La guerra globale e la pace come politica. Atti del seminario di

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La guerra globale e la pace come politica. Atti del seminario di
ATTI DEL SEMINARIO
LA GUERRA GLOBALE E LA PACE COME POLITICA
Roma, 11 marzo 2016
Sala Capranichetta – Hotel Nazionale
Piazza Montecitorio, 131
Organizzazione
On. Carlo Galli
On. Erasmo Palazzotto
Prof. Massimo D’Antoni
Gruppo parlamentare Sinistra Italiana-SEL
Interventi di
Arturo Scotto
Carlo Galli
Erasmo Palazzotto
Lucio Caracciolo
Alberto Negri
Massimo D’Alema
Alberto Tonini
Elettra Deiana
Ignazio Masulli
Gaetano Azzariti
Massimo D’Antoni
Salvatore Cingari
Onofrio Romano
Antonio Rinaldis
Roberto Valle
Piergiorgio Gawronski
Marco Marzano
Conclusioni di
Carlo Galli
(*) L’asterisco, che contrassegna alcuni interventi, individua il testo trascritto dalla
registrazione, non riveduto dall’Autore.
I SESSIONE - MATTINA
APERTURA DEI LAVORI
ARTURO SCOTTO*
Il seminario di questa giornata si colloca all’interno di un percorso di riflessione teorico-politica che il
gruppo parlamentare di Sinistra Italiana ha avviato già da qualche mese. Voglio ringraziare il Professor Carlo
Galli per il lavoro che sta facendo, per il tentativo arduo ma estremamente importante di riunificare politica e
competenza, che è il senso anche dell’operazione che abbiamo lanciato qualche settimana fa a «Cosmopolitica».
Uno sforzo necessario per la ricostruzione di una forza autonoma, popolare, di governo, della sinistra nel nostro
Paese.
Oggi discuteremo di temi attualissimi: partiremo dalla Libia; incroceremo le grandi questioni che
attraversano il Medio Oriente; parleremo del terrorismo e della guerra che torna a spirare in Europa. E pensiamo
che sia giusto farlo insieme agli interlocutori di grande spessore intellettuale che sono seduti qui al tavolo e che
rapidamente presento: Alberto Negri, giornalista di «Il Sole 24 Ore», attento analista del Medio Oriente; Lucio
Caracciolo, direttore di «Limes»; Massimo D’Alema; Carlo Galli; ed Erasmo Palazzotto, vicepresidente della
Commissione Affari esteri e comunitari. Interverranno poi, nella sessione pomeridiana, Massimo D’Antoni,
Gaetano Azzariti e tanti altri ospiti.
Voglio, infine, ringraziare i parlamentari di Sinistra Italiana che sono qui − Nicola Fratoianni, Alfredo
D’Attorre −, come pure Fabio Mussi e Gianni Cuperlo, insieme a tutti i presenti e a coloro che arriveranno nel
corso della giornata.
Io darei subito la parola all’onorevole professor Carlo Galli per l’introduzione.
Grazie a tutti.
INTRODUZIONE
CARLO GALLI
Grazie a tutti voi di essere qui. Grazie ad Arturo Scotto e a tutti coloro che hanno reso possibile
l’organizzazione e lo svolgimento di questo seminario. Io ora mi limiterò a porre alcuni temi intorno ai quali
questo seminario dovrebbe ruotare. Poi, eventualmente, potrò riprendere la parola in un altro momento del
seminario.
I temi mi paiono i seguenti. Noi siamo in questo momento – e per «noi» intendo non solo il nostro Paese
(in prima linea per motivi storici e geografici), ma in realtà anche l’Europa intera – davanti a una sfida e a una
emergenza che sono brucianti e incombenti, ma che non sono ovvie da decifrare. L’emergenza è la crisi libica. Il
fatto che sia non ovvia da decifrare deriva dalla circostanza che questa crisi è un momento di un più generale
«arco di crisi» che interessa il Medio Oriente, il Vicino Oriente, oltre che il Nord Africa. È un «arco di crisi»
dentro il quale convivono molti tipi di guerre: guerre in cui gli attori principali sono gli Stati; guerre civili; guerre
fra bande; guerre religiose; guerre condotte con armi di tipo tradizionale; guerre condotte con armi nuovissime,
come i cosiddetti droni; guerre condotte con armi di tipo nuovo − cioè le popolazioni, adoperate come testa
d’ariete contro l’Europa −.
Abbiamo quindi una situazione estremamente difficile e complessa per quanto riguarda i rapporti fra
interno ed esterno, che − nella tradizione della politica occidentale − regolavano il rapporto fra pace e guerra. Noi
oggi non siamo più capaci di tenere la guerra fuori dai confini degli Stati. Questa guerra − che geograficamente ha
i suoi epicentri fuori dai nostri confini − in realtà ci entra in casa attraverso molti vettori: uno − quello più evidente
− sono le migrazioni coatte; un altro è il terrorismo − distinto da queste prime −; un altro ancora è la disgregazione
della compagine europea − peraltro non particolarmente robusta − sotto la spinta delle migrazioni coatte, che
riporta alla luce le antiche e mai sopite pulsioni sovrane di parecchi Stati, di una sovranità che, oltretutto, si colora
di nazional-populismo. Non solo non siamo capaci di tenere la guerra fuori dai confini, ma la guerra, anche solo
come minaccia, trasforma inesorabilmente la nostra percezione della politica, sempre più segnata dal tema
dell’emergenza. Le nostre democrazie si preparano a diventare «democrazie emergenziali». Dunque, ci sono
ricadute delle guerre all’interno delle nostre compagini costituzionali, delle quali ci parleranno gli insigni
costituzionalisti che hanno avuto la cortesia di accettare il nostro invito.
Vi è poi, ovviamente, uno sfondo economico – tutto da decifrare – dell’«arco di crisi» di cui si parlava sopra. Di
questo ci parleranno docenti e studiosi di economia, per l’appunto. Vi è poi una dimensione storica della quale
tratteranno studiosi di storia delle relazioni internazionali. Dunque, un seminario che è pluridisciplinare, che ha un
oggettivo interesse scientifico, ma che ha un bruciante interesse politico. Un primo interesse politico è tentare di
costruire non voglio dire una contro-narrazione ma almeno un sistema interpretativo un po’ più articolato rispetto
a quello che, molto spesso, la politica e i mezzi di comunicazione ci offrono. Più articolato e quindi in grado di
preparare una politica più saggia davanti a una crisi che non deve in alcun modo essere sottovalutata.
INTERVENTI PROGRAMMATI
ERASMO PALAZZOTTO
Questo seminario nasce con lo scopo di provare a rappresentare la complessità dello scenario globale, per
restituire una fotografia un po’ più approfondita e dettagliata di ciò che accade intorno a noi, nel Mediterraneo e
nel Medio Oriente in particolare.
Oggi ci troviamo davanti a una situazione di caos che è diventata la dinamica principale del governo
globale. Un caos che è stato spesso alimentato, perché dentro il caos alcune scelte politiche diventano più facili.
Abbiamo vissuto vent’anni di spirale guerra-terrorismo, in una dinamica in cui la guerra è stata la benzina nel
motore del terrorismo. Dopo vent’anni di guerra al terrorismo il mondo non è, in nessun modo, un luogo più
sicuro. Ci troviamo oggi davanti all’emergere di nuove minacce terroristiche, sicuramente più pericolose e
drammatiche di quelle che abbiamo conosciuto fino ad ora, quali ad esempio Daesh.
Oggi questo caos si articola anche attorno a un conflitto secolare − quello tra sciiti e sunniti − che divide,
in qualche modo, anche il mondo occidentale. In Siria, ad esempio, in quello che sembra un conflitto locale si
gioca una partita che evidentemente è globale. In Libia gli stati europei sono tutti schierati sul campo, ognuno
pronto a giocare la propria partita.
Fare luce in questo quadro è uno degli obiettivi di questo seminario, nel quale proveremo a mettere sul
tavolo i temi che, dal punto di vista geopolitico, vanno oggi affrontati prioritariamente. In particolare vorremmo
porre il tema della questione turca, cioè del ruolo che oggi la Turchia gioca nello scacchiere mediorientale, così
come la questione curda alla prima collegata. Per un paradosso della storia, il popolo che venne tagliato fuori dagli
accordi di Sykes-Picot e che più di tutti nel secolo scorso (e anche quello in corso) è stato emarginato e represso,
oggi mette in campo – nel luogo meno ospitale della terra – una via d’uscita democratica rispetto a un nuovo
ordine in Medio Oriente, conducendo una battaglia che si fonda principalmente sui valori di democrazia, laicità e
libertà. E questo è un altro punto nodale: la questione curda come chiave di risoluzione del conflitto, ma – allo
stesso tempo – come problema rispetto al modello che è stato disegnato sulla questione siriana e su quella
mediorientale.
E infine c’è la Libia, la nostra «vicina di casa», una vicenda che pone anche il tema della questione
mediterranea. La rappresentazione che in questi giorni abbiamo avuto del conflitto libico più che semplificata è
quasi macchiettistica: l’idea che ci sia un governo di Tobruk e uno di Tripoli che si contendono il cadavere della
Libia è molto più che riduttiva.
In Libia oggi si gioca una partita che, prima ancora che interna, è una partita esterna e che riguarda
interessi che dal 2011 ad oggi hanno visto agire direttamente sul campo la Francia e la Gran Bretagna.
È un conflitto che si gioca tutto anche dentro l’Europa: l’intervista che Obama ha rilasciato nei giorni
scorsi ci dice molto su quale sia lo scenario libico oggi e su quali siano i veri interessi in ballo.
In questo contesto migrazioni e terrorismo sono frutto della dinamica del caos, figli di questo modello di
sviluppo. E oggi serve trovare delle chiavi interpretative che ci consentano di capire al meglio questi fenomeni,
evitando semplificazioni.
Buona parte dei flussi migratori (soprattutto quelli che interessano il nostro paese) provengono dall’Africa
subsahariana, un’area caratterizzata da dinamiche che non sono vere e proprie guerre, ma da micro-conflitti,
spesso violentissimi, alimentati anche da problematiche legate ai cambiamenti climatici che rendono la vita in
quella parte del pianeta insostenibile.
Noi dobbiamo essere in grado da una parte di dare una chiave interpretativa di questi fenomeni e dall’altra
provare – e questo sarà l’obiettivo della seconda parte della discussione – a immettere elementi di soluzione
sostenuti da chiare visioni politiche. Come ad esempio proporre per l’Italia una «neutralità attiva» e non un
interventismo scellerato, che riproduce gli errori del passato. Possiamo giocare un ruolo in Libia, non attraverso un
intervento militare, ma mettendo insieme le diverse componenti della società libica e proponendo loro un patto che
non dovrà essere solo tra Tobruk e Tripoli, poiché – come ha dimostrato la drammatica vicenda della morte dei
nostri due connazionali – la situazione è molto più complessa di quanto sembri.
Quindi credo che l’Italia debba avere uno sguardo lucido su un mondo che è sull’orlo del caos, per provare
a dare soluzioni complesse e non semplicistiche, quale sarebbe invece un intervento militare.
LUCIO CARACCIOLO*
Vorrei semplicemente illustrarvi una mia breve idea su quello su cui siamo stati sollecitati, in particolare
nelle due introduzioni, a partire dalla celebre frase di Papa Francesco sulla «Terza guerra mondiale a pezzi», dove
secondo me il punto rilevante non è la «Terza guerra mondiale», ma sono «i pezzi». Nel senso che – grazie a Dio –
non siamo ancora alla Terza guerra mondiale, ma quello che vediamo di fronte a noi è una frammentazione
geopolitica, una disintegrazione istituzionale, che tocca molto specificamente l’intorno italiano ed europeo. Se noi
ci affacciamo sul Canale di Sicilia o, in qualche misura, anche sull’Adriatico di questa disintegrazione abbiamo
una immediata percezione.
In questo contesto, però, si perde forse di vista un elemento centrale, che è la questione della crisi degli
Stati-rendita, cioè degli Stati che hanno posto in equilibrio i propri bilanci pubblici sulla base di un prezzo del
petrolio che appartiene ormai al passato e che difficilmente potrà essere recuperato nel futuro visibile. E, tra questi
Stati-rendita in crisi, quello che più è in crisi e più potrà darci dei problemi – io credo – nel prossimo futuro è
l’Arabia Saudita. Certo, anche la Russia – tanto per citare una grande potenza – è toccata da questa crisi, ma c’è
una differenza fondamentale: la Russia è abituata, quando ci sono le crisi, a scalare verso il trittico
pane−patate−vodka; l’Arabia Saudita è abituata a un trend di vita da diabetico e quindi non è decisamente
attrezzata ad affrontare la crisi che sta vivendo, una crisi che ormai è visibile anche a livello politico, dato che il
regno – che formalmente è guidato da un re, che però non è in grado di articolare discorso – è di fatto nelle mani
di un giovane ministro della Difesa trentenne piuttosto avventurista e non tanto aduso di mondo, che però è al
comando di quella che fino a ieri era la potenza decisiva del Golfo Persico, e che appunto si sta avvitando in una
crisi che sta portando con sé l’intera regione, sullo sfondo della storica rivalità con l’Iran. Una rivalità
multidimensionale, che ha un profilo etnico – arabi contro persiani –, un profilo politico – autocrazia assolutistica
saudita e una forma piuttosto complessa di intreccio fra teocrazia e democrazia, fra autoritarismo e aperture, che è
la Repubblica iraniana –, e naturalmente, sullo sfondo, la rivalità di tipo confessionale tra l’islam sunnita e l’islam
sciita.
I riflessi della crisi del Golfo arabo noi li vediamo molto visibilmente, come italiani, anche nel Nord
Africa. E qui vorrei dire due parole sulla questione libica. Ho letto, con sollievo, che il nostro governo ha deciso di
non «sbarcare in Normandia» – il che già mi pare una sorta di presa d’atto della realtà –. Perché noi facciamo
grandi discorsi su invasioni militari, su movimenti di truppe, mancando però dello strumento militare: i famosi
«5.000 uomini» credo che esistessero solo nella mente del ministro Pinotti o di qualche militare che avesse in
qualche modo avuto un momento di esaltazione. Lo strumento militare italiano è quello che è, e quindi già su
questa base fare grandi discorsi militaristici è piuttosto avventuroso e comunque irrealistico. Ma quello che è
interessante è che molto spesso lo strumento militare non è visto al servizio di una strategia politica, quanto come
strumento surrogatorio della politica: «Non sappiamo che fare, mandiamo un po’ di soldati». Abbiamo già visto
gli esisti di questo tipo di operazioni, magari legittimate con la guerra al terrorismo, anche da parte di potenze ben
più rilevanti della nostra – penso agli Stati Uniti, ma anche ai nostri partner europei, come la Francia e la Gran
Bretagna, che non si rassegnano al fatto che l’èra coloniale e anche quella postcoloniale è finita da un pezzo, e
continuano a ragionare secondo schemi che potevano avere un qualche senso forse un secolo fa –. Ma, certamente,
per noi italiani un ragionamento su come si possa utilizzare, eventualmente, come extrema ratio, lo strumento
militare al servizio di una strategia politica, credo che sia prioritario. Quindi, occorre sapere cosa si vuole fare.
È chiaro che, di fronte a un fenomeno colossale come quello della disintegrazione degli Stati e della perdita
di rilevanza della politica intorno a noi – e in qualche misura purtroppo anche dentro di noi –, dobbiamo essere
consapevoli della nostra relativa impotenza: non abbiamo soluzioni magiche, non possiamo ricostruire noi degli
Stati che si stanno disintegrando. In particolare, per quanto riguarda la Libia, il grado di frammentazione, di
disintegrazione, è tale per cui – tanto per fare un esempio – in una città come Misurata, che ha circa
quattrocentomila abitanti, una tradizione mercantile piuttosto sviluppata e una relativa apertura al mondo, esistono
circa duecento milizie – il che vi dà un’idea della contendibilità delle risorse e degli spazi politici in un Paese
come quello –. Credo che quello che noi possiamo fare, come massimo contributo in un contesto del genere, è di
costruire con delle realtà locali – Misurata è un buon esempio – dei processi di pacificazione su base locale poi da
incardinare, approfondire e possibilmente allargare. Gli esercizi diplomatici basati sulla creazione di un governo di
unità nazionale in assenza di una nazione lasciano il tempo che trovano. Possono servire a legittimare la
diplomazia o a qualche diplomatico – come l’ex inviato dell’ONU – per fare un po’ di quattrini a spese del Golfo
arabo; ma dal punto di vista della soluzione politica del problema sono a zero. Dobbiamo, quindi, ripartire dalla
realtà, e non da una Libia che non esiste più. E la realtà attuale vede, in particolare, una Cirenaica dove la presenza
già di forze speciali occidentali – in particolare francesi – è piuttosto accentuata, e dove soprattutto sono
abbastanza corposi gli interessi di un Paese con il quale abbiamo intrecciato negli ultimi tempi un dialogo
economico ed energetico molto strutturato – penso all’Egitto –, e che d’altra parte è in preda anch’esso a una
profonda crisi interna, dovuta al fatto che i suoi finanziatori arabi del Golfo cominciano a non avere più i soldi per
tenerlo in piedi. Cosa che provoca anche un inasprimento del regime interno del Generale al-Sisi, il quale ha
deciso che tutti coloro che sono contro di lui – a cominciare dai Fratelli Musulmani – sono più o meno dei
terroristi. E, purtroppo, come italiani ne sappiamo qualcosa (e sotto questo profilo mi permetto di rimarcare il fatto
che non possiamo continuare ad accettare il fatto che il caso Regeni sia trattato come è trattato dal governo del
Cairo).
In questo contesto, è chiaro che i nostri interessi maggiori sono concentrati in Tripolitania per ragioni
storico-energetiche abbastanza profonde e strutturate – quando parlo di interessi energetici, ovviamente, mi
riferisco all’Eni –, e mi auguro anche che l’attenzione del nostro governo e delle nostre istituzioni sia concentrata
su questa parte di Libia, dove abbiamo dei legami, intrecciati anche dalla nostra intelligence, abbastanza strutturati
e profondi. Ed è qui qualcosa da cui ripartire.
C’è però un’altra missione in procinto di essere battezzata, di cui si parla forse troppo poco, ma che ha un
rilievo strategico forse superiore persino a quelle di cui si parlava prima per quanto riguarda la Libia, e che è la
missione prevista per la diga di Mossul. La diga di Mossul è una delle più grandi dighe del Medio Oriente – si
chiamava «diga di Saddam», ai tempi –, e ha una funzione strategica non tanto sotto il profilo positivo – la
produzione di energia idroelettrica – quanto sotto le sue potenzialità negative, nel senso che se dovesse crollare,
come alcuni ingegneri ormai rilevano da molto tempo, questa diga provocherebbe un disastro ambientale e umano
di dimensioni colossali. La stessa Baghdad, almeno in parte, verrebbe sommersa dalle acque. È quindi evidente
che si tratta di una priorità strategica fondamentale la messa in sicurezza di questa diga, che ha però il difetto di
trovarsi a circa tredici chilometri in linea d’aria dalla linea del fronte dello Stato Islamico. Noi stiamo per mandare
quattrocentottantotto soldati alla diga di Mossul a protezione dei lavori della ditta Trevi, che è stata incaricata di
rinsaldare questa diga pericolante. Ed è evidente che mandare quattrocentottantotto uomini a ridosso dello Stato
Islamico dovrebbe quantomeno suscitare un interesse, una discussione pubblica, un pochino più accentuata di
quella che io in questo momento riesco a percepire. È vero che quella è una zona di peshmerga, e che i peshmerga
ci hanno già informato che i nostri soldati saranno circondati da tre anelli di peshmerga – non si capisce bene in
quale funzione (loro asseriscono in funzione di protezione delle nostre truppe nei confronti dello Stato Islamico, e
vogliamo prenderli in parola) –. Comunque sia, mi pare un dato interessante che l’Italia assuma una responsabilità,
che va molto al di là anche di quelle che sono le nostre risorse e i nostri interessi in Iraq, di dimensioni strategiche
fondamentali. E speriamo che possa anche, in qualche misura, monetizzare politicamente questo impiego della
forza proprio nel senso in cui accennavo prima, cioè della necessità di collegare quel poco che è possibile fare sul
piano militare per un Paese che non è una potenza militare con dei ritorni di carattere politico-economico – cosa
che purtroppo nelle missioni internazionali italiane degli ultimi anni raramente, per non dire quasi mai, è accaduto
–.
Infine, una nota sul terrorismo, o meglio sullo Stato Islamico. A mio avviso lo Stato Islamico è stato, ed è
tuttora, largamente sopravvalutato, nel senso che è stato presentato come una minaccia decisiva – addirittura
qualche tempo fa si è preso sul serio un portavoce del califfo che annunciava lo sbarco a Roma e altre amenità del
genere –. In realtà, da un punto di vista militare, se le potenze che formalmente fanno parte della coalizione dei
Sessantacinque decidessero di eliminare militarmente lo Stato Islamico, lo potrebbero fare in qualche settimana.
Non lo fanno, io credo, perché alla fine questa entità – che un analista francese ha definito, in maniera piuttosto
pertinente, «un mostro provvidenziale» – serve contemporaneamente una quantità di interessi fra loro anche
contrapposti, ma tutti convergenti nella necessità di non far decadere questa sorta di demone che appunto può
servire a interessi politici ed economici molto diversi.
Quello che veramente è pericoloso dello Stato Islamico non è il suo radicamento in uno spazio, che peraltro
si sta riducendo, a cavallo della frontiera siro-irachena – in quella terra che una volta si chiamava Mesopotamia –,
ma è l’ideologia apocalittica che professa, e che incrocia un sentimento di – chiamiamolo – disagio, per usare un
termine neutro, molto diffuso anche in Occidente, anche in Europa – per fortuna un po’ meno in Italia –, che
poggia su una idea appunto apocalittica del mondo. E cioè il fatto che siamo vicini al giorno del giudizio, e quindi
è bene farsi trovare nel momento decisivo dalla parte giusta, dalla parte del Bene, e quindi – leggiamo nella
propaganda dello Stato Islamico, ma lo vediamo pure in molte affiliazioni che questa organizzazione è riuscita a
determinare anche nelle città europee – conviene andare a combattere per il califfo, o comunque se non è possibile
raggiungere il teatro siro-iracheno bisogna segnalare la propria affiliazione a quell’organizzazione compiendo
attentati nelle metropoli europee. È quello che abbiamo visto accadere recentemente a Parigi ed è quello che noi
temiamo possa ancora accadere in altre città europee, speriamo non anche italiane. Questa retorica dell’apocalissi
è stata, fra l’altro, evocata recentemente dal Papa come un fenomeno particolarmente disturbante e pericoloso,
accoppiandola – ed è interessante che lo faccia un Papa – anche con l’apocalittica protestante dei Teocon. Cioè
secondo il Pontefice – che ha una sua visione evidentemente particolare – esiste una ideologia apocalittica che si
sta diffondendo e sta facendo proseliti specialmente in alcune parti della nostra gioventù meno orientata, che
legittima lo strumento militare e la violenza, anche la più atroce, come quella commessa da alcuni gruppi
terroristici, in funzione della necessità di prepararsi al giorno del giudizio.
Ecco, ritornando con i piedi per terra e con il necessario spirito laico, penso che in una fase di
disintegrazione istituzionale quale è quella che stiamo vivendo, almeno respingere le sirene dell’apocalissi sarebbe
già un notevole passo avanti.
ALBERTO NEGRI*
Ho ascoltato attentamente tutto quello che avete detto, e prima il professor Galli accennava al fatto che c’è
un «arco della crisi». Un «arco della crisi» che è un arco geografico – lo avete davanti agli occhi –, e che non è
un’espressione nuova, perché fu coniata ai tempi dell’America di Carter e di Brzezinski per indicare quella crisi
che partiva dal cuore dell’Asia centrale e si dipanava lungo tutto l’arco del Medio Oriente. Eravamo nel 1978, e
l’anno dopo sarebbe stato l’anno fatale di questa crisi. Perché c’è un «arco della crisi» geografico – che oggi
coinvolge anche il Nord Africa e buona parte del Sahel, oltre che il Medio Oriente e l’Asia centrale –, ma c’è
anche un «arco della crisi» del tempo. Un arco del tempo della crisi che non è cominciato oggi. Quello che mi ha
sempre stupito in questi anni era la fortissima miopia degli europei di fronte a quello che accadeva intorno, come
se fosse così difficile immaginare che, prima o poi, la guerra poteva entrare in casa nostra. Nel 1979 l’Iran vide la
grande rivoluzione che fece fuori lo shah, cioè uno dei pilastri del sistema americano nel Golfo. Pochi mesi dopo
l’Unione Sovietica invadeva l’Afghanistan. L’anno seguente – il 1980 – fu il primo anno in cui andai in Iran nella
mia vita. Riuscii a scampare per poco tempo la guerra Iran-Iraq, perché ci furono il colpo di Stato del Generale
Evren del 12 settembre 1980 – che cambiò la prospettiva turca per tanti anni fino all’ascesa del partito islamico
AKP di Erdogan – e poco dopo, il 22 settembre, l’attacco iracheno all’Iran.
Questo arco geografico della crisi è un arco del tempo che si è mantenuto con tutte le sue problematiche.
Oggi noi raccogliamo quello che in qualche modo si produsse allora. E cosa si produsse? Si produsse quella che
era una teoria elaborata proprio da Brzezinski, ma a cui partecipò anche uno studioso eccellente come Lewis, che
era quella di assediare l’Unione Sovietica partendo dalle Repubbliche islamiche, la famosa green belt (la cintura
verde), che avrebbe dovuto in qualche modo costituire la spina nel fianco dell’Unione Sovietica. E fu in gran
parte così. Fu attuato uno schema abbastanza evidente, che abbiamo conosciuto tutti: gli Stati Uniti diedero il via
libera ai finanziamenti dell’Arabia Saudita per i mujaheddin; i mujaheddin venivano ospitati in Pakistan – a
Peshàwar c’erano diciassette, diciotto, organizzazioni diverse, più o meno quanto ce ne sono oggi in Siria –; e
cominciò quella guerra che portò alla sconfitta dell’Armata Rossa, al suo ritiro e poi, successivamente, a quello
che tutti sapete – il crollo del Muro e via discorrendo –. Una volta, visitando uno dei campi del servizio segreto
pachistano, un Colonnello mi mostrò con grande orgoglio un pezzo di Muro di Berlino che gli era stato recapitato
dagli americani con un biglietto: «Lei ha contribuito al crollo di questo Muro».
Perché vi ho ricordato questo schema, che molti di voi – ovviamente – conosceranno benissimo? Perché si
è ripetuto nel 2011 con la Siria, quando sono stati introdotti alle conferenze internazionali dei personaggi che
venivano presentati come oppositori di Bashar al-Assad, che erano sì oppositori di Bashar al-Assad ma non
avevano nessun tipo di presa sul territorio siriano. Dietro di loro, però, c’erano quelli che dovevano veramente
combattere contro Bashar al-Assad. E anche lì ci fu il via libera dato alla Turchia, che ha rivestito in questi anni un
po’ il ruolo che ha rivestito il Pakistan a quell’epoca – Pakistan che poi si è rivelato molto importante anche per i
successivi eventi che hanno portato all’11 settembre, dove, guarda caso, sono morti due esponenti dell’islamismo
radicale, Bin Laden e il mullah Omar –. La Turchia ha rivestito un po’ questo ruolo: da Antiochia dovevano
partire per la jihad coloro che dovevano combattere il regime di Bashar al-Assad. Questa operazione fu approvata
dalla signora Clinton, dai francesi – tanto è vero che ci hanno provato anche loro, quando hanno visto che andava
male, a bombardare Bashar al-Assad –, dagli inglesi e, in pratica, da tutti i Paesi europei – il nostro si accodò con
operazioni di supporto –. Ma l’idea era proprio questa: «Buttiamo giù in pochi mesi il signor Bashar al-Assad». E
avete visto bene come è andata a finire. Perché quando non si conoscono le cose, quando non si ha la conoscenza
del terreno, delle culture, dei sistemi politici, si ricorre a operazioni militari che cercano di risolvere i problemi e
invece ne creano altri.
In poche parole, l’Afghanistan fu una guerra per procura contro l’Unione Sovietica, finanziata dai soliti
noti che sapete bene – dalle monarchie del Golfo –; e la Siria è stata una guerra per procura contro l’Iran e il
mondo sciita. Solo che non c’è stato soltanto il conflitto tra sciiti e sunniti. Si è innestato, in questi anni, un
conflitto lacerante anche dentro il mondo sunnita, che è quello che poi ha portato alla situazione in Libia. Perché,
se da una parte c’era la Turchia che – insieme alle monarchie del Golfo – sosteneva il jihadismo contro Bashar alAssad, dall’altra c’era anche la divisione che provocava l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto. Anche lì un
altro errore di calcolo di Ankara che ha pensato di allearsi con Morsi, che poi è stato buttato giù da al-Sisi, e
questo ha segnato un’altra linea di frattura, tra la Turchia, l’Egitto e anche l’Arabia Saudita. E questa linea di
frattura si è poi riprodotta anche in Libia. Una linea di frattura che fa sì che, da una parte, abbiamo questi due
pseudo−governi («pseudo» perché hanno poca presa sul territorio, questo è il problema) a Tobruk e a Tripoli (a
Tripoli ci stanno quelli amici della Turchia e del Qatar, come pure a Misurata), dall’altra parte ci sono quelli che
sono molto amici dell’Egitto e in parte sostenuti dai sauditi, ma soprattutto dagli Emirati.
E dentro ci sono poi le potenze occidentali che giocano la loro partita solita sugli interessi economici e
strategici che ruotano intorno alla Libia. Molto spesso coloro che dovevano portare la pace in Libia, invece, hanno
portato divisione e seminato grandine; dopodiché si raccoglie tempesta. Questi sono i famosi «pompieri
incendiari»: le monarchie del Golfo, l’Arabia Saudita, la Francia stessa. E questo è lo schema che noi abbiamo
davanti oggi.
Qual è il ruolo dell’Italia in questo schema? Da una parte ci sono coloro che non avevano capito che tipo di
situazione potesse prodursi. Quindi, c’è stato certamente anche da parte dell’Italia un errore di calcolo. Per
esempio riguardo alla guerra della Siria, che è stata un errore di calcolo occidentale spaventoso, perché – in
qualche modo – la Siria ha rappresentato per Mosca la rivincita dell’Afghanistan dopo trentasei anni. Il ritorno
della Russia in Siria è la rivincita di quella storia in cui l’Armata Rossa aveva perso contro i mujaheddin. E adesso
si è presa questa rivincita. Questo ha sbalestrato tutti i conti, li ha fatti saltare tutti. E anche noi non siamo stati
pronti a giudicare con freddezza quello che sarebbe potuto accadere in Siria, e quello che forse accadrà domani.
In Libia la sapete tutti la storia: abbiamo subito alzato le braccia di fronte all’intervento francese. Non si è
opposto nessuno; neppure coloro che, come i nostri alleati americani, avrebbero potuto farlo. Oggi Obama fa il
mea culpa, però allora non solo appoggiò i francesi, ma sparò sulla Libia – vi garantisco – nugoli di missili Cruise.
L’esercito libico, che fu inopinatamente schierato con quella teoria di carri armati, fu tutto fatto fuori dai missili
Cruise americani, come tutte le truppe di Gheddafi in tutta l’area della Cirenaica: erano allo scoperto e
diventarono una specie di poligono di tiro dove facilmente furono ammazzati a centinaia, se non a migliaia.
Quindi, oggi il mea culpa dovrebbe farlo, però anche forse per la Siria – non solo per la Libia –. E che cosa deve
fare questo Obama? Perché fa questa intervista oggi? Lo abbiamo capito molto bene, no? Ci sono pressioni del
Pentagono per fare degli interventi con bombardamenti mirati, che molto probabilmente non risolveranno le
situazioni ma forse le aggraveranno, come è accaduto in tutti questi anni. I bombardamenti hanno solo
destrutturato questi Paesi, aiutandone la disgregazione, e in più senza avere dei piani politici accettabili per
rimetterli insieme. L’Iraq è stato un caso clamoroso da questo punto di vista, perché sono casi di scuola, ipotesi
fatte probabilmente in centri studi, al Dipartimento di Stato, al Pentagono, che poi – quando arrivano sul campo –
si scontrano con delle realtà completamente diverse.
Quindi, dal Settantanove al 2011 e arrivando al 2016 si pone lo stesso problema: che cosa facciamo per
evitare gli errori del passato? Quasi niente. Perché quasi niente? Perché, in realtà, si ricorre – come diceva
qualcuno prima – allo schema più facile: l’intervento, l’operazione miliare, che nascondono, in realtà, un enorme
vuoto politico e di conoscenza.
MASSIMO D’ALEMA*
Grazie per questo invito a discutere di questioni molto complesse, tra le quali ne sceglierò alcune perché,
evidentemente, non è possibile in questa sede addentrarsi in una riflessione sull’insieme degli elementi, sui diversi
nodi, sui conflitti, che tra di loro sono interconnessi. Per fare un’anticipazione abbastanza banale, è difficile
ragionare oggi della Libia e del pericolo rappresentato dalla presenza di Daesh in Libia se non si parte dal fatto
che essa, in parte notevole, deriva dagli effetti della controffensiva russa in Siria. Parliamo di un «arco della crisi»
in cui le connessioni sono molto profonde, e io cercherò di dire qualcosa su questo da due punti di vista: uno è che
cosa può fare l’Europa, perché questa mi pare la dimensione minima del ragionamento, anche perché ritengo che
gli americani (è di oggi l’ammissione di Obama della sconfitta in Libia) tendano non voglio dire a un progressivo
disimpegno, ma certamente il Medio Oriente non è più al top della loro agenda. Hanno fatto troppi errori, godono
di una scarsa credibilità, e ne sono consapevoli. Sanno che si tratta di una situazione molto complicata, che
comporta un impiego enorme di risorse umane ed economiche, e tendono a pensare che se ne debba occupare
l’Europa. Hanno altre priorità. Io – partecipando quest’anno all’assemblea della Fondazione Clinton – sono
rimasto colpito perché in nessuna sessione plenaria si è parlato né dell’Europa, né del Medio Oriente. Solo
dell’Asia – al novanta per cento –, e un po’ dell’Africa nera e delle sue potenzialità di sviluppo, ma non
dell’Africa islamizzata, dell’Africa arabizzata. E tutto il tema della conferenza era incentrato sul rapporto di
dialogo/competizione con la Cina, e basta. L’assemblea della Fondazione Clinton è un osservatorio molto
interessante per capire che cosa si muove nella testa della leadership americana.
Io ritengo che in futuro l’Europa dovrà assumersi, in maniera crescente, delle responsabilità. E quindi il
primo tema è questo: come contribuire a ricreare un assetto sostenibile del Medio Oriente, ponendo rimedio ad una
opera di destabilizzazione alla quale l’Europa ha largamente contribuito, anche magari senza avere un’idea chiara
di che cosa potesse venire dopo. E, pertanto, sullo sfondo il grandissimo tema è quale strategia abbiamo – non solo
di politica estera, ma sul piano politico-culturale e del dialogo interreligioso – per cercare di creare le condizioni
per convivere con l’islam, posto che il rischio di un conflitto apocalittico fra l’islam e l’Occidente è oggi la
principale minaccia alla pace mondiale. Questo ci pone problemi enormi di cui non ci occupiamo per nulla.
Uno piccolo punto di partenza, ma che è secondo me essenziale, è per esempio come noi viviamo con
quaranta milioni di musulmani che risiedono nell’Unione europea, che rappresentano di gran lunga la seconda
comunità religiosa dell’Unione e che, certamente, potrebbero rappresentare nel mondo islamico una componente
moderna, riformatrice, più influenzata dai valori europei, e che invece – paradossalmente –, almeno a gruppi, si va
radicalizzando, divenendo un problema più che una risorsa. Queste mi sembrano le due grandi questioni.
Ma parto dai nodi della crisi. Noi dobbiamo cercare di contribuire a un processo di stabilizzazione. Direi
che tutto quello che è accaduto negli ultimi anni – almeno a partire dalla guerra in Iraq ad oggi – in Medio Oriente
dimostra il fallimento di due prospettive, di due approcci, che spesso sono stati complementari nella visione
occidentale. Uno è stato quello di puntare sulle dittature per mantenere l’ordine e garantire l’approvvigionamento
ordinato delle materie prime che ci servono e che vengono da questi Paesi – e devo dire che tuttora c’è un grande
rimpianto –. Parliamo chiaro, gran parte del dibattito pubblico è caratterizzato da affermazioni quali: «Se avessimo
dato una mano a tentare di mantenere in Libia Gheddafi... Se avessimo capito che doveva rimanere Bashar alAssad…». Insomma, si manifesta il rimpianto per le dittature, dando voce ex post – dopo il grande entusiasmo
iniziale – all’idea che queste primavere arabe sono state una iattura, perché sono state un puro elemento di
destabilizzazione. Questo è uno degli aspetti dell’approccio occidentale ed europeo alla questione mediorientale.
L’altro aspetto – quello che ha caratterizzato molto la visione ideologica neocon – è l’idea che si potesse
esportare in quei Paesi il modello della democrazia occidentale, saltando a piè pari tre secoli di storia,
dimenticando che in Europa la democrazia è nata dopo duecento anni di guerre di religione, durante le quali sono
avvenute cose non meno barbariche di quelle che fa l’Isis oggi. Anzi, per molti aspetti direi, l’islam ha una
tradizione di tolleranza rispetto a noi assai più pronunciata: non c’è stato nulla di simile all’Inquisizione nella
storia dell’islam, ad esempio. Inoltre, se ritorniamo per un attimo alla storia di Gerusalemme, quando arrivarono i
cristiani uccisero tutti gli abitanti, di tutte le età, musulmani ed ebrei, dai bambini agli anziani; quando invece
arrivò Solimano «il Magnifico» la prima misura che prese fu di proteggere i luoghi sacri di tutte le religioni, di
riammettere in città gli ebrei – che i cristiani avevano cacciato via –, e di fare un editto che garantisse la libertà di
culto ai fedeli delle tre grandi religioni monoteiste. Una differenza di civiltà.
Quindi, noi siamo arrivati alla democrazia, ma prima c’è stato un Trattato sulla tolleranza. La religione
contiene in sé due aspetti: la predicazione dell’amore, ma anche una volontà di potenza. Noi siamo riusciti a
disinnescare in parte il «lato oscuro» della religione attraverso una cultura che ha dato un fondamento alla laicità
dello Stato: la democrazia europea è il frutto di questa storia. L’idea di imporre il modello di democrazia così
come si è sviluppato in Occidente in Paesi multietnici e multireligiosi prescinde dal fatto che il principio
fondamentale della democrazia non è che governi la maggioranza, ma è il rispetto delle minoranze. Altrimenti non
c’è la democrazia, c’è la guerra civile. E, infatti, c’è stata la guerra civile. L’effetto è stato la guerra civile, non la
democrazia. Quindi, questi due approcci, cioè difendere le dittature e pensare di esportare – magari con la guerra –
il modello occidentale di democrazia non hanno funzionato. Le dittature non sono una garanzia di stabilità. Ad
esempio, qualcuno in Italia ha salutato il colpo di Stato militare in Egitto come una cosa bellissima: ci siamo
abbracciati, li abbiamo accolti a braccia aperte, li abbiamo fatti i nostri migliori amici nel Medio Oriente… Adesso
bisognerebbe che qualcuno andasse a spiegarlo alla famiglia di Giulio Regeni che quelli sono i nostri migliori
amici nel Medio Oriente. La dittatura militare non è una soluzione. Certo, i Fratelli Musulmani avevano fatto un
sacco di pasticci, però avevano vinto le elezioni, e il fatto di mettere in prigione e condannare a morte quello che
ha vinto le elezioni non è una buona cosa dal punto di vista dei principi europei. E, comunque sia, non può essere
approvato entusiasticamente dall’Europa; ci dovrà almeno essere una riserva critica, e non c’è stata. Io credo che
l’Egitto sia un Paese in cui, in realtà, la repressione, la tortura, contro forze che rappresentano la maggioranza
della popolazione, stanno radicalizzando un parte del mondo islamico: cioè un pezzo della Brotherhood
musulmana sta diventando jihad, e l’instabilità del Sinai ne è – io credo – uno degli aspetti più inquietanti. Non è
vero che la dittatura militare porta stabilità: porta radicalizzazione, porta violenza, porta il rischio di crescita del
terrorismo, di trasformazione di un islamismo politico in islamismo militante e terrorista.
Allora, mi domando: c’è una terza via? Ci può essere un processo di stabilità che venga aiutato, sostenuto?
Io penso che il nostro compito dovrebbe essere quello di aiutare e di sostenere un processo di stabilizzazione e di
graduale democratizzazione, a partire dall’affermazione del principio della tolleranza reciproca tra i diversi gruppi
etnici e religiosi che vivono insieme in Paesi i cui confini sono stati tracciati – come è noto – dal colonialismo con
la matita sulle carte geografiche, senza una grande attenzione a quello che c’era dentro. Quindi, occorrono
soluzioni bilanciate; occorrono soluzioni che garantiscano. Prendiamo la Siria. In Siria sicuramente c’è una
maggioranza sunnita intorno al sessantatré per cento della popolazione, però gli alawiti, che fanno parte del
mondo sciita, rappresentano una parte molto importante della classe dirigente del Paese. Il dieci per cento della
popolazione sono cristiani. Non si può pensare che si fanno le elezioni e tutto si risolve.
Badate, in Iraq il modello esportato dagli americani ha portato, attraverso le elezioni, gli sciiti a governare
il Paese, con un processo di emarginazione della classe dirigente sunnita che è stato brutale. Sciogliere, poi,
l’esercito di Saddam Hussein, trasformando gli ufficiali (circa trecentomila) in disoccupati dotati di armi, fu una
scelta irresponsabile. Una volta il presidente iracheno Jalal Talabani mi disse: «Ci vorranno tre, quattro, anni per
rimediare ai danni prodotti da Saddam Hussein, e un’altra decina per rimediare a quelli fatti da Bremer». Non è un
caso che oggi ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein costituiscano in gran parte l’infrastruttura militare dell’Isis.
Perché la comunità sunnita, che si è sentita esclusa, si è in parte radicalizzata. Quindi, non basta fare le elezioni. Ci
sono Paesi, come il Libano, che hanno vissuto lunghe e tragiche esperienze di guerra civile dove si sono costruiti
sistemi istituzionali che a noi farebbero inorridire, ma che funzionano, sia pure tra tante difficoltà. Ad esempio,
nella Costituzione libanese c’è scritto che il Presidente della Repubblica deve essere cristiano, che il Presidente del
Consiglio deve essere sunnita, e che il Presidente del Senato deve essere sciita. Hanno, in tal modo, creato un
equilibrio che consente a un Paese, che ha avuto vent’anni di guerra civile, di reggere malgrado tutto quello che
sta succedendo nella regione e alla crisi istituzionale interna che sta vivendo il Paese (perché la comunità cristiana
è divisa).
Io non voglio idealizzare la Repubblica islamica. Vengo dall’Iran dove, tra l’altro, ho avuto dei colloqui
interessanti per capire come loro vedono le cose; il grado di convergenza di interessi, ma non coincidenza di
prospettive, con la Russia. Sono molto sottili questi signori iraniani: quando si discute con loro bisogna essere
molto attenti a cogliere tutte le sfumature del ragionamento. Sono persone che vengono da una cultura molto
raffinata. È una bella esperienza ed è un bel gioco, anche. A discutere, come ho fatto l’altro ieri, per un’ora e
mezza con Velayati si imparano tante cose del loro approccio. È stato irresponsabile per tanti anni pensare di
isolare l’Iran, quando l’Iran è senza dubbio uno dei principali partner per garantire la stabilità in quella parte del
mondo, a cavallo, fra l’altro, tra l’Asia centrale. Voglio vedere senza la collaborazione dell’Iran che cosa accadrà
nell’Afghanistan post−ISAF; nessuno è in grado di saperlo.
Gli iraniani hanno il nostro stesso interesse di non ritrovarsi di nuovo con i talebani al governo e, tutto
sommato, l’Iran vuole cercare di stabilizzare la situazione in Siria. E la via in Siria è stretta, perché questo cessateil-fuoco è fragile, e potrà consolidarsi soltanto se si individua una prospettiva politica, cioè un governo di
riconciliazione che deve comprendere le forze che oggi sostengono il regime, che ha resistito certamente anche per
il sostegno che ha avuto da parte del fronte sciita e della Russia, e dei curdi. I curdi all’inizio erano contro Bashar
al-Assad, ma quando hanno capito che dall’altra parte c’era il fondamentalismo sunnita dell’Isis hanno detto:
«Fermi tutti! Noi stiamo qua». E hanno giocato un ruolo fondamentale dal punto di vista militare, perché – badate
– il fatto che i nostri militari siano insieme ai peshmerga mi fa sentire un po’ più tranquillo. Io li ho visti i
peshmerga: è gente molto, molto, seria nel loro lavoro; si tratta di persone molto preparate e molto sveglie. Io
andai a Baghdad, con una delegazione dell’Internazionale Socialista, tre giorni dopo che erano entrati gli
americani (nel caos assoluto), perché avevamo avuto l’idea di andare lì a incontrare le forze della sinistra –
c’erano anche delle persone che potevano essere definite così nella rinascente democrazia irachena –. Ogni tanto
sparavano, tiravano una bomba, però si potevano anche fare delle riunioni interessanti. In quell’occasione, gli
americani ci dissero: «Voi dell’Internazionale Socialista non riconoscete la legittimità del nostro essere qui». E
allora ci consentirono di arrivare lì con un aereo privato (non c’erano certo voli), ma dissero anche che non ci
avrebbero garantito la sicurezza. E siccome l’Unione Patriottica del Kurdistan è membro dell’Internazionale
Socialista, furono loro a garantirci la sicurezza. Un gruppo di peshmerga ci accompagnò per tutti i sei giorni che
trascorremmo lì. E devo dire che stare con loro era molto più rassicurante che stare con gli americani – perché gli
americani erano un target, diciamo, mentre loro si confondevano con la popolazione locale, e consigliarono anche
a noi di confonderci il più possibile –. Fra l’altro, mi commossi perché l’ufficiale a capo del commando mi disse
che quando loro facevano la guerriglia contro Saddam Hussein, tra le montagne del Kurdistan, avevano una sorta
di scuola di partito dove studiarono il documento di Berlinguer sulla mondializzazione. E mi chiesero: «Ma lei
viene da quel partito lì?» Io risposi: «Sì». Questo fatto e l’immagine dei peshmerga intorno al fuoco che
studiavano il documento del PCI – che in realtà era stato scritto da Romano Ledda – sulla mondializzazione mi
commosse. Il mondo è strano; il mondo è piccolo.
Ma, detto questo, è chiaro che la via d’uscita è stretta: si deve creare un governo che comprenda le diverse
forze di opposizione, con l’esclusione dell’Isis. Attualmente l’Isis (che nasce da una scissione, si direbbe, di alQaeda) e al-Nusra (una formazione militare legata ad al-Qaeda) controllano più del cinquanta per cento del
territorio della Siria. Quindi, per poter riconquistare questo cinquanta per cento bisogna che si formi un governo di
riconciliazione nazionale che comprenda gli altri gruppi di opposizione e che possa essere sostenuto da una
coalizione. Il conflitto siriano è nato come guerra civile; è continuato come guerra regionale, perché a un certo
punto, da una parte, c’era un esercito armato dagli Hezbollah, dai pasdaran iraniani, e, dall’altra parte, c’era
un’armata internazionale dello jihadismo con tunisini, giordani, sauditi; e poi è diventata una guerra
internazionale con i bombardamenti americani, europei e la Russia. C’è stato un processo di allargamento dei
confini del conflitto e la grande operazione da fare adesso è una de−escalation per riportare ai siriani la gestione di
una soluzione attraverso una progressiva de−internazionalizzazione del conflitto. È un cammino stretto, ma
sembrerebbe possibile.
In questi giorni è avvenuta una cosa molto importante, a cui naturalmente non è stata data una grande
attenzione: la visita di Davutoglu a Teheran, che significa il ritorno di un dialogo diretto tra la Turchia e l’Iran, le
due maggiori potenze regionali – i sauditi stanno un po’ più in là –. E questo potrebbe aiutare. Turchia e Iran
hanno un grande interesse comune – che è una cosa che a noi può non piacere, ma che non bisogna trascurare –
alla stabilità dei confini, perché se non c’è stabilità dei confini la prima grande questione a esplodere è la questione
curda. Quaranta milioni di curdi vivono tra Iraq, Siria, Iran e Turchia, e la rivendicazione di uno Stato curdo
destabilizzerebbe l’intera regione. Evitare questo è interesse comune. In Iraq la questione è stata risolta dai curdi
che hanno creato uno Stato nello Stato senza dirlo – sono stati molto abili da questo punto di vista –. Ma la
crescita della forza dei curdi siriani, anche per l’eroismo con cui hanno fronteggiato l’Isis, e la forza dei curdi
turchi, che pure divisi tuttavia hanno una forza militare non indifferente – penso al PKK –, questo crea una
preoccupazione comune di trovare una soluzione di stabilità che non metta in discussione i confini nella regione.
Sulla Libia voglio dire una parola. Io credo che nell’aggravarsi della crisi libica c’è stata un’enorme
responsabilità della comunità internazionale che ha affidato la questione ad improbabili ambasciatori. Io ho molti
rapporti con la Libia – tuttora – con sindaci, con personalità politiche, e i libici, fin dall’inizio, volevano una
personalità politica di primo piano. Perché? Perché il negoziato fra il governo di Tobruk e il governo di Tripoli era
sostanzialmente inutile. Questo esercizio, che è stato condotto per due anni, è stato inutile. Primo, perché questi
due pseudo-governi non controllavano l’insieme del Paese, perché c’erano le tribù, i sindaci, le milizie locali, cioè
una serie di protagonisti che erano tagliati fuori da questo negoziato. Secondo perché di questi due governi – come
è stato accennato – uno ha dietro l’Egitto (che ha un proprio disegno di disgregazione della Libia e che oltretutto
muove la forza militare del Generale Haftar) e gli Emirati; e l’altro il Qatar, la Turchia, eccetera. Quindi solo una
personalità politica di primo piano, di grande livello internazionale, poteva condurre un negoziato chiamando a
rapporto i veri interlocutori. Invece si è discusso per due anni tra persone che non avevano mandato a concludere.
Diciamo le cose come stanno: era un finto negoziato. Infatti, questo finto negoziato ha annunciato per sei volte la
costituzione di un governo di unità nazionale che poi non si costituiva, perché i negoziatori non avevano il potere
di farlo. E io penso che l’Europa ha una grande responsabilità, e in questo caso anche l’Italia, perché l’Italia ha più
volte rivendicato una leadership, un ruolo – «siamo pronti a partire. Abbiamo cinquemila soldati… Poi, non è
vero, non li abbiamo più, non li mandiamo…», un sacco di cose che se uno mette insieme tutte le dichiarazioni del
ministro della Difesa, del Presidente del Consiglio, ne viene fuori un’antologia piuttosto confusa –. L’unica cosa
che l’Italia poteva fare era mettere in campo una personalità politica di primo piano. Io non ho dubbi che se l’Italia
avesse detto: «Vi propongo Prodi come Alto rappresentante delle Nazioni Unite»; tutte le diverse fazioni libiche
l’avrebbero accolto volentieri. Ma evidentemente si vede che il nome non piaceva (forse potevano proporre
Verdini, ma non so se i libici lo volevano). E questa, secondo me, è stata una delle ragioni del trascinarsi di questa
vicenda. Perché non c’è stata una forte mediazione internazionale, e quindi nel vuoto di potere si è infilato Daesh,
che – badate – non è un fenomeno libico, perché l’islam libico non è fondamentalista, ma è un fenomeno che viene
da fuori, dalla Tunisia, e che tuttavia nel malcontento ha trovato anche in Libia suolo fertile sul quale insediarsi. E
ora il problema è serio, perché si sono stabiliti in una parte cruciale del Paese – nel golfo della Sirte – in un punto
importantissimo dal punto di vista geopolitico. E quindi ora l’unica cosa da fare è sostenere la creazione di questo
governo e poi trovare il modo di aiutarli, essendo chiaro, naturalmente, che sul terreno ci sono i libici. Io penso, tra
l’altro, che i libici siano perfettamente in grado – data l’esiguità del fenomeno Isis nel Paese – di cacciarli loro,
anche perché in Libia esistono delle rilevanti forze militari. A parte quelle che fanno capo ai due pseudo-governi,
le milizie di Misurata già da sole o comunque una coalizione delle diverse milizie libiche è in grado di risolvere il
problema se ha un adeguato appoggio internazionale.
In ultimo, pur non potendo parlare in questa sede del rapporto con l’islam, che è un argomento lungo e
complicato, tuttavia ritengo che noi dovremmo tornare a riflettere seriamente sulla questione. Noi lo stiamo
facendo: abbiamo fatto un convegno a Bruxelles, abbiamo creato un osservatorio europeo. L’esperienza inglese
della costituzione di comunità di autogoverno islamico non ha dato grandi risultati; l’esperienza francese di
integrazione nel nome della laicità repubblicana non ha dato grandi risultati. Abbiamo una varietà di esperienze in
Europa, e io credo che il grande problema è che – fino a quando l’islamismo europeo non verrà configurandosi
come tale, fino a quando sarà una sommatoria di gruppi, di comunità, legati ai Paesi di origine – noi avremo un
rapporto molto difficile e problematico. Noi abbiamo l’interesse a portare alla luce del sole, e anche in un rapporto
trasparente con le nostre istituzioni, un islam europeo.
In Italia vive un milione e mezzo di musulmani. In Italia, come voi sapete, l’esercizio del culto è regolato
da intese bilaterali tra le religioni e lo Stato. Abbiamo perfino firmato intese con la comunità buddista, ma non
siamo riusciti a firmare un’intesa con i musulmani, perché non siamo riusciti a fare in modo che essi si presentino
come una comunità. Giustamente abbiamo discusso lungamente di questo tema. Io sono stato invitato
all’assemblea dell’European Muslim Network con un intellettuale molto discusso, ma secondo me molto
interessante, che è Tariq Ramadan, e a un certo punto lui, in questo dibattito pubblico (nel quale eravamo io e lui,
faccia a faccia), ha detto: «Guarda, fino a quando la moschea viene costruita – quando è possibile costruirla – con i
soldi che vengono dall’Arabia Saudita lì ci sarà un predicatore salafita che spiegherà ai fedeli che l’ermeneutica
del testo sacro è proibita. Perché secondo il wahhabismo è proibita l’interpretazione del testo sacro, e la
contestualizzazione del Corano nel contesto storico è una forma di apostasia. Se invece noi costruiamo le moschee
con i soldi dei Paesi di cui siamo cittadini – perché noi siamo cittadini europei (questo signore è nato in Europa e
insegna a Oxford) – allora il predicatore lo sceglieremo noi, e sarà un predicatore che avrà una visione dell’islam
moderna, riformata. Voi avete interesse a tagliare il cordone ombelicale tra queste comunità e i Paesi d’origine, ma
dovete riconoscerci, con dignità, come una componente importante della società e della civiltà europea». Non è un
progetto facile, perché ha molti ostacoli, compresi gli ostacoli all’interno di queste comunità. Però, io credo che è
un progetto intelligente, e penso che la sinistra europea dovrebbe farlo proprio.
ALBERTO TONINI
Alcuni temi sono stati già presentati e quindi, dovendo fare delle scelte, non riprenderò tutte le
sollecitazioni che sono già emerse. Ne riprenderò solo alcune e tenterò di aggiungere altri elementi che possono in
parte aiutare a completare il quadro, con una avvertenza iniziale: che io di mestiere faccio una cosa noiosa, cioè mi
occupo di storia, mi occupo di ciò che è successo negli anni passati e negli anni recenti, perché continuo a essere
convinto che avere una qualche conoscenza di quella che è stata l’esperienza di questi popoli, di questi Paesi, negli
anni recenti ci possa aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo. Non dico a immaginare quale possa essere il
futuro, ma quantomeno a darci delle spiegazioni sull’attualità.
Rispetto all’efficacia dello strumento militare, molte cose sono già state sottolineate e ricordate. È vero che
la iperpotenza dei Paesi occidentali sul piano militare consente in questi scenari quasi sempre un’agevole vittoria
sul piano puramente militare, ma è altrettanto vero – è stato ricordato – che questo non garantisce in alcun modo il
successo del processo politico. Cioè se lo strumento militare da solo ci dà in questa fase un indubbio vantaggio
rispetto agli interlocutori che sono sul terreno, tuttavia esso non consente di guardare con serenità e con
tranquillità alla ricostruzione di questi Paesi. Lo abbiamo visto in altri contesti in anni recenti – in Afghanistan, in
Iraq dal 2003 in avanti –, e lo vediamo in Siria dal 2011.
Voglio riprendere alcuni aspetti che sono stati già citati riguardo al caso iracheno e a ciò che è avvenuto in
questo Paese a partire dal 2003, perché è da lì che, in parte, dobbiamo muoverci se vogliamo darci una spiegazione
rispetto a ciò che sta succedendo adesso. Nel 2003 si giunge all’intervento di una coalizione internazionale, come
tutti ricordate, che porta rapidamente – in virtù della iperpotenza della coalizione dal punto di vista militare – alla
caduta del regime di Saddam Hussein, sebbene nei mesi precedenti l’esercito iracheno ci fosse stato presentato
come il secondo esercito più potente di tutta la regione, come un mostro in grado di portare minaccia ovunque nel
mondo. Di fatto, nell’arco di poche settimane, a un prezzo alto – ricordiamo che l’intervento causò molte migliaia
di vittime anche tra la popolazione civile –, si giunge al termine dell’esperienza politica di Saddam Hussein. Il
problema, naturalmente, furono le scelte successive. È già stato ricordato, in particolare dall’onorevole D’Alema,
la decisione sciagurata di allontanare dai propri incarichi tutti coloro che avevano ricoperto una qualche funzione
nella pubblica amministrazione durante gli anni di Saddam Hussein – non soltanto i membri delle forze armate e
delle forze di polizia, ma anche i dirigenti dei ministeri, anche coloro che erano responsabili della gestione
quotidiana del Paese –, perché ritenuti in qualche modo colpevoli di complicità, di affinità, con il regime sconfitto.
Questo ha lasciato, naturalmente, il Paese nel caos e ha creato le premesse perché si sviluppasse quella resistenza
interna che ha portato gravissimi lutti non solo e non tanto alle forze di occupazione, quanto piuttosto alla
popolazione irachena ripetutamente vittima di atti di grave violenza da parte di queste milizie che resistevano alla
presenza straniera. E questo ha, nello stesso tempo, creato un bacino di manodopera attrezzata, preparata,
professionalizzata, in cerca di un nuovo datore di lavoro. È stato infatti ricordato come questa situazione abbia
consentito all’Isis di riuscire rapidamente a mettere in campo una milizia già addestrata, in grado di sapersi
muovere, di utilizzare le armi, di saper come controllare un territorio. Molti di coloro che oggi formano le milizie
dell’Isis sono reduci dell’esercito di Saddam Hussein, altri sono reduci dell’Afghanistan, altri sono reduci della
Cecenia: purtroppo questa parte del mondo ha prodotto, in questi anni, una gran quantità di manodopera in cerca
di un datore di lavoro.
Si è detto degli interessi occidentali talvolta espliciti, talvolta meno dichiarati – interessi occidentali che
muovono evidentemente le scelte dei governi –. Non possiamo negare che questo aspetto abbia importanza.
D'altronde non possiamo neanche immaginare che i Paesi occidentali si muovano senza tener conto dei propri
interessi. Il punto – a mio modesto parere – è fare in modo che questi, che ci saranno e che ci sono sempre stati,
non siano di ostacolo per una soluzione, ma possano essere piegati in modo tale da convergere verso una qualche
possibile definizione di nuovi equilibri all’interno di questa regione. Non è ovviamente un’operazione facile,
anche perché gli interessi dei Paesi occidentali già non sono convergenti fra di loro. Ci sono posizioni e definizioni
diverse da parte dei Paesi europei a cui naturalmente si aggiunge la Russia, oltre alle potenze regionali già
ricordate – Iran, Turchia, Arabia Saudita, Egitto –.
Due parole sulla situazione in Libia, perché, a mio parere, la situazione in questo Paese è più difficile da
risolvere della situazione siriana. La Siria sta vivendo una fase di gravissima crisi interna, con un livello di
violenza inaudito di cui è vittima soprattutto la popolazione civile. Cionondiméno la società civile siriana,
l’infrastruttura dello Stato, le capacità di ricostruire il Paese in Siria, secondo me sono ancora presenti e vitali. Ci
possono essere interlocutori per superare questa fase attuale di aperta contrapposizione. In Libia, a differenza della
Siria, a mio parere la situazione dà meno chances, perché noi abbiamo ereditato una «polpetta avvelenata» da
parte Gheddafi, che durante i lunghi anni del suo regime ha praticamente distrutto la società civile. C’è una quasi
totale assenza di corpi intermedi, che – nel linguaggio della scienza politica – sono quei soggetti che rappresentano
una premessa essenziale per la democrazia e per il corretto funzionamento delle dinamiche democratiche in un
Paese. Queste premesse in Libia mancano quasi del tutto a causa di scelte operate negli anni di regime di
Gheddafi, e quindi – se anche riuscissimo ad arrivare a una composizione dell’attuale variegata situazione interna
alla Libia – il mio timore è che questa fragilità, questa debolezza interna, che è appunto uno dei prodotti della
conduzione del potere da parte di Gheddafi, possa oggettivamente rappresentare un ostacolo assai difficile da
superare.
Si è poi fatto cenno, giustamente, alla illusione coltivata per alcuni anni dai Paesi occidentali di poter
esportare la democrazia nelle forme con cui l’abbiamo conosciuta all’interno degli Stati europei. È evidente che
questo esperimento è fallito. In parte, perché in alcune realtà mancano le premesse affinché si possa realizzare un
equilibrato gioco democratico. E, in parte, perché il processo elettorale di per sé non afferma la democrazia: questa
infatti è un punto di arrivo, non è un punto di partenza. E l’esperienza delle nostre società in Europa testimonia
proprio questo. Noi tutti, quando pensiamo all’affermazione dei diritti democratici nel contesto europeo, andiamo
con la memoria alla rivoluzione francese del 1789. Vero, ma – ahimè – non è stato sufficiente quel periodo per
affermare definitivamente il corretto funzionamento della democrazia in Europa. Alla rivoluzione francese è
seguito il periodo del Terrore, e poi la Restaurazione, e poi l’Impero in Francia, cioè ci sono voluti quasi cento
anni in Francia – per non parlare di altri Paesi europei – prima che le premesse democratiche espresse nella
rivoluzione dell’Ottantanove trovassero piena e completa cittadinanza nel contesto francese ed europeo.
Quindi, io non sono fra quelli che guardano alle primavere arabe del 2011 come a un’esperienza
fallimentare. Certo, saremmo stati lieti di vedere esiti positivi in tempi rapidi, ma i processi di cambiamento
sociale e politico quasi mai sono vicini ai nostri tempi. Più spesso richiedono un periodo di decantazione;
richiedono periodi difficili di transizione, con fasi positive e fasi negative. La fine dei regimi autoritari ha liberato
forze nuove all’interno di queste società, forze in parte benigne, forze in parte maligne. Ed è normale che dopo
cinque anni ancora molte questioni siano irrisolte. Per cui, io non sono fra coloro che si affrettano a parlare di un
fallimento delle primavere arabe: siamo appena all’inizio di un processo che, naturalmente, sta incontrando, e
continuerà a incontrare, molte resistenze, però indubbiamente oggi la situazione è in movimento rispetto al blocco
a cui abbiamo assistito fino al 2011.
Si è fatto riferimento, questa mattina, all’Arabia Saudita. Si deve, in effetti, sottolineare la centralità di
questo Paese nel definire o nel cercare di influire sulle dinamiche di tutta la regione. Sebbene oggi il prezzo basso
del petrolio riduca le risorse a disposizione della famiglia saudita, ciò non significa che i reali sauditi abbiano
rinunciato a esercitare o a tentare di esercitare un’azione nel contesto regionale. E devo dire che l’analisi di quelle
che sono state le scelte da parte della famiglia saudita negli ultimi decenni non mi fanno essere ottimista rispetto al
prossimo futuro, perché la sua priorità è rimanere al potere nel proprio Paese. Pertanto le scelte politiche della
famiglia saudita sono legate a questa priorità assoluta, e in nome di questo si è disposti ad appoggiare e a
incoraggiare iniziative avventurose anche in altri Paesi, perché si teme il contagio rivoluzionario che si potrebbe
diffondere dall’estero e che potrebbe condurre a una ridefinizione degli equilibri interni al Paese. Questa è una
prospettiva che la famiglia saudita non intende prendere in alcuna considerazione.
Sulla vicenda dei curdi e sul loro ruolo – scusatemi se vado un po’ per flash, ma forse in questo modo
riusciamo a dare più chiavi di lettura –, sulla centralità della loro situazione, è importante ricordare quanto la
vicenda interna all’Iraq a partire dal 2003 abbia introdotto un elemento di instabilità anche all’interno della
questione curda. Il successo, seppur parziale, dei curdi iracheni di riuscire a creare una forma di autonomia nel
territorio dell’Iraq settentrionale (anche perché il nuovo Iraq nasce con una Costituzione di carattere federale, che
prevede una discreta dose di autonomia per le varie parti del Paese) ha acceso naturalmente l’interesse da parte dei
curdi che vivono negli altri Stati vicini. I curdi siriani, a loro volta, oltre a essere protagonisti di questa fase di
contrasto armato di Daesh, hanno anche creato una piccola forma di autonomia con la Repubblica del Rojava,
nella Siria orientale, dove stanno tentando di dare vita a forme di autogoverno, che sono frutto anche dell’attuale
fase di debolezza dell’autorità centrale siriana, ma che potrebbero essere la premessa della costituzione di una
regione autonoma curda anche in Siria. Tutto questo, naturalmente, suscita grande preoccupazione e grande
ostilità da parte delle autorità di Ankara.
Quindi capite come vi siano delle sovrapposizioni di interessi e di preoccupazioni che ci consegnano una
realtà in cui i Paesi occidentali non hanno un monopolio di capacità di intervento. I Paesi occidentali sanno di non
poter risolvere da soli queste varie situazioni di instabilità, e che è necessario trovare interlocutori nel contesto
regionale, ritrovare capacità di mediazione e rinunciare ad avventurose iniziative di carattere militare. È già stato
ricordato il caso della Libia e della possibilità o meno del nostro governo di farsi promotore di una qualche
iniziativa di carattere militare. Fatemi solo dire due cose su questo punto. Il governo italiano, il ministro della
Difesa e il ministro degli Esteri hanno condizionato la decisione italiana di promuovere una iniziativa militare alla
richiesta e al consenso da parte di un futuro governo di unità nazionale in Libia. Ebbene, le cronache di questi
mesi e di queste settimane ci mostrano la difficoltà nel raggiungere in Libia un accordo sulla costituzione di un
governo di unità nazionale. Però, nel frattempo, l’opzione militare è sul tavolo: cioè a dire che questo rischia di
innescare una spirale al termine della quale si dovrà prendere atto che non è possibile costituire un governo di
unità nazionale in Libia, ma nel frattempo l’opzione militare è fra le opzioni disponibili. E quindi il mio timore è
che si possa giungere, nei prossimi mesi, alla decisione di intervenire anche in assenza di un governo di unità
nazionale, perché si dirà che le circostanze hanno dimostrato che non è possibile arrivare a questo governo, ma, in
ogni caso, si potrà decidere di intervenire militarmente. Trovo questa eventualità – in un contesto come quello
libico attuale – estremamente rischiosa e pericolosa, non solo e non tanto per i rischi di carattere militare.
Intendiamoci, i nostri militari fanno quello di mestiere, cioè devono assumersi anche dei rischi e non avrebbe
motivo di essere un intervento militare in una zona senza rischio. La mia perplessità sta sulla nostra capacità di
progettazione politica, sulla gestione della transizione successiva all’intervento militare, perché evidentemente su
quel piano, a mio avviso, gli strumenti che abbiamo a disposizione sono estremamente deboli e fragili.
INTERVENTI
ELETTRA DEIANA
Paradigma del caos globale, per capire lo stato del mondo odierno, e analisi dei modi di funzionamento
della governance, come governance del disordine globale, per avere chiari i modi della governamentalità
neoliberale, che è la forma del dominio contemporaneo. Vale oggi la pena partire da qui per non rimanere
impigliati nelle chiacchiere dei talk show e nel performativo senso comune che producono, e per capire più a
fondo il perché della mancanza di ruolo dell’Europa verso il suo lato orientale e verso il suo sud. Anche da questo
dipende l’indebolimento del suo peso complessivo a livello mondiale. Perché siamo arrivati a questo punto mi
sembra poi una domanda chiave. Per questo parto dal riferimento alla memoria – «l’arco del tempo», così l’ha
chiamata – di cui prima ha parlato Alberto Negri, perché l’arco del tempo che Negri ha descritto a me sembra di
grande importanza per mettere a fuoco alcuni elementi di fondo della complessa fase di transizione che viviamo,
dove il disordine è elemento primario, oltre che dello stato delle cose, dello stesso governare il mondo nella sua
globalità. Non essendo oggi possibile arrivare a conferenze di tipo classico – quelle che, dopo eventi traumatici,
ridefinivano l’ordine delle relazioni tra le grandi potenze, i rapporti con i Paesi emergenti, la fase post-coloniale e
altro – il governo del mondo è affidato “programmaticamente” alla furbizia tattica del “caso per caso”, da sfruttare
al meglio per chi ci riesca; alla contingenza, alla convenienza e agli interessi di piccole e grandi potenze. Tutto
quello che, per esempio, ha a che vedere con la guerra per procura in Siria è, da questo punto di vista, materiale da
manuale. Il tutto con la conseguenza di una costante latenza della guerra, che può protrarsi nel tempo, come stato
endemico, senza che neanche se ne parli per lunghi periodi, se non nei casi di attentati – una performance
costitutiva delle nuove guerre – che vengono però spesso confinati alla cronaca, a meno che non avvengano nel
cuore dell’Europa. Oppure può esplodere in conflitti terribili e disegnare i passaggi di guerre sempre più
disastrose. Ancora una volta la Siria o la Libia, per fare solo gli esempi che più ci toccano da vicino.
Dall’inizio del nuovo millennio, ma anche prima, a voler seguire l’arco del tempo, e con dirette e pesanti
responsabilità dell’Occidente, si vanno ridisegnando mappe e confini con le guerre – per di più guerre solo di
armi, sprovviste di visione strategica che non sia la favola ideologica occidentale dell’esportare la democrazia.
Tutto il Medio Oriente ne è stato investito ed è per questo deflagrato. È stato ricordato in questo dibattito che è
ormai dominante un’ideologia apocalittica. Rintracciarne le origini significherebbe capire l’intreccio perverso di
responsabilità dirette, complicità indirette, silenzi e bugie che costituiscono la miscela che ha alimentato lo
sviluppo delle formazioni terroriste. L’ideologia apocalittica in effetti domina la comunicazione in varie direzioni
e con molteplici effetti. Il cosiddetto Stato Islamico ha come focus della sua potenza comunicativa la visione
apocalittica della guerra santa contro apostati e infedeli e con il format apocalittico dimostra la capacità di incidere
nelle molte contraddizioni che agitano diversi Paesi islamici. I disastri provocati dalle guerre di Bush e dai governi
iracheni appoggiati dalla Casa Bianca, dopo la fine del regime di Saddam Hussein, nonché le insane politiche di
espulsione dalla vita professionale e civile del Paese, da cariche e incarichi e altro, dei sunniti iracheni, sono alla
base del consenso che da un certo momento in avanti il Califfato ha guadagnato tra la popolazione nel cosiddetto
triangolo sunnita. Il resto lo ha fatto la guerra per procura in Siria, che ha allargato a dismisura il terreno di
intervento dei seguaci di al Bagdhadi. Si tratta di un fenomeno molto diverso dalla fascinazione che quello stesso
messaggio apocalittico suscita nel cuore dell’Europa, fornendo una risposta alle molteplici e insoddisfatte esigenze
– sociali, identitarie, generazionali – che animano settori non piccoli delle nuove generazioni di figli di immigrati
in Europa. Un elemento questo del tutto interno all’Europa, che prefigura anche il rischio di un potenziale
meccanismo di guerra civile all’interno del continente. Il fuori e il dentro: due aspetti diversi che nella strategia del
Califfato diventano concomitanti. Ma un effetto del clima apocalittico è anche il diffondersi del sentimento di
paura dell’invasione, dei barbari alle porte, dell’ostilità xenofoba e delle crescenti politiche di reiezione dell’
“altro” che si vanno moltiplicando in Europa, spesso per diretta decisione e volontà delle autorità di vari Paesi
europei. Politiche che indeboliscono sempre più la trama di quella cultura dei diritti universali di cui l’Europa si
era nutrita dopo la seconda guerra mondiale, e che erano la carta identitaria dell’utopia europea.
L’impatto che le guerre e le loro conseguenze hanno sulla vita di intere popolazioni o su grandi porzioni di
gruppi umani è enorme. Un dato ormai strutturale come è strutturale il fenomeno dell’immigrazione, dello
spostamento di interi gruppi umani, per guerre, fame, miseria, disastri ecologici. Saskia Sassen parla del fenomeno
e della logica delle espulsioni, ormai strutturali, dai luoghi di esistenza e appartenenza, come di un esito della
brutalità e complessità dell’economia globale. E papa Bergoglio parte da questo insieme di grandi fenomeni per
spiegare la sua idea di stato di guerra in cui il mondo odierno vive e si dibatte.
Ho seguito il dibattito che si è sviluppato intorno al caso delle molestie sessuali alle donne a Colonia,
durante il Capodanno di quest’anno, e la documentazione di cui mi sono potuta avvalere, per capire che cosa fosse
successo davvero, mi ha permesso di conoscere meglio la situazione della Germania, decisamente diversa da come
fino a quel momento veniva percepita in Italia. Anche in Germania c’è da tempo uno stato di grave insofferenza
prodotta dall’impatto crescente dei profughi e degli immigrati. I giornali tedeschi hanno pubblicato stralci di un
rapporto dei servizi di sicurezza interna di quel Paese, che parlano del rischio che il disagio si trasformi in piena
ostilità di una parte crescente degli abitanti nei confronti di rifugiati e immigrati che entrano nel Paese. Alla
grande apertura della Cancelliera Merkel verso i profughi, hanno fatto da contrappeso le reazioni molto negative
del suo partito e di molti ministri, compreso il suo vice il socialdemocratico. D’altra parte la crescita elettorale di
un partito di estrema destra e di sentimenti nazisti come Alternativa per la Germania conferma tutto questo.
Saltano insomma certezze, dispositivi giuridici, elaborazioni culturali, persino paletti minimi di buon senso. Il
peso che l’immigrazione ha assunto diventa per l’Unione europea un problema irrisolvibile, destinato mettere in
discussione patti, equilibri, mediazioni.
Negri ha fatto un quadro preciso della guerra per procura che fu intentata ai tempi nei confronti dell’allora
Unione Sovietica e le repliche che vengono fatte oggi rivelano quanto valgano sempre certi meccanismi della
politica, quando è ridotta alla sfera del “politico” come mero dispositivo del potere e di un potere sempre più
autoreferenziale e incapace di trovare soluzioni. Una delle questioni fondamentali del tempo presente, che emerge
da molte cose che sono state dette, è, non a caso, proprio l’assenza dell’Europa. Mi sembra sempre molto difficile
parlare della geopolitica globale senza avere come punto di osservazione il «da noi»: non solo l’Italia, ma
l’Europa. L’assenza dell’Europa come attore di un qualche peso nel contesto globale è un tratto estremamente
significativo; assenza che, da una parte, si manifesta nella tendenza di ogni Paese europeo a fare quello che più gli
conviene – come nella vicenda libica nel 2011 e ancora oggi sulla stessa e su quella dell’immigrazione – oppure,
dall’altra, si esprime con l’indifferenza nei confronti di quello che succede agli altri Paesi – il caso
dell’immigrazione, ancora, è emblematico come emblematico è stato il caso della Grecia uccisa dal debito – o, da
ultimo, manifestando una notevole ostilità alla ricerca di soluzioni condivise all’impatto del nuovo popolo di
rifugiati che chiede asilo e aiuto. Schengen non c’è più, e l’Europa – nella complessa transizione governata dal
caos – è essa stessa elemento di caos.
L’altro elemento del quadro sono i processi di adattamento dei cittadini europei – donne e uomini – alla
permanente latenza dello stato d’eccezione e di accettazione delle misure di emergenza che questo comporta. La
sicurezza è il valore dominante nella retorica politica dominante e nelle richieste dei cittadini. Emblematica è stata
la vicenda francese, dopo il terribile attentato di Parigi: dichiarazione dello stato di emergenza, leggi speciali, una
guerra dichiarata con atto di imperio dal Presidente Hollande contro il Califfato. E nel Paese un’opinione pubblica
incline forse ad accettare come inevitabile il nuovo ordine delle cose.
Mi preme sottolineare l’importanza di alcuni passaggi del dibattito che si sta svolgendo in questa sede.
Innanzitutto, la questione curda, che è stata ricordata e che è una grande questione storica, al di là dei meriti che
oggi quel popolo coraggioso ha, per come ha contrastato e contrasta le strategie sanguinarie del Califfato.
L’Europa dovrebbe porsi seriamente il problema curdo, perché essa stessa è nata grazie all’autodeterminazione dei
suoi popoli, e la libertà dei popoli è uno degli elementi fondativi della civiltà di cui l’Europa si vanta. Nel
contenzioso che oggi si dovrebbe aprire, tra l’Europa e la Turchia in relazione alla questione dei rifugiati –
diventati, questo il rischio, ormai solo merce di scambio – si dovrebbe porre – almeno porre – la questione dei
curdi e riaprire un dibattito che è stato bloccato anni fa, quando ancora si poteva forse più utilmente proseguire sul
terreno della relazione con la Turchia per una sua entrata in Europa. Un bilancio di quel periodo e del come
l’Europa si mosse in quegli anni verso la Turchia sarebbe oggi molto utile. Oggi bisognerebbe aprire con la
Turchia una discussione molto più netta e chiara, per il peso strategico che quel Paese ha rispetto al resto
dell’Europa, per essere la Turchia Paese membro della Nato, per le complesse relazioni che Erdogan e il suo
progetto neo-ottomano vanno disegnando nell’area e nei rapporti con molti attori protagonisti di quell’area. E altro
ancora. In tutto questo, il caso curdo dovrebbe essere un dossier di tutto rilievo.
Massimo D’Alema ha parlato dell’Italia nei confronti della Libia. Sono d’accordo con lui sul fatto che
l’Italia dovrebbe puntare soprattutto a dare un aiuto efficace a risolvere i problemi, abbandonando decisamente
qualsiasi suggestione interventista, ricordando il suo passato colonialista e puntando invece alla ricerca di un
personaggio di grande autorevolezza, che goda di buona fama in quel Paese e possa per questo dare un contributo
importante per mettere insieme la miriade di frammenti che la Libia in questo momento contiene in sé e alla cui
formazione l’Italia, con la partecipazione ai bombardamenti nel 2011, ha dato il suo contributo. Forse Prodi, così
come D’Alema suggerisce, potrebbe corrisponderebbe a questo profilo. Rimane comunque il metodo suggerito, al
di là del personaggio individuato. Che è l’unico: quello di evitare guerre e forzature che non farebbero che
aggravare la situazione e aumentare il discredito dell’Italia agli occhi di settori non piccoli dei libici.
La questione del rapporto con l’islam europeo – e mi riferisco ancora a quello che D’Alema ha detto sulle
moschee ma il problema va oltre – è oggi un elemento di fondo per l’Europa – c’è un fallimento generale sulla
questione – e una sinistra che volesse oggi ricomporre una credibile immagine di se stessa dovrebbe averla al
centro della propria attenzione.
L’arco temporale di cui stiamo parlando si conclude con il crollo dell’Unione Sovietica e con la fine di
quella che possiamo chiamare la geopolitica di Yalta: un ordine del mondo, dopo il disordine della lunga fase di
guerra civile in Europa. Il crollo del Muro è risalente a venticinque anni fa ed è lì che sostanzialmente ha termine
l’ordine del «due» che – sia pure con tensioni, contraddizioni, vicende tutt’altro che rassicuranti e spesso terribili
da diversi punti di vista – aveva evitato una nuova deflagrazione dopo il mattatoio della Seconda guerra mondiale.
Questo mi serve per introdurre l’altro tema che ritengo di una certa importanza, e cioè i rapporti con la Russia. Gli
Stati Uniti, come qualcuno ha detto in questo dibattito, non possono fare a meno dei rapporti con l’Arabia Saudita,
così connotata dal peso della sua ideologia salafita. Mi chiedo, pensando al lato orientale dell’Europa, perché
l’Europa non abbia capito che i conti con la nuova Russia dovevano essere fatti in un modo molto diverso da come
sono stati fatti. Molto male fin dall’inizio del dopo Yalta, con l’espansione verso est della Nato, l’allargamento
troppo rapido ai Paesi dell’ex blocco, con la l’evidente diversificazione degli interessi europei e delle strategie
politiche dei vari Paesi dell’Ue verso la Russia sempre diversificate. La Germania in primis. È questo un serissimo
problema dell’Europa, tra quelli destinati a bloccare il processo politico dell’Ue e a ridisegnare la geopolitica
continentale. La crisi dell’euro e le migrazioni da una parte, la crisi ucraina e la performance terrorista dall’altra
logorano la tenuta dell’Europa e il rischio è ormai fin troppo evidente. Insomma l’Europa è di fronte all’obbligo di
ripensarsi completamente, nell’epoca della guerra globale di cui parliamo.
IGNAZIO MASULLI
Europa e Stati Uniti si trovano, oggi, di fronte a due grandi sfide destinate a modificare la loro storia e
quella di altri paesi.
La prima è rappresentata dai nuovi e crescenti flussi migratori provenienti dal Sud del mondo e avverso i
quali non ha alcun senso opporre barriere. Infatti esse, da un lato, sono destinate ad essere travolte e, dall’altro,
non hanno alcuna prospettiva storica.
La seconda consiste nell’esigenza, sempre più pressante e inderogabile, di modificare profondamente la
logica e gli interessi a tutt’oggi prevalenti nella regolazione dei rapporti internazionali.
In realtà si tratta di due ordini di problemi tra loro strettamente interconnessi.
Su un versante, quella che è diventata ormai una guerra agli immigrati si combina con gli interventi armati
per ristabilire un ordine tardo coloniale nei paesi da cui provengono.
Gli Usa e i loro più stretti alleati europei, non sembrano paghi delle disastrose quanto inutili guerre in Iraq,
dell’interminabile intervento armato in Afghanistan, dei fallaci impegni, diretti e indiretti, “per la democrazia” in
Libia, Egitto, Siria. Lo stesso può dirsi per il sostegno dato a questa o a quella fazione nei conflitti civili e nelle
contrapposizioni etniche che da anni insanguinano diversi paesi dell’Africa centrale e orientale.
Le sofferenze patite da intere popolazioni dai primi anni ’90, e con un crescendo negli ultimi 15, sono
testimoniate da decine di milioni di sfollati, profughi e richiedenti asilo.
Secondo i dati dell’Unhcr, alla fine del 2014, le persone che avevano cercato di fuggire da guerre e conflitti
interni assommavano a 55 milioni. Il maggior numero di loro, circa 34 milioni, veniva da Siria, Iraq, Afghanistan,
Libia, Repubblica democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria.
La stragrande maggioranza ha trovato rifugio nei paesi vicini, spesso altrettanto poveri e non molto più
stabili di quelli d’origine. Mentre, alla stessa data, il numero di quelli accolti nei 28 paesi dell’Unione europea
sono stati poco più di un milione e altri 270mila negli Usa.
In maniera crescente, profughi e richiedenti asilo si trovano di fronte a disponibilità all’accoglienza in cifre
risibili o alla chiusura totale di frontiere e perfino divieti di transito. Rifiuti che non vengono solo dai paesi
balcanici e dell’Est Europa, ma dai paesi più potenti, come Usa, Gran Bretagna, Francia, o più ricchi, come
Austria, Belgio, Svezia, Danimarca, Finlandia. La relativa disponibilità della Germania si è andata vistosamente
riducendo. Mentre paesi geograficamente più raggiungibili, come l’Italia e la Grecia non fanno che reclamare la
corresponsabilità dell’Ue.
Non è moralmente e politicamente tollerabile che proprio tra i più indisponibili all’accoglienza si trovino
gli Stati che sono in prima fila nel promuovere azioni militari e fomentare conflitti interni nei paesi da cui fugge la
maggior parte dei profughi. In questo modo, essi colpiscono due volte persone inermi, incolpevoli e disperate.
Duplice è anche l’inganno che quei governi perpetrano ai danni dei propri concittadini. In primo luogo,
quando fanno credere che i costosissimi interventi militari da essi promossi sono necessari per la sicurezza e il
benessere dei loro paesi. In secondo luogo, cercano di far credere che i costi dell’accoglienza dei rifugiati e
richiedenti asilo sono insostenibili.
In realtà le cose stanno molto diversamente.
Prendiamo, ad esempio, il caso dell’Italia. Stando ai dati del ministero dell’Interno e di quello
dell’Economia e Finanze, nel 2015 il nostro paese ha impiegato poco più di 800 milioni di euro per la spesa
complessiva di accoglienza dei rifugiati. Sempre nel 2015 il costo delle “missioni” militari italiane in alcuni dei
paesi d’origine dei rifugiati è stato di un miliardo e mezzo di euro. Altre spese saranno da aggiungere per la
spedizione militare che il governo sembra ansioso di promuovere in Libia.
La contraddizione tra indisponibilità a sostenere i costi dell’accoglienza e le spese delle azioni militari cui
si partecipa, proprio nei paesi dei richiedenti asilo, è ancora più stridente in casi come quello della Gran Bretagna
e della Francia. Ma considerazioni analoghe si possono fare per i paesi di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca,
Slovacchia, Ungheria) ed altri oltranzisti nei confronti dei profughi. Infatti che anche tra loro non manca chi
partecipa spesso e volentieri alle coalizioni di “volenterosi” operanti in vari scacchieri.
Per quanto li riguarda, i rifugiati non vogliono essere mantenuti. Come gli altri immigrati, essi cercano
lavoro e sperano d’inserirsi al più presto nei paesi meta. Ed anche su questo occorre considerare i dati di fatto.
In realtà i rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale assai ridotta del numero complessivo
degli immigrati di prima generazione ed ufficialmente censiti nei paesi d’arrivo. Si va dallo 0,6% in Usa al 3,1%
in Francia. Ma anche qualora essi concorressero ad aumentare il numero complessivo degli immigrati in misura
maggiore, va ribadito che questi non rappresentano un gravame per la spesa pubblica né un ostacolo per la crescita
economica dei paesi ospiti. Al contrario, è dimostrato che essi rappresentano una risorsa.
Tornando all’esempio dell’Italia, le stesse fonti ministeriali ci dicono che nel 2014 l’ammontare delle tasse
e contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di
accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di
ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite
degli immigrati.
Ancor più importante è il loro contributo al riequilibrio demografico. Com’è ben noto, proprio nei paesi
più sviluppati, la popolazione invecchia, sia per il calo della natalità che per l’aumento degli anni di vita. Il che
significa che non bastano i continui tagli alla sanità e la riduzione della spesa pensionistica. Se vogliamo che quel
che resta del sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in
età lavorativa. Secondo calcoli necessariamente approssimati, ma realistici e basati su dati Ocse, per il
raggiungimento di tale obiettivo la popolazione europea dovrebbe aumentare di non meno di 40 milioni nei
prossimi 4 anni. Il che è concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati.
Se lo stato delle cose è questo, è indispensabile modificare nettamente l’approccio al fenomeno migratorio
rispetto alle politiche oggi prevalenti sulle due sponde dell’Atlantico.
La seconda sfida riguarda il mutamento, a questo punto improcrastinabile, del modo di concepire e
governare i rapporti internazionali.
Su questo piano, fondamentale per il futuro del mondo, stiamo assistendo al protrarsi di logiche conflittuali
e di predominio nelle politiche internazionali che si ritenevano superabili dopo la fine della guerra fredda.
Nel 1990, col venir meno dell’equilibrio bipolare che aveva contrassegnato, in modo duro e minaccioso, i
rapporti internazionali dopo la seconda guerra mondiale, si ritenne da varie parti che potesse schiudersi una nuova
stagione. Si nutrirono speranze nella possibilità di un nuovo ordine nei rapporti internazionali. Un ordine
pluripolare e basato su politiche di pace e cooperazione.
Giova ricordare che proprio tali speranze segnarono il rilancio del vecchio disegno di un’Europa unita,
pacifica ed aperta verso il resto del mondo. Oltre a incoraggiare progetti di maggiore autonomia economica e
politica in paesi terzi.
Ma non s’è verificato nulla di tutto ciò. All’ordine bipolare se n’è sostituito uno monopolare e affatto
unilaterale. Gli Usa e i paesi della Nato, di fronte ad uno scacchiere libero dai precedenti vincoli, si sono subito
lanciati in una partita economica e politica in cui hanno affermato in modo prepotente e parziale gli interessi dei
propri gruppi dominanti, economici, tecnologici, tecno-militari e politici.
Si è assistito, invece, alla riproposizione di modelli e strategie di politica internazionale, aggressivi e
bellicisti, non molto dissimili da quelli praticati nei decenni precedenti.
Un esempio riguarda la suddivisione e controllo di zone d’influenza da mantenere ed espandere in
antagonismo con altri paesi.
Analoga continuità ha avuto la pratica di far leva sulle ambizioni di un paese in una determinata regione
contrapponendole a quelle di un altro ritenuto più distante o ostile rispetto agli interessi perseguiti. Salvo verificare
poi che, proprio per l'azione svolta, il regime di cui ci si è serviti ha acquistato un potere e autonomia giudicati
eccessivi e, quindi, da ridimensionare. Così è accaduto per l'Iraq di Saddam Hussein, l'Egitto di Hosni Mubarak, la
Tunisia di Ben Ali e simili. Altre volte, i pretestuosi obiettivi di combattere contro minacce incombenti o in difesa
della democrazia sono stati agitati contro regimi ritenuti decisamente ostili, come nel caso di Mu'ammar Gheddafi
in Libia e Bashar al-Assad in Siria. In ogni caso, i risultati sono stati fallimentari e hanno comportato solo grandi
sofferenze per le popolazioni civili.
In altri casi non ci si è fatto scrupolo di rinfocolare vecchie contrapposizioni etniche o religiose per
strumentalizzarle ai propri fini o giustificare interventi affatto arbitrari. Com'è accaduto in vari paesi dell'Africa
centrale e orientale.
La logica unilaterale che si è affermata nella regolazione dei rapporti internazionali ha avuto l’esigenza
della continua individuazione di un nemico e di una minaccia esterna. Il possesso di “armi di distruzioni di massa”
di questo o quel regime non amico, le organizzazioni terroristiche, gli immigrati, proprio perché obiettivi indicati
in maniera pretestuosa e quindi dilatati, hanno finito coll’assumere contorni tanto confusi da creare vere e proprie
sovrapposizioni. Sovrapposizioni agite anche ad usi di politica interna, come strumenti di controllo sociale,
competizione elettorale e quant’altro.
Proprio tali mistificazioni mostrano come ci si stia muovendo in una situazione di confusione e instabilità
nello scenario internazionale. Situazione assai pericolosa e priva di prospettive.
Nonostante la fine della guerra fredda, la logica dei rapporti internazionali è rimasta unilaterale e
aggressiva, basata sulla chiusura più che sull'apertura, sulla competizione più che sulla cooperazione,
sull'affermazione di false identità più che sul dialogo e il riconoscimento dell'altro. Ma si tratta, appunto, di un
ordine residuale e velleitario.
La spiegazione di questo stato di cose va ricercata nel fatto che l'attuale ordine dei rapporti internazionali si
è costruito nella difesa dei blocchi di potere dei paesi del capitalismo storico consolidati nella contrapposizione a
un'alleanza politico-militare e ad un modello sociale avversi e ritenuti pericolosi per i propri interessi dominanti.
A questo punto s’impone una svolta radicale che consenta la costruzione di un nuovo ordine internazionale
foriero di pace, aperto alla cooperazione economica, alla partnership e collaborazione politica. Una siffatta
impresa non può avvenire se non modificando i blocchi di potere così come si sono costituiti all'interno dei paesi
euro-atlantici e nelle loro diramazioni internazionali.
Non v’è dubbio che si tratta di una sfida assai ardua. Ma non si vede come sia possibile affrontare i
problemi complessi e strettamente interdipendenti del mondo contemporaneo se non in una logica e pratica dei
rapporti internazionali assai diverse dalla parzialità, disordine e assenza di prospettive che caratterizzano quelle
attuali.
II SESSIONE − POMERIGGIO
APERTURA DEI LAVORI
CARLO GALLI
Come tema scientifico del seminario abbiamo indicato le nuove forme del rapporto fra guerra e politica.
Queste nuove forme possono essere studiate dal punto di vista della politica internazionale e da quello della
politica interna. Questa mattina abbiamo sentito prevalentemente trattare di politica internazionale; adesso
sentiremo qualcosa che nasce dalle riflessioni di un professore di Diritto costituzionale.
INTERVENTI PROGRAMMATI
GAETANO AZZARITI
Cambia la guerra in epoca globale. Sono mutate le forme, i metodi, l'idea stessa di guerra. Due date
segnano questo passaggio: il 9 novembre 1989 e l'11 settembre 2001.
La prima, con la caduta del muro di Berlino, ha posto fine ad ogni equilibrio e stabilità internazionale
garantite sin lì dalla cosiddetta "costituzione di Yalta", sostituita da pure ragioni di potenza di Stati neo-imperiali,
mascherate dalla retorica strumentale dei diritti umani e della pretesa di poter “esportare” la democrazia. Entro
quest'orizzonte si sono definiti i diversi conflitti armati, dalla guerra del Golfo del '90 alla guerra in Libia nel 2011.
La seconda, con l'attacco alle torri gemelle, ha posto fine al collegamento tra guerra e territorio. Il
terrorismo ha, infatti, sostanzialmente, de-territorializzato la guerra sia perché il terrore non ha nazione (tant'è che
la guerra seguita all’11 settembre non fu ingaggiata tanto contro lo Stato dell’Afghanistan, quanto per combattere
le organizzazioni terroristiche insediate o disseminate in alcuni territori nascosti), sia perché il terrorismo colpisce
dappertutto e non ha cittadinanza (la strage di Parigi è dimostrazione tanto della capacità del terrore di colpire
“ovunque”, quanto della perdita di ogni possibile configurazione nazionale del “nemico”, spesso autoctono).
Di fronte a modifiche della realtà così profonde le nostre analisi non sono state all'altezza. La politica – ma
anche la dottrina – ha pensato di potersela cavare distorcendo il significato delle parole. Confidando sulla
ipocrisia del linguaggio abbiamo chiamato le «nuove guerre» missioni di polizia internazionale, per poi
confondere quei pochi concetti teorici, di diritto internazionale, che dovevano essere tenuti fermi: peacekeeping,
peace-building, peace-enforcement non sono la stessa cosa.
Dinanzi a questo scenario, si deve tentare un’analisi realistica delle disposizioni costituzionali in materia di
guerra, per verificare come salvaguardare – nel nuovo contesto – il principio pacifista che innerva il nostro sistema
costituzionale.
A rigore il ripudio della guerra – di cui all’articolo 11, interpretato in combinato disposto con gli articoli
52, 78, 60 e 87 – conduce a legittimare esclusivamente la guerra difensiva di tipo tradizionale. Precludendo,
pertanto, in qualsiasi caso l'utilizzazione delle nostre forze armate all'estero per la risoluzione di controversie
internazionali. A rigore ne discende che nessun obbligo di partecipazione dell’Italia ad organizzazioni e alleanze
sovranazionali (ONU, Nato) sono in grado di legittimare dal punto di vista della nostra costituzione l’uso delle
forze armate per azioni militari contro obiettivi nemici in contesti di guerra civile. Le “limitazioni di sovranità”, di
cui all’articolo 11 (spesso richiamate per giustificare i vincoli di alleanza internazionale) non mi sembra possano
essere intesi come idonei a legittimare l'invio di truppe in scenari propriamente bellici. Non tanto perché l’articolo
11 lega le “limitazioni” alle “condizioni di parità con gli altri Stati”; quanto per il vincolo teleologico chiaramente
indicato da questo stesso articolo e che rappresenta il presupposto per ogni valutazione in merito: assicurare “la
pace e la giustizia fra le Nazioni”.
Può dirsi che rispondano a tale vincolo le attuali guerre non dichiarate? Per rispondere affermativamente
alla domanda posta non bastano le ragioni umanitarie che sempre mascherano gli interventi militari. Tanto più nei
casi in cui la violenza armata sia rivolta contro nemici senza un territorio, senza confini, senza governi, senza
eserciti riconosciuti. Se si vuole dare un senso concreto ai limiti costituzionali alla guerra diventa necessario porre
dei punti fermi che devono condizionare la politica italiana anche a livello internazionale.
Anzitutto è opportuno ricordare le ragioni originarie che indussero il nostro costituente ad ammettere le
limitazioni di cui all’articolo 11. Esse furono previste per permettere la partecipazione dell’Italia
all’Organizzazione delle Nazioni Unite: era quella l’organizzazione internazionale rivolta ad assicurare la pace e la
giustizia tra le nazioni. Dunque, non ad uno Stato, né a gruppi di Stati tra loro alleati è rivolta la norma. Ciò deve
indurre a ritenere che nessun impegno di peacekeeping possa essere contratto tra Stati, non essendo neppure
sufficiente – come attualmente si ritiene – una indeterminata “copertura” ONU. Appare, invece, necessario
operare nel pieno rispetto delle disposizioni della Carta ONU, in particolare seguendo quanto imposto
dall’articolo 46, che afferma che l’impiego delle forze armate sono stabilite dal Consiglio di sicurezza in base a
decisioni assunte ai sensi dell’articolo 27 (con almeno nove voti su quindici, tra cui tutti i membri permanenti).
Secondo quanto previsto dalla Carta delle Nazioni Unite vi sono anche altri articoli che dovrebbero essere fatti
valere, tra cui quelli che assegnano la direzione di queste missioni direttamente al Consiglio di sicurezza (articoli
43 e 53). Norme, queste ultime, che non hanno trovato applicazione.
Ma anche volendo prendere atto della debolezza dell’ONU, non penso che ciò possa legittimare la
riassunzione delle decisioni sulla guerra da parte degli Stati. Non ritengo cioè che possano ritenersi sufficienti
generiche coperture ONU, dovendosi, invece, pretendere quantomeno una esplicita delibera del Consiglio di
sicurezza. Si afferma che in tal modo si rischia la paralisi, soprattutto a seguito della regola dell'unanimità dei
membri permanenti. Ebbene è questa una buona ragione per pensare ad una riforma delle Nazioni Unite che sia in
grado di rilanciare il ruolo di una istituzione sovranazionale che ha come sua propria finalità quella di “salvare le
future generazioni dal flagello della guerra”.
D'altronde, la crisi del modello ONU non può rendere legittimo ciò che non è tale ai sensi della nostra
costituzione. Nessun pregio costituzionale, dunque, può avere la condizione “politica” posta nel caso della crisi
libica: l'intervento diretto degli Stati – tra cui quello italiano – sarebbe subordinato (esclusivamente) alla richiesta
di intervento da parte del governo libico. Pur non volendo considerare che un “governo” libico in realtà non esiste
(in quel paese è in corso una guerra civile, pertanto nessuna autorità è pienamente legittimata in quelle aree), in
ogni caso, anche ove fosse richiesto da una delle fazioni in lotta (quella prescelta dall'ordinamento internazionale,
che abbia sede a Tripoli ovvero a Tobruk o altrove non rileva), non perciò l’intervento militare potrebbe diventare
legittimo.
A ben vedere il sistema costituzionale fornisce indicazioni ed indirizzi precisi in ogni situazione di crisi
internazionale. Al di là della loro classificazione – se siano guerre in senso tradizionale o manifestazione di una
diversa tipologia di «nuove guerre» – appare necessario il confronto tra le diversificate missioni militari all'estero
e la più drammatica situazione della guerra dichiarata. Dal complessivo sistema costituzionale (i già richiamati
articoli 11, 52, 60, 78, 87) non solo emerge un quadro di grande cautela, ma soprattutto una volontà di
coinvolgimento di tutti gli organi di vertice del nostro ordinamento costituzionale. Nessuno nel nostro
ordinamento costituzionale può pretendere di prendere una decisione concernente la pace e la guerra in solitudine.
La Camera delibera lo stato di guerra e conferisce i poteri necessari al governo; essa, inoltre, rimane in carica – è
l’unico caso di prorogatio (articolo 60) – in caso di guerra proprio al fine di continuare ad esercitare le proprie
prerogative anche nelle più drammatiche situazioni belliche. Il Presidente della Repubblica non solo dichiara la
guerra, ma ha anche il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa. Dunque, in qualità di
garante del sistema costituzionale, svolge un ruolo di assoluto rilievo, sebbene non eserciti poteri effettivi di
comando. Infine, certamente anche il governo, il quale ottiene i “poteri necessari”, ma questi sono conferiti dal
Parlamento che ne definisce l’ambito e che dunque non si affrancano dal controllo del Parlamento (il quale “non
sciolto” può sempre modificare il conferimento dei poteri). D’altronde, il governo non può che rimanere in
raccordo, in sintonia, con il Presidente della Repubblica, non solo perché il Presidente è il garante della
Costituzione, non solo perché firma tutti gli atti del governo più rilevanti, ma anche perché, in qualità di
rappresentante dell’unità nazionale (articolo 87), deve garantire i rapporti internazionali.
È interessante rilevare che nei casi estremi di guerra e di difesa della Nazione, la nostra costituzione non
definisce i ruoli solo degli organi di vertice, ma è la Repubblica nel suo insieme che viene chiamata in causa. Sui
cittadini incombe un dovere “sacro”, quello di difendere la patria (articolo 52), da qui la loro suprema
legittimazione a partecipare alle decisioni ultime sulla pace e sulla guerra.
Questa sistematica ritengo racchiuda lo spirito pacifista della nostra costituzione. Credo che essa debba
trovare una sua specifica definizione anche nei casi di guerre non dichiarate, in ogni caso di uso all'estero delle
forze armate italiane, ogni volta che impegni internazionali spingano a partecipare a conflitti armati. Purtroppo,
invece, si registrano comportamenti, fatti, atti, che spingono il sistema politico italiano in opposta direzione. La
tendenza di fondo è quella della progressiva governamentalizzazione delle decisioni sulle politiche di guerra. Il
dominio degli esecutivi appare palese se si pensa alla progressiva emarginazione del Parlamento, alla sua
irreggimentazione entro le logiche proprie della maggioranza di governo. Farò degli esempi per dimostrare questa
tendenza.
Il caso più emblematico è rappresentato della modifica dell’articolo 78 della Costituzione. Com'è noto il
disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi (ormai approvato dal Parlamento, ma che deve ancora essere
valutato dal corpo elettorale in sede referendaria) prevede la delibera dello stato di guerra e il conferimento dei
poteri necessari al governo da parte della sola Camera – non più il Senato – a maggioranza assoluta. Anche
considerando gli effetti distorsivi della legge elettorale, è evidente la tendenza all’asservimento e all’assorbimento
delle decisioni sugli stati di crisi nell’ambito della logica governativa.
Più in generale, è la indeterminatezza dei rapporti Parlamento-governo che deve essere denunciata. I
passaggi del governo in Parlamento non possono essere lasciarsi al caso, alla bontà dei governi, alle più o meno
estemporanee mozioni e interpellanze dei parlamentari, alla richiesta eventuale della Commissione difesa, alle
generiche informative. Io credo che sia opportuno stabilire un obbligo del governo di trasmissione di atti, di
interlocuzione con la Commissione, in ogni caso di preparazione prima e dopo l'invio dei militari all’estero, al fine
di permettere al Parlamento, alle Commissioni competenti quantomeno, di adottare gli atti di indirizzo, che il
governo dovrà tenere in sede europea e internazionale.
In fondo null'altro che un meccanismo analogo a quello già adottato in situazioni molto meno
drammatiche: è ad esempio il sistema adoperato per garantire la partecipazione parlamentare alla fase ascendente
di formazione del diritto europeo (legge 234 del 2012). Non vedo ostacoli per l'utilizzazione di un simile
meccanismo nei casi, ben più delicati, legati alle missioni militari all’estero. Un sistema, in sostanza, che obblighi
il governo ad andare in Parlamento, non lasciando alla sua discrezionalità la decisione di far partecipe l'organo
legislativo, stabilendo così il coinvolgimento nelle decisioni di altri soggetti oltre all'esecutivo.
Vero è che c'è anche bisogno di un Parlamento geloso delle sue prerogative. Se questi – il Parlamento – è il
primo a spogliarsi delle proprie responsabilità e a non rivendicare un suo ruolo, delegando all'esecutivo tutte le
decisioni che esso già assume, magari attribuendogli ulteriori compiti, non riusciremo mai a riequilibrare i
rapporti tra organi, tra governo e Parlamento. La vicenda della conversione dell’ultimo decreto legge di
rifinanziamento delle missioni degli italiani all’estero – il decreto legge 174/2015 – non è un bel segnale. Avere in
sede di conversione (il governo non lo aveva neppure chiesto nell'originario decreto legge) inserito la possibilità
che il Presidente del Consiglio possa emanare disposizioni sull’uso dell’intelligence in situazioni di crisi e di
emergenza all’estero non più collegate solo alla esigenza di protezione dei cittadini italiani all’estero, ma anche in
ragione dei complessivi assetti di supporto della difesa, io credo che abbia aperto la strada ad un'ulteriore e non
proficua emarginazione del Parlamento.
CARLO GALLI
In margine alla relazione del professor Azzariti voglio ricordare – fatto del quale siamo orgogliosi – che
Sinistra Italiana è l’unico gruppo parlamentare che ha votato contro l’articolo 7-bis di quel decreto, che consente
l’invio di militari italiani all’estero coperti dalla guarentigia funzionale degli ufficiali dei servizi segreti. Il che
vuol dire ben poco per lo Stato estero che li riceve, ma parecchio per noi: cioè vuol dire che il governo italiano in
questo momento dispone di un esercito segreto; e il Parlamento glielo ha votato. E il gruppo di Sinistra Italiana no.
MASSIMO D’ANTONI
Sarebbe stato interessante avere qui oggi un economista esperto di questioni internazionali. Avrebbe potuto
dare una serie di elementi conoscitivi sull'argomento in discussione, a cominciare dalla questione
dell'approvvigionamento energetico. C’è, in generale, un quadro di riduzione della domanda di petrolio e di
contemporaneo aumento dell’offerta: quindi semplicemente un gioco di domanda e offerta. Ma c'è anche
l'interesse dell'Arabia Saudita a tenere basso in questo momento il prezzo del greggio. Potrebbe esserci l'obiettivo
di tenere fuori mercato la produzione autonoma degli Stati Uniti di shale gas o lo sviluppo di queste fonti
alternative. C’è senz’altro un confronto con l’Iran e con la Russia. Il tema ha, insomma, chiari risvolti geopolitici,
e spostandoci su questo terreno il nostro approccio di economisti spesso risulta insufficiente, visto che entrano in
gioco fattori quali i rapporti i potere, che mal si adattano agli schemi analitici della nostra disciplina.
Oltre a questo, non essendo l'economia internazionale il mio campo di studi, provo a dire qualcosa da
economista rispetto al versante interno, e qualcosa anche non da economista riguardo a questioni politiche cruciali
non più rinviabili.
Sul fronte interno del problema c’è senz’altro tutto il tema dell’immigrazione. Sono preoccupato che su
questo la sinistra rischi di trovarsi in grosse difficoltà nei prossimi tempi, se non saprà fornire risposte adeguate
alle necessità. Noi siamo abituati a sottolineare – anche per cercare di contrastare le posizioni xenofobe della
destra – gli aspetti positivi dell’immigrazione, legati soprattutto alla sostenibilità del welfare – principalmente
delle pensioni. In questo, indubbiamente, c’è un fondo di verità. Le proiezioni sulla sostenibilità del nostro sistema
pensionistico sono estremamente sensibili rispetto alla dimensione del flusso annuo di immigrati. Un sistema
come il nostro, il cui funzionamento è stato progettato per tassi di fertilità, di natalità, ben diversi, si trova in
difficoltà con la frenata della crescita demografica; e in questo senso l’immigrazione è indubbiamente un fattore
positivo. Questo è l’argomento principale che giustifica l'idea che l’immigrazione sia anche un’opportunità.
Purtroppo, però, temo che questo sia un modo insufficiente per affrontare la questione. Innanzitutto perché
il sistema ha un po’ di respiro finché arrivano immigrati giovani, ma poi i giovani invecchieranno, e i contributi di
oggi sono le prestazioni di domani. In secondo luogo, perché l'immigrazione porta con sé anche tutta una serie di
costi economici e, almeno a giudizio di chi ha studiato seriamente il problema, nella migliore delle ipotesi si fa
pari tra benefici e costi. Ma soprattutto, non è corretto ragionare nell'aggregato. La questione principale di cui
dobbiamo preoccuparci mi pare quella della distribuzione dei costi e benefici dell'immigrazione. Costi e benefici
sono distribuiti in modo asimmetrico sulla popolazione che riceve gli immigrati. Non è del resto una novità: con
riguardo all’apertura degli scambi con l’estero e ai suoi effetti, la questione della distribuzione non simmetrica di
vantaggi e svantaggi è da sempre un tema rilevante.
Pensiamo all'accesso al welfare in presenza di risorse limitate, all'impatto nelle scuole in certe aree delle
periferie dove la percentuale di bambini immigrati è particolarmente alta, e così via. La maggiore disponibilità di
badanti o la sostenibilità del sistema pensionistico possono senz’altro avvantaggiare le classi medie e medio-alte.
A sostenere, invece, quasi tutto il costo in termini di prossimità, di diretta competizione nell’accesso ai servizi e,
soprattutto, di concorrenza nel mercato del lavoro sono le persone con minore qualificazione. La competizione sul
mercato del lavoro è un problema reale, soprattutto in alcuni settori – l’edilizia è solo un esempio. L’effetto è
quello di allontanare o di rendere fortemente ostili al fenomeno soprattutto persone a basso reddito già in
condizioni di disagio. E questo è un problema per la sinistra.
Un ulteriore elemento che a volte non viene considerato – ma che è stato molto studiato in contesti diversi
dal nostro – è il grado di frammentazione della società che ha un effetto sul grado di consenso verso la
distribuzione. Ci sono famose analisi (cito fra gli altri quelle di Alesina e altri), che hanno individuato nel grado di
eterogeneità razziale la principale spiegazione della minore propensione a spesa pubblica e redistribuzione negli
Stati Uniti rispetto all’Europa.
La ricerca sembra confermare che il percepirsi come omogenei è un elemento che facilita la creazione di
un sistema di welfare e l’idea di solidarietà anche tra persone con reddito diverso e tra classi sociali, mentre
laddove le divisioni sociali si sovrappongono a divisioni etniche o razziali non si riesce a far passare nessun
meccanismo di tipo redistributivo.
Mettendo insieme tutti questi aspetti, vedo tempi abbastanza difficili per chi come noi crede invece nella
necessità di rafforzare il sistema di welfare, di mettere in piedi meccanismi di redistribuzione. E, soprattutto, vedo
la difficoltà di affermare questi obiettivi in quella che dovrebbe essere la nostra naturale base sociale, che
probabilmente finirà invece per essere la più ostile a quello che sta accadendo.
Non credo infatti – date anche le difficoltà economiche e sociali crescenti – che la nostra base di
riferimento possa accontentarsi dell’affermazione astratta dei pur sacrosanti principi di eguaglianza di tutti gli
uomini e della necessità di tenere le porte aperte e di essere solidali con chi ha bisogno. C'è senz'altro un problema
culturale, la presa di una certa propaganda xenofoba, ma c’è anche il fatto di vivere sulla propria pelle il costo di
questi processi.
Mi ha colpito che in ambienti non tipicamente di sinistra ci si stia appropriando, in questa fase difficile, di
alcune categorie tipiche della cultura di sinistra. Ad esempio, l’«esercito di riserva» ormai è un termine che viene
riferito all’uso cinico dell’apertura delle frontiere per mantenere bassi i salari. In Germania questo è stato detto
abbastanza chiaramente nel dibattito pubblico: l’apertura delle frontiere ai migranti e ai rifugiati è un ulteriore
meccanismo di contenimento della crescita dei salari rispetto a quelli già messi in campo. È un problema serio e
credo che noi dobbiamo porcelo. Non possiamo rispondere a questi fenomeni semplicemente con un’affermazione
astratta di valori non rinunciabili, ma bisognerà rilanciare con meccanismi di compensazione sociale. Nel
momento in cui c’è una parte che sostiene i costi, bisogna ridistribuire i benefici a vantaggio di chi vive sulla
frontiera – nel senso che si trova in una condizione di vicinanza e di competizione diretta con gli immigrati. Su
questo noto un certo ritardo.
Vorrei usare il resto del mio intervento per riflettere, questa volta non da economista, su un tema su cui mi
sono sentito sollecitato sia dall’intervento di D’Alema, sia dalle discussioni nell’intermezzo del pranzo – che è
stato molto utile per scambiarci un po’ di idee. Lo spunto di D’Alema che mi ha colpito è stato il passaggio sul
finanziamento della costruzione delle moschee, che, se lasciato come avviene oggi ai privati, ha per effetto
l'affermazione di certe correnti estremiste dell'Islam. D'Alema ipotizzava addirittura il sostegno pubblico alla
costruzione delle moschee come azione finalizzata a creare le condizioni per un islam moderato nel nostro Paese e
in Europa. Riflettevo se e in che misura questa proposta sia compatibile con quello che è il nostro modo di vivere
il rapporto tra Stato e religione. Perché forse la sinistra non si è mai posta in positivo il tema della “politica
religiosa”. L’atteggiamento prevalente è invece – per ragioni storiche piuttosto ovvie – quello del contenimento
dello spazio della religione, percepita per lo più come forza di conservazione.
Mi sembra che qui si apra una questione di grande importanza, che chiama in causa anche un altro aspetto
su cui forse non c’è stata abbastanza riflessione: che tipo di società multiculturale – visto che noi siamo favorevoli
all’idea della convivenza tra più culture – abbiamo in mente per questo Paese. E qui mi addentro su un terreno
delicato. C'è, da un lato, quello che possiamo chiamare il modello francese, in cui la convivenza tra diversi è
giocata attraverso la categoria della laïcité – la laicità intesa come sottrazione degli elementi di appartenenza e
come creazione di uno spazio pubblico neutro che relega gli aspetti identitari, tra cui quello religioso, al privato. Si
pensi come esempio paradigmatico il divieto dei simboli religiosi nelle scuole. Questa non è in senso proprio una
società multiculturale: è una società in cui le culture possono convivere, ma non c’è uno spazio pubblico di
convivenza vera. È un modello che mi pare abbia incontrato evidenti limiti e che non vedo compatibile né con la
nostra tradizione culturale né con quell’idea di D’Alema che mi sembrava interessante.
A fronte di questo, ho avuto modo di conoscere da vicino, per averci vissuto per qualche mese, il modello
canadese, probabilmente l’esperienza più compiuta di multiculturalismo. È un caso per molti versi diverso sia dal
modello inglese sia da quello americano, perché vi si porta all’estremo la valorizzazione della propria cultura di
provenienza. L'eterogeneità culturale viene valorizzata come ricchezza da conservare: non c'è l'invito ad
abbandonare la propria cultura, la propria lingua, in nome della nuova appartenenza. L'immagine è quella del
mosaico, contrapposto all'idea del crogiuolo dei vicini Stati Uniti. Si arriva poi a degli aspetti che a noi appaiono
estremi e sono anch'essi problematici – come il modulare il diritto di famiglia sulla base dell’appartenenza
religiosa (per inciso, è così anche in altre realtà in cui convivono culture molto diverse, come Israele), per cui tu
sei assoggettato a un diritto che dipende dalla comunità di cui fai parte. Ripeto che questo è un modello in qualche
modo estremo, che nel caso del Canada funziona probabilmente perché non c’è una tradizione o forte cultura
“indigena”.
Insomma, tra questi due modelli, quello della neutralizzazione in nome della laïcité, e quello canadese del
multiculturalismo, c'è un'intera gamma di opzioni che mi fa dire che forse qualche riflessione sulla soluzione più
adeguata per un paese come l'Italia dovremmo avviarla. Qual è la rilevanza pubblica che vogliamo assegnare alle
dimensioni dell'identità culturale, inclusa quella religiosa? Tocco un tasto molto delicato, e spero di non essere
frainteso se dico che trovo inadeguata un'idea di laicità che esclude dallo spazio pubblico la dimensione religiosa,
e più in generale quella valoriale, relegandola a fenomeno puramente “privato” e individuale. Ovviamente,
parlando di dimensione pubblica della religione non intendo avallare un ruolo politico o di gestione del potere da
parte delle chiese! Penso a qualcosa in linea con l'idea di pluralismo sociale e il ruolo dei “corpi intermedi”, anche
come antidoto al sospetto, tipico di un certo liberalismo, verso tutto quanto si muova tra l'individuo e lo Stato. Non
credo che questo sia incompatibile con una moderna idea di laicità. Non è un tema facile, ma credo che anche su
questo dovremmo confrontarci.
INTERVENTI
ARTURO SCOTTO*
Stimolato da alcuni interventi e da alcune riflessioni, vorrei concentrarmi su due questioni. Azzariti,
giustamente, partiva da una riflessione molto seria sul ruolo della funzione del Parlamento nell’attuale contesto
internazionale, soprattutto nel momento in cui abbiamo assistito – lo dicevano Caracciolo e D’Alema questa
mattina – a una catena di stress test (io li definirei così) sulla vicenda libica, dove ogni due settimane si
esprimevano posizioni completamente diverse e talvolta addirittura fra loro contrastanti: siamo partiti da Pinotti
che ha annunciato, in maniera forse leggera, l’invio di truppe in Libia – senza neanche una riflessione sulla cornice
–, alla minimizzazione di Matteo Renzi, per arrivare ad alcune scelte che però, già nei fatti, mi chiedo se non ci
pongano al limite tra l’essere o meno già coinvolti in un intervento armato. Mi spiego. Quando viene autorizzata la
partenza dei droni – che non sono dei giocattoli radiocomandati, ma un mezzo che uccide – dalla base di
Sigonella, utilizzando la famosa risoluzione del 2014 per la lotta all’Isis della coalizione antiterrorismo e
allargandola a dismisura, ivi compreso lo scenario libico; quando dopo qualche settimana dal voto definitivo del
Parlamento, del dicembre dello scorso anno, sull’articolo 7-bis (Disposizioni in materia di intelligence) sul decreto
missioni si produce un D.P.C.M. del Consiglio dei ministri attuativo di quell’articolo: già invii probabilmente
strutture di intelligence e truppe speciali con immunità funzionali; già, quindi, ti trovi nei fatti dentro un contesto
di guerra. A questo punto, la domanda che pongo è se già ci troviamo di fronte a un superamento, se non
addirittura a una violazione, dell’articolo 11; già adesso, in questo contesto, prima ancora dello «sbarco in
Normandia» che ci sarà, non ci sarà, o di un’eventuale missione multinazionale da preparare in quel quadro.
Io penso che noi ci troviamo già dentro questa dimensione, e credo anche che siamo finiti dentro una
dimensione ancora più drammaticamente pericolosa. La governamentalizzazione dei processi bellici produce non
semplicemente il fatto che le Commissioni parlamentari vengono sempre dopo. Già nello spirito del decreto
missioni il Parlamento viene dopo, nei fatti, a ratificare con un sì o con un no un pacchetto chiuso. Perché è chiaro
che noi ci troveremo a votare l’invio dei quattrocentoquaranta militari a Mossul per sostenere l’azienda Trevi nella
messa in sicurezza della diga, ma in realtà noi voteremo quando il fatto è già accaduto e non prima che accada,
perché il decreto – ovviamente – interviene prima. Quindi, secondo me, dovremmo provare a riflettere se già ora
siamo in un quadro di violazione dell’articolo 11.
La seconda questione – che mi è stata stimolata anche ascoltando le ultime parole di D’Antoni – riguarda il
tema serissimo dell’integrazione, che necessita di approfondimento. È stato molto interessante il passaggio di
D’Alema sulla convivenza, sul fallimento del doppio modello – inglese e francese –, e soprattutto la citazione di
Ramadan sulla necessità di un confronto serio tra lo Stato e le comunità musulmane, per evitare che sia l’Arabia
Saudita a costruire direttamente le moschee e quindi a scegliere poi gli imam.
A questo proposito, c’è un libro – Soumission di Houellebecq – che ha fatto discutere moltissimo e che
tuttora suscita interrogativi molto forti, ma che tuttavia per certi aspetti è profetico rispetto alla curvatura che può
prendere anche un grande Paese come la Francia. Perché ad abbandonare il principio della laicità così come è stato
concepito dai francesi – secondo cui la religione è un fatto privato, che sta da un’altra parte rispetto allo Stato e
alla Costituzione – io farei davvero molta attenzione. E non per una forma di allergia verso quella che tu hai
definito una politica religiosa anche della sinistra, ma perché temo che se noi non abbiamo la capacità dentro
l’Europa, dentro questa Europa, e dentro i singoli Stati nazionali, di immaginare qual è la linea di confine, ad
esempio, del diritto di famiglia, noi ci potremmo trovare un giorno – di fronte a un’idea di liberalizzazione dei
diritti di famiglia – ad applicare nei fatti anche la sharia.
Per cui, io credo che il modello francese sia per diversi aspetti da rivedere, tenendo però sempre presente
che nei processi di radicalizzazione di una fascia rilevante delle giovani generazioni ci sono condizioni sociali,
economiche, pesantissime, che molto spesso producono e inducono l’adesione alla jihad. Deve essere però chiaro
che faccio fatica a immaginare un altro modello che da un’idea strutturata della laicità passi a un’idea per cui
ciascuna comunità si organizza. Questo è un terreno molto scivoloso su cui abbiamo bisogno di fare una
riflessione vera, autentica, guardando in faccia il problema, provando a selezionare anche una gamma diversificata
di risposte. Ma, comunque sia, io il concetto di laicità me lo terrei stretto.
SALVATORE CINGARI
A me è sembrato che nella discussione di stamattina, ove si eccettui il contributo di Ignazio Masulli, gli
interventi programmati abbiano lasciato fuori un tema che, secondo me, per un costituendo soggetto della sinistra
italiana dovrebbe essere il nodo centrale. E cioè il nesso fra i processi politico-economici globali, di erosione della
sovranità politica, rispetto alle grandi concentrazioni di capitale; ovvero l’attuale stadio del capitalismo in rapporto
alle relazioni internazionali. Pertanto, quando si dice che, dietro la sconsideratezza politica dell’intervento in Libia
dell’Inghilterra e della Francia, o delle palinodie di Obama o di Blair, c’è un vuoto politico, a mio avviso si
commette un errore. In realtà dietro tali fenomeni c'è la crisi della politica, ma anche un “pieno” di interessi del
capitalismo globale. E allora è su questo che ci dobbiamo interrogare. Tutta la discussione di stamattina mi ha
lasciato perplesso proprio per questo motivo.
Anche per quanto riguarda il discorso legato alle primavere arabe, non sono stato d’accordo sul passaggio
in cui Tonini ha detto che non sono fallite, perché dobbiamo dare il tempo a questi processi di maturare. Questo
vuol dire prendere sul serio la democrazia nel senso formale e liberaldemocratico. Luciano Canfora, nel libro La
democrazia. Storia di un’ideologia, spiega piuttosto bene come si abbia democrazia in senso sociale (quello che la
democrazia dovrebbe essere per un soggetto di sinistra) quando nella società ci sono determinati equilibri (di
forze) che danno ai ceti deboli più voce in capitolo rispetto ai poteri economici e alle rendite di posizione
tradizionali. Le elezioni e il pluralismo sono requisiti importanti, anzi necessari, ma non sufficienti affinché si
abbia democrazia, senza il suddetto aspetto sostanziale.
Stamattina è stato citato Giulio Regeni, a cui va il nostro costante ricordo. Ma Regeni non era andato in
Egitto a fare uno studio sui processi elettorali. Era lì a studiare i movimenti sindacali che lottavano per il pane. Il
tunisino che ha dato luogo alla primavera araba, si è incendiato perché lui e quelli come lui non arrivavano alla
fine del mese. Perché sono fallite le primavere? Perché sono state, in modo diverso, sussunte dai processi del
capitalismo globale. La Tunisia, come sappiamo, è l’unico Paese in cui ancora si è mantenuta una situazione di
pluripartitismo, ma non è solo questo il discorso. Samir Amin ha spiegato bene come anche i Fratelli Musulmani,
che erano andati al potere con libere elezioni e che poi sono stati buttati giù da una dittatura, sono ormai lontani
dalle matrici solidaristiche originarie e sono diventati, dal punto di vista politico-economico, una forza politica del
tutto permeabile agli interessi del neoliberismo.
Quindi, che cosa è successo nelle primavere arabe? Come per le rivoluzioni arancioni nell’est (e direi
anche per la nostra stagione di tangentopoli), è avvenuto un processo di incorporazione nel grande marasma
massmediatico, per far passare un’idea di cambiamento formale senza cambiamenti sostanziali. Anzi, se c'è
cambiamento sostanziale è nel senso di una maggiore permeabilità di questi Paesi agli interessi del capitalismo
globale. Come giustamente osservava Masulli, un tempo le dittature non di rado facevano gioco agli interessi
capitalistici. Sono state spesso puntellate come contraltare dell’Unione Sovietica. Oggi perché si buttano giù?
Perché c’è un vuoto di politica dietro? No, c’è un pieno politico. C’è la necessità di appropriarsi di risorse che
erano ancora spesso nelle mani pubbliche. È vero si trattava di dittature, ma quando si è buttato giù Mussolini
c’era il piano Marshall dietro. C’è un processo, in atto già da tempo, per cui si sussumono le lotte per i diritti civili
e il pluralismo dentro processi che portano poi sostanzialmente a esautorare governi dirigisti, in cui bene o male ci
sono politiche pubbliche, per appropriarsi delle risorse verso l’Occidente e le grandi concentrazioni di capitale
privato multinazionale.
Allora, arriviamo al punto. Io anche questa mattina ho sentito declinare la questione islamica in termini
troppo culturalistici. L’integralismo islamico si è sviluppato anche a causa del discorso che facevo prima: la crisi
economica si è abbattuta su questi paesi con una forza tale che il ceto medio, laico, che si era formato bene o male
fra gli anni Sessanta e Settanta – con i governi della decolonizzazione talvolta un po’ dittatoriali, talvolta a partito
egemonico, ma con politiche pubbliche e laiche –, è stato travolto. In Iraq c’era un’economia pubblica di primo
livello sotto Saddam Hussein. Ma questo non significa in nessun modo difendere Saddam Hussein. Significa dire
che all’inferno che c’era prima si è sostituito un inferno cento volte più doloroso. E a quali fini? Quelli che dicevo
prima.
Allora, il discorso dell’integralismo islamico va riportato a questo: al fatto che c’è il neoliberismo che
produce da noi una graduale erosione del livello di vita dei ceti medi; mentre in questi Paesi la cosa è ancora più
shocking, per fare riferimento anche al libro di Naomi Klein Shock economy, che non è sicuramente fuori luogo.
Stamattina si è parlato di “apocalissi” integralista, ma teniamo conto che i germi di nazismo che noi
ritroviamo in Daesh devono essere fatti risalire anche a Guantanamo. Ricordiamoci quello che è stato
Guantanamo. Io vedo un parallelismo con l’impazzimento della Germania hitleriana dopo il modo in cui la
Germania fu trattata durante la Grande guerra. Quindi, dobbiamo fare attenzione alle interpretazioni culturaliste, e
ritornare invece al nodo che credo debba interessare noi: la critica del neoliberismo, che è un fatto globale, ed è ciò
che spiega e dirige l’attuale dissennatezza della politica estera occidentale. Per marcare una discontinuità col
passato bisogna partire da qui. Discontinuità che deve essere nei confronti dei governi neocon; nei confronti dei
governi attuali, fra cui il governo Renzi; ma, ovviamente, anche nei confronti dei governi di centrosinistra degli
anni Novanta. Sono stati venti, trent’anni, egemonizzati da una progressiva diffusione del neoliberismo ed
erosione della sovranità politica. E il risultato è questo qua.
ALBERTO TONINI
Vorrei ritornare su due punti che sono stati sollevati. Uno è il tema dell’islam in Europa, che è un tema che
ci interessa e ci appassiona. Non partiamo da zero: sono molti anni che molti miei colleghi studiano il fenomeno
dell’islam in Europa e, in particolare, il fenomeno delle seconde generazioni. Ci stiamo interrogando già da tempo
in Italia e in altri Paesi europei su quale possa essere la modalità corretta per trovare e per dare spazio a questa
presenza e a queste persone – perché poi alla fine parliamo di persone, di individui –. Si è detto che il disagio
manifestato a Parigi nelle banlieues presso i giovani immigrati è il prodotto della revisione delle politiche sociali e
della forte riduzione di esse. Sì, ma non solo. Almeno sulla base di quello che è emerso dai tanti studi su questa
specifica componente della popolazione francese, c’è sicuramente un disagio, però c’è anche un disagio specifico
che appartiene a quel genere di popolazione e che non appartiene alla fascia francese di popolazione che soffre per
la riduzione delle politiche sociali. Per quei figli dell’immigrazione, vi è cioè anche un disagio legato alla loro
condizione specifica all’interno della società francese dove loro sono nati e cresciuti, ma dove a un certo punto
della loro maturazione percepiscono di non riuscire a essere visti come uguali agli altri. Pur essendo francesi,
arrivano a una certa fase del loro percorso personale e si convincono che per loro non ci sarà mai un posto uguale
agli altri membri della comunità nazionale in Francia. È una percezione. Non tutti i figli dell’immigrazione, non
tutti i musulmani di seconda generazione, condividono questa percezione – per fortuna della Francia, dove vivono
sei, sette, milioni di musulmani –. Alcuni di essi percepiscono questo forte disagio, che è il prodotto di una
riduzione – certo – delle politiche sociali, ma è anche tipico della loro condizione di origine, di appartenenza, e
quindi non è solo legato alle politiche sociali.
Poi, c’è la dimensione inter-generazionale, cioè la dimensione che attiene alla posizione di questi figli nei
confronti dei genitori. E anche questa è stata ed è studiata, perché una parte delle risposte che questi ragazzi
cercano e che si danno, deriva dal confronto fra la loro posizione e quella dei loro genitori. E quindi è spesso una
reazione di rifiuto delle scelte che i loro genitori hanno fatto e che essi – i ragazzi – non vogliono fare: li criticano,
non riconoscono le scelte dei genitori come soluzione valida. Il caso del velo, per esempio, rientra talvolta in
questa sintomatologia: i genitori, le madri che sono arrivate in Francia, hanno accettato di rinunciare al velo o non
lo hanno mai portato neanche nella loro giovinezza, quando erano in Algeria o in Marocco, e quando si
trasferiscono in Europa mantengono questo rifiuto; le figlie, che vivono talvolta uno scontro generazionale con le
proprie madri, si appropriano, invece, del velo come forma di dissenso nei confronti delle scelte fatte dalla
generazione precedente. Oppure, altra casistica – perché naturalmente il mondo è vario, non possiamo dire che il
velo risponde a una esigenza e basta – è quella in cui al velo abbiamo attribuito un significato politico identitario,
anche noi nel nostro dibattito pubblico, e quindi il velo negli ultimi dieci, quindici, anni è stato riscoperto come
portatore di un messaggio, come marcatore di una identità, al quale quindi ci si avvicina per essere riconoscibili
agli occhi degli altri. In tal senso il velo permette di far intuire, di far comprendere, di visualizzare qual è la
condizione specifica e l’identità di una donna. Il tema dell’islam in Europa ci deve interrogare, ci interrogherà per
molto tempo, e sono contento che se ne sia parlato oggi perché indubbiamente è un tema di grande rilievo, e
naturalmente non possiamo esaurire in un incontro tutto ciò che c’è di importante da dire.
Vengo all’altro intervento che mi ha sollecitato in qualche modo, cioè quello del collega Cingari, perché io
cercherei di problematizzare ulteriormente pur raccogliendo alcune delle sue osservazioni e dei suoi suggerimenti.
Non vorrei che attribuissimo un eccessivo ruolo e una eccessiva capacità al cosiddetto capitalismo neoliberale,
perché questo vorrebbe dire sottrarre alle forze interne, ai movimenti interni, a questi Paesi una loro capacità di
autodeterminazione. Pensando ai ragazzi che sono scesi in piazza Tahrir a manifestare contro Mubarak, a quelle
forze politiche e sociali dell’Egitto che hanno lottato per anni, pagando in molti anche in prima persona
l’opposizione al regime, e che infine sono riusciti ad allontanare quel dittatore dal potere, io non mi sento di
attribuire quel successo al capitalismo neoliberale. Che poi il capitalismo neoliberale abbia cercato di approfittare
e sicuramente riuscirà ad approfittare di questa fase di transizione fa parte delle dinamiche internazionali.
Transizione caotica si è detto questa mattina; io non ho mai visto una transizione che non fosse caotica, e quindi ci
si muove inevitabilmente in questi interstizi.
ERASMO PALAZZOTTO
Questa mattina ho avuto modo di dire che terrorismo e migrazioni sono figli legittimi del modello di
sviluppo capitalista. Entrambi questi fenomeni sono, in parte, funzionali al sistema. Il terrorismo è stato funzionale
a giustificare delle guerre che molto spesso col terrorismo non avevano niente a che vedere. La vicenda libica ne è
il caso più emblematico: la minaccia di Daesh in Libia, quando si è iniziato a discutere di un intervento militare,
era quantificata da tutte le statistiche in poco più di seicento uomini. Quindi, una presenza praticamente
insignificante è invece servita come elemento per aprire un dibattito su un possibile intervento militare. La crisi
libica in sé è una crisi che proviene dall’interno.
Allo stato attuale non è solo, come dice Obama oggi, un caso legato agli errori dei paesi europei che non
hanno fatto il follow up, ma si è voluto includere la Libia dentro un fenomeno – quello delle primavere arabe – che
in Libia non c’era, perché nel paese, a differenza dell’Egitto e della Tunisia, non c’erano manifestazioni di piazza.
Oggi questo è anche dimostrato, non è solo una teoria: le e-mail desecretate di Blumenthal alla Clinton ci
raccontano di come i servizi francesi abbiano fomentato una parte – in particolar modo le milizie di Misurata e
quelle che oggi fanno parte dell’esercito di Haftar – per abbattere Gheddafi con la promessa di sostituirsi al potere
in cambio di un pezzo di egemonia economica. E quindi, da questo punto di vista, la guerra civile scoppiata nel
paese diventa un elemento funzionale ad uno sfogo dell’economia capitalista. Pertanto, più in generale, possiamo
osservare come nella fase attuale le guerre siano funzionali al modello economico che su base globale è stato
costruito.
Oggi, inoltre, veniva sottolineato quanto sarebbe interessante approfondire tutta la parte che riguarda la
politica energetica nell’ottica dei conflitti. Come ad esempio la vicenda che vede oggi al centro l’Arabia Saudita,
che sfora le quote OPEC per inflazionare il costo del petrolio in chiave non di convenienza economica diretta, ma
di utilizzo della politica energetica per esercitare la propria egemonia a livello globale.
Il secondo fenomeno, l’immigrazione, è anch’esso funzionale. Negli ultimi vent’anni – io vengo dalla
Sicilia dove i flussi migratori non sono una cosa nuova – abbiamo costruito un meccanismo di frontiere
attraversabili, che producevano non solo la manodopera di cui parlava Massimo D’Antoni rispetto al sistema
contributivo, cioè alla sostituzione legata al problema demografico delle economie occidentali, ma anche processi
di "clandestinizzazione" che servivano ad abbassare il costo del lavoro. L’esempio delle campagne del Sud è
quello più emblematico da questo punto di vista. Oggi il fenomeno, che non è legato solo alle guerre e ai conflitti,
assume proporzioni che sono sfuggite al controllo.
L’apertura di nuove rotte infatti potrebbe determinare fenomeni che ancora non conosciamo, l’accordo con
la Turchia per esempio rischia di cambiare o invertire la rotta siriana, che si sposterebbe sull’Egitto. E in questo
momento questo paese, che vive una situazione economica ben diversa rispetto al passato, corre forti rischi sul
fronte della propria stabilità interna.
Oggi siamo di fronte ad un’immigrazione che per quanto riguarda l’Italia è prevalentemente subsahariana,
proveniente da zone interessate da micro-conflitti, conflitti regionali, dittature feroci, o semplicemente processi di
desertificazione e cambiamenti climatici che rendono insostenibile la vita in quei luoghi. La corrispondenza tra
processi di desertificazione e esplosione di micro-conflitti regionali e di crescita della minaccia terroristica è
praticamente identica. Se sovrapponiamo le cartine dei processi di desertificazione e dei conflitti, la mezzaluna
che dal Sahel arriva fino alla Siria coincidono perfettamente. La crescita di Boko Haram, ad esempio, si verifica in
una zona della Nigeria che si sta desertificando aumentando la povertà di quella zona del paese dove crescono più
facilmente processi di radicalizzazione.
Per cui, affrontare il tema della natura del fenomeno migratorio è importante perché attualmente le stime
più ottimistiche parlano di cinquanta milioni di persone che si metteranno in movimento nei prossimi anni
dall’Africa subsahariana verso l’Europa. Non tutti arriveranno nei nostri paesi, molti si sposteranno in zone e in
paesi limitrofi, ma dobbiamo affrontare il fenomeno consapevoli che i flussi migratori che ci investono e ci
investiranno non sono legati semplicemente alla stabilizzazione della Siria o della Libia e che essi – per le ragioni
che ho brevemente esposto – sono destinati nel prossimo decennio a crescere, non a diminuire o a stabilizzarsi.
Questo fenomeno, potenzialmente incontrollabile, cambia e cambierà la natura delle nostre società, sia dal
punto di vista economico che da quello delle costituzioni materiali e formali.
La sfida dell’integrazione passa dal welfare, cioè dalla capacità di garantirlo a livello universale.
Sui fenomeni di radicalismo e fondamentalismo non possiamo attribuirci tutte le responsabilità rispetto a quello
che accade nel mondo, soprattutto nel mondo islamico, però c’è un tema: quei fenomeni di fondamentalismo e di
radicalismo crescono in funzione delle condizioni di vita che imponiamo in quelle parti del pianeta e in molti casi
anche nelle nostre società. Perché sono il modello capitalista e il sistema delle disuguaglianze a produrre questo
fenomeno, come dimostra il caso dell’Iraq che non aveva mai avuto nel suo recente passato – e non solo per la
repressione di Saddam – fenomeni di fondamentalismo, ma che dopo anni di guerra in cui è stato ridotto alla fame
ha visto il fenomeno prendere piede e mettere radici. Voglio sottolineare che esattamente allo stesso modo sta
progredendo il fondamentalismo europeo: la nascita di movimenti populisti e neonazisti in Europa è
corrispondente all’aumento delle disuguaglianze sociali nel Vecchio continente. E la modifica delle costituzioni
formali e materiali è già in atto.
Fenomeni come quelli migratori non possono essere fermati, perché è impossibile bloccarli con logiche
securitarie. Vanno piuttosto governati per evitare che l’effetto sulle nostre società sia quello di determinare anche
un inasprimento dei conflitti sociali. Se la tendenza è questa, è facile prevedere che nell’arco di trent’anni la guerra
che si gioca sulla Libia e che oggi è prevalentemente economica, domani si possa giocare anche dentro l’Europa.
Questo perché se oggi si combatte per interposte forze in un territorio vicino (la Libia è a quattrocento chilometri
dai confini del primo paese europeo, che siamo noi), mettendo a rischio anche la sicurezza dell’Europa, è chiaro
che domani non sarà un problema combattere dentro i confini europei una guerra che oggi si gioca solo sul piano
finanziario.
Concludo con un’osservazione sulle primavere arabe: sono state un’esperienza importante ed è stato un
grande errore da parte dei governi europei sottovalutare quel potenziale e non accompagnare quei processi. È stato
fatto anche l’errore di mettere in quel calderone anche la Libia, che con quelle rivolte nulla aveva a che fare. Oggi
rimane un’unica grande esperienza che dovremmo proteggere e che è l’esperienza tunisina, dove è la forza politica
islamista a tenere in piedi la democrazia del paese.
Allora, lanciando una provocazione, se dovessimo immaginare un intervento militare, manderei i Caschi
blu a presidiare il confine della Tunisia, dove si sta combattendo in questo momento una battaglia molto
complessa. Se io, poi, dovessi immaginare una discussione che riguarda l’ingresso in Europa di un nuovo Stato
proverei ad aprire un processo di integrazione verso Sud nel Mediterraneo. Ovviamente è una provocazione, ma il
tema che oggi è in discussione con la Turchia non è l’ingresso in Europa, ma la concessione di visti ed un rapporto
privilegiato. Io riempirei piuttosto la Tunisia di visti e inizierei un percorso a sostegno della società civile che
rischia di implodere.
Un’ultima riflessione sull’accordo con la Turchia. Questo accordo è il simbolo del fallimento dell’Unione
europea sulla politica migratoria, perché si continua a immaginare di potere esternalizzare le frontiere chiedendo
ad uno stato estero di fare quello che le nostre leggi non permettono.
ONOFRIO ROMANO
Si è evocata spesso, in questa sede, l’incapacità della politica di far fronte alle situazioni del Nord Africa e
del Medio Oriente. Una deficienza ormai conclamata. All’assenza di visione e di progetto, si prova goffamente a
supplire invocando il ricorso ad un intervento armato purchessia. Personalmente, ritengo che questo deficit di
politica sia del tutto speculare al deficit di pensiero sulle questioni in parola.
Nella dimensione intellettuale si è manifestata la medesima involuzione conosciuta in ambito politico.
Certo, le analisi sull’area abbondano e sono anche molto raffinate − ne abbiamo avuto buon saggio questa mattina,
grazie alle relazioni di Caracciolo e di Alberto Negri −, tuttavia mi sembra ormai assente quella proiezione, anche
in termini di visione, che invece era caratteristica della produzione di pensiero su questi temi fino a pochi anni fa.
Mi riferisco, ad esempio, alla stagione contrassegnata dalla ricerca di una “alternativa mediterranea” (per citare il
titolo del noto lavoro curato da Cassano e Zolo, al culmine di una traiettoria pluriennale di riflessione), che potrà a
posteriori sembrare ingenua per molti versi, ma che in ogni caso ha coagulato una folta schiera di intellettuali di
vaglia intorno ad una prospettiva includente l’area di cui oggi si discute. Probabilmente, quella prospettiva appare
oggi non riproponibile, ma non è questo il punto. Il punto è che non si dà, al presente, un tentativo parimenti
ambizioso. Non si ragiona più nei termini di una visione politico-intellettuale, di un progetto che parta dall’analisi
della realtà socio-politica di quelle aree e per il quale si registri una disponibilità a spendersi. Questo
atteggiamento mi sembra del tutto assente, in parallelo al manque di politica qui denunciato.
La diagnosi tracciata questa mattina da D’Alema è ineccepibile. Siamo schiacciati tra due polarità
ugualmente impolitiche: da un lato, ci auguriamo il ritorno in quelle aree di una qualche forma di dittatura,
dall’altro invochiamo l’esportazione della democrazia. Giusto. Ma anche questa prospettiva rivela che ormai ci
stiamo abituando a pensare la sponda Sud del Mediterraneo come un territorio a noi alieno, “esterno”, rispetto al
quale non possiamo fare altro che supportare alcuni processi positivi che emergono all’interno.
Così non va. Personalmente, continuo a pensare che vi possa essere una prospettiva comune, che sia
possibile riaffermare una visione euro−mediterranea. Dobbiamo riabituarci a pensare che siamo tutti sulla stessa
barca e che la sfida non è semplicemente quella di escogitare un buon modo per tenere a bada quelle aree sul piano
governamentale. Nulla di irenistico, per carità. L’alternativa mediterranea conteneva in sé una prospettiva molto
realistica. La visione ingenua di una convivialità armonica tra le culture appartiene più alla vulgata. Io penso che
da quell’analisi occorra ripartire.
Lo diceva molto bene Cingari: nell’area mediterranea si è creato un forte scompenso socio-economico, che
in realtà è molto simile a quello che si registra da noi. I paesi del Sud Europa − e qui parlo da sociologo −
presentano una struttura sociale ed economica per molti versi omologa a quella dei Paesi del Nord Africa. I sistemi
di welfare, su entrambe le sponde, hanno innalzato sensibilmente i livelli di istruzione e determinato una forte
modernizzazione culturale, evidente sia sul piano delle strutture familiari, sia sul piano della fruizione mediale.
Il problema è che questo processo di avanzamento e di omogeneizzazione socio-culturale non è più
supportato da livelli congruenti di sviluppo economico e strutturale. I giovani della sponda Sud e della sponda
Nord del Mediterraneo sono con la mente (e con l’immaginario) al centro del mondo, ma il terreno economico
viene a mancare sotto i loro piedi. Questa discrasia tra condizione reale e modello socio-culturale di riferimento
genera una classica condizione di “anomia” (in senso mertoniano), con tutto il carico di frustrazione che ne
consegue. Credo che a ridosso di questa condizione comune si possa elaborare una visione e un progetto politico
che ci consentano di fronteggiare i processi di globalizzazione, lubrificante primo dei fondamentalismi all’ordine
del giorno (a questo proposito, rivendico una posizione radicalmente anti-sostanzialista: cultura e identità non
sono dati di natura con cui fare i conti e convivere. Sono le condizioni a determinarne caratteri e consistenza).
In sintesi, se vogliamo rispondere in maniera adeguata e da “sinistra” ai problemi sul tappeto − e le due
opzioni stigmatizzate da D’Alema (esportazione della democrazia e impianto della dittatura) non contemplano in
nessun caso un’opzione di sinistra −, è su questo che dobbiamo esercitarci. Quel che ci manca è la forza e il
coraggio di immaginare una fuoriuscita dalla crisi europea attraverso la co-definizione di uno spazio politico
includente la sponda Sud del Mediterraneo. Un nuovo polo d’influenza che, insieme agli altri già esistenti, vada a
striare lo spazio planetario, al fine di non restare soggetti passivi della furia globalista.
ANTONIO RINALDIS
Io articolerò il mio intervento illustrando quelli che, a mio avviso, sono i punti nodali da interpretare ed,
eventualmente, affrontare.
a) G. Fukuyama nel 1994 sostiene la tesi della fine della storia. Dopo la caduta del Muro di Berlino le
democrazie liberali hanno vinto e il libero mercato è la forma più evoluta di economia globalizzata. Secondo
Fukuyama la storia ha compiuto il suo percorso. Non c’è altro possibile futuro che non sia nel solco della
continuità. Tutto lo sviluppo delle epoche precedenti concorre al risultato finale. Quello che però non dice
Fukuyama è che il trionfo dell’Occidente non è solo la prevalenza del Desiderio di capitalismo su tutti gli altri
desideri, ma anche e soprattutto la conseguenza del monopolio della Forza militare ed economica da parte del
mondo occidentale.
b) Poi c’è l’11 settembre. Come interpretare il terrorismo? La lettura di S. Huntington è in controtendenza
con il mainstream: in realtà la Storia non è finita; ogni epoca ha sempre avuto conflitti di civiltà. L’11 settembre è
la conferma che c’è un conflitto fra Civiltà, soprattutto fra Occidente e Oriente Islamico.
c) Che tipo di guerra è la guerra terroristica? Al Qaaeda era una struttura rizomatica; una struttura senza
centro, che ingaggiava una guerra glocal contro l’Occidente. Una guerra glocal, che è l’unica guerra possibile
nell’epoca post atomica, del monopolio della Forza bellica da parte dell’Occidente. La guerra terroristica è glocal,
perché globale, dal momento che colpisce senza confini, in maniera indiscriminata, e Al Qaaeda è una
multinazionale del Terrore, ma è anche profondamente locale, perché ha le sue basi radicate nel tessuto civile e
sociale, le cosiddette cellule, e soprattutto perché vuole sottolineare il tratto identitario islamico, in
contrapposizione alla prevalenza della Tecnica dissacrante e dell’Economia globalizzata che sono l’essenza del
capitalismo avanzato.
d) Il terrorismo è la risposta nichilistica alla globalizzazione capitalista. È il rizoma contro la struttura ad
albero del mercato che crea gerarchie e organizza in forme brutali la divisione del lavoro. Come si legge in
Camus, nel dramma I Giusti, la psicologia del terrorista è soltanto negativa; il suo imperativo categorico è la
distruzione generalizzata e l’utopia che arma i terroristi è la catastrofe finale che si rovescia in distopia.
e) Il Terrorismo è una frattura culturale di portata enorme. Distrugge la razionalizzazione della guerra che
era stata uno dei fondamenti della Modernità. Nel De iure belli ac pacis Grozio teorizza l’esistenza di un diritto
che regola lo stato di guerra e crea una teoria razionale della guerra. Per i giusnaturalisti in generale la guerra non
è qualcosa contrario al diritto naturale e può essere regolamentata. Anche nello stato di guerra valgono infatti le
norme della ragione e della natura. Il diritto naturale si fonda sulla stessa natura dell’uomo che è razionale e la
politica si deve accordare quindi con il diritto naturale che è immutabile. Un pensatore dell’ambito
giusnaturalistico come Alberico Gentili propone la tesi rivoluzionaria che la guerra sia contraria alle leggi di
natura, perché per natura sono legati da un unico vincolo che è l’amore. Nessuna guerra è per conseguenza giusta,
ma soprattutto quelle di religione perché non si possono imporre le confessioni con la forza.
Il Terrorismo, al contrario, cancella qualsiasi patto regolativo fra i contendenti e nel mondo post moderno
la Guerra non ha più regole. È sempre totale, sia che si tratti della minaccia atomica, sia che si tratti di terrorismo.
f) Il fenomeno terroristico si è tuttavia evoluto. Si è passati da Al Qaaeda all’Isis. Dalla guerra
generalizzata e rizomatica all’Occidente è sorta l’idea monolitica del Califfato. È cambiata la consapevolezza. Nei
10 anni di terrorismo è cresciuta l’autocoscienza dei terroristi, che non si limitano alla distruzione degli infedeli,
ma producono il Mito della Società perfetta, il loro Per sé è rivolto alla costruzione di un’alternativa non più
utopica, ma sistemica.
g) Di fronte alla furia terroristica che si nutre anche di ragioni storiche (anticolonialismo, rivendicazione
dell’identità culturale e religiosa, di fronte all’infiltrazione capitalista), l’Occidente ha il compito di promuovere la
Pace, consapevole che i semi della Guerra sono stati diffusi dal capitalismo. La Pace è politica, perché la Politica è
razionalità pratica.
h) Occorre tornare al Moderno per proporre un Modello di Pensiero che sia unificante in un senso meno
globale, ma universale. La Politica come Pace parte dall’utopia razionalista di Kant, Per la Pace Perpetua, che
ritiene che sia possibile rimuovere le cause della guerra, anche se riconosce che lo stato naturale è lo stato di
guerra. Negli articoli definitivi della Pace Perpetua Kant parla di un diritto cosmopolita che renderebbe praticabile
la pace perpetua.
i) Dall’idea di un diritto cosmopolita si può risalire all’idea di una globalizzazione dei Diritti dell’Uomo,
che non trova piena applicazione nella maggior parte dei paesi del mondo. La globalizzazione dei diritti naturali,
quali la Vita e la Libertà, per intanto, è una risposta alla globalizzazione del capitale finanziario e alla
mondializzazione dei conflitti.
l) La politica come ragione significa essenzialmente ciò che intendono sia Camus sia Simone Weil:
equilibrio e limite. Un mondo pacificato è un mondo in cui la politica è l’arte del possibile (utopia razionale) e non
dell’impossibile (utopia catastrofica).
m) Ma proprio l’idea di una pace universale, e di un diritto cosmopolita fondato su valori razionali-morali,
può produrre quello che Habermas chiama il fondamentalismo dei diritti umani; la pretesa universalistica dei
diritti umani così come vengono definiti dalla civiltà occidentale può generare nuove guerre, questa volta di tipo
ideologico, dal momento che non tutte le civiltà umane contemporanee si riconoscono nell’universalismo dei
diritti umani dell’Occidente.
n) La questione si allarga e investe uno dei fondamenti della Modernità Occidentale: la bona mens, la
ragione, è la cosa meglio distribuita nel mondo, oppure si tratta di un postulato che vale solo per la civiltà
europea?
o) E da ciò consegue un’ulteriore quesito: nella difficile ricerca di un tratto identitario della Sinistra, oltre
ai tradizionali valori di Giustizia, solidarietà, equità, uguaglianza, libertà, non è forse opportuno aggiungere anche
il requisito della Razionalità, in un mondo lacerato fra la hybris del capitalismo tecno economico e la pistis
forsennata dei fondamentalismi religiosi?
ROBERTO VALLE
Nel 2014 Papa Francesco ha affermato: «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a
pezzetti, a capitoli». L’8 febbraio 2016, il Papa ha precisato: «Io ho parlato di terza guerra mondiale a pezzi. In
realtà non è a pezzi: è proprio una guerra». Con tali dichiarazioni il Papa ha sottolineato la deriva anomica di quel
nuovo ordine mondiale che avrebbe dovuto sorgere all’indomani della fine del mondo bipolare nel 1989. La terza
guerra mondiale si caratterizza come una galassia di guerre civili scaturite dalla disintegrazione di Stati: Urss,
Jugoslavia, Siria, Iraq, Ucraina. La terza guerra mondiale non è inevitabile, nonostante le profezie apocalittiche.
La III guerra mondiale è un mito apocalittico e una “leggenda nera” della seconda metà del XX secolo che
sembra transitare nel XXI. Secondo Clausewitz la guerra è un «camaleonte», un fenomeno polimorfo e cangiante
che si adatta alla trasformazioni storiche, economiche e culturali. Il novum storico del XX secolo è stato la guerra
mondiale come «guerra totale» e sterminatrice, quale insieme di conflitti ad altissima intensità tecnica (la «guerra
di materiali») e politica che hanno assunto la fisionomia di conflitti ideologici e civili. Nella sua dimensione
mondiale, la guerra si è trasformata in un evento che coinvolge tutta la società (militari e civili). In tal senso è stato
superato il limes tra guerra internazionale o tra Stati e guerra civile: la guerra civile si è imposta sub specie
rivoluzione (la rivoluzione russa, la “rivoluzione legale” in Italia e in Germania); mentre la guerra internazionale
ha assunto la forma di «guerra giusta» ideologica.
La guerra mondiale, quale guerra civile europea, si è convertita, nel 1941, in guerra civile mondiale e, dopo
il 1945, in guerra civile fredda. Nella sua prima fase la guerra fredda era uno stadio intermedio tra guerra e pace e,
secondo Schmitt, parte integrante della strategia di guerra rivoluzionaria dell’Urss. Nella sua seconda fase, la
guerra fredda si è caratterizzata come contrapposizione tra due “campi” ideologici e tra due sistemi nemici. Nella
terza fase, la convergenza divergente delle due superpotenze ha oscillato tra fasi di coesistenza pacifica e di
distensione e fasi di ritorno alla contrapposizione dualista-bipolare (per es. Reagan e l’impero del male).
Nel secondo dopoguerra lo spettro della III mondiale si è aggirato per il globo (sub specie guerra nucleare
o guerra stellare) contrassegnando quell’età dell’inquietudine epitomata dall’equilibrio del terrore. In realtà, le
guerre scoppiate tra il 1950 e il 1985 sono state guerre convenzionali (Corea, guerra arabo-israeliana, guerra indopakistana, guerra del Vietnam); d’altro canto le guerre “popolari di liberazione” hanno assunto la forma della
guerriglia classica, come ha rilevato Carl Schmitt nella «teoria del partigiano». Nel corso della guerra fredda, la III
guerra mondiale è stata una sorta di «seconda realtà» (così come l’ha definita lo scrittore austriaco Heimito von
Doderer), una Ersatzwelt, un mondo che si sovrappone alla realtà, una realtà pseudologica dalla quale si può trarre
una storia immaginaria e sentimentale della III guerra mondiale. La III guerra mondiale si è combattuta, infatti,
soprattutto nell’immaginario strategico delle due superpotenze, quale simulazione delle conseguenze catastrofiche
di un conflitto nucleare.
La «seconda realtà» della III guerra mondiale è entrata, inoltre, nell’immaginario collettivo attraverso la
letteratura e i mass media. L’immaginazione del disastro è stata variamente rappresentata come estinzione
dell’umanità. Nel caso del Dottor Stranamore di Kubrik, la III guerra mondiale è stata rappresentata come una
parodia della paranoia della guerra sterminatrice, quale distruzione andante con brio. La guerra civile fredda, quale
agonia permanente del mondo, sembrava condurre al suicidio dell’umanità, quale morte tecnica dell’umanità o
democrazia della morte. Negli anni Settanta la crisi energetica ha alimentato l’immaginario catastrofico. Nella
prima metà degli anni Ottanta la III guerra mondiale sembrava alle porte sub specie guerra stellare. Nel 1982 la
NBC ha trasmesso una miniserie intitolata Terza guerra mondiale (diretta da David Greene): secondo la trama
catastrofica di questa fiction, le forze speciali sovietiche invadono l’Alaska per distruggere gli oleodotti. Per
contrastare questa invasione, il Presidente Usa ordina l’attacco nucleare contro l’Urss: la fiction finisce nel
momento in cui il mondo sta per essere distrutto, mostrando la possibilità di una rinascita del mondo dopo la
distruzione globale.
Dopo la fine della guerra fredda e dopo l’11 settembre 2001 è mutato lo scenario della III guerra mondiale,
immaginata come attacco nucleare, chimico o biologico da parte di oscure forze terroriste. Il patriarca del
neoconservatorismo americano, Norman Podhoretz è diventato il profeta della IV guerra mondiale, quale lunga
lotta contro l’«islamofascismo», un ibrido ideologico che sembra appartenere alla «seconda realtà». Podohoretz
afferma che la III guerra mondiale è già stata combattuta sub specie guerra fredda (che invece è stata una sorta di
guerra civile mondiale e mezzo). Secondo Podhoretz, l’Europa occidentale sembra destinata ad essere conquistata
dall’«islamofascismo» e gli Usa si trovano da soli a combattere una guerra infinita. Dopo l’11 settembre e la
guerra in Iraq (che è iniziata quando è finita), sembra essere questo il Manifest Destiny degli Usa, la cui missione
storica è sradicare il terrorismo islamista e democratizzare il Medio Oriente.
Al di là della IV guerra mondiale di Podhoretz, ricompare, in diversi scenari, lo spettro della III mondiale.
Nel 1999, El’cin ha affermato che il conflitto del Kosovo avrebbe condotto alla III mondiale. Un eventuale attacco
della Cina a Taiwan potrebbe indurre gli Usa a intervenire, quale preludio di un terzo conflitto mondiale. Un altro
scenario potrebbe essere il bacino del Mar Caspio che è la terza riserva mondiale di risorse energetiche:
nell’ottobre del 2007 Russia e Iran (indicato come nemico principale dell’Occidente) hanno affermato che
l’accesso a queste risorse è riservato solo alle potenze regionali, escludendo intrusioni esterne degli Usa con i loro
progetti di oleodotti.
Un altro scenario di sangue e petrolio potrebbe essere l’Asia centrale teatro del new great game: nella
grande scacchiera dell’Eurasia, secondo Brzezinski, si gioca la partita dell’egemonia mondiale, essendo l’Eurasia
l’Hearthland del mondo. L’ “asse del male” non è la sola minaccia alla pace mondiale; secondo Kagan, mentre
l’Europa continua a vivere nel meraviglioso mondo di Venere, il dio Marte ha sedotto anche quella «lega dei
dittatori» che comprende la Russia e la Cina. Secondo un rapporto del Council on Foreign Relations, la Russia di
Putin si è incamminata verso la «direzione sbagliata»: la democrazia Russian Style o «democrazia sovrana» non
sarebbe altro che una sorta di autocrazia elettiva. La Russia non solo aspira ad essere una superpotenza energetica,
ma, caratterizzandosi come Stato-civiltà, intende affermare la propria sovranità (contro la de-sovranizzazione
globale) e tornare ad essere egemone nello spazio ex sovietico (o «vicino estero»), impedendo l’espansione della
Nato ad Est e contrastando le rivoluzioni colorate nello spazio ex sovietico.
La pubblicistica occidentale ha prospettato l’inizio di una nuova guerra fredda o di una guerra in via di
riscaldamento tra gli Usa e la Russia. Il discorso tenuto da Putin il 10 febbraio 2007 alla Conferenza di Monaco
sulla politica di sicurezza è stato considerato come l’epitome del riarmo ideologico e bellico della Russia contro
l’Occidente. Al di là degli stereotipi ideologici, il discorso di Putin non solo è una icastica rappresentazione del
mondo unipolare sull’orlo dell’abisso della guerra permanente, ma è anche l’affermazione della “scelta” della
Russia. Non intendendo rinunciare ad una politica estera indipendente, la Russia pone al centro del dibattito
internazionale la questione della «sovranità». Il discorso di Monaco va collocato, perciò, nell’ambito dell’
“ideologia” di Putin che si caratterizza come filosofia dello Stato potenza. Gli Usa, invece, considerano tramontata
la partnership strategica con la Russia e affermano che le relazioni russo-americane vanno rimodellate secondo i
criteri della «cooperazione selettiva» e dell’ «opposizione selettiva». Su «Foreign Affairs» si è affermato che gli
Usa continuano ad avere la supremazia nucleare e sono in grado di distruggere al «primo colpo» gli arsenali
nucleari della Cina e della Russia. Dal canto suo, Putin ha annunciato che l’era delle «concessioni geopolitiche» è
finita; per Vladislav Surkov, ideologo della «democrazia sovrana», il «nemico è alle porte» (lo scudo spaziale in
Europa centro-orientale). Dal canto suo, Solženicyn ha affermato che la Russia è accerchiata e rischia di perdere
quella sovranità riconquistata dopo la fine dell’Urss. In Russia i media e un sito internet sostengono che il
confronto tra la Russia e l’Occidente potrebbe sfociare nel 2016 nella terza guerra mondiale.
Lo spettro della terza guerra mondiale non è scomparso con l’impero del male e ma si aggira per il mondo
globale attraverso i media. Nell’era dell’economia globale la guerra non è uno strumento per conquistare territori,
ma un conflitto per le materie prime (petrolio, carbone, gas) che sono i motori dell’economia mondiale. Secondo
gli analisti russi, la terza guerra mondiale non sfocerà in un confronto armato, ma in conflitto mediatico. L’Ue non
ha un ruolo pacificatore, perché è sotto la tutela degli Usa: per l’élite nazionale russa, l’Ue è una sorta di agente
provocatore degli Usa come dimostrano le sanzioni contro la Russia a causa dell’annessione della Crimea nel
marzo del 2014. Nel “mondo dei burattinai”, secondo i media russi, è stato ordito un complotto per ridurre
drasticamente, attraverso la guerra globale, la popolazione mondiale e per imporre un nuovo ordine internazionale.
Secondo il premier russo Medvedev la terza guerra mondiale potrebbe iniziare se i Paesi arabi interverranno in
Siria. Gli americani e i loro partner arabi sembrano volere, per Medvedev, la guerra permanente come in
Afghanistan dove il conflitto iniziato nel 2001 appare infinito: piuttosto che dare inizio alla terza guerra mondiale
sarebbe meglio negoziare un nuovo ordine mondiale che non sia unipolare, ma multipolare. Nel 2015 Singer and
Cole hanno pubblicato Ghost Fleet. A Novel of a Next World War nel quale prevedono un conflitto tra gli Usa e la
Cina alleata con la Russia. La guerra dovrebbe iniziare con un attacco dei cinesi a Pearl Harbor, un attacco non
dissimile da quello giapponese che è stato all’origine dell’ingresso degli Usa nella II guerra mondiale. Il conflitto
dovrebbe avere una dimensione spaziale-satellitare e non si esclude l’impiego di robot.
Al di là della retorica dei guerrieri della nuova guerra fredda e del New Great Game, l’era della
globalizzazione è un mondo di guerre (che contempla anche il novum storico della guerra umanitaria) e non di
un’unica guerra mondiale. La guerra globale sembra non convertirsi in III guerra mondiale, perché mancano quei
presupposti ideologici ed economici che hanno caratterizzato le due guerre mondiali del XX secolo: la guerra
globale non è neanche la IV guerra dei mondi (il mondo islamico e il mondo cristiano non sono coesi). Secondo
Lagendorf, le guerre globali appartengono alla tipologia della «guerra vischiosa» e sono caratterizzate
dall’interventismo planetario sub specie peacekeeping (o warkeeping): le guerre globali sono «fluide, caotiche,
indefinite e polimorfe» (possono essere guerre tribali e etniche, possono assumere una connotazione religiosa –
jiahd – o economica). Guerre asimmetriche e terrorismo transnazionale quale variante post-moderna della guerra
di devastazione: i terroristi applicano la stessa strategia dei cavalieri nomadi che penetravano con rapide incursioni
nella zona pacifica dell’impero. La globalizzazione è, per Derrida, un simulacro, uno spettacolo leviathanico
globale nel quale i terroristi assumono il ruolo di dannati della globalizzazione, anche se utilizzano le armi della
tecno-scienza globale per porle al servizio del radicalismo islamico (violenza radicale).
Paradossi della globalizzazione: la sovraespansione imperiale degli Stati Uniti nell’epoca postimperiale. Il
neoimperialismo umanitario e il missionismo democratico planetario sono il novum storico, perché la pax
americana ha coinciso con la new war, come dimostra la guerra in Iraq che è stata una sorta di 18 brumaio
globale di Bush figlio. L’impero americano ha confini virtuali definiti dalla tecnologia militare di possibili
antagonisti. L’impero americano, grazie al dominio dello spazio aereo è tendenzialmente illimitato; non è possibile
il ritiro da nessuno scenario di guerra.
La crisi e l’indebolimento dell’Ue rendono meno attrattivo il modello di integrazione europea. Secondo lo
studioso polacco Jan Zielonka, l’establishment comunitario e i nazional-populismi stanno conducendo l’Europa
alla disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Ue? È questa la suspense interrogativa che pone Zielonka, anche
perché l’Ue appare come una spettrale incarnazione di quell’idea d’Europa che attende ancora il proprio
inveramento storico. L’Ue non solo non è una moderna compagine federale, ma appare come un impero neomedievale. Mentre l’idea russa del XXI secolo si rifà al modello westfaliano di Stato accentrato e sovrano,
l’impero neo-medievale europeo accoglie al proprio interno molteplici identità e molteplici sovranità spesso in
contrasto tra loro e non ha una frontiera esterna marcatamente delimitata. L’implicazione più importante
dell’impero europeo neo-medievale europeo è geostrategica: l’Ue, come altri imperi, è orientata verso il proprio
allargamento illimitato al fine di pacificare i conflitti esterni ad essa, come dimostra il tentativo di allargare
l’Unione alla Turchia, all’Ucraina, alla Bielorussia, ai Balcani.
Secondo l’influente analista russo Sergej Karaganov, il mondo è in stato di pre-guerra come attesta quel
coacervo di crisi che appare inestricabile: la questione ucraina (provocata, per Karaganov, dagli Usa che già nel
2008 volevano espandere ulteriormente a Est la Nato); la crisi economica globale che svela la tendenza a una
sorta di stagnazione secolare; l’impossibilità di instaurare un nuovo ordine mondiale perché è tramontato il
momento unipolare dell’iperpotenza americana e si sono rivelati inservibili quei paradigmi ideologici forgiati per
giustificare il momento unipolare (fine della storia, scontro di civiltà); l’intervento russo in Siria e il conflitto con
la Turchia, quale contrapposizione tra due progetti geopolitici tra loro configgenti: Unione Eurasiatica e neoottomanesimo ( la Russia si contrappone sia alla formazione di nuovo impero ottomano in versione light, sia
alla restaurazione del califfato).
La guerra globale non si configura come un Armageddon nucleare ma come coesistenza simultanea di
diversi tipi di guerre ibride, nell’ambito dei quali il terrorismo transnazionale ha un ruolo preminente e che
difficilmente potrà essere sconfitto se non mutano gli equilibri di potenza e gli orientamenti ideologici dell’ultimo
venticinquennio. Venticinque anni fa si è disintegrata l’Urss (per Putin catastrofe geopolitica), la storia degli
imperi non è ancora un’opera aperta anche perché nel nuovo disordine mondiale stanno emergendo nuovi centri
(Cina, India) mentre si accresce il numero degli Stati falliti sostituiti da misteriose entità (come la Bosnia e il
Kosovo) che sono protettorati internazionali. La globalizzazione, oltre allo spettacolo nell’unificazione
tecnologica del globo, ha prodotto Stati falliti e ha dato luogo a un imperialismo interventista con una serie di
guerre di pacificazione che hanno prodotto una forma precaria e instabile di dominio mondiale, senza generare il
nuovo ordine mondiale.
I principali teatri della guerra globale sono:
1) il teatro ucraino che è strategico per i seguenti motivi: a) la contiguità con l’incerta frontiera con la
Russia; b) la contiguità tra la Russia e la Nato (alla quale aderiscono i Paesi più russofoni ); c) il confronto russoucraino si configura come una sorta di lotta per l’esistenza dell’Ucraina. Il contrasto russo-americano sull’Ucraina
è destinato a durare, perché secondo Kissinger gli Stati Uniti hanno considerato la fine della guerra fredda come la
conferma della loro «tradizionale fede nell’inevitabile rivoluzione democratica…». Ma l’esperienza storica russa è
più complicata. Per un Paese attraversato nei secoli da eserciti stranieri sia da Est sia da Ovest, la sicurezza avrà
sempre bisogno di un fondamento geopolitico, così come legale. Quando il suo confine di sicurezza si sposta di
mille miglia dall’Elba verso est, in direzione di Mosca, la percezione russa dell’ordine mondiale conterrà sempre
una componente inevitabilmente strategica. La sfida del nostro tempo è di fondere le due prospettive – la legale e
la geopolitica – in «concetto coerente».
2) il teatro siro-iracheno centrale per l’Arabia Saudita e l’Iran che si disputano l’egemonia sulle risorse
energetiche della regione all’ombra di incomponibili rivalità etno-politico-religiose. Dal canto suo, la Turchia di
Erdogan persegue un progetto geopolitico neo-ottomano e neo-califfato. L’intervento della Russia in Siria, infine,
ha alterato la composizione delle forze in campo e ha colto di sorpresa gli Usa (costellazione intorno alla Russia:
Bagdad-Damasco-Teheran).
3) teatro dei Mari Cinesi Orientale e Meridionale per la sovranità delle acque e degli arcipelaghi che
coinvolge Cina, Giappone, Corea del Sud e Vietnam.
Secondo la rivista di geopolitica «Limes», che ha dedicato un numero monografico alla terza guerra
mondiale, il monito di Papa Francesco non si inserisce nel solco dell’apocalittica cristiana e intende inficiare il
paradigma dello scontro di civiltà. Come ha spiegato il direttore della «Civiltà Cattolica», Antonio Spadaro, il
Papa intende inficiare il paradigma del terrore permanente che si fonda sulla contrapposizione manichea tra
jihadisti e crociati. Il Papa smantella l’idea del cattolicesimo come ultimo impero erede di Roma; Francesco
«postula la fine dell’epoca costantiniana, rifiutando radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla
terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla
dimensione del ‘partito’». Al di là del determinismo geopolitico, il momento unipolare del nuovo ordine mondiale
si è estinto, per cui l’Occidente deve gettare ponti diplomatici verso la Russia, la Cina, Cuba e l’Iran, come ha
anche rilevato Obama in una lunga intervista sulla sua politica estera che coniuga idealismo democratico e
realismo.
Le guerre globali potrebbero trasformarsi in guerra mondiale? La III^ guerra mondiale può essere evitata
oppure è destinata a rimanere uno spettro, una immaginaria «seconda realtà» destinata a finire non con un rombo
ma con un lamento?
PIERGIORGIO GAWRONSKI
È bello essere qui, anche se questo secondo incontro è meno seminariale del primo.
Vorrei partire da un primo punto molto politico, che riguarda la natura del nuovo partito: il ruolo rispettivo
degli intellettuali e dei politici. In poche parole, penso che, se dedico una giornata a questi incontri, togliendola al
lavoro, alla famiglia, ecc., poi vorrei essere coinvolto nel processo costituente e politico. Non è una questione
personale, ma riguarda il tipo di operazione politica che vogliamo fare. Questo partito vuole essere costituito da
una classe di professionisti della politica che pensa al proprio ruolo come a dei facilitatori, dei coordinatori di
un’apertura sostanziale a diverse componenti della società civile? O vuole coinvolgere − come spesso accade
− in maniera di solo formale altre componenti, per dare una facciata di apertura, mantenendo però saldo il
monopolio, il controllo sul potere decisionale, senza condividerlo con intellettuali, rappresentanti di ONG,
movimenti, outsiders, ecc.? Questa è una cosa che vorrei iniziare a capire.
Quanto al lavoro degli intellettuali: se questo seminario, come l’altro, produce dei position papers politici,
in cui si mettono in chiaro delle precise scelte politiche, allora cominciamo a dare prospettive di utilità nel nostro
lavoro, a disegnare un’identità politica. Se invece rimane solo un interessante documento − che comunque sono
stato contento di vedere sul sito (mi ha fatto piacere anche il modo come lo avete gestito), mi fa piacere conoscervi
e interloquire con voi, questa è un’occasione positiva, ma − questo limita la prospettiva.
A questo punto vorrei prendere ad esempio una questione di attualità, per sottolineare che dobbiamo
disegnare una identità nel merito. Siamo a pochi metri dalla Colonna Traiana: osservate il terzo livello dal basso,
sul lato che guarda via del Corso. Noterete nel bassorilievo una specie di vecchio barbuto con le ali aperte dalle
quali cade una fitta pioggia. Questa parte del fregio si riferisce al c.d. “miracolo della pioggia” avvenuto in
Romania: le truppe di Marco Aurelio, assediate dai barbari e prive d’acqua, stavano morendo di sete, quando
arrivò una pioggia miracolosa che li salvò; sulla Colonna c’è il dio che piove. La cosa interessante è che all’epoca
tutti concordarono che si era trattato di un miracolo… ma su chi avesse fatto il miracolo, c’era dissenso. Per alcuni
era stato il Dio dei cristiani: invocato dai sacerdoti della legione siriana a forte presenza cristiana. Ma i più
ritenevano che il merito andasse ascritto a un mago-sacerdote pagano, anch’egli al seguito delle truppe, che aveva
offerto sacrifici.
Riporto questo lontano avvenimento per chiarire che nell’esercito romano c’erano dei cappellani militari,
senza problema, di diverse religioni, a seconda della ‘domanda’ dei legionari. Quando ho letto sui giornali che c’è
stata ieri una presa di posizione di Sinistra Italiana contro la presenza dei cappellani militari nell’esercito italiano,
perché “costano sei milioni di euro l’anno, la Chiesa se li paghi da sola”, mi sono cadute le braccia. Non ho
nessuna posizione particolare sui cappellani militari, ma il punto è che se si vuole fare un grande partito bisogna
unire − accogliendo positivamente le diversità − e non dividere, creando delle grandi discussioni su questioni
ideologiche e divisive. Se, invece, si vuol fare un piccolo partito per coltivare un orto ed essere rieletti in pochi −
non mi riferisco a nessuno dei presenti − si fomentano le divisione per creare dei bacini di voto ideologico. Ma
non si fa così un grande partito né un grande paese. Quindi, mi interessa capire qual è l’obiettivo di fondo.
Vengo al tema di oggi. C’è una deriva costituzionale generale in Italia, che va a cadere anche sulle
questioni della guerra e della pace. Si decidono “missioni di pace all’estero” con Decreti Legge!? Non è bello.
Però i decreti legge vengono abusati sempre e comunque; quindi, lì c’è un problema generale, non specifico della
politica estera. Ma, a parte questa deriva, che va contrastata, noi dobbiamo scegliere fra posizioni pacifiste e
posizioni pacifiche. Abbiamo una Costituzione − mi riferisco all’intervento di Azzariti − che dice «no alla
guerra», ma che è stata scritta in un mondo in cui l’attacco e la difesa, l’aggressione e chi subisce una violenza, era
chiaramente delimitata dai confini: se tu entri nei miei confini, mi stai aggredendo; se io vado fuori, ti sto
aggredendo. Oggi non è più così: perché se tirano un missile da fuori sono io l’aggredito. Quindi, se noi ci
chiudiamo nella Costituzione nel senso più ristretto dell’interpretazione letterale, se scegliamo il pacifismo
passivo e non una linea politica di pacificazione (attiva), allora ci tagliamo fuori, prima di tutto, dal dialogo
internazionale; noi possiamo sostenere una politica di pacificazione se siamo in grado di interloquire, anche
usando la forza, per difendere/ci. In secondo luogo, ci tagliamo fuori da tutto il ceto popolare che diciamo di voler
rappresentare: provate a dirlo agli italiani «noi non vi difendiamo, dobbiamo essere pacifisti»… Quindi, qui c’è un
punto identitario importante. Poi, certo, ci vuole un uso della forza solo in casi estremi e ponderati; e quindi
bisogna definirlo, perché c’è in giro troppa facilità ad usare la forza.
Vado al tema dei migranti, perché è legato a questo problema. Io credo che, da un lato, bisogna prendere
una posizione di forte investimento sull’accoglienza, che è prima di tutto un dovere (una gioia) umano. Quando la
gente scappa dalla guerre non si può discutere: è un nostro dovere accogliere; e se sono istruiti ci conviene pure.
Ma, proprio per questo, l’accoglienza implica investimenti grossi, e integrazione, se vogliamo una società stabile
in Italia e in Europa. Contemporaneamente, però, dobbiamo dire ai nostri concittadini che saremo molto duri nel
chiudere le frontiere dell’Europa quando non è così necessario accogliere, e intenzionati a rimandare nei propri
Paesi di origine chi arriva per motivi che non sono più che validi. La politica dei rimpatri, ovviamente, implica
interventi all’estero per ricostruire gli Stati che crollano, ricorrendo anche all’uso della forza per impedire
sopraffazioni delle bande varie. Qui c’è il confine vischioso tra la linea pacifica e l’ambigua deriva renziana citata
da altri. Però dobbiamo avere il coraggio di entrare in questo campo vischioso.
L’ultimo punto che vorrei dire è questo. Proprio perché siamo di fronte a un mondo caotico, non è
possibile definire in anticipo − con le leggi, con le regole, con i congressi − quello che faremo: cambia da
situazione a situazione. Quindi, la cosa importante, secondo me, è avere una politica istituzionale. In altre parole,
non possiamo sempre reinventare l’acqua calda. Come politici dobbiamo avere l’umiltà di dire: non siamo esperti
di tutto − anche se entriamo in una Commissione e ci lavoriamo per anni. I Paesi seri hanno delle policy units
formate da professionisti di livello accademico che per cinque anni lasciano l’Accademia e stanno lì, nei Ministeri
(Esteri, ecc.) a disegnare opzioni politiche di alta qualità da proporre ai politici. E questa è una battaglia per la
qualità e la trasparenza delle istituzioni che va fatta non solo in Parlamento, ma anche apertamente nel Paese.
MARCO MARZANO
Intervengo stimolato soprattutto dalle cose che hanno detto Massimo D’Antoni e D’Alema.
Io non credo che sia corretto il modo nel quale qui si è parlato della questione islamica in Europa e
dell’islamismo (un termine che non andrebbe usato perché in realtà designa solo l’Islam radicale).
A parte quest’ultima precisazione un po’ professorale, non credo sia corretto trattare questo problema come
legato al tema della fede religiosa. Io credo – anche se non sono un esperto di Medio Oriente, ma di cattolicesimo
e di religioni – che l’islamismo propriamente detto, e cioè quello radicale, sia, per molti versi, una reazione alla
secolarizzazione in atto in quel mondo. Non si tratta di un ritorno della fede o della riscoperta della religione tra le
grandi masse. Si pensi solo al fatto che molto spesso i terroristi non hanno mai messo piede in una moschea. Si
tratta allora davvero, io credo, di un fenomeno che ha a che fare con la politica, e con altri fattori come le
disuguaglianze sociali più che con la religione. Io credo che, in larga misura, anche nell’islam europeo sia in corso
un fortissimo processo di secolarizzazione, che, almeno in parte, per reazione, produce la formazione di una
frangia di persone che trovano attraente la prospettiva apocalittica, violentissima, terroristica, rappresentata
dall’islamismo. Quindi, il rapporto che Massimo D’Antoni implicitamente suggerisce tra soluzioni multiculturali e
addomesticamento del problema delle tensioni con l’islam secondo me non è ben posto. Il problema vero è
sociale, politico, di esclusione sociale e politica.
Anche da questo punto di vista, devo dire che francamente il discorso di D’Alema sull’islam moderato, su
Tariq Ramadan, non mi convince del tutto. Non mi convince per questa ragione: perché non sono sicuro che in
quest’epoca l’islam sia in sé e per sé capace di produrre un pensiero politico originale di tipo moderato. Io penso
che D’Alema, un po’ come riflesso condizionato, quando parla di Islam europeo abbia in mente la vicenda di
Togliatti e De Gasperi. E cioè che lui pensi all’islam moderato come alla Democrazia Cristiana rispetto a Gedda:
Gedda era la parte cattiva del cattolicesimo, quella che, seguendo le indicazioni di Pio XII, non ammetteva
trattative, che rimpiangeva il clerico-fascismo; la fazione integralista. De Gasperi, Moro e Dossetti (ovvero i
cattolici democratici) sarebbero invece, in questo schema, accostabili all’islam moderato. Io credo che questo
schema non funzioni, perché non sono più sicuro che questa sia un’epoca nella quale le religioni sono così
produttive di un pensiero compatibile con la democrazia, con il liberalismo. Spero che gli esperti di islam ci
dicano qualcosa di più.
Tra l’altro io sento sempre solo citare Tariq Ramadan come esempio di intellettuale islamico europeo. In
Francia ve ne saranno certamente altri ma oltralpe la comunità musulmana ha una consistenza che non ha qui, ha
un radicamento molto maggiore che in Italia. Quindi, francamente, mi sembra difficile che qui da noi possa
nascere questo islam europeo. La Democrazia Cristiana e la sinistra DC nacquero in un contesto culturale che
aveva anche sotto il profilo religioso ben altra vivacità. Io non vorrei insomma che rischiassimo, assecondando
una prospettiva eccessivamente multiculturale, di creare dei bantustan in cui ciascuno si fa la sua legge, in cui le
donne vengono sottomesse, eccetera. Senza produrre nessun risultato sul piano del miglioramento della
convivenza. Massimo ha citato Houellebecq e il suo Sottomissione: lo scenario fantapolitico di un islam che si
presenta come moderato e per questo conquista il potere. Ma il problema non è tanto quello, quanto quello che
l’islam non produca nulla sul piano politico. Io credo che molti cittadini musulmani che vivono in Italia e in
Europa siano semplicemente ansiosi di integrarsi tout court, e abbiano già la propria identità liberale, socialista,
comunista, fascista, eccetera, e che non sia l’elemento religioso quello determinante per la loro identità politica.
E questo perché all’interno della cultura mussulmana mi sembra di non vedere delle correnti di pensiero
che – con l’eccezione di Tariq Ramadan – propongono una visione in cui la tradizione islamica viene conciliata
con la democrazia, il socialismo, i diritti. Non lo vedo. Ad esempio, io vedo molti dei miei studenti e delle mie
studentesse che vengono dall’Egitto che vogliono soprattutto essere laici, cittadini italiani con un rapporto con la
tradizione religiosa simile al nostro, che al novantanove per cento siamo battezzati cattolici, e che però poi
certamente non pensiamo che l’identità religiosa possa essere la radice del nostro impegno politico. È in crisi
profonda il cattolicesimo democratico, figuriamoci l’islam democratico. Quindi, sarebbe molto utile se nelle
banlieues parigine fossero risolti gli enormi problemi sociali che vi sono. Io credo che quello sarebbe un passo
verso l’integrazione davvero fortissimo, perché quel che non funziona della laicità francese è proprio il fatto che 1)
il principio è bellissimo, ed è l’idea che siamo tutti cittadini repubblicani, membri di una stessa comunità, con gli
stessi diritti e che per questo dobbiamo fare un passo indietro sul piano della rivendicazione della nostra identità
particolare che rischia di mettere in crisi quella convivenza ma che 2) nella realtà, i musulmani sono discriminati,
non hanno gli stessi diritti dei francesi. Quella legge lì rischia di diventare la premessa di una emarginazione di
fatto. Giustamente, molti musulmani dicono: «Ma come? Sulla carta ci parlate del citoyen, di Liberté, Égalité,
Fraternité, e poi nei fatti ci discriminate».
Quindi, il problema vero è il superamento di quelle distanze tra dichiarazioni e realtà. Molti ragazzi che
entrano in formazioni estremistiche sono privi di un’appartenenza religiosa. La fede è una cosa molto più bella,
nobile, che non c’entra niente con quella roba lì. Insomma se io parlo alle mie studentesse velate di Tariq
Ramadan mi dicono che è peggio del demonio, che lo brucerebbero vivo.
E, d’altra parte, vedo nelle seconde generazioni musulmane immigrate in Italia l’ansia di avere reali pari
opportunità e di essere davvero cittadini di questo Paese. Questa è la cosa che conta per loro: non vogliono vivere
secondo la sharia, ma essere davvero integrati, essere uguali agli altri. L’identità religiosa spesso diventa rilevante
solo quando le persone esperiscono una reale marginalità. Questo spiega anche alcuni casi di conflitti
generazionali tra genitori laici e figli religiosi. Ad esempio, una giovane donna musulmana potrebbe dire alla
madre, divenuta laica: «Tu cara mamma sei venuta qui, hai cercato di integrarti, ma ti rendi conto che qui non ti
vogliono? In Occidente ti sei levata il velo, sei diventata cittadina, democratica e laica, però ti rendi conto che per
tantissimi di loro tu rimani un’algerina e che non sono disposti a darti le stesse chances che danno ai nazionali?».
La conseguenza di questo ragionamento per una ragazza come quella è allora: «Io invece mi metto il velo, perché,
se devo essere emarginata, almeno sarò emarginata con un simbolo che identifica la mia inferiorità e che per me
diventerà però motivo di orgoglio e di sfida».
CONCLUSIONI
CARLO GALLI
Questo seminario è strutturato diversamente dall’altro. Esso nasce fondendo dentro di sé un seminario –
come l’altro – e una tavola rotonda che era stata concepita dall’onorevole Palazzotto, il responsabile Esteri del
gruppo Sinistra Italiana e di SEL. Resta, al di là di questa differenza organizzativa, la ratio di questi seminari, che
è di rimettere in rapporto fra di loro il mondo della cultura universitaria e il mondo della politica pratica, dei
politici di professione. Un rapporto – questo – che dentro la sinistra era fortissimo, e che oggi è illanguidito e
interrotto.
Questa volta abbiamo parlato di un certo argomento, di cui adesso cercherò di dare un minimo di profilo;
la volta prossima sarebbe non inopportuno programmare una riflessione sopra che cosa pensiamo noi
dell’Università e della ricerca. Da parte mia è stata appena depositata una mozione – che spero verrà presto
calendarizzata e discussa – sulla ricerca, nella quale ho tentato di mettere l’appello degli scienziati, nelle sue linee
generali, insieme ad altre considerazioni. Sul ruolo strategico della ricerca penso che avremo parecchie cose da
dirci fra di noi e parecchie cose da proporre alla politica.
Per quanto riguarda, invece, il seminario di oggi, io ero certo che sarebbe successo quello che non poteva
non succedere: che cioè dal tema Guerra e politica è venuto fuori tutto. In realtà, la cosa sulla quale più si è
ragionato è il concetto di secolarizzazione: se la secolarizzazione occidentale possa essere riprodotta; e se una
religione diversa dalla nostra abbia dentro di sé la possibilità di dare vita, attraverso quello che abbiamo fatto noi
in Occidente (cioè uno strappo frontale, almeno sotto il profilo politico), quella potenza emancipatoria che noi
chiamiamo modernità. Che è, da una parte, sicuramente frutto della nostra tradizione cristiana – come è evidente –
mentre dall’altra, contemporaneamente, ha generato per lungo tempo una contrapposizione frontale rispetto alle
forme dell’autorità tradizionale, alla quale si agganciavano, alla ricerca di legittimazione, forme di potere politico
che sono state scalzate parzialmente attraverso il pensiero della secolarizzazione, e poi a un certo punto anche
attraverso movimenti sociali e politici rivoluzionari. Noi ci stiamo chiedendo se mai l'Islam sia capace di produrre
Stati laici e democratici. E d'altra parte ci chiediamo: saremo capaci noi di trasformare lo Stato laico e democratico
in uno Stato capace di tenere dentro di sé differenze culturali e religiose anche molto importanti? E, terzo punto:
saremo capaci noi di uscire dalla dimensione dello Stato per quanto riguarda il piccolo «imperialismo straccione»
di cui sono protagonisti gli Stati europei oggi nell’area del Medio Oriente? E ancora: finito il mondo bipolare –
che era certamente un mondo più chiaro –, sapremo porre in essere strategie di convivenza planetaria fondate non
su di un unico Stato mondiale ma su pluralismi non distruttivi? Tutto questo entra dentro il tema Guerra globale e
pace come prodotto della politica. Che significa che la pace non emerge da sola; e che si fa più fatica a far la pace
che a far la guerra.
Per tentare di ricostruire un quadro voglio iniziare dal presidente D’Alema, il quale ha sostenuto che due
sono le strategie con cui l’Occidente si pone nei confronti del «mondo di mezzo» – Africa settentrionale, Vicino
Oriente, Medio Oriente –. Io direi tre, come minimo. Certamente le dittature, che però non erano solo prodotti
dell’Occidente: ad esempio, le dittature baathiste erano dei socialismi nazionali che riprendevano idee occidentali,
ma si erano poste abbastanza nettamente contro gli interessi dell’Occidente, che, non a caso, tentò in vario modo
di destabilizzarle, o rovesciarle, o portarle sotto controllo. Certo, se ne serviva anche; ma quando queste nascevano
avevano di solito attitudini anti-occidentali e anti-tradizionali.
L'altra strategia è stata la cosiddetta esportazione della democrazia, il detonatore che ha destabilizzato
intere aree nei tempi recenti. Da questo punto di vista, colui che ha distrutto mezzo mondo è stato Bush il giovane
(che qualche intellettuale italiano definì a suo tempo «un gigante»).
La terza strategia è quella che oggi si sta tentando più o meno nascostamente: è la strategia classica della
spartizione. Ora, si deve chiarire che una cosa è spartire ciò che ha un’unità organica; altra cosa è spartire entità
che sono state generate a tavolino (nel nostro caso dal trattato Sykes-Picot oppure dal fascismo). La Libia è stata
inventata dal fascismo: è una parola latineggiante sotto la quale sono state unificate la Cirenaica e la Tripolitania –
non c’era una realtà chiamata Libia –. C’era l'Impero ottomano, di cui la Tripolitania era un vilâyet – una
determinazione amministrativa – e la Cirenaica neppure questo. Anche l'Iraq è un’invenzione a tavolino, utile agli
inglesi per sfruttarne il petrolio.
La spartizione è una strategia di neutralizzazione dei conflitti. Di fatto, però, questa strategia non riesce
perché oggi non procediamo facilmente alla cancellazione dei confini, e anche perché sono troppi coloro che
vogliono spartire queste aree. Quindi è meglio dire che le strategie con cui ci rapportiamo al vicino Islam sono
dittatura, esportazione della democrazia, cattiva spartizione, a cui va aggiunto l'imperialismo – macro e micro –.
Macro è quello americano, un po' distratto perché oggi gli USA hanno come problema fondamentale la Cina. E
dunque hanno sperato che il Medio Oriente non fosse un problema centrale perché hanno altro a cui pensare.
Penso che per loro siano più importanti le Isole Spratly che non la Siria. Perché attraverso le Isole Spratly (o le
Paracel) si decide non solo del petrolio ma anche dell’accerchiamento marittimo della Cina continentale, o del suo
venire meno. Naturalmente si deve qui menzionare l’imperialismo russo, che in Siria è intervenuto per non
lasciare campo libero a Isis e ai suoi ambigui finanziatori sauditi e turchi, oltre che per difendere l’unico approdo
navale russo nel Mediterraneo.
I micro-imperialismi, poi, sono quelli degli Stati locali, regionali. Rilevante è l’imperialismo turco, di cui
abbiamo parlato troppo poco. Un imperialismo che è sicuro di sé, perché la Turchia è il catenaccio fondamentale
della NATO – insieme all’Inghilterra –, e ne è consapevole. E dunque sa che gli americani alla Turchia
perdoneranno tutto. Poi ci sono le secondo me legittime ambizioni di potenza regionale dell’Iran. L’Arabia
Saudita, che piaccia o no, è un player regionale ma anche globale, dato il tipo di controllo che ha sul prezzo del
petrolio, e che è furiosamente impegnato in chiave anti-sciita e anti-iraniana tanto in Siria quanto in Yemen. E
infine ci sono appunto gli «imperialismi straccioni» dei francesi e degli inglesi, che ogni tanto provano a riproporsi
in un qualche ruolo.
Insomma, come elementi di disordine abbiamo: Stati falliti, perché questo «arco di crisi» è un arco di Stati
falliti o in via di fallimento. Si parte dall’Afghanistan, dove non c’è uno Stato; si passa attraverso l’Iraq, dove non
c'è uno Stato; c'è poi lo Stato islamico (Isis), evanescente; e lo Stato curdo, in potenza; infine, la Siria non è uno
Stato: sono due, tre, quattro, territori. Tralasciamo la Somalia, anch’essa parte dell'arco di crisi, che è un classico
Stato fallito, e passiamo alla Libia, anch'essa uno Stato fallito, che abbiamo fatto fallire deliberatamente. Non dico
noi italiani, perché va reso atto a Berlusconi di essere stato più che riluttante alla guerra del 2011 e di essere
intervenuto solo per impedire che la Libia diventasse un condominio anglo-francese. Gli Stati falliti sono elemento
di disordine, ma anche l’imperialismo macro e micro degli Stati non falliti lo è. Elemento di disordine è il
radicalismo loro e nostro: perché questo disordine è del Medio Oriente, del Vicino Oriente, dell’Africa
settentrionale, ma anche il disordine dei partiti fascisti o xenofobi che vincono le elezioni negli Stati europei.
Quella in corso non è definita «guerra globale» per caso. Quando più di una dozzina d'anni fa ho coniato il
termine «guerra globale» volevo proprio dire che non si tratta di una guerra mondiale ma di un insieme di guerre
ibride di tutti i tipi, con molti tempi al proprio interno e pochi spazi – pochissimo spazio –. Lo spazio è un fattore
di ordine. Nella guerra globale non c’è lo spazio. La guerra globale significa che se oggi si fa un bombardamento
in Siria, domani si risponde con un attentato a Parigi o in Spagna, o in Inghilterra. Tutto può capitare ovunque in
ogni momento ad opera di un nemico mutevole e cangiante: questo è il principio fondamentale della guerra
globale.
Il radicalismo, che alla guerra globale inerisce, è stato scatenato dal fatto che noi siamo entrati in quelle
aree a distruggere degli Stati, e allora i quadri politici militari e religiosi di quegli Stati, furiosi, si sono
radicalizzati (ma in passato queste stesse forze erano state dalla nostra parte, contro altri nemici). Il radicalismo,
inoltre, viene prodotto in Europa dalla crisi economica devastante, secolare, che sta minacciando sia l’integrazione
degli immigrati di seconda generazione, sia il ceto medio e il ceto medio-basso, i cui componenti si trovano a
competere con i nuovi immigrati più o meno forzati che vengono dai Paesi in corso di desertificazione, ma anche –
soprattutto quelli che arrivano nell’Europa orientale per la rotta balcanica – dalla guerra. E se sopra una società
disgregata dal neoliberismo si fa piovere la immigrazione di elementi allotri, il rischio di anomia cresce a
dismisura.
La soluzione è lo Stato democratico, almeno la soluzione a breve. «Stato» significa che esistono interessi
nazionali, che la politica conosce, e persegue; e «democratico» significa che questi interessi sono orientati, gestiti,
secondo una politica di pace, all’interno e all’esterno. Una politica di pace che, in questo caso, si fonda sul grande
tema illuministico della tolleranza – non a caso D’Alema quando diceva «la democrazia è il rispetto delle
minoranze» insisteva su questo punto –. Se non si riesce a realizzare inclusione attraverso la tolleranza non si va
da nessuna parte, e si ricade nella guerra civile di religione. Ma per porre in essere la tolleranza si richiede una
spesa di energia politica: in Europa è stato necessario lo Stato assoluto per operare la tolleranza – in un modo,
oltretutto, inizialmente poco tollerante –.
Lo Stato democratico deve essere capace di uscire dalle secche delle due interpretazioni prevalenti del
multiculturalismo: quella inglese che è tipicamente imperiale (e che si fonda sul principio «fate quello che volete,
tanto tutte le leve del potere le hanno in mano le élites giuste») e quella francese (che proibisce l'uso politico delle
religioni, negli spazi pubblici della Repubblica laica). Sono entrambe soggette a smentite, soprattutto perché c’è
una situazione di crisi economica che non consente a una società di funzionare in modo che ci sia spazio per tutti;
o a uno Stato di fornire quella «tolleranza materiale» che oggi è richiesta, ossia il welfare. Perché una cosa è la
tolleranza formale prodotta attraverso la spoliticizzazione delle religioni, altra cosa è integrare attraverso il
welfare. Se non c’è una riduzione della disuguaglianza reale, credibile, se non c’è, per dirla con i seguaci di Bernie
Sanders, «A future to believe in», avremo soltanto violenza all’interno, e violenza all’esterno. Del resto, sempre la
politica ha avuto bisogno di neutralizzare fattivamente i conflitti che nascono ovunque: con le distribuzioni di terra
ai legionari dopo vent’anni di servizio; con la distribuzione di grano alla plebe romana; con la distribuzione dei
territori d’oltremare agli esuberi di popolazione dell’Europa; in qualche modo qualche cosa a qualcuno va data. Se
la forma del capitalismo contemporaneo non ha più niente da dare a nessuno, se non a pochissimi, avremo la
guerra globale.
Democratico è quindi quello Stato che all’interno ritorna a operare la redistribuzione della ricchezza e
l’integrazione materiale, e che all'esterno non interpreta il proprio interesse nazionale alla sicurezza in modo
imperialistico. All’interno, inoltre, democratico è lo Stato che sa evitare quello che ci ha spiegato Azzariti: cioè
che lo Stato pensi a se stesso e si riorganizzi non come un sistema equilibrato di poteri, ma come un potere
concentrato nell’esecutivo che deve far fronte a tutto, non facendo in realtà fronte a nulla.
Deve far fronte a ogni emergenza interna e allora deve avere, sostanzialmente, il monopolio dei media per
poter raccontare quello che vuole, e non deve mai incontrare un contropotere istituzionale lungo la propria marcia.
Deve essere uno Stato che non abbia in sé il potere di fare la guerra sulla base di una vittoria elettorale di un
partito del venti per cento. O il potere di fare guerre segrete. Certo, lo Stato è oggi appaesato in un mondo del
tutto diverso da quello in fondo poco pericoloso del 1948, e retto da una Costituzione che quando parlava di guerra
pensava alla guerra mondiale appena conclusa, cioè a un grande confronto di armati sul campo. Oggi il mondo è
diventato ancora più pericoloso di quello proprio perché la guerra globale significa che gli Stati vivono all’interno
del pericolo, e non riescono quasi più a neutralizzarlo: ma proprio per far fronte al pericolo, per far fronte
all’incendio, si mette in mano al potere esecutivo una fiaccola sempre accesa? È chiaro che se si risponde alla
guerra globale trasformando lo Stato in uno Stato emergenziale, all’interno e all’esterno, in nome dell’emergenza,
cioè della decisione veloce, si perdono o si comprimono i processi istituzionali.
Un’ultima osservazione: il nord e il sud del Mediterraneo hanno sempre avuto un destino comune. Soltanto
gli arabi – secondo la tesi di Pirenne – sono riusciti a tagliare per un po’ il rapporto fra le due sponde, nord e sud.
Questo destino comune è stato, nel tempo più vicino a noi, un destino di colonialismo del nord verso il sud; in
passato è stato anche un’invasione da parte del sud verso il nord. L’Impero romano muore non quando viene
deposto Romolo Augustolo nel 475, ma quando due anni prima l’ultima flotta dell’impero – mille navi, in buona
parte prestate all’Impero d’occidente dall’Impero d’oriente –, che stava portando la guerra contro il regno dei
Vandali in Africa, viene distrutta da una tempesta e da una astuzia bellica dei barbari. Dopo non resta più nulla:
perduta la Tunisia, il granaio dell’Impero, si era perduto il controllo del Mediterraneo – anche nella Seconda
guerra mondiale gli americani si sono voluti prendere prima la Tunisia per aggredire l’Europa –.
L’Italia senza un rapporto con la sponda africana non sta in piedi, sotto il profilo strategico, sotto il profilo
economico, sotto ogni profilo. Noi abbiamo un destino comune. Per cui l’idea – che stiamo avanzando come
Sinistra Italiana – di stringere un accordo, nel nome della pace e della democrazia, non dell’imperialismo, in vista
di un aiuto alla costruzione di uno Stato democratico in Tunisia, è secondo me una un’idea giusta e appropriata.