Guerre e Iniquità. Le cause dei flussi migratori

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Guerre e Iniquità. Le cause dei flussi migratori
Guerre e iniquità. Le cause dei flussi migratori (*)
di Germana Tappero Merlo
“Come si è arrivati a tutto questo?” è la domanda che da tempo ricorre nelle menti e
negli innumerevoli dibattiti di fronte alle immagini di persone di ogni età recuperate al largo
delle acque del Mediterraneo o in cammino lungo i sentieri che affiancano i confini di molti
Paesi d’Europa: immagini drammatiche di corpi provati e sfiniti ma sopravvissuti, una
condizione non sempre condivisa da chi aveva intrapreso quel lungo viaggio, e i cui
cadaveri giacciono in fondo al mare o in bare senza nome nei cimiteri di quei Paesi costieri
che li hanno pietosamente accolti per l’ultima volta. Appunto, come si è potuti arrivare ad
una tale tragedia tanto che le coste del Mediterraneo europeo hanno ottenuto
l’incontrastato titolo di “confini con vie migratorie più letali al mondo”? Immagini che non
hanno solo scosso gli animi, ma hanno altresì messo alla prova la tenuta di un’Europa ai
suoi valori fondanti e fondamentali, come la pacifica convivenza fra tutte le sue genti e la
libera circolazione nei suoi territori, la garanzia della sua sicurezza interna e quella poco
oltre il suo territorio e il suo mare meridionale. Perché è da qui che è necessario partire
per illustrare e comprendere cosa sta accadendo.
Le direttrici su cui confluisce questa massa umana proveniente dall’Africa, dal Vicino
Oriente e Asia Centrale sono essenzialmente tre: dalle coste della Libia verso l’Italia, dalla
Turchia verso la Grecia e la Bulgaria, a cui si aggiunge la meno corposa dal Marocco alla
Spagna. I dati certi di questo esodo forzato sono impressionanti: oltre 500mila persone nel
solo 2015, più del doppio di un drammatico 2014 che, con i suoi 210mila profughi, aveva
segnato l’impennata di un flusso già allora tragico.
Non consola ma anzi fa infuriare sapere che il fenomeno non è nuovo, ma risale almeno
ad inizio del nuovo millennio: certo, con cifre più contenute, come i circa 40mila del 1998,
ma con punte di oltre 61mila nel 2006 e 70mila nel 2011, rispettivamente con l’acuirsi del
conflitto in Iraq e l’avvio delle primavere arabe e il loro relativo degenerare sino a guerre
civili in Paesi come Libia, Siria e Yemen.
Fra il 2000 e il 2015 vi sono stati oltre 26mila morti fra i circa 1milione e 300mila
migranti di tutto quell’arco di tempo, con un’unica consolazione, ossia una diminuzione in
percentuale (dal 3,1 al 2%) dei decessi negli ultimi due anni (2013-2015) per via
dell’intensificarsi delle operazioni di ricerca e di salvataggio da parte delle forze della
nostra Marina Militare, da quella tutta italiana Mare Nostrum a quella europea Triton. Una
magra consolazione statistica che, pur tuttavia, riempie di orgoglio chi ha permesso che si
intervenisse con accoglienza e tolleranza in una tragedia umanitaria di dimensioni epocali,
senza frapporre barriere pregiudiziali, dettate da orgogli nazionali o da vincoli di bilancio
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economico: queste, infatti, si sono tradotte in limiti fisici veri e propri, come la costruzione
di nuovi muri e la temporanea chiusura di confini di alcuni Paesi europei. Altre barriere,
invece, seppur più sofisticate, si sono elevate con l’avvio di un acceso dibattito fra Stati
dell’Unione Europea circa la definizione di quote nazionali per l’ entrata di profughi: una
sorta di limiti sui generis perché non solo fisici, dettati da ragioni economiche, ma anche
mentali per quel timore di “contagio” che i flussi migratori dai Paesi islamici possano
minare le fondamenta culturali dell’Europa, oppure minacciare la sua sicurezza, dato il
rischio, a nostro avviso remoto ma non improbabile, di presenze di terroristi fra le fila di
quei disperati.
All’inizio e per tutto l’arco del primo decennio del nuovo millennio, il flusso migratorio di
genti da Paesi africani e centro-asiatici era dettato per lo più da necessità economiche e
dalla ricerca in Europa di migliori condizioni di vita: era al contempo il risultato più tangibile
della facile mobilità di persone in un mondo globalizzato, ma altresì il risultato della iniquità
nella distribuzione delle opportunità di crescita e di progresso, ossia di quel benessere
proprio della globalizzazione che in se stessa non è per nulla un fenomeno negativo ma,
se mal gestita e portata all’eccesso senza che siano posti vincoli di natura etica, finisce col
permettere che prevalga il primato dell’economia sulla politica e, con essa, i disvalori
propri dell’individualismo e del profitto. Da ciò è derivato un iper-sfruttamento di molte
aree, come la stessa Africa da cui tutto è iniziato qualche decennio fa. Quel continente, di
per sé ricchissimo di metalli preziosi, di greggio, di gas e di terre rare come pure, sebbene
sembri incredibile, di quell’acqua e di quella buona terra fondamentali per produrre derrate
alimentari di cui necessita urgentemente un mondo abitato da 7,3 miliardi di individui, è
stato condizionato da politiche di sfruttamento che, unite a suoi mali endemici come la
corruzione nelle istituzioni, guerre locali e presenza di organizzazioni criminali
transnazionali in vaste sue aree, hanno finito per impoverire e non dare alternative a una
massa di giovani africani, costretti a cercare altrove una degna sopravvivenza per non
essere ingaggiati da signori della guerra, criminali e, da ultimo, gruppi terroristici. Proprio il
fattore demografico, mai adeguatamente valutato nelle analisi politiche, economiche ma
anche di sicurezza per il rischio di guerre e terrorismo, influenza pesantemente il
fenomeno dell’immigrazione e dei flussi di disperati sulle nostre coste: la sola Africa subsahariana, con i suoi 40% di giovani al di sotto dei 15 anni, registra circa 350 dei
702milioni fra i più poveri del pianeta. Il tasso di natalità africano, inoltre, pare essere
fortemente al rialzo al punto che entro il 2050, secondo stime delle agenzie delle Nazioni
Unite, l’Africa nel suo insieme conterà 2,2 miliardi di persone, tanto da superare la temuta
antagonista economica per l’Occidente, ossia la Cina.
Questi fattori vanno ad aggiungersi ad altri, comuni a vaste regioni del mondo, come il
prolungamento di situazioni di conflitto (dapprima Sudan, poi Somalia, ma da decenni
Afghanistan e poi Iraq e Siria, solo per citarne alcuni), che hanno finito per imporre la fuga
da quei luoghi a chi, potendoselo permettere finanziariamente, ha preferito affrontare mesi
di spostamenti via terra, privazioni, angherie sino al rischio di morire pur di mettere in
salvo se stesso o parte della sua famiglia. Perché se il fenomeno c.d. “dei barconi” è
scaturito da fattori economici e da insopportabili condizioni di vita dovute ad un progresso
globale iniquo, finto, sbilanciato e a senso unico, dalle nuove guerre a loro volta originate
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da interessi politici e strategici di soggetti esterni a quei Paesi in cui ancora si combatte,
sono derivate precarie condizioni di vita, instabilità sociale e mancata crescita, da cui
disoccupazione e disperazione, terreni fertili per l’odierno terrorismo.
Dalle acque ad alto rischio del Mediterraneo centrale il flusso si è così spostato su
quelle orientali (Turchia e Grecia) e sulle vie terrestri (Turchia e Bulgaria), entrambe non
nuove al fenomeno dell’immigrazione clandestina. A questo riorientamento dei flussi ha
contribuito certamente l’azione di contrasto in mare ai trafficanti di esseri umani operanti
dalla Libia. Tuttavia, il deteriorarsi di situazioni critiche nello scenario mediorientale dovute
ai conflitti in corso in Siria e Iraq e, non da ultimo, al prolungarsi di quello in Afghanistan
con relativa aumentata instabilità politica di Paesi limitrofi, a iniziare dal Pakistan, hanno
permesso la comparsa e l’acuirsi di nuove emergenze umanitarie.
Si sa, infatti, che costoro non sfuggono solo dalla povertà per mancanza di opportunità
nei propri Paesi, ma anche da guerre nuove, come quella siriana, o vecchie, come quella
somala, irachena o afghana, ancora più antica perché eredità di quel Grande Gioco
centro-asiatico degli ultimi decenni del secolo scorso fra l’allora Unione Sovietica e il
regime dei talebani, a cui è subentrata quella lunga guerra al terrore avviata all’indomani
dell’ 11 settembre 2001 da una sgomenta e inorridita comunità mondiale capeggiata dagli
Stati Uniti contro i talebani alleati con la dirigenza di al-Qaeda che in Afghanistan aveva
trovato rifugio e appoggio. Guerre brevi e magari anche vittoriose perché combattute
efficacemente sul campo, ma dal dopo-conflitto complesso, che ha fatto emergere i limiti di
un Occidente potente militarmente ma non sempre in grado di comprendere e rapportarsi
con le innumerevoli e articolate dinamiche politiche, sociali, tribali e culturali di quelle
realtà: proprio il complesso e fallimentare processo di stabilizzazione post-conflitto in Iraq
e in Afghanistan è stato catalizzatore della conflittualità e del suo estendersi a Paesi
limitrofi, tanto da creare terreno fertile per nuovi movimenti eversivi, in cui primeggia l’ Isis,
e da permettere la sopravvivenza di altri, più vecchi, come al-Qaeda.
Si è soliti, inoltre, pensare che la causa scatenante il dramma dei migranti siano state
quelle rivolte che nel 2011 si sono espanse in tutto il Nord Africa, sino alla Siria e alla
Penisola Arabica, nella speranza di sostituire regimi autoritari con governi democratici,
moderati e liberali; in parte è vero, in quanto il tutto si è poi rivelato, ad eccezione della
Tunisia, un azzardato disegno politico, sostenuto dai Paesi occidentali più a parole e
sciagurati interventi militari che con solidi e tempestivi aiuti economici e una reale guida
politica alla costruzione di un nuovo percorso istituzionale. Da quel caos solo la Tunisia, a
stento, è riuscita a dar vita ad un governo democratico, ma ancor oggi così fragile nella
sua sicurezza interna da rischiare ulteriore destabilizzazione e tracollo per mano del
terrorismo, come i fatti del museo del Bardo o sulla spiaggia di Soussa nel 2015 hanno
drammaticamente dimostrato. E i continui scontri fra le sue forze di sicurezza ed elementi
del jihadismo eversivo rifugiati sulle sue montagne del Chambi sono testimonianza che il
passaggio dal vecchio regime a un nuovo ordine interno, libero e democratico, è ancora
tutto in divenire. Questa insicurezza affonda opportunità di investimenti, lavoro e crescita,
da cui disoccupazione e aumento della povertà e ricerca altrove di migliori condizioni di
vita.
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Un destino anche più crudele è stato quello di altri Paesi protagonisti delle Primavere
arabe. L’Egitto, che con i suoi manifestanti di Piazza Tahir
aveva monopolizzato
l’attenzione e costoro avevano ottenuto il plauso del mondo intero per il loro coraggio, ha
sperimentato una breve quanto lesiva deriva del suo primo governo da Paese libero verso
quella Fratellanza Musulmana che è a fondamento dell’ideologia estrema dei più pericolosi
organismi eversivi, come al-Qaeda e Isis. Il nuovo Egitto post-Mubarak fatica a risollevarsi
con trasparenza fra crisi economica, minacce terroristiche interne e insicurezza lungo i
suoi confini con una Libia in guerra: è uno dei Paesi più strategici al mondo per la sua
posizione geografica (fra Africa e Vicino Oriente, e in particolare Israele, la cui sicurezza
sul fronte meridionale dipende dalla stabilità del Sinai egiziano), per il controllo di una via
marittima fra le più trafficate e redditizie, come il canale di Suez, e per essere stato, per
sua tradizione storica, un riferimento al panarabismo e quindi, ancora ora un richiamo in
tal senso per l’intero mondo arabo, repubblicano e laico.
Cosa non da poco, in una realtà regionale in cui dinastie regnanti come l’arabica Saud
ambiscono allo stesso ruolo ma acuiscono il confronto con contaminazioni religiose
estreme che, col tempo, hanno finito per indirizzare l’area verso un acre confronto con
un’altra grande protagonista della regione, la teocratica Repubblica dell’Iran: da qui, il
rinnovato scontro fra sunniti, a cui appartiene la stirpe regnante in Arabia Saudita, e gli
sciiti dell’Iran post-khomeinista, in una sanguinaria lotta per la supremazia nella comunità
musulmana (umma), di cui è ora testimonianza il conflitto in Yemen. Questo antico
confronto fra le due anime dell’Islam ha monopolizzato l’intera regione, sebbene la
componente religiosa sia solo per entrambi un capro espiatorio per ambizioni ben più
materiali e secolari, ossia il controllo politico della regione e di suoi stati chiave (Siria, Iraq
e Yemen, appunto, come ponte verso l’Africa) e delle loro ricchezze (fra cui il petrolio
curdo e le acque irachene). Lo scontro fra queste due potenze regionali si è così imposto
pesantemente sulle rivolte del 2011, trasformandole in conflitto inter-religioso ma
soprattutto eversivo, dalle tragiche diramazioni estremiste come dimostra la presenza
dell’Isis: non è un caso che questo gruppo, nato da componenti di al-Qaeda in Iraq e
supportato poi pesantemente dalle monarchie sunnite in funzione anti-siriana e anti-sciita,
per cui inevitabilmente anti-iraniana, sia ora il riferimento ideologico e di lotta per le milizie
armate dal Vicino Oriente al Nord Africa che, di quelle rivolte, sono una pesante eredità.
L’epilogo più violento delle sommosse si è avuto, e si sa, in Libia e in Siria. La prima,
presto trasformatasi in guerra civile, si è vista aiutare da un controverso intervento armato
di nazioni esterne, come Francia e Regno Unito, per la violazione della Risoluzione 1973
dell’Onu sul cessate il fuoco, che ha sì rovesciato il regime di Muammar Gheddafi ma ha
lasciato quel Paese in balia di milizie armate al soldo di interessi locali tanto da
frantumarlo in nome di antiche rivendicazioni territoriali che ora, trovati i supporti anche
regionali e internazionali, si confrontano e rendono difficoltoso il cammino verso la
stabilizzazione della Libia. E, si badi bene, non la sua democratizzazione, di per sé un
obiettivo molto, troppo lontano. Uno dei fattori più critici sta proprio nella sua ampia area
desertica senza più confini sicuri ma porosi, ossia senza quei controlli di forze regolari di
sicurezza ed esercito nazionale, per cui l’intera Libia meridionale è diventata il canale
privilegiato in cui far affluire le genti africane disperate in fuga dai loro Paesi - per lo più
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dell’area sub-sahariana, come Mali, Nigeria, Niger e Ciad, non immuni da guerre e
terrorismo - ma anche zona di transito di proficui traffici illeciti, da quello degli esseri
umani, appunto, ad armi di ogni tipo, così come combattenti e terroristi, droghe e persino
organi umani. Una grossa parte della Libia del dopo guerra è così in mano a trafficanti e
mercenari al soldo dell’ideologia jihadista o della criminalità internazionale con cui
interagiscono, sfruttando le reciproche reti di collegamento fra gli innumerevoli soggetti
della variegata compagine terroristica, da al-Qaeda locale a gruppi simpatizzanti o affiliati
all’ Isis (come, dal 2015, Boko Haram) fino a collegarsi con il somalo e, al momento,
qaedista al-Shabaab, un decano della guerra e della relativa instabilità che colpisce il suo
Paese ma anche quelli vicini, come Kenya ed Etiopia. Per questo è preferibile parlare di
internazionale terroristica più che di terrorismo internazionale.
Ecco crearsi in quell’arco sub-sahariano che va dalle acque atlantiche a quelle dell’
oceano indiano, un terreno fertile di umanità e di occasioni violente che danno vita a
tragedie locali come, fra tante, i massacri di cristiani da parte di Boko Haram, con
inevitabili aumenti dei flussi migratori verso il Mediterraneo.
All’altra rivolta, quella in Siria, oltre al braccio di ferro “religioso” fra Arabia Saudita e Iran
si sono aggiunte presto altre variabili esterne, fra cui le ambizioni regionali del Qatar e
quelle del turco Erdogan per un neo-impero ottomano con rinnovato ruolo guida della
Turchia nel mondo musulmano, tanto che la rivolta si è trasformata dapprima in guerra
civile e da questa in guerra locale intra-stati, e poi ancora in guerra regionale, con l’ultima
drammatica evoluzione verso un pericoloso attrito fra potenze dalle valenze militari ed
egemoniche più estese come, appunto, la Turchia e la Russia: quest’ultima in Siria difende
l’unico suo avamposto proprio nel Mediterraneo e, con gli hezbollah filo-iraniani, quasi un
paradosso, anche i diritti delle comunità cristiane perseguitate dagli estremismi religiosi
violenti di quella regione, come l’Isis, verso cui la comunità di Stati occidentali ha
temporeggiato nell’agire fra i tentennamenti degli Stati Uniti, timorosi di coinvolgersi in altri
costosi ed inconcludenti conflitti, e le mancate decisioni univoche di un’Unione Europea, di
colpo ripiombata nei suoi nazionalismi perché esasperata dai vincoli generati dalla sua
crisi economica e finanziaria. Quella siriana è così degenerata in una sanguinaria guerra
dalle cifre contrastanti: 250-500 mila morti, a seconda delle fonti; circa 5 milioni di profughi
nei Paesi vicini e circa 8 milioni obbligati a sofferti spostamenti interni, in fuga da violenze,
morte e fame. Inevitabile che tutto ciò finisca per contribuire alla crisi umanitaria dei
migranti via terra e via mare.
Rimane un ultimo conflitto che alimenta quei flussi, ossia quello in Iraq: sino al 2014 in
difficoltà con il suo tormentato risollevarsi dopo la caduta di Saddam Hussein, quel Paese
ha visto nascere da quelle ceneri il peggior nemico per la sua sicurezza interna e quella
internazionale, appunto l’ Isis, sospinto da farneticanti e antistoriche ambizioni di ristabilire
un Califfato conquistando territori, ad iniziare dall’Iraq e Siria per poi estendersi al Nord
Africa e al Centro Asia, con l’ imposizione estrema, isterica e violenta della legge islamica
(sharia). Da qui il richiamo a combattere una guerra santa - sebbene la fede c’entri nulla che, per una massa di giovani musulmani da quelle regioni sino al cuore dell’Europa, è
diventata una lotta di affermazione di una identità perché in essa trovano motivazioni,
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soluzioni e un futuro dove i modelli occidentali di crescita, progresso e integrazione hanno
fallito.
Dell’ Isis si è già detto molto: sono più che note le sue azioni violente di massa contro le
minoranze etniche (curdi) e religiose (sciiti, yazidi e cristiani), gli oppositori, i nemici in
guerra, oppure le affiliazioni nel resto del mondo di gruppi estremisti o di singoli individui, i
c.d. lupi solitari protagonisti, fra le altre, delle azioni terroristiche di Parigi nel 2015.
Tuttavia, ed è bene sottolinearlo, più che un’organizzazione terroristica, Isis è innanzitutto
una organizzazione criminale, tanto violenta quanto pragmatica, dedita ai traffici illeciti più
disparati, fra cui dominano le droghe sintetiche, il contrabbando di petrolio, le estorsioni e
i rapimenti; gode, però, di una struttura e di una formazione militare che gli permette di
sostenere un’insurrezione contro più nemici e su più fronti al fine di dar vita ad un Califfato
di un Iraq dominante la regione, ottenendo per questo il contributo di ex ufficiali di Saddam
Hussein desiderosi di riscatto dopo la sanguinosa ed ingloriosa fine di quel regime. Il suo
uso del terrore è solo ed esclusivamente uno strumento di conquista e controllo di un
territorio, di minaccia dei suoi nemici, di propaganda e di proselitismo fra i suoi
simpatizzanti al di fuori di quei confini. Il progetto
eversivo dell’ Isis è, però,
profondamente locale: se, pur tuttavia, trova appoggi di potenze regionali o aree a forte
instabilità come la Libia in cui stabilirsi, la sua minaccia si estende e diventa di difficile
arginamento. Da qui il peggior rischio per la sicurezza di un’Europa che subisce le
conseguenze di quelle guerre, dell’instabilità di ampi territori e soprattutto le perverse
ambizioni di dominio di attori locali.
Innumerevoli protagonisti, quindi, e relative responsabilità per lo più derivanti da cause
economiche a cui si sono aggiunte, negli ultimi anni, le vittime di quei conflitti: da qui le
condizioni di migrante economico, di profugo e di rifugiato politico che compongono ora il
drammatico quadro di una situazione destabilizzante un’Europa che si sentiva protetta da
quelle acque, dai suoi confini terrestri ma soprattutto dalla convinzione di essere in grado,
da sola e a suo piacimento, di gestire l’entrata di cittadini extracomunitari. Le guerre del
Vicino Oriente, dell’Africa sub-sahariana e dell’Afghanistan hanno minato questa certezza
sino a rischiare di demolire il suo sogno comunitario pan-europeo per l’insorgere di
divisioni interne e spinte nazionalistiche, il tutto esasperato dalla criticità delle condizioni di
quelle genti in viaggio verso la salvezza.
* Articolo per il catalogo della Mostra Binario 18#stayhumanart, organizzato da Legal@rte onlus,
Torino, Aprile 2016.
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