito ma ascoltare! Mi piaceva il suono continuo del bordone, il drone… Si potevano fare degli esercizi che non erano
meccanici come nei nostri studi classici. Insomma, quella musica corrispondeva di più alle mie esigenze che ancora non sapevo spiegare ma intuivo. Seguii dei corsi tenuti da musicisti
indiani e finalmente venni invitata in India a fare studi più ap-
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In queste pagine, Amelia Cuni fotografata da Akinbode Akinbiyi (sopra)
e da Kai Bienert (pagina a fianco).
A pagina 18 Amelia Cuni insieme a Werner Durand (foto: Sophie Schasiepen).
profonditi, anche ritmici, sulla musica indiana. Verso i vent’anni andai in India e restai lì per cinque anni. Quindi affrontai altri cinque anni di studio, trascorrendo alternativamente
sei mesi in India e sei mesi in Germania. I miei primi studi musicali li ho fatti a Nuova Delhi, per poi trasferirmi a Calcutta,
dove c’era una scuola di specializzazione per cantanti molto
importante. E nonostante si studiassero anche sviluppi più
moderni, io mi appassionai al drhupad, che è la forma più arcaica della musica tradizionale indiana, il fondamento della
tradizione musicale di tutta l’India del nord, una tradizione
tramandata di padre in figlio e che dura fin dal 1400.
IS - Per tutto questo tempo hai fatto base in India...
Cuni - Sì, e non tornavo più a Milano perché i miei nel frattempo si erano trasferiti a Udine. È solo quando ho conosciuto
Werner Durand che ho ripreso grazie a lui il filo delle esperienze più legate al contemporaneo.
IS - Com’è stato il tuo riavvicinamento con la vocalità occidentale una volta tornata in Europa?
Cuni - Innanzitutto occorre immaginare quanto l’orecchio può
cambiare dopo dieci anni di studio e pratica di un sistema musicale basato sul modo e non sull’armonia. Avevo sviluppato
una sensibilità rispetto agli intervalli anziché agli accordi. La
vocalità si basa sulla melodia, ma la melodia sviluppata in ambito armonico suona molto limitata per me, perché non può liberarsi quanto potrebbe. Questo è un elemento negativo che
mi è subito apparso evidente. Poi c’è l’aspetto dell’emissione.
Se pensiamo che l’emissione della voce indiana si basa sul parlato, si intuisce quanta differenza ci sia con l’emissione della
voce nell’opera lirica.
Penso che questo processo di decondizionamento mi abbia dato la possibilità, pur chiudendo certe porte della musica classica europea (come l’opera che io non riesco proprio a godere), di aprirne altre che vanno dalla sperimentazione alle musiche tradizionali di tutto il mondo. E, sempre attraverso la
collaborazione con Werner, sono arrivata a conoscere tantissime espressioni vocali che in India non avevo ancora avuto occasione di incontrare.
Tornata a Berlino nel 1992 ho cominciato ad assorbire come
un’assetata, come una spugna, tutto quello che non avevo conosciuto durante la mia permanenza in India.
IS - Quindi non il canto lirico, ma cosa invece hai riconquistato
al tuo ritorno?
Cuni - Ho potuto comprendere molto più a fondo le motivazioni di ricercatori come Demetrio Stratos, che avevo conosciuto
prima di partire per l’India. Ero diventata molto più ricettiva.
Considera che per un anno avevo cantato solo un suono, la tonica, e solo una vocale, la A…
Solo dopo anni ci si rende conto dell’effetto e dell’importanza
di questo tipo di lavoro.
IS - Bisogna crederci molto…
Cuni - Ma io non sono partita dall’idea di crederci. Mi ha coinvolta l’esperienza quotidiana di quel che io sperimentavo e
sentivo crescere in me durante lo studio, durante le lezioni
con i miei maestri.
IS - Parlavi di intervalli nel canto, ma sappiamo che anche il ritmo è molto importante nella musica indiana e lo è diventato
parecchio anche in tutta la musica di oggi. Quasi tutta la musica moderna è fondamentalmente ritmica… Come coesistono
questi due elementi nella tua musica?
Cuni - Nel genere dhrupad, nella formazione è molto utile
l’alap, cioè la sezione di apertura nella performance del raga e
che gradualmente evoca questa atmosfera introducendo tutti
gli intervalli e i passaggi tipici dell’esecuzione. L’alap è strutturata in modo sistematico iniziando da una parte più lenta,
dove si fanno dei vocalizzi senza una pulsazione percepibile;
quindi è la volta di una sezione di alap mediana con una pulsazione lenta che diventa sempre più veloce nella terza fase.
Questi passaggi non sono graduali ma ben distinti.
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IS - Com’è stato accolto, in Italia e all’estero, il fatto che tu,
da italiana, ti sia avvicinata così profondamente al canto
dhrupad?
Cuni - In India, dove la gente è abituata ad assistere ai concerti di dhrupad, sono sempre stata ben accolta. Magari vista
come una mosca bianca che viene da lontano per studiare la
loro tradizione tanto antica… I problemi sono arrivati soprattutto in Europa, dove non c’è sufficiente conoscenza di
quella tradizione e si genera come una sorta di diffidenza.
Purtroppo non posso fare nulla al riguardo. Molti mi hanno
suggerito di prendermi un nome indiano. In fondo indossando il sari (l’abito femminile della tradizione indiana, N.d.R.)
sarei comunque apparsa credibile… Ma non sono mai riuscita a fare questo passo. Ho scelto di lavorare così come sono,
un’Italiana che vive a Berlino, sposata con un musicista tedesco, e che canta il dhrupad indiano.
Negli Stati Uniti nessuno si è mai stupito di tutto questo.
Quando una volta intervistai Terry Riley, ponendogli proprio
la questione dell’identità culturale, lui che aveva studiato a
lungo canto indiano, mi rispose: “Identità culturale? Quale
identità culturale?”.
Così entra in gioco l’aspetto ritmico, ma solo come pulsazione. Il concetto di pulsazione viene direttamente dai cicli naturali e non puoi modificarlo rallentando o accelerando. È invece poi nel tala che viene introdotto il ciclo ritmico, insieme
al testo su cui il cantante può improvvisare.
Così vengono introdotti i diversi ingredienti musicali: all’inizio
c’è il bordone di tonica, la melodia gradualmente si apre, entra una pulsazione che la melodia segue e tutto viene come
cristalizzato nel tala che ha sue regole piuttosto ferree.
Tutti gli elementi hanno qui un proprio ruolo. Questa forma
tradizionale che qualcuno può trovare ripetitiva, è emersa nei
secoli come la più adatta a liberare il performer da qualsiasi tipo di restrizione dandogli la possibilità di interpretare il raga
al meglio. Si tratta di una tecnica, un metodo per lasciare anche che il raga esprima se stesso. Anche questo è importante:
il tentativo di preservare la tradizione limitando il gusto personale dell’interprete.
IS - Questa forma legata alla tradizione alla fine riesce a preservare elementi che fanno parte della più pura modernità, come
per esempio l’improvvisazione all’interno di uno schema.
Cuni - Se ci pensi è quasi incredibile che dalla tradizione indiana io stessa sia arrivata a interpretare John Cage!
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IS - Quali sono i paesi nei quali ti capita di esibirti più spesso?
Cuni - Senz’altro in Italia. E non solo perché sono italiana.
Intanto gli italiani sono fra quelli che hanno studiato la musica indiana più seriamente. Io non sono sola. Ci sono Federico Sanesi che vive a Milano, Gianni Ricchizzi, pugliese che
vive in Umbria, tutte persone che hanno studiato in modo
molto approfondito. Secondo molti maestri indiani c’è una
qualche affinità tra indiani e italiani, ed è forse per questo che
il nostro corso presso il Conservatorio di Vicenza può funzionare con docenti italiani. In Italia ci sono una curiosità, una
capacità di identificarsi con culture diverse che in altri paesi
europei, come la Germania, io non trovo. Inoltre ho cominciato da tempo a cantare usando versi in italiano e in latino, e
questo è un elemento importante per chi ascolta.
IS - Come hai fatto questa scelta che può apparire piuttosto
stravagante?
Cuni - Se tu fossi indiano non lo troveresti affatto strano. Infatti il mio anziano maestro apprezzò molto che cantassi utilizzando i versi di Jacopone da Todi. Questo perché in India
convivono molte lingue diverse. L’impressione di chi ascolta
nasce dalla sua stessa esperienza.
A volte utilizzo solo delle sillabe, ma quando impiego parole
con un loro senso tutto il mio lavoro di composizione sta nel
cercare di sostenere e magnificare il contenuto di queste parole a livello emotivo. Voler trascurare i testi significa non voler considerare questa parte del mio lavoro. Non posso accettarlo. Per me utilizzare testi in italiano vuol dire anche esprimere interamente la mia identità, perché mettere in musica la
mia lingua di appartenenza porta a un processo di integrazione della mia personalità che trovo indispensabile.
IS - Puoi indicarci alcuni dei dischi che hai pubblicato, in modo da offrire qualche consiglio a chi voglia procurarseli?
Cuni - Innanzitutto due dischi di dhrupad tradizionale usciti per un’etichetta di musica classica indiana: una è una registrazione dal vivo effettuata a Bombay, l’altra è stata effettuata in studio a Londra insieme a percussionisti indiani.
Poi altri due dischi usciti in Italia, Danza d’amore, etichetta
tedesca new age, la mia prima possibilità di poter invitare
anche Federico Sanesi alle percussioni e l’inglese Francis
Silkstone che aveva studiato sia musica indiana che barocca
e aveva esperienza in entrambi i campi potendomi così aiutare ad arrangiare i brani che avevo composto su raga originali e versi di mistici italiani e latini per una strumentazione
mista, tra musica barocca e indiana. Poi c’è Ashtayama, uscito su etichetta Amiata, ispirato a vocalist come Joan La Barbara e Meredith Monk e realizzato in collaborazione con Werner Durand che mi ha incoraggiata a registrare e concepire
un lavoro basato solo sulla voce, utilizzando tracce preregistrate della mia stessa voce e vari effetti di delay. A questo
lavoro è abbinata una performance multimediale che abbiamo portato in giro per l’Europa ma anche a San Francisco e
a Rio de Janeiro.
IS - Hai già accennato al corso che tieni presso il Conservatorio
di Vicenza. Di cosa si tratta esattamente?
Cuni - Circa una decina d’anni fa è iniziato il Corso di tradizione extraeuropea a indirizzo indiano e per volontà del maestro
Anselmi, che era uno studioso di musica indiana, si è riusciti
a realizzare una cosa unica in Europa coniugando lo studio
della materia pratica all’approfondimento teorico sulla storia
dell’India, sul sanscrito riferito alla trattatistica musicale. Così, chi segue un corso di canto indiano o di tabla sa contestualizzare e comunicare a chi ascolta i significati culturali di questa tradizione. Per me si tratta di una sfida fondamentale, perché significa, come spesso nell’insegnamento, continuare a
scoprire nuovi aspetti del proprio lavoro. Gli allievi vengono
spesso da esperienze molto disparate. Alcuni provengono dal
canto barocco, altri dal canto jazz o lirico… E attraverso questo corso hanno l’occasione, per quanto in solo tre o cinque
anni, questa l’articolazione del corso, di approfondire una materia che altrimenti potrebbero affrontare solo restando in India per un lungo periodo di tempo.
Discografia essenziale
MONSOON POINT (New Earth Rec., 1996)
(in collaborazione con Al Gromer Khan)
DANZA D´AMORE (New Earth Rec.,1998)
MORNING MEDITATION (Navras Rec.
London/Mumbai, 2000)
ASHTAYAMA (Amiata Records, 2000)
in collaborazione con Werner Durand
DRUMMING BREATH (NO-CD, 2000)
in collaborazione con Durand/Falk
APSARAS (Projekt U.S.A.,2001)
in collaborazione con Alio Die
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