Baudino relazione
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Baudino relazione
La Responsabilità civile dei Sindaci per il pregiudizio subito dai creditori I - INTRODUZIONE ................................................................................................................. 2 II - IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO ............................................................. 2 III - AZIONE SOCIALE ED AZIONE DEI CREDITORI A CONFRONTO .......................... 4 III.1 - Natura dell’azione ........................................................................................................ 4 III.2 - Il campo di applicazione .............................................................................................. 6 III.3 - Legittimazione all’esercizio dell’azione ...................................................................... 8 III.4 - Rinuncia e transazione ................................................................................................. 9 III.5 - Concordato ................................................................................................................. 10 III.6 - Prescrizione ................................................................................................................ 10 IV - PRESUPPOSTI DELL’AZIONE DEI CREDITORI E DISTRIBUZIONE DELL’ONERE PROBATORIO .............................................................................................. 13 IV.1 - La responsabilità ex art. 2394 c.c. come responsabilità concorrente per violazione dei doveri di sorveglianza: conseguenze sulla distribuzione dell’onere della prova ................. 13 IV.2 - La prova e la quantificazione del danno .................................................................... 14 IV.3 - Teoria e prassi: due realtà in conflitto ....................................................................... 15 V - I PRESUPPOSTI PER L’ESONERO DALLE RESPONSABILITÀ ............................... 18 V.1 - La prova dell’assolvimento dell’obbligazione di diligenza. La diligenza professionale. .............................................................................................................................................. 18 V.2 - La vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società e sul suo concreto funzionamento ................................................................... 20 V.3 - Gli obblighi di attivazione nei confronti degli amministratori ................................... 21 V.4 - Gli obblighi di attivazione nei confronti dell'assemblea ............................................. 22 V.5 - Gli obblighi di attivazione nei confronti delle Autorità: il potere di promuovere il procedimento ex art. 2409 c.c. e di sollecitare la dichiarazione di fallimento della società 23 VI - GLI OBBIGHI DI VIGILANZA E Di ATTIVAZIONE NELLA SITUAZIONE DI CRISI DELL’IMPRESA .......................................................................................................... 24 VI.1 - Accentuazione degli obblighi di diligenza................................................................. 24 VI.2 - Gli obblighi di vigilanza sull’operato degli amministratori ...................................... 25 VI.3 - Le problematiche operative ricorrenti........................................................................ 27 VII - CONTROLLO INDIVIDUALE E CONTROLLO COLLEGIALE. LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE DEI COMPONENTI DEL COLLEGIO SINDACALE. L'ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ. ..................................................................... 30 1 I - INTRODUZIONE Il tema della responsabilità del collegio sindacale è da sempre un tema particolarmente sensibile, perché il sistema delle responsabilità da controllo è caratterizzato, in particolare nel nostro Paese, da una palese sproporzione tra la limitatezza dei poteri di azione e di reazione di cui il sindaco dispone per svolgere la sua funzione di vigilanza sulla gestione, e l’illimitatezza delle responsabilità cui si espone nel caso in cui la società, i creditori sociali e i terzi siano danneggiati da comportamenti illegittimi degli amministratori sfuggiti al controllo dei sindaci. Il problema della responsabilità dei sindaci assume poi connotazioni di particolare rilevanza nei periodi - quello che stiamo attraversando - di grave e generalizzata crisi economica, poiché la crisi determina l’aggravarsi, per l’impresa, dei rischi cui è esposta: rischi che gli amministratori hanno l’obbligo di gestire e sui quali i sindaci devono vigilare. In questo contesto, risulta particolarmente attuale e utile un approfondimento sul tema specifico della responsabilità dei Sindaci per il pregiudizio subito dai creditori, poiché l’azione dei creditori è quella che – nella patologia dell’impresa - viene generalmente invocata per fondare la responsabilità degli amministratori e – correlativamente dei sindaci. Ai fini di questo approfondimento è peraltro utile riepilogare brevemente il quadro normativo in cui il tema si inserisce ed i presupposti giuridici su cui l’azione si fonda. II - IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO La norma chiave, che si pone al vertice delle disposizioni da cui discendono, a cascata, le conseguenze in termini di responsabilità a carico di amministratori e sindaci, è l’art. 2740 c.c.. che sancisce il principio fondamentale per cui il patrimonio del debitore costituisce, per i creditori, la garanzia generica dei loro crediti. La norma, rubricata come “Responsabilità patrimoniale”, stabilisce in via generale il che “Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. Sul piano civilistico, la tutela dei creditori è rafforzata dall’art. 2901 c.c. che (sotto la rubrica: “Dell'azione revocatoria”) stabilisce che “Il creditore (…) può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni” (sempreché, in caso di atti a titolo gratuito, il debitore conoscesse il 2 pregiudizio che l'atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l'atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; ovvero, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione). Quando poi il debitore è una società di capitali, il problema della tutela delle ragioni dei creditori (e più in generale di tutti i cosiddetti stake-holders, secondo una terminologia ormai familiare anche al linguaggio comune) assume addirittura un preciso rilevo sociale, a causa del ruolo sempre maggiore acquisito dalle grandi aggregazioni societarie e dell’impatto che la loro attività determina non solo sui mercati, ma in generale sul contesto economico, sociale ed ambientale in cui operano. L’acquisizione di una sempre maggior consapevolezza che le attività economiche organizzate incidono sulla sfera giuridica di una molteplicità di soggetti a vario titolo portatori di interessi meritevoli di tutela, e l’esigenza di tutelare tali interessi, hanno segnato l’evoluzione della disciplina dell’attività d’impresa ed in particolare dell’impresa collettiva. A questa esigenza di tutela rispondono le numerose norme che si sono susseguite nel tempo e che hanno disciplinato in modo sempre più articolato e complesso ( a seconda delle dimensioni dell’impresa collettiva e del modello societario utilizzato) sia i modelli di organizzazione dell’impresa collettiva, sia i sistemi di controllo (interno, da parte degli organi a ciò deputati, ed esterno, da parte dell’Autorità Giudiziaria), sia il regime della responsabilità dei soggetti investiti di funzioni gestorie e di controllo. In questo complesso di norme, la disposizione centrale è quella contenuta nell’art. art. 2394 c.c. (Responsabilità verso i creditori sociali), che prevede che “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale”, precisando altresì che “L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”. La responsabilità dei sindaci per il pregiudizio arrecato ai creditori sociali viene individuata come responsabilità concorrente, e scaturisce: - da una violazione degli obblighi di vigilanza sull’operato degli amministratori (con particolar riferimento alla vigilanza circa l’obbligo, da parte degli amministratori, di adottare le misure necessarie a preservare l’integrità del patrimonio sociale a garanzia delle ragioni dei creditori); - e da una violazione degli obblighi di attivazione ed intervento (e cioè del mancato esercizio degli specifici poteri/doveri di cui i sondaci sono investiti ai fini del concreto ed efficace esercizio della loro funzione di controllo). 3 La responsabilità concorrente trova fondamento nella disposizione dell’art. 2407, comma 2, c.c., che recita: I sindaci “sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”. L’azione di responsabilità dei creditori sociali è sinteticamente regolata dall’art. 2407, comma 3, c.c., attraverso il richiamo all’art. 2394 c.c., sopra riportato (ai sensi dell’art. 2407, comma 3, c.c., “All'azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395”). Per quanto attiene alle società a responsabilità limitata, l’applicazione delle disposizioni sopra richiamate all’organo di controllo è prevista mediante il richiamo, contenuto nel nuovo testo dell’art. 2477, c.c., alla disciplina prevista per le società per azioni. Il comma 5 dell’art. 2477 c.c. stabilisce infatti che “Nel caso di nomina di un organo di controllo, anche monocratico, si applicano le disposizioni sul collegio sindacale previste per le società per azioni”. L’ambito di applicazione dell’azione è infine ulteriormente specificato dall’art. Art. 2394-bis. c.c. (“Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali”), il quale stabilisce che “In caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario”. Infine, l’art. 146 L. F. precisa che “Sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'articolo 2476, comma settimo, del codice civile”. III - AZIONE SOCIALE ED AZIONE DEI CREDITORI A CONFRONTO III.1 - Natura dell’azione dei creditori sociali E’ sorta, in passato, discussione circa la natura dell’azione dei creditori sociali. Secondo un vecchio orientamento (a suo tempo condiviso anche deal Tribunale di Torino – Trib. Torino 13/12/89, GI, 1990, I,2, 145) oggi superato, 4 si era ritenuto che l’azione avesse lo stesso fondamento dell’azione sociale e natura surrogatoria di quest’ultima: l’azione veniva quindi ricondotta a quella ipotizzata dall’art. 2900, c.c. (con la conseguenza, sul piano processuale, che la stessa avrebbe dovuto essere esercitata in contradditorio necessario con la società e con gli amministratori, sarebbe stata esercitabile solo in caso di inerzia da parte della società all’esercizio dell’azione sociale ed avrebbe avuto la finalità non di risarcire direttamente i creditori bensì quella di reintegrare il patrimonio della società leso dalle violazioni degli amministratori). Questa tesi è stata successivamente abbandonata a seguito di alcune pronunce della Cassazione che ne hanno riconosciuto la natura autonoma e l’hanno ricondotta nell’alveo della responsabilità extracontrattuale (il nuovo orientamento fu segnato da Cass. 22/10/98, n. 18488, GC,1999, I, 75). Secondo quest’orientamento, l’azione si ispira all’esigenza di tutela dell’affidamento dei soggetti che entrano in rapporto con la società, accordando credito alla stessa sulla base della sua consistenza patrimoniale e facendo ragionevole affidamento sull’adempimento, da parte di amministratori e sindaci, agli obblighi posti a loro carico a tutela appunto dei creditori e dei terzi. Si può quindi affermare che l’azione dei creditori sociali si ricollega alla funzione, che i sindaci assumono, di garanzia degli interessi dei creditori sociali, ed è accordata all’ordinamento direttamente a questi ultimi con la finalità di ottenere, dagli amministratori e dai sindaci, il danno loro derivante dall’insufficienza del patrimonio sociale a consentire la soddisfazione delle loro ragioni di credito. Dalla natura autonoma ed extracontrattuale dell’azione derivano una serie di rilevanti conseguenze sul pano operativo. La prima attiene all’entità del danno risarcibile. Ed infatti, quando l’azione venga esercitata da un solo creditore, essa mirerà esclusivamente al risarcimento del pregiudizio subito dal creditore che la promuove, ed il danno risarcibile sarà limitato al valore del credito rimasto insoddisfatto, indipendentemente dal fatto che le violazioni addotte a fondamento dell’azione abbiano cagionato alla società danni ben maggiori. Diverso è, invece, il caso in cui l’azione dei creditori sociali venga esercitata dal curatore unitamente all’azione sociale: poiché in questo caso l’azione sarà esercitata collettivamente nell’interesse di tutti i creditori pregiudicati dal fallimento, e mirerà quindi alla reintegrazione della differenza tra attivo e passivo del fallimento che rappresenta il pregiudizio subito dai creditori. 5 III.2 - Il campo di applicazione Le considerazioni sopra svolte consentono altresì di comprendere i diversi scenari in cui le due azioni trovano generalmente applicazione. Da un confronto tra le due azioni, fondato sull’esperienza pratica, risulta che i casi di esercizio in via autonoma dell’azione di responsabilità della società (ex artt. 2393 e 2393-bis c.c.) sono più numerosi e ricorrenti dei casi di esercizio in via autonomo dell’azione dei creditori sociali (ex art. 2394 c.c.). L’azione sociale ha un campo di applicazione più ampio, perché mira ad ottenere il risarcimento di qualunque danno derivato alla società da violazioni poste in essere da amministratori e sindaci, indipendentemente dal fatto che tali violazioni abbiano pregiudicato il patrimonio della società in misura tale da ledere le ragioni dei creditori sociali. Inoltre essa può essere esercitata sia dalla società, previa deliberazione dell'assemblea, sia dai soci che raggiungono la soglia di legittimazione prevista dall'art. 2393-bis c.c. (un quinto del capitale sociale nelle spa che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) ovvero da ciascun socio nella srl (ai sensi dell'art. 2476 c.c.). Pertanto – al di là delle ipotesi di fallimento dell’impresa, in cui l’azione sociale viene esercitata dal curatore - è frequente che tale azione venga proposta su attivazione delle minoranze, quando sussistano conflittualità elevate o in presenza di situazioni - invero assai numerose nella pratica - in cui la maggioranza esprima una gestione disinvolta e poco attenta ai diritti delle minoranze. Un'altra ipotesi assai frequente in cui l'azione sociale viene esercitata è quella che si verifica a seguito di mutamenti nella compagine azionaria, nei casi in cui la cessione del pacchetto di controllo sia stata negoziata senza pretendere la rinuncia o la transazione dell'azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci. È noto, infatti, che sussiste, in capo ai sindaci che subentrino ad altri nella carica, il dovere di controllare la pregressa gestione e di attivarsi, con gli strumenti loro consentiti dalla legge, per eliminare o quanto meno attenuare le irregolarità riscontrate ed i loro effetti pregiudizievoli per la società; a maggior ragione sussiste la responsabilità in capo agli amministratori e ai sindaci che abbiano proseguito una prassi non corretta, accettandola acriticamente solo perché avviata dai precedenti organi della società. In linea con questo orientamento la giurisprudenza ha individuato una specifica ipotesi di responsabilità omissiva in capo agli amministratori e ai sindaci che, avendo rilevato irregolarità ascrivibili alla passata gestione e suscettibili di comportare l'insorgere di responsabilità, non si dissocino e si astengano dall'informarne l'assemblea ai fini dell'assunzione delle delibere di sua competenza: ovvero, nel caso in cui tali irregolaritá abbiano un riflesso sulle risultanze di bilancio, omettano di effettuare le necessarie rettifiche. E' quindi prassi che il nuovo 6 organo amministrativo insediato nella carica provveda ad effettuare una revisione della precedente gestione, e, ove la revisione conduca all'accertamento di fatti censurabili, provveda a convocare l'assemblea per l'eventuale assunzione delle necessarie iniziative risarcitorie. Gli scenari in cui viene promossa l'azione dei creditori sociali sono invece essenzialmente due. Il primo scenario è quello in cui il creditore abbia inutilmente esperito tutte le iniziative volte al recupero del credito, e la società debitrice stia ponendo in essere manovre elusive o peggio fraudolente (quali dismissioni di attività, trasferimenti fittizi di sede all'estero, operazioni di cessioni d'azienda a prezzo vile o per corrispettivi fittizi compensati con accollo di passività sociali, etc.), volte a sottrarsi all'adempimento delle proprie obbligazioni. In questi casi, soprattutto quando sono in gioco importi rilevanti, il creditore è spesso restio a chiedere il fallimento della propria debitrice, perché l'apertura della procedura fallimentare - allargando il concorso a tutti i creditori - riduce sensibilmente le possibilità di soddisfazione dei crediti. A ciò si aggiunge il fatto che la procedura di liquidazione fallimentare comporta una sensibile svalutazione delle attività sociali, cui si aggiungono i costi rilevanti della procedura. L'esperienza, infatti, tristemente insegna che, nella larghissima maggioranza dei casi, all'esito del riparto finale dell'attivo i creditori chirografari rimangono insoddisfatti. In questi casi, il compimento di azioni simulate o fraudolente volte o sottrarre od occultare le attività sociali costituisce agevole prova della corresponsabilità di amministratori e sindaci; e l'infruttuosità delle azioni esecutive diviene prova del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore: consentendo quindi di fondare l'azione con buona probabilità di successo e di dare spesso anche supporto ad iniziative in sede cautelare, volte essenzialmente al sequestro dei beni degli amministratori e dei sindaci. L'esperimento dell'azione risarcitoria nei confronti dell'organo amministrativo e dell'organo di controllo amplia le possibilità recuperatorie e favorisce il raggiungimento di accordi transattivi con la società debitrice. Il secondo scenario in cui l'azione dei creditori sociali assume rilevanza fondamentale è quello fallimentare, dove viene esercitata dal curatore unitamente all'azione sociale: a norma dell'art. 2394-bis, c.c.., che espressamente stabilisce che “In caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario”. In questo contesto l'azione dei creditori assume un ruolo centrale, poiché, 7 in presenza di comportamenti, attivi od omissivi, posti in essere dagli amministratori, suscettibili di comportare un aggravamento del dissesto, è come vedremo più in dettaglio in seguito - relativamente facile per il curatore fallimentare offrire la prova di una responsabilità degli amministratori ex art. 2394 c.c., e di una corresponsabilità dei sindaci per violazione dei loro obblighi di vigilanza ed intervento. III.3 - Legittimazione all’esercizio dell’azione La legittimazione a proporre l’azione spetta a ciascun creditore, indipendentemente dalla natura o dall’entità del credito. La giurisprudenza ritiene che l’azione possa essere proposta anche senza la preventiva escussione del patrimonio della società, purché risulti l’insufficienza del patrimonio sociale. Si ritiene inoltre sufficiente la mera titolarità del credito, pur se non provvisto di titolo esecutivo ed ancorché il credito non sia certo liquido od esigibile, potendo i creditori limitarsi alla mera prospettazione della loro posizione creditoria, anche se soggetta ad ulteriore accertamento, o sottoposta a termine o condizione. In ogni caso, al creditore compete l’onere di provare l’esistenza del credito: prova che può essere data anche in via incidentale, nell’ambito del giudizio promosso ex art. 2394 c.c.. In caso di dichiarazione di fallimento della società i creditori perdono la loro legittimazione ad agire, che viene trasferita al curatore, ai sensi dell’art. 2394-bis, c.c.. Ne consegue che, nel caso in cui l’azione sia stata promossa dai creditori prima della dichiarazione del fallimento, il giudizio diventa improcedibile, ma il curatore può costituirsi e coltivarlo al fine di conservarne i risultati già conseguiti A questo proposito, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’azione ex art. 146 L. Fall. non sorga a titolo originario in capo al curatore, ma che quest’ultimo eserciti le stesse azioni (ex artt. 2393 e 2394 c.c.) che, prima del fallimento, potevano essere esercitate dalla società e dai creditori sociali. Peraltro, nonostante l’autonomia e la differenza di presupposti delle due azioni, il curatore le esperisce in modo unitario e cumulativo: la responsabilità degli amministratori e sindaci può essere dunque fatta valere tanto con riferimento ai presupposti dell’azione dei creditori sociali (insufficienza dell’attivo cagionata dall’inosservanza di obblighi attinenti alla conservazione del patrimonio sociale), quanto con riferimento ai presupposti dell’azione sociale (danni cagionati dalla violazione di doveri generici o specifici imposti ad amministratori e sindaci. Sul piano processuale, dalla cumulatività delle azioni consegue che la 8 condanna può essere pronunciata anche quando una delle due azioni non sia in concreto esperibile, ma i fatti dedotti integrino una delle due ipotesi di responsabilità e si pongano in correlazione causale con il danno lamentato. L’autonomia delle due azioni e la differenze dei presupposti che le fondano comportano tuttavia alcune significative conseguenze in tema di rinuncia e transazione. III.4 - Rinuncia e transazione La natura autonoma dell’azione dei creditori comporta rilevanti conseguenze in tema di rinuncia e transazione. L’art. 2394, comma 3, c.c., stabilisce che “La rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali”. Per contro, con riferimento all’ipotesi della transazione lo stesso comma dell’art. 2394 c.c. stabilisce che “La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”. Occorre, tuttavia, segnalare che questi principi trovano una significativa deviazione nei casi in cui la società sia stata dichiarata fallita. Dalla natura cumulativa delle azioni promosse dal curatore (che le esercita entrambe in modo cumulativo e inscindibile) la giurisprudenza trae infatti la conseguenza che la rinuncia o la transazione dell’azione sociale di responsabilità intervenute con gli amministratori e i sindaci non sono opponibili al curatore, in quanto trattasi di atti estranei ai creditori sociali e per essi non vincolanti: pertanto, quando gli amministratori e i sindaci convenuti eccepiscano l’intervenuta rinuncia o transazione dell’azione sociale di responsabilità, il curatore potrà ugualmente esperire in modo utile l’azione dei creditori sociali, ove ne sussistano i presupposti Cass. 23/6/2008, n. 17033, Fall., 2009, 5, 565). Proprio in ragione del diverso regime delle due azioni, in caso di cessione di pacchetti azionati di controllo di società in dissesto l’esperienza suggerisce di negoziare sempre, tra le condizioni della cessione, l’impegno dell’acquirente di provvedere alla ricapitalizzazione della società. Per le stesse ragioni, in presenza di responsabilità ascrivibili alla vecchia gestione, è opportuno che la transazione dell’azione sociale di responsabilità preveda il versamento di un effettivo indennizzo (negoziato nell’ambito del corrispettivo della cessione), ovvero includa nel contesto della transazione l’obbligo di ripianamento delle passività da parte dei soci subentranti: poiché solo ove la società, a seguito della transazione, abbia reintegrato il proprio patrimonio, verranno meno i 9 presupposti per l’impugnazione della transazione in via revocatoria da parte dei creditori sociali o, in caso di fallimento, per l’esperimento dell’azione da parte del curatore. Quando, invece, le condizioni della cessione prevedano la semplice rinuncia all’azione, è prudente negoziare un obbligo di manleva da eventuali azioni della società e dei terzi: poiché, quand’anche la rinuncia all’azione sociale nei confronti di amministratori e sindaci sia stata validamente deliberata dall’assemblea con la procedura di cui all’art. 2393, u. co., c.c., sussiste sempre il rischio che amministratori e sindaci possano essere aggrediti dai singoli creditori rimasti insoddisfatti con l’azione di cui all’art. 2394 c.c. (oltreché, ovviamente, dal curatore in caso di fallimento, per le ragioni sopra illustrate). III.5 - Concordato Altro, delicato problema, di grande rilevanza sotto il profilo operativo, è se, in caso di concordato preventivo adempiuto dalla società, i creditori conservino l’interesse e la legittimazione ad agire nei confronti degli amministratori e sindaci per la parte dei crediti rimasta insoddisfatta. Se si aderisse alla vecchia tesi che riconosceva all’azione dei creditori natura surrogatoria dell’azione sociale, sarebbe coerente ritenere che sia precluso ai creditori di agire contro gli amministratori per la reintegrazione del patrimonio sociale (nel senso che gli effetti del concordato sono proprio quelli di ridurre proporzionalmente le ragioni creditorie nei limiti del piano di concordato approvato dalla maggioranza dei creditori, determinando conseguentemente il venir meno del diritto dei creditori per la differenza). A conclusioni opposte sembra invece di dover pervenire se si ammette la natura autonoma (ed extracontrattuale) dell’azione dei creditori sociali. In questo senso si è espressa la prevalente giurisprudenza di merito, che ha sostenuto che nell'ipotesi di ammissione di una società alla procedura di concordato preventivo, l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c. è proponibile dai creditori sociali anche successivamente all'omologazione del concordato e fino a quando esso non sia stato eseguito (Trib. Bologna, 08/08/2002, in Giur. It., 2003, 1649; App. Milano, 14/01/1992, in Fallimento, 1992, 1146; Trib. Padova, 18/06/1987, in Giur. Comm., 1989, II, 839; incidentalmente: Cass. civ., Sez. Unite, 23/02/2010, n. 4309; in dottrina: RORDORF, in Le società, n. 6/1995, 748). III.6 - Prescrizione La prescrizione dell’azione dei creditori sociali nei confronti dei sindaci non è espressamente menzionata dalla legge. 10 L’art. 2949, c.c., che disciplina la Prescrizione in materia di società, stabilisce che “Si prescrivono in cinque anni i diritti che derivano dai rapporti sociali , se la società è iscritta nel registro delle imprese”. Il secondo comma dell’articolo in questione soggiunge che “Nello stesso termine si prescrive l'azione di responsabilità che spetta ai creditori sociali verso gli amministratori nei casi stabiliti dalla legge”, senza menzionare tuttavia l’azione nei confronti dei sindaci. La giurisprudenza è tuttavia concorde nel ritenere che lo stesso termine prescrizionale si applichi anche all’azione nei confronti dei sindaci, posto che la responsabilità di questi ultimi si fonda su un’obbligazione solidale con quella degli amministratori, ed in quanto tale soggetta allo stesso regime di prescrizione. Altro problema è quello dell’individuazione del termine di decorrenza della prescrizione: problema che si pone in modo nettamente diverso rispetto all’azione sociale di responsabilità. Ed infatti, il termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione sociale nei confronti di amministratori e sindaci decorre dal momento della loro cessazione dalla carica (l’art. 2941, comma 1, c.c., stabilisce infatti che la prescrizione è sospesa “tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”). Con riferimento all’azione dei creditori sociali è invece irrilevante la cessazione o meno della carica degli amministratori e sindaci, poiché l’azione si fonda su presupposti diversi che prescindono dalla permanenza o meno in carica degli amministratori e dei sindaci al momento in cui il fatto lesivo è divenuto percepibile da parte dei creditori sociali. Ai fini del computo del termine prescrizionale dell’azione dei creditori sociali occorre dunque aver riferimento alla norma generale contenuta nell’art. 2935, c.c., che stabilisce che “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Orbene una giurisprudenza ormai consolidata (tra le ultime pronunce, cfr.: Trib. Milano, 6/10/2009, GI, 2010, 867) ritiene che il termine prescrizionale non decorre dal momento della commissione dei fatti che integrino violazioni dell’obbligo di amministratori e sindaci di garantire l’integrità del patrimonio sociale, bensì decorre dal momento, necessariamente successivo, in cui, in conseguenza di tali fatti, l’evento dannoso dell’insufficienza del patrimonio della società si presenta in forma oggettivamente conoscibile da parte dei creditori sociali. La giurisprudenza ha altresì soggiunto che tale momento non coincide necessariamente con il determinarsi dello stato di insolvenza, e può risultare anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento. 11 Nello specifico, la giurisprudenza ha ritenuto che l’insufficienza del patrimonio possa considerarsi manifesta con il deposito del bilancio di esercizio che evidenzi una perdita significativa del capitale sociale; oppure nel caso in cui l’esperimento delle azioni esecutive risulti infruttuoso per l’assenza di cespiti da aggredire, ovvero la società risulti chiusa o l’attività di fatto cessata senza che sia stato dato inizio alla fase liquidatoria, o addirittura la società sia stata cancellata dal registro delle imprese nonostante l’esistenza di rapporti pendenti. Nel caso in cui la società sia stata dichiarata fallita, il termine per l’esercizio dell’azione di responsabilità dei creditori sociali potrebbe quindi decorrere sia prima della dichiarazione del fallimento (come nel caso in cui tutti i creditori abbiano avuto oggettiva conoscenza della situazione di dissesto dai bilanci depositati dalla società prima dl fallimento); sia dopo la dichiarazione del fallimento, quando l’incapienza dell’attivo emerga solo a seguito di ricostruzioni e stime effettuate nel corso della procedura fallimentare. In ogni caso la giurisprudenza ritiene che, quando non sia possibile individuare in concreto il momento in cui si è manifestata l’insufficienza patrimoniale (per esempio a causa dell’irregolare tenuta e della mancanza delle scritture contabili), il termine quinqunnale per l’esercizio dell’azione decorre dalla data della dichiarazione del fallimento Poiché il curatore esercita congiuntamente entrambe le azioni, ove una delle due azioni risulti prescritta, il curatore potrà utilmente esperire l’altra, sempreché ne siano integrati gli estremi Nel caso di fallimento il problema del diverso termine di decorrenza assume rilevanza essenzialmente nel caso in cui l’azione debba essere proposta nei confronti di amministratori cessati negli anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Ed infatti è frequente, nella pratica, che gli effetti pregiudizievoli conseguenti alle violazioni di amministratori e sindaci si generino in epoca successiva alla cessazione dalla carica, e che in epoca ancora successiva siano percepiti dai creditori sociali gli effetti pregiudizievoli di tali violazioni. In questi casi, può avvenire che l’azione sociale (decorrente dalla cessazione degli organi sociali dalla carica) sia già prescritta, ma sia invece ancora esperibile l’azione dei creditori sociali, decorrente dal momento, successivo alla cessazione della carica, in cui l’insufficienza del patrimonio della società è divenuta oggettivamente conoscibile da parte dei creditori sociali. Nel caso di azione proposta in via autonoma dal singolo creditore, spetta al sindaco, che eccepisce la prescrizione, dimostrare (adducendo a prova le risultanze dei bilanci o altri fatti conoscibili dai creditori) che l’evento dannoso dell’insufficienza del patrimonio della società si è presentato in forma oggettivamente conoscibile da parte dei creditori sociali oltre cinque anni prima della data di proposizione dell’azione. 12 IV - PRESUPPOSTI DELL’AZIONE DEI CREDITORI E DISTRIBUZIONE DELL’ONERE PROBATORIO IV.1 - La responsabilità ex art. 2394 c.c. come responsabilità concorrente per violazione dei doveri di sorveglianza: conseguenze sulla distribuzione dell’onere della prova La responsabilità dei sindaci nei confronti dei creditori sociali, ai sensi dell’art. 2394 cc., costituisce un’ipotesi di responsabilità concorrente con quella degli amministratori, in quanto nasce da una violazione degli obblighi di vigilanza sull’operato degli amministratori: più precisamente essa nasce dall’omessa rilevazione di fatti o comportamenti illegittimi imputabili agli amministratori e suscettibili di minare l’integrità del patrimonio sociale, e dall’omissione o dalla ritardata adozione, da parre dei sindaci, delle iniziative – rientranti nei poteri doveri dell’organo di controllo – volte ad evitare o limitare le conseguenze pregiudizievoli che da tali fatti o comportamenti derivano ai creditori sociali. L’ipotesi della responsabilità concorrente trova fondamento nell’art. 2407, comma 2., c.c., a norma del quale "i sindaci rispondono solidalmente con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi, quando i1 danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità agli obblighi della loro carica". E’, questa, un'ipotesi di responsabilità particolare perché non sorge direttamente dall'inadempimento dei sindaci, ma presuppone un concorrente comportamento illecito (attivo od omissivo) degli amministratori concepito dalla legge come causa primaria dell'evento dannoso, al cui verificarsi contribuisce quale concausa o causa indiretta- l'inadempimento dei sindaci. In questo quadro l'inadempimento dei sindaci costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente per l'insorgere della responsabilità, presupponendo essa il concorrente inadempimento degli amministratori. Da un punto di vista pratico occorre sottolineare che l'ipotesi di responsabilità in esame presuppone il concorso dei seguenti elementi: - l’inadempimento, da parte degli amministratori, agli obblighi inerenti all’integrità del patrimonio sociale; - una lesione dei diritti di credito dei creditori, conseguente a tale inadempimento; - la violazione degli obblighi di sorveglianza incombenti ai sindaci; - il nesso di causalità tra l'inadempimento dei sindaci ed il pregiudizio derivato alla società o ai terzi. Dalla natura concorrente della responsabilità dei sindaci derivano alcun 13 rilevanti conseguenze sul piano probatorio: il creditore che agisce invocando la responsabilità (concorrente) dei sindaci ai sensi dell’art. 2394 c.c., deve infatti provare: 1. la titolarità di un credito verso la società; 2. la condotta illegittima dell’amministratore in violazione dell’obbligo di conservazione del patrimonio della società; 3. il pregiudizio per il creditore derivante dall’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare il suo credito; 4. il nesso causale fra pregiudizio e condotta illegittima; 5. l’omessa o insufficiente vigilanza dei sindaci; 6. il fatto che, secondo la comune esperienza, se la vigilanza vi fosse stata, il danno non si sarebbe prodotto (C App. Torino 12.1.2009, Fall 2010, 35; C 11.7.2008 n. 19235, GI 2009, 883; Trib. Milano 19.12.2006, Soc 2008, 333). IV.2 - La prova e la quantificazione del danno Per quanto poi in particolare attiene alla prova del danno, la giurisprudenza di legittimità intervenuta sul punto ha rilevato come il pregiudizio debba essere determinato “avendo riguardo al caso concreto e alla lesione effettivamente prodotta al patrimonio sociale da ciascuna violazione […] e ciò in ragione del fatto che i principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono l’individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica, e richiedono che di tal nesso sia fornita la prova da chi il risarcimento invoca” (Cass. 3032/2005, Cass. 2538/2005, Cass. 1375/2000). Sulla scorta di queste considerazioni, la giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere che il danno debba sempre essere quantificato valutando in concreto il contributo che la condotta dei sindaci ha apportato alla produzione del danno stesso, nel senso di ritenere sussistente la lesione alla integrità del patrimonio sociale solo per le singole violazioni dimostrate (Trib. Milano 14.1.1993, Fall 1994, 1051). Ad esempio, nell’ipotesi in cui l’illecito consista nella prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale, i sindaci sono tenuti a rispondere solo delle perdite subite in epoca successiva alla violazione delle norme in materia di riduzione del capitale sociale per perdite (art. 2446) (Trib. Roma 7.5.2002, Gius 2002, 1534; sul tema si veda anche: C 8.3.2000 n. 2624, Soc 2000, 935 e Trib. Milano 1.7.1976, Gcomm. 1977, II, 880). Per questa ragione, è stato ritenuto che il danno imputabile ai sindaci di una società fallita non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo 14 accertato in sede concorsuale, sia perché tale differenza può essere stata cagionata, oltre che dall’azione dei sindaci, da altre numerose cause concorrenti; sia perché questo criterio si porrebbe in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare il nesso di causalità tra la condotta e il danno (con un’eccezione per le ipotesi in cui, per l’inattendibilità dei dati contabili o comunque a seguito delle violazioni poste in esser dagli amministratori e dell’ insufficiente vigilanza da parte degli organi di controllo, sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i danni con la analiticità necessaria per individuare le conseguenze prgiudizievoli riconducibili al comportamento dei sindaci: nel qual caso la differenza tra attivo e passivo “può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa” - C 8.2.2005 n. 2538, GCM 2005, f.2). IV.3 - Teoria e prassi: due realtà in conflitto Occorre tuttavia evidenziare che, al di là delle considerazioni svolte in tema di onere probatorio e distribuzione di tale onere tra le parti, la realtà offre uno scenario assai più delicato e complesso di quello che parrebbe evincersi dai rilievi sopra formulati, soprattutto nel caso in cui l’azione sia proposta dal curatore della società fallita. Invero, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno, nei singoli casi concreti, degli elementi sopra elencati, comporta spesso problemi di notevole complessità e delicatezza. E’ spesso infatti assai arduo stabilire, "ex post", che cosa sarebbe realmente accaduto se i sindaci avessero correttamente vigilato in conformità ai loro doveri (e cioè se il danno sarebbe stato evitato o si sarebbe invece prodotto ugualmente). Le difficoltà sopra evidenziate, unite ad un certo “favor” nei confronti dei creditori (soprattutto nelle ipotesi in cui l’azione sia esercitata in sede fallimentare dal curatore) finiscono con l’indurre i giudici di merito a fondare il riconoscimento della responsabilità su valutazioni di comune esperienza, basate sul criterio dell'”id quod plerumque accidit", presumendo la sussistenza del nesso causale in presenza di gravi e comprovati inadempimenti da parte dei sindaci. Sul piano processuale, questo orientamento si traduce, in sostanza, in un'inversione dell'onere probatorio che, secondo le regole generali, spetterebbe all'attore: nel senso che - allorquando vengano accertate violazioni dei doveri di vigilanza astrattamente suscettibili di produrre il danno – il Tribunale finisce con l'addossare ai sindaci - convenuti in giudizio - l'onere di provare l'insussistenza del nesso causale (e cioè di provare che il danno si sarebbe prodotto indipendentemente dall'omissione dei necessari controlli). Analoghe deviazioni dai principi enunciati dalla giurisprudenza si riscontrano in tema di accertamento e quantificazione del danno. E’ questo il caso che si verifica nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2394 c.c., quando, in 15 presenza di perdite consistenti che hanno eroso in misura rilevante l’attivo, sia accertata la violazione dell’obbligo di attivazione da parte dei sindaci, che hanno omesso o ritardato la convocazione dell'assemblea per l'assunzione dei provvedimenti imposti dagli artt. 2446 e 2447 c.c. (riduzione del capitale per perdite superiori al terzo e riduzione del capitale al di sotto del limite legale). In questi casi ai sindaci viene attribuita la responsabilità (concorrente con quella degli amministratori) per le perdite accumulate a causa dell'illegittima prosecuzione dell'attività d'impresa: perdite che – in sede di consulenza tecnica – finiscono con l’essere calcolate sulla base di una valutazione ex post, risalendo alla data in cui il capitale avrebbe dovuto ritenersi perso. Occorre poi ancora considerare che l’azione viene infatti autorizzata dal tribunale sulla base di una relazione, predisposta dal curatore, che evidenzia le ipotesi di responsabilità addebitate ad amministratori e sindaci ed alla quale, pur non avendo rilevanza probatoria in senso tecnico (trattandosi di atto predisposto e proveniente dalla parte stessa che promuove l’azione), viene in genere attribuito un elevato grado di attendibilità: anche in considerazione della particolare posizione del curatore, che, pur rappresentando il fallimento, assume pur sempre la veste di un pubblico ufficiale che ha la funzione di tutelare interessi diffusi (della società, dei creditori e dei terzi). A ciò aggiungasi che, sulla base degli accertamento svolti dal curatore, quando i fatti riferiti risultino sufficientemente fondati il Tribunale spesso autorizza il sequestro nei confronti di amministratori e sindaci sulla base di un’indagine sommaria in ordine ai fatti esposti nella relazione del curatore. In questi casi il giudizio di merito si svolge quindi in un contesto in cui il Giudice Istruttore già è influenzato dalle valutazioni effettuate dal Tribunale, in sede di autorizzazione del sequestro, in ordine alla sussistenza del “fumus”. In questo delicato contesto si svolge l’istruttoria, che nella larghissima maggioranza dei casi si risolve con la nomina di un Consulente tecnico d’Ufficio, al quale, nonostante i principi sopra riferiti in tema di onere probatorio, il Tribunale finisce, in buona sostanza, con il demandare l’accertamento delle responsabilità e dei danni: rovesciando quindi sul CTU quell’onere probatorio che dovrebbe invece essere assolto dall’attore. Il quesito che viene in genere demandato al CTU, è infatti, il seguente: “Il C.T.U., letti gli atti e i documenti di causa, sentite le parti ed i loro consulenti, previo espletamento degli accertamenti e degli incombenti necessari, con espressa autorizzazione ad avvalersi di ausiliari (previa comunicazione al Tribunale), e ad acquisire (anche alla luce degli ordini di esibizione formulati dalle parti convenute) ogni documentazione utile per l’espletamento dell’incarico peritale in possesso della Curatela fallimentare o di 16 enti pubblici e ad acquisire informazioni da terzi, 1) Dica quanto la società in bonis abbia perduto il capitale sociale al di sotto del limite legale e quando si sia manifestato lo stato di insolvenza; 2) Determini il danno cagionato alla società derivante dalla prosecuzione dell’attività sociale dopo la perdita del capitale sociale e dopo la manifestazione dello stato di insolvenza, nonché in relazione alle specifiche contestazioni mosse dalla Curatela; 3) Indichi in relazione ai ruoli rispettivamente ricoperti dai convenuti (amministratori con poteri esecutivi, amministratori senza poteri esecutivi specifici, sindaci) e sulla base del periodo temporale in cui hanno esercitato le rispettive cariche sociali, i profili di negligenza (o di dolo) singolarmente ascrivibili a ciascun convenuto, determinando altresì l’ammontare del danno cagionato a ciascuno riconducibile; Tenti la conciliazione della lite, rappresentando in ogni caso le rispettive disponibilità transattive”. Si tratta, in tutta evidenza, di un quesito che ha spiccate connotazioni inquisitorie, nel senso che finisce con il riversare sull’Ufficio l’onere di accertare il fondamento dell’azione attorea: in palese contrasto con il principio dispositivo della prova previsto nel processo civile e sancito dall’art. 2697 c.c. (“Onere della prova”. “1] Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 2] Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”). Tuttavia, nonostante le eccezioni di inammissibilità che vengono immancabilmente svolte in causa dai convenuti in ragione della natura inquisitoria della consulenza, nella fase di primo grado del processo la tendenza assolutamente consolidata del Tribunale è quella di affidare al CTU poteri amplissimi ai fini dell’accertamento delle responsabilità (addirittura, come nel caso del quesito sopra trascritto, demandando al CTU il compito di accertare “i profili di negligenza (o di dolo) singolarmente ascrivibili a ciascun convenuto”). Pertanto, al di là delle considerazioni di natura teorica sopra svolte, questa è la realtà con cui, nella prassi, i soggetti investiti dall’azione di responsabilità devono confrontarsi. La posizione del sindaco convenuto nella causa di responsabilità promossa dalla curatela risulta poi ancora più delicata ed onerosa se si considera 17 che tutta la documentazione utilizzabile per provare/escludere la responsabilità è nelle mani del fallimento (donde è spesso difficile ricostruire il contesto fattuale in cui si sono svolte le vicende in relazione alle quali sono stati mossi i singoli addebiti). Inoltre i tempi dell’istruttoria sono – purtroppo - assai lenti: e tale circostanza può risultare estremamente onerosa nel caso in cui siano state autorizzate ed eseguite misure cautelari nei confronti degli amministratori e dei sindaci. Sotto diverso profilo deve aggiungersi il fatto che, di norma, l’obiettivo della curatela non è quello di conseguire, all’esito di processi lunghi e costosissimi, sentenze di condanna al risarcimento di danni per importi rilevantissimi, ma in realtà sostanzialmente prive di qualsiasi pratica utilità, in considerazione della sproporzione tra entità del danno e consistenza patrimoniale dei presunti responsabili. L’obiettivo è, più concretamente, quello di raggiungere auspicabilmente transazioni decorose con i convenuti, per importi che consentano di pervenire alla chiusura del fallimento entro tempi ragionevoli. Questo obiettivo corrisponde in genere anche all’interesse dei sindaci convenuti, in particolare nel caso in cui la responsabilità sia coperta da una polizza assicurativa che consenta di addivenire ad una transazione con il fallimento con il concorso della Compagnia Assicuratrice. Orbene, non è chi non veda come, in questo contesto, la strategia difensiva del sindaco convenuto in giudizio non potrà limitarsi allo svolgimento di eccezioni fondate sulla carenza o inidoneità della prova che compete al curatore in ordine agli addebiti ascritti, ma dovrà necessariamente concentrarsi sull’individuazione e documentazione di tutti i fatti e comportamenti idonei a fornire la prova che il sindaco ha operato nel rispetto dei canoni della miglior diligenza ed ha posto in essere tutte le attivazioni di sua competenza per evitare il danno od attenuarne gli effetti, andando così esente da ogni colpa. Per questa ragione pare utile ricostruire i principi essenziali su cui si fonda la responsabilità da controllo ed illustrare – sulla base delle norme che regolano la materia a l’ampia casistica giurisprudenziale che si è formata sul punto - i criteri utilizzati per fondare la responsabilità dei sindaci ex art. 2394 c.c., e, a contrariis, per escluderla. V - I PRESUPPOSTI PER L’ESONERO DALLE RESPONSABILITÀ V.1 - La prova dell’assolvimento dell’obbligazione di diligenza. La diligenza professionale. Fatta eccezione per i casi in cui il legislatore ha fissato precisi doveri di comportamenti, l'attività imposta dalla legge ai sindaci si concreta in una 18 condotta che non può essere predeterminata in astratto, ma deve essere valutata di volta in volta con riferimento al singolo caso concreto. Per circoscrivere l'ambito della responsabilità il legislatore ha introdotto un criterio generale di valutazione del comportamento: il criterio adottato è quello della “diligenza”, che il legislatore ha espressamente qualificato come “professionale” (a norma dell’art. 2407, 1° co., c.c., “i sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico”). Dall’espressa introduzione del requisito della professionalità (peraltro già in precedenza richiesta dalla giurisprudenza in sede di valutazione del comportamento del sindaco) derivano alcune importanti conseguenze. La prima è che il grado di diligenza richiesto è quello, più impegnativo e rigoroso, previsto dal secondo comma dell’articolo 1176 c.c., a norma del quale “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. In questo senso, l’introduzione del requisito della professionalità comporta che al sindaco è richiesta una preparazione specifica che deve tenere conto anche della specifica attività svolta della società e del particolare contesto normativo in cui essa opera. La seconda conseguenza consiste nel fatto che – sebbene l’obbligazione dei sindaci si configuri come obbligazione di mezzi e non come obbligazione di risultato – ciò non consente di escludere ogni rilevanza del risultato ai fini della valutazione della responsabilità. E’ stato infatti osservato che le obbligazioni degli organi di controllo consentono di individuare una sorta di risultato minimo atteso, quale quello che si esige da un professionista del controllo: i componenti del collegio sindacale sono infatti destinatari di una serie di precetti molto specifici che, ove siano disattesi, determinano una sorta di inversione dell’onere probatorio: nel senso che in tal caso, in presenza di danno per la società, la negligenza professionale si presume e competerà ai sindaci dimostrare di aver fatto tutto quanto in loro potere per evitare il danno. La terza conseguenza, che deriva dal riconoscimento della natura professionale dell'attività del sindaco, è che, ai fini della valutazione della condotta del sindaco, assumeranno un preciso rilievo i criteri di comportamento elaborati dagli ordini professionali: ed in particolare, per identificare in concreto i canoni di condotta che integrano il grado di diligenza richiesto al sindaco, si potrà e si dovrà far innanzi tutto riferimento ai "principi di comportamento del collegio sindacale" elaborati dai Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri. Dall'applicazione di tali criteri deriva che la responsabilità per violazione del dovere di diligenza dovrà essere affermata laddove risulti che il sindaco non si sia attenuto ai predetti criteri di comportamento. 19 V.2 - La vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società e sul suo concreto funzionamento Ai fini dell’esonero delle responsabilità, è poi determinate la prova dell’adozione, da parte della società, di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile idoneo a contenere rischi entro margini accettabili: nel senso che difficilmente i sindaci possano sottrarsi alla responsabilità nei confronti dei creditori ove risulti che la violazione dell’obbligo di garantire l’integrità del patrimonio sociale è stata resa possibile dalla mancanza o dall’inefficienza di quei sistemi di controllo di gestione che sarebbero stati necessari in relazione alle dimensioni ed alla struttura della società. Il preciso riferimento, contenuto nell’art. 2403 c.c., “all’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”, attribuisce precisa e determinante portata giuridica ai concetti elaborati dalla dottrina aziendalistica, e conferisce un preciso ruolo al concetto di “controllo di gestione”: inteso come l’insieme delle procedure e degli strumenti di indagine e di controllo volti a guidare la gestione verso il conseguimento degli obiettivi stabiliti in sede di pianificazione operativa, individuando le aree di rischio, e approntando i necessari strumenti di prevenzione, controllo e gestione di tali rischi. In questo senso, la mancata adozione, da parte dell’organo gestorio, di adeguati sistemi di pianificazione dell’attività e di valutazione e gestione dei rischi, diviene un elemento fondante della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società ed i creditori sociali. La rilevanza che assume l’attuazione di un sistema di controlli finalizzato all’identificazione e valutazione dei rischi, con modalità adeguate alle dimensioni e alle altre caratteristiche, anche organizzative, specifiche dell’impresa assoggettata a controllo, è stata accentuata dal D.Lgs. 32/2007, che ha modificato l’art. 2428 c.c. stabilendo che la Relazione sulla gestione di accompagnamento al bilancio di esercizio debba contenere “una descrizione dei principali rischi e incertezze cui la società è esposta”. Questa disposizione ha in sostanza affiancato, all’obbligo di gestire al meglio i rischi aziendali, un obbligo di disclosure di tali rischi, volto a consentire ai terzi che entrano in rapporto con la società (ed in particolare ai creditori sociali) di fare le più opportune valutazioni in ordine all’affidabilità ed all’efficienza dell’organizzazione aziendale. Sino all’entrata in vigore del D. Lgs. 32/2007, il problema del risk reporting era rimasto un problema essenzialmente interno, attinente alla comunicazione tra i vari organi societari, essendo rimessa alla discrezionalità degli amministratori la valutazione in ordine all’opportunità di dare o non dare menzione, nei documenti di bilancio, di quei rischi che non integrassero ancora i 20 requisiti di specificità e determinatezza tali da renderne necessaria la menzione nei conti d’ordine. Con quest’ultimo intervento normativo è stato sancito un obbligo di informativa in ordine a tutti i fattori di rischio ed alle condizioni di incertezza che caratterizzano la gestione dell’azienda e che possono produrre un effetto negativo sui risultati economici, finanziari e patrimoniali della gestione. Da ultimo, nella direzione indicata dalla normativa sin qui richiamata - e a conferma della rilevanza che assume, nella governance e conduzione dell’impresa, l’adozione di un adeguato sistema di processi di accertamento, valutazione e gestione dei rischi - deve essere ancora menzionata l’emanazione, da parte del Consiglio Nazionale dei Commercialisti e degli Esperti Contabili, delle nuove norme di comportamento del Collegio Sindacale: norme che (in particolare ai punti 3.1 – 3.6), individuano proprio nel “risk approach” uno dei parametri fondamentali per la valutazione del grado di diligenza professionale secondo cui devono operare i componenti del collegio sindacale. V.3 - Gli obblighi di attivazione nei confronti degli amministratori Ai fini dell’esonero dalle responsabilità, i sindaci dovranno provare di aver utilmente esercitato i poteri - doveri di iniziativa di cui sono investiti, sia con funzione preventiva, al fine di impedire eventuali condotte illegittime da parte degli amministratori, sia con funzione repressiva, e cioè al fine di sanzionare i comportamenti illegittimi ed attenuarne le conseguenze pregiudizievoli. Sul punto occorre innanzitutto chiarire che, nel quadro dell'attuale disciplina normativa, improntata al principio della separazione dei poteri spettanti agli organi sociali, ancora oggi i sindaci sono privi del potere di incidere direttamente, con atti interdettivi o repressivi, sull'operato degli amministratori. Il potere-dovere di reazione dei sindaci non si esaurisce tuttavia nel semplice obbligo di riferire all'assemblea le irregolarità o illiceità riscontrate nella gestione. Il Collegio Sindacale, facendone constare nei verbali le specifiche motivazioni, dovrà innanzitutto opporsi a tutte quelle operazioni, poste in essere dagli Amministratori o anche da un Amministratore, che risultino suscettibili di arrecare pregiudizio alla società o ai creditori sociali. Si deve innanzitutto ritenere che i sindaci, in presenza di condotte irregolari o comunque contrarie a legge o statuto, abbiano il preciso obbligo di segnalare agli amministratori le condotte cui devono attenersi e di comunicare il loro dissenso, al fine di orientare diversamente le scelte degli amministratori e ricondurle alla legalità. Tale potere-dovere monitorio e di indirizzo dovrà quindi essere esercitato mediante l'invio ai sindaci di osservazioni e proposte, o, nei casi più gravi, 21 diffide dal compimento di determinati atti o richieste di revoca degli stessi. Inoltre, nonostante la formulazione infelice dell'art. 2405 c.c. (che sembrerebbe attribuire ai sindaci esclusivamente il potere di "assistere" alle riunioni del consiglio di amministrazione), in considerazione della funzione consultiva che i sindaci rivestono, si deve ritenere che il potere di indirizzo possa essere fatto valere dal collegio sindacale in sede di consiglio mediante la formulazione di pareri, proposte e inviti, o, in caso di contrasto con gli amministratori, mediante verbalizzazione del dissenso. A differenza di quanto previsto dall’art. 152, comma 2 del T.U.F. per le società quotate, ai sindaci delle altre società di capitali non è riconosciuto il potere di convocare il consiglio di amministrazione. E’ invece sicuramente ammissibile il potere del collegio sindacale di sollecitare al presidente la convocazione del consiglio di amministrazione in relazione a determinate iniziative. Tale potere costituisce inoltre un preciso dovere ogniqualvolta occorra assumere delibere urgenti nell'interesse della società. Le disposizioni previste dagli artt. 2388 (nel testo modificato dalla riforma) e 2391 c.c. accordano inoltre espressamente ai sindaci il potere di impugnare sia le delibere consiliari che non sono prese in conformità della legge o dello statuto, sia quelle che risultano viziate da conflitto d'interessi (queste ultime nel caso in cui possano "recare danno alla società"). Peraltro, l'esigenza di coordinare tale facoltà di impugnazione con gli obblighi di vigilanza e le correlative responsabilità previsti dagli artt. 2403 e 2407 c.c., induce a ritenere che l'esercizio del potere di impugnativa configuri a carico dei sindaci un vero e proprio obbligo (e debba cioè essere necessariamente esercitato dai sindaci per sottrarsi ad eventuali responsabilità), quanto meno di fronte a quelle delibere consiliari che, oltre ad essere palesemente contrarie alla legge, non si risolvano in meri atti interni, ma siano immediatamente suscettibili di pregiudicare direttamente la società. V.4 - Gli obblighi di attivazione nei confronti dell'assemblea Accanto al limitato potere-dovere monitorio sopra richiamato, la legge attribuisce ai sindaci un preciso potere-dovere di riferire il risultato dei propri controlli all'assemblea: e cioè all'organo cui compete il potere di nomina e revoca degli amministratori ed al quale gli amministratori devono rendere conto del loro operato. Questo potere-dovere si esprime nell'obbligo, sancito dagli artt. 2405 e 2429 c.c., di partecipare alle riunioni assembleari e di "riferire all'assemblea sui risultati dell'esercizio e sull’attività svolta nell’adempimento dei propri doveri”, ma non si esaurisce certo con la partecipazione all’assemblea annuale per l'approvazione del bilancio. 22 Si deve infatti ritenere che, nei casi in cui i moniti rivolti agli amministratori siano rimasti senza effetto, ed i sindaci avvertano l'esigenza di dover esprimere con urgenza il loro dissenso su determinate iniziative degli amministratori, i sindaci possano, ed anzi debbano, in tali casi, sollecitare gli amministratori a convocare l'assemblea, proponendo agli stessi un ordine del giorno. Qualora gli amministratori non provvedano spontaneamente alla convocazione dell’assemblea, aderendo alla richiesta, il collegio sindacale “qualora nell'espletamento del suo incarico ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere” dovrà convocare l'assemblea ai sensi dell’art. 2406, comam 2, c.c., “previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione”. V.5 - Gli obblighi di attivazione nei confronti delle Autorità: il potere di promuovere il procedimento ex art. 2409 c.c. e di sollecitare la dichiarazione di fallimento della società E’ purtroppo assai frequente, nella prassi, che – in presenza di fatti suscettibili di pregiudicare l’integrità del patrimonio sociale - la convocazione dell’assemblea rimanga infruttuosa: il che si verifica nel caso in cui gli amministratori siano anch’essi soci, o siano tutti espressione dei soci di controllo, ed omettano di assumere le delibere sollecitate dall’organo di controllo e volte a garantire adeguata tutela alla società, ai creditori e ai terzi. Si crea, in tal modo, una situazione di stallo che determina per la società un progressivo aggravamento del dissesto ed espone i sindaci a responsabilità concorrente, ex art. 2394 c.c., per le perdite derivate alla società a seguito della ritardata assunzione delle necessarie delibere. In questi casi, il collegio sindacale dovrà valutare l’opportunità di sollecitare l’intervento del Tribunale, ai sensi dell’u. co. dell’art. 2409 c.c., nel caso in cui vi sia “fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate” e sussista il rischio che possano essere poste in essere manovre distrattive o elusive suscettibili di pregiudicare i diritti dei creditori sociali. Quando, poi, via sia certezza che la crisi della società è irreversibile e ciononostante l’assemblea sia rimasta latitante e l’organo gestorio non si sia attivato per fare ricorso alle procedure concorsuali, il Collegio sindacale dovrà considerare l’opportunità di sollecitare al Pubblico Ministero la richiesta di fallimento della società. 23 VI - GLI OBBIGHI DI VIGILANZA E DI ATTIVAZIONE NELLA SITUAZIONE DI CRISI DELL’IMPRESA VI.1 - Accentuazione degli obblighi di diligenza La crisi d’impresa determina l’insorgere di una situazione di grave rischio, che comporta, a carico dei sindaci, la necessità di un’intensificazioni dei controlli volti a verificare che siano adottate tutte le misure necessarie per salvaguardare il patrimonio sociale. L’ampia casistica di azioni di responsabilità promosse nei confronti dei sindaci dal curatore di società fallite mostra come, nella maggior parte dei casi, l’azione venga fondata dimostrando la mancata o insufficiente attivazione dell’organo di controllo proprio nel momento più delicato per l’impresa. Per converso, la difesa dei sindaci mira a dimostrare che il fallimento della società e l’insufficienza del patrimonio a soddisfare i creditori sociali sono stati cagionati da cause esterne, che si sono verificate nonostante l’osservanza dei doveri generici (di diligenza) e specifici (di attivazione) di cui i sindaci erano investiti. Invero, la prima preoccupazione della difesa è quella di dimostrare che ai primi segnali di emersione della crisi i sindaci si sono attivati per acquisire piena cognizione della situazione e verificare, anche mediante lo scambio di informazioni con l’organo dirigente e quello incaricato della revisione legale, la capacità dell’azienda di reagire e porre in essere le necessarie misure correttive per gestire la crisi. La prima attivazione consisterà quindi nell’intensificazione dei controlli. Infatti, se è vero che la dottrina e la giurisprudenza hanno precisato che affinché il dovere di diligenza possa ritenersi assolto è sufficiente che controllo dei sindaci sia effettuato a cadenze periodiche e con il metodo del campione, è altrettanto vero che un tale metodo di controllo potrebbe diventare inadeguato e negligente in presenza di situazioni particolari o anomale. La giurisprudenza ha infatti evidenziato una serie di circostanze definite come "indici di rischio", che impongono ai sindaci un controllo di tipo analitico ed un'immediata attivazione per sventare il pericolo di pregiudizio per la società: e tra questi indici di rischio viene espressamente inclusa l'emergenza di sintomi di malessere economico. L’attività di controllo si sostanzierà inoltre in un attento monitoraggio del requisito della continuità aziendale: monitoraggio che dovrà essere svolto anche mediante costante scambio di informazione con l’organo incaricato della revisione legale, verificando – anche facendo utilizzo degli indicatori raccomandati dal principio di revisione 570 - la capacità dell’impresa di 24 realizzare le proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento dell’attività aziendale e su n orizzonte temporale adeguato. Indicazioni in questo senso si ricavano anche dai principi di comportamento elaborati dai Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri, che alla Norma 11.1. (Prevenzione ed emersione della crisi) espressamente recitano: “Il collegio sindacale, se nello svolgimento della funzione di vigilanza rilevi la sussistenza di fatti idonei a pregiudicare la continuità dell’impresa, sollecita gli amministratori a porvi rimedio”. “Il collegio sindacale (…) può richiedere agli amministratori l’adozione di opportune misure la cui realizzazione va monitorata al fine di verificarne l’efficacia. Nel caso in cui tali misure non vengano adottate, il collegio sindacale sollecita l’organo di amministrazione affinché intervenga tempestivamente, ricorrendo se del caso anche a uno degli istituti di composizione negoziale della crisi di impresa previsti nella legge fallimentare”. E ancora “In questa prospettiva, vengono individuati due piani di intervento del collegio sindacale: a) L’attività di vigilanza volta a monitorare costantemente la continuità aziendale, nell’ottica della prevenzione e comunque della tempestiva emersione di situazioni di crisi (cfr. Norma 3.3 e Norma 5.3); b) il monitoraggio dell’attuazione da parte degli amministratori di misure idonee a garantire la continuità aziendale. Il collegio sindacale può acquisire elementi utili dal revisore legale o dalla società di revisione legale, ove presente. Questo soggetto può rappresentare, infatti, un importante interlocutore dell’organo di controllo per l’individuazione di indicatori della crisi. E’ auspicabile che il collegio sindacale vigili attentamente effettuando controlli e ispezioni tanto più mirati quanto più evidenti siano i segnali di crisi”. VI.2 - Gli obblighi di vigilanza sull’operato degli amministratori Quando la società è in crisi, inizia per l'amministratore una fase particolarmente delicata della gestione, nella quale egli diventa garante di molteplici interessi: della società, dei soci e dei creditori sociali. In questa fase sorgono a carico degli amministratori alcuni precisi obblighi desumibili dalle disposizioni civili in materia di responsabilità e da quelle penali societarie e fallimentari. Compete quindi ai sindaci, quali garanti dell’osservanza dei principi di corretta amministrazione, vigilare sull’adempimento, da parte degli 25 amministratori, agli obblighi che la legge pone a loro carico a particolare tutela dei diritti dei creditori. Questi obblighi possono essere suddivisi nei seguenti gruppi: a) Obblighi di attivazione e di informativa in ambito consigliare. In base alle ripartizione dei doveri e delle responsabilità prevista dall’art. 2381 c.c., compete innanzitutto all’amministratore delegato della società in crisi l’obbligo di convocare il consiglio per illustrare le problematiche rilevate, riferire in ordine alle iniziative assunte e proporre quelle ulteriori di competenza dell’organo collegiale (in particolare la convocazione dell’assemblea degli azionisti per le deliberazioni di sua competenza). b) Obblighi di attivazione e di informativa verso i soci. L'amministratore della società in crisi deve render conto ai soci delle cause che hanno determinato la crisi della società ed illustrare all'assemblea le possibilità di un'eventuale ripresa, affinché l'assemblea possa assumere le deliberazioni necessarie o opportune (ripianare le perdite, finanziare la società, metterla in liquidazione). In particolare, l’obbligo di convocare l’assemblea insorge, a norma dell’art. 2484, c.c., ogni qual volta si presenti una causa suscettibile di determinare lo scioglimento della società (e cioè una situazione di crisi che appaia irreversibile, ovvero una riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dagli articoli 2447 e 2482-ter c.c.). c) Obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. Quando la società è in crisi, gli obblighi in questione, sanciti dall’art. 2394, 2° co., c.c., assumono una rilevanza particolare, e la condotta imprudente dell’amministratore può determinare l’insorgere di responsabilità penale. Quando la società è, come si suol dire, « in bonis », il compimento di un'operazione speculativa che comporti un certo grado, anche elevato, di rischio, può rientrare nel potere discrezionale dell'amministratore. Lo stesso comportamento è invece fonte di responsabilità quando la società è in dissesto: nel senso che nella fase di verifica della reversibilità della crisi occorre usare prudenza particolare nel valutare l’impatto che le operazioni possono determinare sul patrimonio sociale. A maggior ragione l'amministratore non deve quindi distruggere o sottrarre, né occultare beni della società e non deve simulare passività inesistenti, affinché, in caso di fallimento, i creditori possano rivalersi sull'intero patrimonio. L’amministratore deve inoltre richiedere tempestivamente il fallimento della società quando la situazione di crisi risulti irreversibile, evitando ritardi suscettibili di aggravare lo stato di dissesto (sotto pena di incorrere in responsabilità penale nel caso in cui la società venga dichiarata fallita). 26 d) Obblighi di buona fede contrattuale nei confronti dei terzi. L'insolvenza della società comporta un'accentuazione dell'obbligo generale di buona fede che, a norma degli artt. 1337 e 1375 c.c., compete alle parti nella conclusione e nell'esecuzione dei contratti. Ed infatti l'amministratore della società non deve occultare o dissimulare il dissesto della società: né per assumere nei confronti di terzi obbligazioni alle quali sa che la società non potrà adempiere; né per ottenere da terzi prestazioni a credito. La violazione di tali obblighi può configurare i reati di insolvenza fraudolenta o di ricorso abusivo al credito e mendacio bancario, previsti rispettivamente dagli artt. 641 c.p., 218 Legge Fallimentare e 137, co. 1bis del T.U. n. 385/1993. e) Obblighi di correttezza e trasparenza nella tenuta delle scritture contabili. La regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili è un presupposto essenziale per la ricostruzione dei movimenti degli affari e del patrimonio su cui i creditori sociali hanno diritto di rivalersi per ottenere il soddisfacimento dei propri crediti. Per tale ragione la violazione, da parte degli amministratori, dell'obbligo di tenere una corretta contabilità (previsto in via generale dagli artt. 2214 e ss. c.c.), è sanzionata penalmente nel caso in cui la società sia dichiarata fallita. In questo caso la mancanza, l'irregolarità o l'incompletezza dei libri e delle scritture contabili (ed a maggior ragione la loro distruzione o falsificazione) possono infatti configurare le ipotesi di bancarotta documentale (semplice o fraudolenta) previste dagli artt. 216, II co., e 217, II co., Legge Fallimentare. f) Obblighi connessi all'esigenza di tutela della «par condicio creditorum». Quando, poi, emerga che le crisi è irreversibile, e la situazione evolva in vero e proprio stato di insolvenza, sorge un interesse pubblico a che tutti i creditori possano soddisfarsi sui beni della società a parità di condizioni (« par condicio creditorum »): e cioè in proporzione all'entità dei rispettivi crediti e secondo l'ordine degli eventuali privilegi. All'amministratore della società insolvente è fatto pertanto divieto di favorire alcuni creditori in danno degli altri, effettuando pagamenti preferenziali o simulando titoli di prelazione (e cioè pegni o ipoteche). La violazione di tale divieto può integrare il cosiddetto reato di «bancarotta preferenziale» nel caso in cui la società venga dichiarata fallita. VI.3 - Le problematiche operative ricorrenti Occorre tuttavia ancora riferire, per completezza, che le disposizioni sopra richiamate delineano un quadro normativo assai rigido che mal si concilia con la varietà e la complessità delle situazioni che si verificano nella realtà, e che gli amministratori devono essere in grado di poter gestire con il necessario grado di 27 flessibilità. L’applicazione rigida dei criteri sopra enunciati potrebbe infatti, in alcuni casi, esporre la società a conseguenze pregiudizievoli o rischi ancor maggiori di quelli che potrebbero derivare da una loro ponderata trasgressione. Questa dicotomia tra teoria e realtà si riscontra assai di frequente negli atti dei giudizi di responsabilità promossi nei confronti di amministratori e sindaci, con particolare riferimento proprio alle ipotesi in cui venga contestato il compimento di operazioni poste in essere in violazione delle norme sopra richiamate, poste a garanzia della massa creditoria e della conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. È questo, in particolare, il caso delle “nuove operazioni” e dei “pagamenti preferenziali” che sovente ad esse si ricollegano. Nella pratica, il divieto di effettuare pagamenti preferenziali a taluni creditori in danno di altri ha spesso riflessi assai delicati, in particolare con riferimento ai pagamenti dalla cui sospensione potrebbero derivare alla società gravi conseguenze pregiudizievoli (si pensi, per esempio, ai canoni di affitto dell'azienda sociale, ai tributi, o ai canoni di una concessione amministrativa il cui mancato pagamento determini la revoca della concessione stessa ecc.). Orbene, è pur vero che affinché sussista il reato di bancarotta preferenziale non è sufficiente il semplice pagamento di un debito, ma occorre anche la volontà specifica di favorire espressamente con quel pagamento un creditore in danno di altri; ma è altrettanto vero che il confine tra il dolo specifico e la semplice colpa è spesso assai labile. Si tratterà quindi di valutare caso per caso se il pagamento o l’assunzione di nuove o obbligazioni siano funzionali e strettamente necessari a garantire la continuità dell’attività di impresa e, correlativamente, la conservazione del valore patrimoniale dell’azienda: nel senso che, per esempio, si dovrebbe ritenere ragionevole effettuare il pagamento ad un fornitore strategico al fine di ottenere la consegna del materiale necessario per ultimare una commessa in corso di esecuzione: poiché diversamente, il danno cha deriverebbe ai creditori dalla mancata ultimazione della commessa (e quindi l’impossibilità di esigere il credito dal committente) sarebbe molto maggiore del danno derivante dal pagamento preferenziale fatto al fornitore. L'amministratore dovrà pertanto compiere un'attenta valutazione delle cause e dei prevedibili sviluppi della crisi che attraversa la società, e dovrà sospendere immediatamente ogni pagamento (e ricorrere senza ritardo ad una delle procedure concorsuali previste dalla legge) quando la situazione di dissesto si appalesi come irreversibile e risultino improbabili le possibilità di ripresa della società, o quando risulti comunque assodata l'impossibilità della società di 28 far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. Altra delicata problematica si pone con riferimento al compimento di nuove operazioni ed all’assunzione delle nuove obbligazioni che tali operazioni comportano a carico della società: aggravando quelle passività di cui – in caso di violazione dell’art. 2394 c.c. – gli amministratori i sindaci sarebbero chiamati a rispondere nei confronti dei creditori sociali. Prima dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario, l'art 2449 c.c. (oggi interamente sostituito dalle disposizioni contenute nell'art. 2486 c.c.) stabiliva che "gli amministratori, quando si è verificato un fatto che determina lo scioglimento della società, non possono intraprendere nuove operazioni. Contravvenendo a questo divieto, essi assumono responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi.". La disposizione sopra richiamata poneva seri problemi interpretativi, a causa della difficoltà di individuare in cosa consistessero le nuove operazioni vietate dalla norma e quale fosse l'ambito di responsabilità degli amministratori che contravvenivano al divieto. Tali difficoltà interpretative conducevano ad evidenti distorsioni soprattutto nell'ipotesi di società in dissesto. Infatti un'applicazione rigorosa della predetta disposizione da un lato precludeva all'amministratore il compimento di quelle operazioni che, pur essendo funzionali a salvaguardare il valore dell'azienda, avrebbero comportato l'assunzione di nuove obbligazioni a carico della società (e delle quali l'amministratore avrebbe risposto in solido con la società). D'altro lato, nel caso di fallimento della società, tale applicazione rigorosa induceva la giurisprudenza ad identificare il danno risarcibile derivante dalla violazione del divieto di nuove operazioni nella differenza tra l'attivo ed il passivo fallimentare. Per ovviare a tali anomalie, la nuova disciplina (introdotta dall'art. 2486 c.c.) stabilisce che al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna dei beni ai liquidatori, "gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale". La nuova disposizione inoltre prevede che gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili non più per gli affari intrapresi, bensì esclusivamente per i " danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma". In altre parole, la limitazione ai poteri degli amministratori viene ricollegata non più al concetto, ambiguo, della "novità dell'operazione", ma alla strumentalità, o meno, dell'operazione ai fini della conservazione del valore dell'impresa sociale. E conseguentemente la responsabilità in caso di violazione non investe più l'operazione in sé (e cioè le obbligazioni che dalla nuova operazione sono derivate a carico della società), ma l'eventuale danno 29 conseguente. Ciò tuttavia non esclude il fatto che, in sede di accertamento della responsabilità nei giudizi ex art. 2394 c.c., la valutazione dell’utilità o meno delle nuove operazioni compiute durate la fase della crisi ed e della loro idoneità a configurare un aggravamento del dissesto, costituisce tuttora uno dei temi fondamentali sui quali si contrappongono le tesi delle parti in causa. VII - CONTROLLO INDIVIDUALE E CONTROLLO COLLEGIALE. LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE DEI COMPONENTI DEL COLLEGIO SINDACALE. L'ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ. Il problema dell’ambito di estensione della responsabilità si pone, ovviamente, in termini diversi a seconda che il sindaco operi come organo di controllo monocratico (di s.r.l., ex art. 2477, c.c.), o come componente di un collegio sindacale (di s.r.l. o di s.p.a.). Nel caso di nomina di un collegio sindacale, il fatto che il legislatore espressamente attribuisca ai sindaci un potere individuale di controllo, non consente di escludere che i sindaci costituiscano un organo tipicamente collegiale. Nell'ambito di questo schema organizzativo, l'attribuzione di poteri e competenze individuali ai singoli componenti del collegio sindacale non contrasta con la collegialità dell'organo, poiché le attività svolte individualmente dai sindaci hanno semplicemente una funzione istruttoria e preparatoria della deliberazione collegiale. Sotto il profilo delle modalità di esercizio dei poteri di intervento, la natura collegiale dell'organo comporta che le iniziative dei sindaci (sia quelle rivolte agli amministratori, sia quelle dirette all'assemblea) dovranno essere sempre deliberate ed assunte dal collegio quale organo. Sotto il profilo della responsabilità, la collegialità dell’organo comporta che l'obbligo di attivazione dei singoli componenti del collegio sindacale si risolva nell'obbligo di riferire prontamente al collegio il risultato degli atti di controllo compiuti e di sollecitare l'adozione, da parte del collegio, delle iniziative più efficaci ed idonee ad impedire il compimento di atti illegittimi da parte degli amministratori ed attenuarne le conseguenze pregiudizievoli. All'organo competerà il dovere di far proprie, mediante la deliberazione, le proposte dei singoli componenti, e di dare quindi tempestivamente attuazione alle iniziative deliberate. 30 La legge nulla dice, peraltro, sui criteri in base ai quali la responsabilità debba ripartirsi tra i vari componenti dell'organo di controllo. Tuttavia, muovendo dalla natura collegiale dell'organo, nonché dal rilievo che i doveri di vigilanza e di attivazione competono individualmente a tutti i componenti dell'organo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la responsabilità dei sindaci sia solidale e possa essere fatta valere nei confronti di tutti i componenti del collegio (e ciò anche in mancanza di una disposizione analoga a quella prevista dall'art. 2392 c.c. in tema di responsabilità degli amministratori). Ne consegue che quando l'organo di controllo abbia omesso di vigilare o sia rimasto inerte di fronte alle violazioni compiute dagli amministratori, tutti i sindaci saranno chiamati solidalmente a rispondere dei danni cagionati dall'operato degli amministratori e resi possibili dal loro comportamento omissivo. Il problema è invece più delicato nel caso in cui il comportamento omissivo del collegio sindacale sia il risultato di una deliberazione del collegio: e cioè nel caso in cui la proposta di attivazione formulata da uno dei sindaci non venga approvata dagli altri componenti del collegio, e l'organo rimanga inerte nonostante la necessità di intervenire a tutela degli interessi sociali. Ci si domanda infatti se l'inerzia dell'organo sia sufficiente ad estendere la responsabilità a tutti i suoi componenti. L'ultimo co. dell'art, 2404 c.c. stabilisce che il sindaco dissenziente ha diritto di far iscrivere a verbale i motivi del proprio dissenso. Orbene, se è pur vero che la predetta disposizione (diversamente da quanto prescritto dall'art. 2392, III co., c.c., in tema di responsabilità degli amministratori), non attribuisce espressamente all'annotazione del dissenso la funzione di esimente della responsabilità, è altrettanto vero che tale norma sarebbe priva di senso se non avesse la funzione di consentire al sindaco dissenziente di sottrarsi alla solidarietà. Sembra pertanto corretto ritenere che, nel caso in cui la mancata attivazione da parte dell'organo sindacale sia il risultato di una delibera in tal senso, il singolo componente del collegio potrà esimersi dalla responsabilità solidale allorquando dimostri di aver vigilato con la dovuta diligenza, di aver tempestivamente sollecitato l'attivazione dell'organo sindacale e, di fronte al rifiuto del collegio di assumere le iniziative proposte a tutela dell'interesse sociale, abbia fatto constare a verbale la propria dissociazione dal comportamento della maggioranza. La natura solidale della responsabilità dei componenti del collegio sindacale non esclude poi il diritto di questi ultimi di invocare una diversa ripartizione interna della responsabilità, in relazione al diverso grado di colpa di ciascuno. In particolare, una diversa graduazione della responsabilità potrà dipendere dall'eventuale ripartizione dei compiti all'interno del collegio, o dalla 31 posizione rivestita da alcuno dei membri (è questo il caso, per esempio, in cui uno dei sindaci sia anche il professionista abituale del socio di maggioranza o come spesso accade - addirittura condivida lo studio con il commercialista della società, e sia pertanto più informato degli altri sullo svolgimento degli affari sociali). Agli effetti pratici che qui particolarmente interessano, occorre infine sottolineare che, sfociando l'obbligo di vigilanza in un dovere di attivazione e di intervento volto a prevenire o attenuare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dal comportamento illecito degli amministratori, le dimissioni non sono sufficienti a scagionare il sindaco dalla propria responsabilità. La responsabilità potrà infatti essere esclusa solo allorquando il sindaco abbia inutilmente sollecitato l'attivazione dell'organo sindacale e manifestato il proprio dissenso rispetto alle decisioni del collegio; e le dimissioni potranno essere rassegnate, senza il rischio di incorrere in ulteriore responsabilità, solo dopo che sia emerso e sia stato verbalizzato l'insanabile contrasto tra la posizione del sindaco dissenziente e quella degli altri componenti del collegio. Alessandro Baudino 32