Lezione 1

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Lezione 1
Lezione 1 – 14 ottobre 2010
Sincronia e diacronia nello studio della lingua
Tutti i fenomeni, e quindi anche quelli linguistici, possono essere studiati secondo due diverse
prospettive: quella sincronica e quella diacronica.
Secondo la prospettiva sincronica, tutti gli aspetti di tale fenomeno che si verificano
contemporaneamente in un determinato arco di tempo, vengono considerati come un sistema
linguistico, regolato da precise leggi di funzionamento (a livello morfologico, sintattico e lessicale).
Faremo riferimento alla latinità dei secoli I a.C. – II d.C., la cosiddetta età classica, in cui hanno
operato scrittori come Cicerone, Cesare, Livio, Orazio, Virgilio, Seneca, Tacito, Petronio, che la
nostra tradizione culturale ha considerato particolarmente significativi.
Secondo la prospettiva diacronica, invece, i fenomeni linguistici sono studiati nella loro
evoluzione, con la finalità di individuare precise leggi di mutamento. Una lingua viva, infatti, non
è un sistema stabile, anche se in alcuni casi è comodo considerarla tale: l’uso dei parlanti le impone,
come vedremo, variazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali, tali da renderla più adatta
alle loro esigenze comunicative in continuo mutamento (prendiamo ad esempio la necessità di
trovare un nome a invenzioni moderne: la parola “missile”, ad esempio, deriva dall’aggettivo
sostantivato missile, che designava l’arma da lancio, cioè il “giavellotto”: una bella differenza!).
Tale prospettiva, utilizzata dagli studiosi di linguistica storica, ci offre un quadro piuttosto ampio e
interessante:
•
L’italiano è considerato una derivazione del latino, come esito di un processo evolutivo
continuo.
•
Accanto all’italiano sono poste a confronto, secondo la metodologia della linguistica
comparata, altre lingue moderne derivate dal latino (come il francese e lo spagnolo) e sono
considerate le differenze di mutamento avvenute a partire dalla stessa lingua madre.
•
Accanto al latino sono poste a confronto quelle lingue ad esso contemporanee (come il greco
antico, il sanscrito, il germanico) in cui si riscontrano affinità che possono sottendere
un’origine comune.
•
Dall’analisi comparata di tali lingue, si è risaliti, per via esclusivamente congetturale, a un
idioma comune, da cui tutte sarebbero derivate: gli studiosi lo hanno chiamato
indoeuropeo. I parlanti indoeuropeo sarebbero stati insediati, a partire dal IV-III millennio
a.C., in un’area localizzabile nell’Europa centro-orientale; da quest’area, con migrazioni
successive, avrebbero raggiunto le loro sedi storiche dell’antichità, dalle quali avrebbero
preso le mosse per un’ulteriore espansione linguistica, che continua ancor oggi.
•
Considerate secondo questa prospettiva, quindi, tali lingue vengono a far parte di una sorta
di grande famiglia, derivata gerarchicamente, secondo ramificazioni successive, da un unico
progenitore comune.
Diamo ora un esempio indicativo (anche se incompleto) della “generazione” linguistica, osservando
la derivazione dalla radice indoeuropea di una parola di uso primario: “madre”:
Indoeuropeo
*mater
Greco
Latino
Sanscrito
Meter
Mater
Matar
Greco moderno
Italiano
Francese
Spagnolo
Meter
Madre
Mère
Madre
Antico Germanico
Muotar
Inglese
Tedesco
Mother
Mutter
La vicenda storica del latino
La colonizzazione linguistica dell’impero romano
L’Italia venne colonizzata da popoli parlanti indoeuropeo in modo molto graduale, in un arco di
tempo che va dal 3000 al 1000 a.C. Attorno all’VIII sec. a.C., quando il processo di
indoeuropeizzazione era quasi concluso, in Italia era insediato un mosaico di popoli, di cui la
maggior parte erano di lingua indoeuropea mentre altri parlavano lingue mediterranee.
Uno di questi popoli era quello dei Latini, insediati nel Lazio, che fondarono (nel 753 a.C. secondo
la tradizione) la città di Roma.
Roma attuò un graduale processo di espansione: nella prima metà del terzo secolo a.C. (272 a.C.,
conquista di Taranto) erano entrate nella sua sfera di influenza politica e linguistica le popolazioni
della penisola italica, con le quali si sviluppò una fitta rete di scambi economici e culturali;
segnaliamo in particolare i rapporti con le colonie greche (un’altra stirpe indoeuropea che, a partire
dall’VIII sec. a.C. aveva dato vita, attraverso un imponente processo di colonizzazione, a importanti
insediamenti urbani sulle coste dell’Italia Meridionale e della Sicilia), che saranno particolarmente
fecondi per lo sviluppo della civiltà romana.
Successivamente Roma ampliò ulteriormente le proprie conquiste: segnaliamo in particolare la
conquista dei regni ellenistici (Grecia e Macedonia, Siria ed Egitto, durante il II e I sec. a.C.), in
conseguenza della quale la civiltà romana venne a diretto contatto con il ricchissimo patrimonio
culturale della grecità, che essa acquisì e rielaborò in modo originale. Il rapporto con la tradizione
greca è testimoniato anche dalla lingua: il lessico latino colto è pieno di parole greche,
particolarmente relative agli ambiti della filosofia, della retorica e della scienza.
All’inizio del II sec. d.C., periodo della sua massima estensione (morte di Adriano, 117 d.C.),
l’immenso impero conquistato da Roma comprendeva l’Europa centro-occidentale (fino al confine
segnato dal Reno e dal Danubio), la penisola Balcanica, il Vicino Oriente (fino al confine segnato
dal Tigri e dall’Eufrate), e l’Africa Settentrionale.
La dominazione politica era accompagnata da una colonizzazione linguistica, in quanto i Romani
diffusero, attraverso la fondazione di città, teatri, tribunali e scuole, il proprio modo di vivere e la
propria lingua nelle terre conquistate, formando élites profondamente romanizzate.
L’area dell’impero che sperimentò la latinizzazione in maniera più profonda e irreversibile fu
l’Europa occidentale (le regioni della Gallia, l’attuale Francia, e dell’Ispania, l’attuale Spagna), con
l’aggiunta della Pannonia (l’attuale Romania). Nell’area orientale, invece, che aveva sperimentato,
attraverso i regni ellenistici, la profonda influenza della cultura e della lingua greca, e nella quale il
greco restò tuttavia la lingua ufficiale, l’influenza del latino fu solo marginale. Nel 286 d.C.,
l’imperatore Diocleziano, quando divise i domini di Roma in Impero d’Oriente e d’Occidente, sancì
una divisione definitiva anche dal punto di vista linguistico: il latino fu usato da allora solo nell’area
occidentale dell’Impero.
Dopo il crollo dell’Impero di Occidente: lo sviluppo dei volgari, la permanenza del latino
come lingua della cultura
La rottura dell’unità politica dell’Impero romano rappresentata dalla deposizione dell’ultimo
imperatore di Occidente (476 d.C.) ebbe come conseguenza anche una frammentazione
linguistica: le varietà regionali che già erano presenti durante l’apogeo dell’impero, si
svilupparono ulteriormente, al punto che i parlanti delle diverse regioni arrivarono a non
comprendersi più vicendevolmente: si stavano diversificando le lingue romanze.
Il latino non fu però abbandonato, per diversi motivi:
•
La Chiesa latina lo aveva adottato per la liturgia, che fu celebrata in latino fino al Concilio
Vaticano II (1965);
•
Il diritto romano (e quindi i suoi codici, e i suoi testi teorici, che erano in latino) fu il
riferimento fondamentale della cultura giuridica europea;
•
Fino al XII sec. il latino fu l’unica lingua scritta insegnata nelle scuole; gli autori latini erano
considerati il modello principe di stile letterario.
•
Durante la stagione culturale dell’Umanesimo e del Rinascimento (secc. XIV-XVI), la
cultura greco-latina divenne un modello, non solo di stile, ma anche di umanità e di civiltà;
in questo periodo si costituì il cosiddetto “canone del gusto”: gli autori privilegiati furono
quelli che operarono nel cosiddetto “periodo classico” (I sec. a.C.-I sec. d.C.): è per questo
motivo che tuttora l’insegnamento scolastico del latino è centrato su questo arco
cronologico.
•
Fino al sec. XV possediamo una ricchissima produzione letteraria in latino; fino al sec. XVII
furono scritti in latino i trattati giuridici, scientifici e filosofici.
Dal latino all’italiano: mutamenti morfosintattici
La comparsa dell’articolo
Osserviamo un breve testo latino, l’inizio di una favola di Fedro (I sec. d.C.) con la traduzione in
italiano a fronte:
Ad rivum eundem
lupus et agnus venerant siti compulsi;
superior stabat lupus, longeque inferior agnus.
Tunc fauce improba latro incitatus
iurgii causam intulit.
Allo stesso ruscello
un lupo e un agnello erano venuti, spinti dalla
sete;
il lupo stava sopra, l’agnello un bel po’ sotto.
Allora il ladrone, mosso dalla vergognosa
ingordigia,
introdusse un motivo di lite.
Quasi sempre possiamo stabilire una corrispondenza biunivoca tra le parole latine e quelle italiane;
notiamo però che l’articolo, quasi sempre apposto ai nomi italiani, è assente nel latino.
L’introduzione dell’articolo rappresentò un’innovazione importantissima, in grado di garantire una
migliore coesione testuale:
•
L’articolo indeterminativo contrassegna la prima menzione di un concetto,
precedentemente ignoto nel testo: ecco perché è apposto a “lupo” e “agnello” la prima volta
che compaiono nel testo. Contrassegna inoltre concetti che non è importante definire con
esattezza: ecco perché è apposto a “motivo” (al lupo bastava un motivo qualunque per poter
discutere con l’agnello, e poter poi mangiarselo, cosa che puntualmente avvenne).
•
L’articolo determinativo contrassegna gli elementi già noti nel testo: ecco perché è apposto
alla seconda menzione di “lupo” e “agnello”, e inoltre a “ladrone”, sostituente lessicale di
“lupo”. Contrassegna inoltre i concetti che sono già specificati da altri indicatori (stesso
ruscello), oppure che sono generalmente noti (ad esempio, l’ingordigia, una caratteristica
distintiva del lupo).
Il testo latino da questo punto di vista è molto meno chiaro.
L’evoluzione linguistica sviluppò gli articoli premettendo sistematicamente ai nomi due forme già
presenti nel latino:
•
l’aggettivo numerale unus, una, unum, che significa originariamente “uno solo”, per
l’articolo indeterminativo;
•
l’aggettivo dimostrativo ille, illa, illum, che significa originariamente “quello”, per l’articolo
determinativo.
La scomparsa dei casi
Osserviamo le seguenti frasi latine, confrontandole con la traduzione a fronte:
1. Sine virtute amicitiă non est.
2. Odium venenum amicitiae est.
3. Simulatio amicitiae repugnat
maxime.
boni
amicitiam
4. Homines
omnibus
rebus
humanis
anteponunt.
Amicitiă,
magna delectatio
5.
homini es.
6. Segestani cum populo Romano
amicitiā coniuncti sunt.
7. Plurimae delectationes sunt in
amicitiā.
8. Laelius de amicitiā loquetur.
L’amicizia senza virtù non esiste.
soggetto
L’odio è il veleno dell’amicizia.
specificazione
La finzione è sommamente contraria
termine
all’amicizia.
Gli uomini valenti antepongono l’amicizia a
oggetto
tutte le cose umane.
O amicizia, sei una grande gioia per l’uomo.
vocazione
Gli abitanti di Segesta sono uniti col popolo
causa
romano grazie all’amicizia.
Ci sono innumerevoli gioie nell’amicizia.
stato in luogo
Lelio parlerà dell’amicizia.
argomento
In tutte compare una parola, amicitia “amicizia”, che assume in ciascuna, come precisato nella
colonna di destra, una funzione sintattica diversa. Osserviamo che il latino e l’italiano hanno modi
diversi per esprimere tale funzione:
•
L’italiano marca il soggetto e il complemento oggetto con una specifica posizione nella
frase (il soggetto è quasi sempre all’inizio, il complemento oggetto segue quasi sempre il
verbo che lo regge); isola in un inciso il complemento di vocazione, che può essere
introdotto da un’esclamazione; ricorre alle preposizioni per marcare gli altri complementi.
•
Il latino distingue invece le fondamentali funzioni sintattiche mediante la fine della parola (o
desinenza). Le forme nominali variano infatti secondo una flessione che si articola in sei
casi, che esprimono ciascuno una determinata funzione sintattica. Nelle prime sei frasi dello
schema compaiono i sei casi nelle forme della prima declinazione.
Essi sono:
NOMINATIVO Esprime la funzione del soggetto, dei suoi attributi e apposizioni, del
complemento predicativo del soggetto
Esprime prevalentemente la funzione del complemento del nome, in
GENITIVO
primo luogo di specificazione
Esprime prevalentemente la funzione del complemento di termine
DATIVO
ACCUSATIVO Esprime la funzione del complemento oggetto, dei suoi attributi e
apposizioni, del complemento predicativo dell’oggetto
Esprime la funzione del complemento di vocazione
VOCATIVO
Esprime la funzione di molti complementi indiretti, tra cui causa, modo,
ABLATIVO
mezzo.
Nelle ultime due frasi dello schema osserviamo che alcune funzioni sintattiche vengono
espresse anche in latino mediante sintagmi introdotti da preposizione (rispettivamente in e
de); nel corso dell’evoluzione linguistica questa soluzione è sembrata più conveniente, e
pertanto è stata generalizzata.
In latino i nomi vengono flessi, o declinati secondo cinque declinazioni, cioè cinque diversi modi
di articolare i casi. Alcuni tratti distintivi marcano la declinazione dei pronomi.
Attenzione:
•
In italiano conserviamo dei relitti del sistema flessivo, nelle forme del pronome personale.
Osserviamo le variazioni del pronome di terza persona singolare maschile:
Egli si avvicina.
Maria lo ha visto.
Maria gli ha dato un bacio.
Maria è andata al cinema con lui.
Soggetto
Oggetto
Termine
Complemento indiretto espresso da un sintagma con
preposizione
Alla variazione di funzione corrisponde una variazione di forma, proprio come nella
declinazione.
Esercizio
Nelle seguenti frasi italiane, individua il caso latino a cui corrispondono i sintagmi sottolineati.
1. I fratelli di Laura sono ragazzi molto simpatici. 2. Questo quaderno appartiene a Pietro. 3.
Mangiamo una pizza questa sera? 4. Volete forse andare in Paradiso in carrozza? 5. Per la mia
disattenzione ho dovuto ricopiare i compiti. 5. A chi avete regalato un libro di poesie?
Il sistema verbale
Mettiamo a confronto il sistema verbale latino e quello italiano, completo nei suoi modi e tempi:
LATINO
ITALIANO
MODI FINITI
Indicativo
Sistema
del
presente
Presente
Imperfetto
Futuro semplice
Sistema
del
perfetto
Perfetto
Presente
Imperfetto
Futuro semplice
Passato prossimo
Passato remoto
Trapassato remoto
Trapassato prossimo
Futuro anteriore
Piuccheperfetto
Futuro anteriore
Congiuntivo
Sistema
del
presente
Sistema
del
perfetto
Presente
Presente
Imperfetto
Imperfetto
Perfetto
Passato
Piuccheperfetto
Trapassato
Condizionale
non c’è
Presente
Passato
Imperativo (solo attivo)
Sistema
del
presente
Presente
Futuro
Presente
non c’è
FORME NOMINALI
Infinito
Sistema
del
presente
Sistema
del
perfetto
Presente
Presente
Futuro
Perfetto
non c’è
Passato
Gerundio
Sistema
del
presente
Presente (solo attivo)
non c’è
Presente
Passato
Participio
Sistema
del
presente
Presente (solo attivo)
Futuro (solo attivo)
Gerundivo (aggettivo verbale
passivo con valore di necessità)
Presente
(solo attivo, usato molto di rado)
non c’è
non c’è
Perfetto (solo passivo)
Passato
(attivo o passivo a seconda del contesto
morfosintattico)
Supino
Attivo
Passivo
non c’è
Da questo sguardo complessivo possiamo trarre le seguenti considerazioni, che mettono in rilievo
l’evoluzione sul piano diacronico:
1. In latino non compare la corrispondenza simmetrica tra tempi semplici e tempi composti che
caratterizza il sistema verbale italiano: è invece operativa la contrapposizione tra sistema del
presente (o meglio dell’infectum) e del perfetto, di cui parleremo molto.
2. In italiano non sono sopravvissuti alcuni modi e tempi verbali: l' infinito futuro, il supino, il
participio futuro, il gerundivo, l’imperativo futuro (peraltro quasi scomparso anche in
latino); il participio presente viene ancora tradizionalmente elencato nel sistema verbale
italiano, ma il suo uso non è più vitale, essendo limitato a casi sporadici.
3. Il gerundio, che compare in entrambe le lingue, ha però in ciascuna una funzione sintattica
differente: in latino completa la declinazione dell’infinito presente, in italiano forma le
subordinate implicite temporali, causali, modali, strumentali, concessive.
4. L’italiano ha elaborato un modo verbale che in latino non compare, o meglio, la cui funzione è
svolta dal congiuntivo: il condizionale.
Parte II
UN RECUPERO DELLE NOZIONI DI BASE DELLA GRAMMATICA (MORFOLOGIA E
SINTASSI) DELL’ITALIANO
A. Le parti del discorso
Parti variabili
Verbo
Nome
Aggettivo
Articolo
Pronome
Parti invariabili
Preposizione
Congiunzione
Avverbio
(Interiezione)
****Esercizio 1
Individua le parti del discorso nelle seguenti frasi:
1.Ieri sono andata al cinema con mia cugina. 2. Il mio libro preferito da bambina era Alice nel paese
delle meraviglie. 3. Mi piacerebbe sapere cosa le hai detto, perché è molto arrabbiata con te. 4. Sono
sempre più convinta che della sua interpretazione dei fatti.
****Esercizio 2
Nelle seguenti frasi, sottolinea una volta i pronomi, due volte gli aggettivi, poi individua la
categoria cui appartengono.
1. Quello è il suo cane. 2. Ho letto questo libro; quello che mi hai consigliato non mi è
piaciuto. 3. Ho saputo qualche notizia di Luca. 4. Vorrei sapere quale giornale leggi. 5. Mi
presti la bicicletta? La mia è sgonfia. 6. Verrà a prendermi qualcuno dei miei. 7. Questa
storia deve finire al più presto.
****Esercizio 3
Sottolinea una volta le preposizioni e due volte gli avverbi.
1. Il libro è sopra al tavolo. 2. Ogni mattina si alza un po’ prima, ma arriva sempre tardi. 3. Prima
del tramonto il cielo era stupendo. 4. Gli Ateniesi combatterono contro i Persiani. 5. Il risultato del
test di questa classe è sopra la media. 6. Se fossi arrivato dopo, non avrei mai incontrato Lucia.
B. Il verbo
Il verbo è caratterizzato da quattro elementi:
- il modo
- il tempo
- la diatesi
- la persona
Il modo: esso indica (come dice il nome) la modalità dell’azione indicata dal verbo. In particolare
distinguiamo, fra i modi finiti, una sfera dell’oggettività, che è la caratteristica dell’indicativo, e
una sfera della soggettività, che è la caratteristica del congiuntivo, del condizionale e
dell’imperativo.
Dunque l’indicativo registra semplicemente un’azione.
Il congiuntivo indica la volontà, la possibilità, il desiderio, il punto di vista.
Il condizionale indica qualcosa che avverrebbe o sarebbe avvenuta se ci creassero o si fossero create
determinate condizioni (da cui il nome); può inoltre esprimere il desiderio.
L’imperativo indica il comando.
Il tempo: introduciamo l’importante concetto di valore assoluto e valore relativo dei tempi
verbali.
In particolare nell’indicativo i quattro tempi semplici hanno valore assoluto e indicano se un’azione
si svolge nel passato, nel presente o nel futuro. I tempi che indicano l’azione nel passato però sono
due, in quanto uno (l’imperfetto, che vuol dire “non compiuto”) indica un’azione non conclusa nel
passato, mentre l’altro (il passato remoto, o meglio perfetto, che vuol dire “compiuto”) indica
un’azione compiuta e terminata. Questa distinzione fra imperfetto e perfetto si dice aspetto del
verbo.
I quattro tempi composti hanno invece valore relativo, e indicano che una cosa è avvenuta prima,
dell’azione indicata dal tempo semplice corrispondente (indicano cioè anteriorità): il passato
prossimo ciò che viene prima del presente; il trapassato prossimo ciò che vien prima
dell’imperfetto, il trapassato remoto ciò che viene prima del passato remoto, il futuro anteriore ciò
che viene prima del futuro.
Importante corollario: nella prassi linguistica, il passato remoto è decaduto, ed è stato sostituito dal
passato prossimo (che indica anch’esso un’azione compiuta). Pertanto la distinzione prossimo (cioè
vicino) / remoto (cioè lontano) ha perso valore, e il passato prossimo indica anche azioni molto
lontane nel tempo.
La diatesi: esistono una diatesi attiva, una passiva e una riflessiva: ci torneremo sopra. Per il
momento però, per riconoscere meccanicamente la diatesi di un verbo, possiamo dire che:
- se il verbo è semplice o l’ausiliare è avere, il verbo è attivo (amo, ho amato)
- se il verbo ha ausiliare essere a tre elementi, è certamente passivo (sono stato amato)
- solo se l’ausiliare è essere e gli elementi sono due dobbiamo ragionare. Un modo logico è
pensare se il soggetto fa o subisce l’azione (es.: sono andato: il soggetto fa l’azione di
andare: si tratta dunque di una forma attiva, quindi di un tempo composto, quindi di un
passato prossimo; sono amato: il soggetto subisce l’azione di essere amato: si tratta dunque
di un passivo, quindi, essendo a due elementi, di un tempo semplice, quindi di un presente).
Un modo meccanico è sostituire l’ausiliare: sono andato: ho andato non esiste, quindi è un
attivo; sono amato: ho amato esiste, quindi si tratta di un passivo.