ORDINI MONASTICI e la Chiesa in Italia,ORDINI MONASTICI
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ORDINI MONASTICI e la Chiesa in Italia,ORDINI MONASTICI
Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia Volume II - Dopo l'Unità Nazionale Roma 2015 Copyright © 2015 Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 18/01/2015 ORDINI MONASTICI e la Chiesa in Italia Autore: Mariano Dell’Omo Le soppressioni nel nuovo Stato italiano. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II è proclamato dal nuovo parlamento nazionale re d’Italia. Già tra il 1860 e il 1861 erano stati promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti di soppressione. Ma si trattava ancora di una legislazione occasionale, disorganica e lacunosa, che si traduceva in profonde discriminazioni tra regione e regione, Ordine e Ordine, frutto di indecisioni e di ripensamenti da parte dello stesso legislatore. Per porvi rimedio una rielaborazione generale della materia venne compiuta mediante la legge del 7 luglio 1866, poi estesa al territorio di Roma con quella del 19 giugno 1873. In particolare l’art. 33 della legge soppressiva del ‘66 segnava espressamente il destino di importanti monasteri della Congregazione benedettina cassinese, adottando un dispositivo di salvaguardia dell’incalcolabile patrimonio spirituale e culturale che essi racchiudevano da secoli e che si identificava con quello della stessa nazione italiana: Montecassino, la SS. Trinità di Cava, S. Martino delle Scale a Palermo, Monreale, oltre che la Certosa di Pavia, prevedendo l’incameramento nei beni demaniali dello Stato ma preservandone l’unità e la cura nel tempo a carico dello Stato: «Sarà provveduto dal governo alla conservazione degli edifizi colle loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti di arte, strumenti scientifici e simili…», come pure – si aggiunge – «di altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari. La spesa relativa sarà a carico del fondo pel culto». Una nuova Congregazione benedettina: cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense. Dopo la conquista di Roma da parte delle truppe piemontesi il 20 settembre 1870, l’abate Pietro Casaretto che aveva dato vita ad una provincia sublacense della congregazione benedettina cassinese, temendo il crollo di tutta la sua opera, riuscì ad ottenere, in anticipo di alcuni anni, il 9 marzo 1872, l’erezione ‒ come indipendente ‒, della nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco. L’intento del fondatore era quello di rinnovare, superando le costituzioni del 1680, la disciplina del monastero di S. Giustina iniziata da Ludovico Barbo nel 1408, attraverso un’esistenza trascorsa abitualmente all’interno del monastero in un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento, in un regime di penitenza, nella preghiera assidua, quella liturgica in primo luogo, nello studio. Dal punto di vista istituzionale la novità era costituita dal potenziamento della figura dell’abate generale, che pur coadiuvato da 4 assistenti (consultori) scelti da ciascuna delle province (italiana, anglo-belga, francese, spagnola), aveva un potere monarchico ben più accentrato rispetto al debole e discontinuo potere di tipo oligarchico che il Casaretto aveva riscontrato nella congregazione cassinese. Innovativa era altresì l’interpretazione della stabilitas loci, dal momento che il monaco non emetteva la professione per la famiglia monastica – come volevano la Regola e la tradizione – ma per la singola provincia, talché egli poteva essere destinato all’una o all’altra casa nell’ambito della rispettiva provincia. Circa poi il governo dei singoli monasteri, essi erano retti normalmente da priori e solo in via eccezionale da abati; inoltre mentre questi ultimi erano nominati dal capitolo generale, la scelta dei priori era invece di competenza dei capitoli provinciali; infine gli uni e gli altri restavano in carica per un triennio. In seguito alle opposizioni che tali novità incontrarono, dopo la morte del Casaretto (1° luglio 1878) un nuovo capitolo generale riunito a Roma nel 1880 modificò decisamente le costituzioni, introducendo cambiamenti suggeriti da un maggior rispetto verso le antiche tradizioni monastiche; in particolare circa la stabilità si dispone ora che il monaco emette la professione solenne per un singolo monastero cui resta legato dal voto di stabilità, anche se è possibile il trasferimento ad altra casa da parte del capitolo provinciale o del visitatore, oppure ad altra provincia dall’abate generale. Per quanto concerne l’osservanza regolare, due punti, che sin dall’inizio erano stati considerati fondamentali e tipici della congregazione, sostanzialmente rimasero invariati, sebbene con l’aggiunta di alcune clausole che aprivano la via a mutamenti futuri: la recita del mattutino alle ore due dopo mezzanotte; l’astinenza perpetua dalle carni, sebbene meno severamente praticata – si tollerava d’ora in poi l’uso di mangiare la carne la domenica, il martedì e il giovedì. Si tratta di soluzioni che pongono tra l’altro un interrogativo più generale sull’esistenza o meno di una spiritualità o anche solo di un sistema ascetico specifico della congregazione della Primitiva Osservanza. In realtà la spiritualità del Casaretto non si discosta, pur nella sua personale connotazione, da quella dei buoni religiosi della sua epoca; per lui infatti la vita monastica ha un accentuato carattere penitenziale, dal quale deriva tra lʼaltro la recita del mattutino nelle ore notturne; la penitenza interiore trova invece il suo centro nell’obbedienza ai superiori “sempre ciecamente”, anche nelle cose minime, “come fa un bambino”. Ciò doveva risultare particolarmente vero per i monaci missionari che emettevano un quarto voto, in base al quale potevano essere inviati dal superiore su richiesta della Congregazione de Propaganda Fide in qualsiasi parte del mondo, adattandosi anche a rinunciare alla famiglia monastica, alla vita comune e all’osservanza se necessario. La perfetta vita comune, specialmente nell’uso del denaro, rappresenta uno dei capisaldi del rinnovamento compiuto, anche se sotto il profilo sostanziale la riforma del Casaretto non aggiunge nulla di più a quanto era già stabilito nelle declarationes cassinesi alla Regola del 1680 circa il peculio privato: in base ad esse infatti, se era possibile disporre di una certa somma di denaro, ciò d’altra parte non poteva avvenire senza licenza del superiore. È piuttosto la sottolineatura formale che rivela nel Casaretto la preoccupazione di ancorare l’esperienza monastica al rispetto della “vita comune”, se solo si pensi che nel 1846 i suoi monaci emisero per la prima volta il giuramento di perfetta vita comune secondo il cap. xxxiii della Regola (“Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio”). Mezzo di perfezione monastica è considerata, com’è naturale, la liturgia, mentre alla lectio divina si sostituisce la lettura dell’Imitazione di Cristo. Testimonianza della forza d’attrazione che esercitava sul finire del secolo XIX la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, è l’unione ad essa dell’antica congregazione verginiana il 1° febbraio 1879. Il contributo del monachesimo italiano alla nuova Confederazione dell’Ordine di S. Benedetto. Intanto nel maggio dell’anno seguente (1880), XIV centenario della nascita di s. Benedetto, nel corso delle celebrazioni tenutesi a Montecassino maturava il progetto di unione federativa delle congregazioni benedettine, nella prospettiva che a Roma fosse istituita una casa di studi a vantaggio di tutti i monasteri. Leone XIII proprio in vista di una possibile unione aveva restaurato il collegio S. Anselmo, nato nel 1687 presso l’abbazia di S. Paolo fuori le mura per i soli monaci della congregazione cassinese, e non più attivo dopo il 1810. Ora il nuovo presidente della congregazione cassinese, l’abate Michele Morcaldi della SS. Trinità di Cava (Salerno), con una circolare del 4 dicembre 1885 avviava un piano di riforma e di restaurazione della congregazione, privilegiando oltre al tema dell’osservanza, quello degli studi e perciò del collegio anselmiano, che quell’abate intendeva riaprire in vista della stessa rinascita della congregazione da lui presieduta. Il voto approvato in tal senso dal capitolo straordinario dei Cassinesi tenuto a S. Callisto in Roma fu suggellato dal breve di Leone XIII Quae diligenter del 4 gennaio 1887, indirizzato all’arcivescovo di Catania e monaco cassinese, il b. Giuseppe Benedetto Dusmet, di lì a poco creato cardinale nel concistoro dell’11 febbraio 1889. Il papa che puntava a raccogliere in una più solida unità le sparse forze dei Benedettini neri, voleva ormai che il nuovo collegio anselmiano in via di restaurazione fosse aperto a membri di tutte le congregazioni monastiche, divenendo così lo strumento di una più stretta e fraterna unione fra i monaci di s. Benedetto. Individuato il terreno disponibile sull’Aventino e dalla S. Sede acquistato nel 1890, finalmente il 18 aprile 1893 avveniva la posa della prima pietra alla presenza del cardinale Dusmet. Leone XIII poco dopo col breve Summum semper del 12 luglio 1893 istituiva la Confederazione benedettina, cioè l’unione fraterna delle congregazioni monastiche di monaci neri viventi sub Regula Benedicti, fatta salva l’autonomia di ciascuna. Essa è presieduta dall’abate primate, residente a Roma in S. Anselmo per gli affari che riguardano il bene dell’Ordine intero, senza tuttavia pregiudicare diritti e privilegi dei singoli abati o dei loro monasteri. Nel momento in cui nasceva la Confederazione 13 erano le congregazioni benedettine che ne facevano parte, tra cui la cassinese e la sublacense. Non aderivano ancora alcune congregazioni monastiche di origine italiana, che solo più tardi vi sarebbero entrate: quella di Monte Oliveto confederata dal 1960, di Vallombrosa e Camaldoli dal 1966, quella silvestrina dal 1973. Verso il Concilio Vaticano II. Come nella nascita della Confederazione benedettina così in particolare nel fervore del movimento liturgico il monachesimo benedettino italiano ha saputo offrire un valido contributo in preparazione alla stagione del Concilio Vaticano II. Al di là di contributi occasionali o settoriali, a partire dal primo ‘900 furono compiuti tentativi per saldare spiritualità e cultura, passato e presente, riflessioni pastorali e ricerche nel campo dell’erudizione. Il caso più noto è indubbiamente quello del Liber sacramentorum dell’abate di S. Paolo fuori le mura, il b. Ildefonso Schuster (1880-1954), commento generale al Messale romano, tradotto in varie lingue. Ancora in Italia la ripresa del primo dopoguerra fu contraddistinta da nuove iniziative, come congressi e settimane sociali, mentre nel 1920 usciva il volume La pietà liturgica dell’abate di S. Giovanni Evangelista di Parma Emanuele Caronti (1882-1966), monaco di Praglia, dal 1914 alla guida della “Rivista Liturgica”, nata per iniziativa dell’abate Bonifacio Bolognani (1869-1931) di Finalpia e con il sostegno dell’abate Placido Nicolini (18771973) di Praglia. In Italia, dopo le inevitabili interruzioni del periodo bellico, vi era anche nel campo liturgico un forte desiderio di rinascita, che si riflette in modo peculiare nella fondazione del CAL (Centro di azione liturgica) lʼottobre del 1947 nell’abbazia di S. Giovanni di Parma, mentre nel contempo assumevano una periodicità annuale le Settimane liturgiche nazionali. Tra i monaci italiani che più furono impegnati in prima persona nella stagione pre e post-conciliare vanno ricordati, per il loro impegno intellettuale e spirituale volto a diffondere la cultura della scienza e della sapienza liturgica, Anselmo Lentini (1901-1989), Cipriano Vagaggini (1909-1999), Salvatore Marsili (1910-1983), Pelagio Visentin (1917-1997), e Mariano Magrassi (1930-2004). Il monachesimo femminile di Regola benedettina. Nell’ambito del monachesimo benedettino femminile in Italia tra ‘800 e ‘900 la grande novità è costituita dall’impiantazione delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua, fondate nel 1653 a Parigi da Caterina de Bar (Suor Metilde del SS. Sacramento). Suor Maria Teresa dell’Incarnazione (Lamar) desiderando fare una nuova fondazione lasciava infatti la casa di Parigi nel 1878 e finalmente giunta prima a Milano con due novizie, si trasferiva poi in provincia, a Seregno nel 1880, ottenendo dall’arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana l’autorizzazione ad aprire una comunità e ad accettare novizie per condurre vita monastica secondo la Regola di s. Benedetto, dedicandosi alla preghiera e all’adorazione e riparazione eucaristica secondo le Costituzioni metildiane. Al 1892 risale ufficialmente la nascita di un’altra comunità a Milano. Nel 1906 da Seregno la comunità si trasferì definitivamente a Ronco di Ghiffa sul Lago Maggiore (Verbania) fiorendo grazie alla priora Caterina Lavizzari (1867-1931), ed espandendosi anche altrove con l’aggregazione di altri monasteri (“Gruppo di Ghiffa”). Nel frattempo la comunità di Milano separatasi da Seregno, dopo essere stata incorporata a quella francese di Arras, veniva dichiarata autonoma nel 1913, e nel suo successivo sviluppo andava aggregando anch’essa altre comunità viventi secondo il carisma benedettino-metildiano. Si giunse così nel 1956 alla formazione di due Federazioni italiane di Benedettine dell’Adorazione Perpetua, quella del “Gruppo di Ghiffa” e quella del “Gruppo di Milano”, poi nel 1998 soppresse per dar luogo all’erezione di un’unica Federazione italiana dei monasteri delle monache benedettine dell’Adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Per quanto riguarda l’attualità dei monasteri femminili di Regola benedettina in Italia, oltre a quella dell’Adorazione perpetua, si contano le federazioni dell’Italia Settentrionale, Toscana, Umbria-Marche, del Piceno-Marche inferiori, e Centro-Meridionale, cui si aggiunge quella delle Benedettine Celestine. Tra le congregazioni si annoverano: le Oblate di S. Francesca Romana del monastero di Tor de’ Specchi, le Suore Benedettine di Carità, quelle di S. Geltrude, di Maria SS.ma di Montevergine, di Priscilla, le Suore Oblate Benedettine di S. Scolastica, le monache della congregazione di Vallombrosa (per un totale di 147 case, inclusi i monasteri indipendenti né federati né congregati, e altri appartenenti a congregazioni non specificamente italiane, come quelli delle Olivetane e Camaldolesi). La federazione delle monache cistercensi in Italia comprende 11 monasteri. Le monache trappiste sono presenti in due sole comunità: Vitorchiano (Viterbo) e Valserena (Pisa). I Cistercensi. Circa l’altra grande famiglia monastica cenobitica, quella cistercense, si può sottolineare come dopo la crisi causata dalle soppressioni nella seconda metà dell’800, il fatto più rilevante per la storia cistercense in Italia riguarda Casamari. L’abbazia nel 1717, per interessamento del cardinale commendatario Annibale Albani aveva accolto una colonia di monaci della Stretta Osservanza (Trappisti) provenienti da Buonsollazzo a pochi km da Firenze, iniziando così un’esperienza di vita trappista, che continuò, pur fra molte mitigazioni, fino al 1929, allorché Casamari, che non aveva aderito all’unione dei Trappisti avvenuta nel 1892, fu eretta a congregazione autonoma dell’Ordine cistercense. L’attualità. Le congregazioni monastiche maschili oggi presenti in Italia sono le seguenti: a) benedettine: congregazioni cassinese, sublacense (provincia italiana), camaldolese, vallombrosana, silvestrina, olivetana; b) cistercensi: congregazione di S. Croce o di S. Bernardo in Italia, e di Casamari. Infine possono qui menzionarsi due realtà monastiche che testimoniano un nuovo monachesimo. La prima è la Comunità del monastero di Bose (Magnano, Biella), fondata da Enzo Bianchi (1943-) che vi si trasferì da Torino ufficialmente nel 1965, caratterizzata sin dall’inizio dal suo chiaro impegno ecumenico. L’altra è la Piccola Famiglia dell’Annunziata di Giuseppe Dossetti (1913-1996), basata su valori monastici perenni, come silenzio, preghiera, lavoro, povertà. Fonti e Bibl. essenziale G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992 (Italia Benedettina 15), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1995, 25-41; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme, Casale Monferrato 2001; M. Carpinello, Il monachesimo femminile, Mondadori, Milano 2002; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B., I. L’abate Casaretto e gli inizi (1810-1878), La Scala, Noci 2003; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B. II. 1878-1972, La Scala, Noci 2005; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; R. Fornaciari, “Di fronte alle prime esortazioni della Chiesa a rinnovarci”. L’evoluzione istituzionale del monachesimo italiano dall’Unità ai nostri giorni, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direzione scientifica A. Melloni, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, 911928. _________________________________ A cura della Redazione Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia” integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento ORDINI MONASTICI FEMMINILI e la Chiesa in Italia Autore: Gaetano Greco Nei primi secoli di diffusione del Cristianesimo non mancarono in Italia, come altrove, donne che scelsero una vita ascetica, rifiutando il matrimonio e vivendo ritirate nelle proprie case di famiglia nei due gradi di castità: quelle virgines, consacrate pubblicamente a questo stile di vita, e quelle viduae sacrae, la cui presenza, non sempre apprezzata dalla gerarchia ecclesiastica, si è prolungata per due millenni e perdura ancora oggi nella Chiesa cattolica. Le prime notizie certe su forme di vita ascetica organizzata risalgono alla metà del IV secolo d.C., in coincidenza del soggiorno a Roma del vescovo alessandrino Atanasio, e riguardano anche l’universo femminile, che all’inizio del movimento cenobitico assunse un ruolo di rilievo grazie alla partecipazione di donne, vergini o vedove, di estrazione aristocratica e con una discreta diffusione anche fuori Roma, da Verona alla Sicilia. Le donne, che praticavano questo stile di vita, singolarmente o in comunità, moderavano drasticamente il vitto e il vestiario, osservavano l’astinenza sessuale e conducevano una vita assai ritirata, prodromo di quella clausura, che nei secoli successivi caratterizzerà la vita monastica femminile sul piano disciplinare (almeno in via di diritto). Nuovo impulso venne poi dall’affermarsi in Italia del monachesimo benedettino: secondo la tradizione, Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, avrebbe fondato il monastero di Piumarola, nei presi di Montecassino, ma più certi e più importanti furono i monasteri di Sant’Agata a Pavia e di Santa Giulia a Brescia, fondati rispettivamente dai re longobardi Pertarito e Desiderio. Tuttavia, ancora in quell’epoca mancavano “regole” scritte appositamente per le comunità femminili, che forse adottavano quelle già in uso (di Basilio, di Pacomio-Gerolamo, di Benedetto, etc.). Nell’Alto Medio Evo i monasteri femminili erano fondazioni regie o aristocratiche, con uno scarso numero di monache: in qualche caso si può accertare l’iniziativa o la presenza delle donne appartenenti a casati e clan nobili sconfitti politicamente. Perciò, alla stessa stregua di analoghe fondazioni maschili, talora questi monasteri costituivano un rifugio, voluto o imposto, per le donne in situazioni di violenza, subita o temuta, e per salvaguardare almeno parzialmente i beni di clan gentilizi sconfitti, che si ritiravano dentro queste istituzioni ecclesiastiche. In seguito, anche per questo monachesimo femminile si riscontra una lenta influenza del movimento cluniacense. Nell’XI secolo vi fu una ripresa delle fondazioni monastiche su base gentilizia, anche dentro le città comunali, con la dotazione di beni familiari comuni e conservando il patronato familiare nell’elezione della «badessa», spesso eletta a vita: come già in età longobarda e franca, in questi monasteri si ebbero vere e proprie dinastie di badesse appartenenti alle stirpi dei fondatori. La rinascita monastica del XII secolo portò alla nascita di nuove famiglie femminili, rami degli ordini maschili esenti: dalle Camaldolesi (1085) alle Vallombrosiane (1145), dalle Certosine (1228) alle Olivetane. In questo contesto di ripresa sono importanti le fondazioni femminili legate all’ordine dei Cistercensi: i monasteri di questo tipo si sottoponevano al governo spirituale del ramo maschile, che provvedeva tramite propri monaci all’amministrazione dei sacramenti alle monache. Con lo sviluppo di una specifica religiosità cittadina e con l’affermazione degli Ordini Mendicanti nacquero, sul loro esempio e sotto la loro guida, monasteri del ramo femminile, come le Domenicane, la cui istituzione, intorno al 1206, si deve allo stesso s. Domenico in Provenza, a Prouille nei pressi di Tolosa, recuperando donne sottratte all’eresia catara. A Roma, poi, nel dicembre del 1219 papa Onorio III affidò a Domenico la cura delle monache confluite nel monastero istituito, per volontà di Innocenzo III, presso la basilica di S. Sisto. Le «sorelle povere» o «povere donne» (o Secondo Ordine di s. Francesco, più note con il nome di Clarisse) furono fondate da Chiara di Favarone di Offreduccio, cugina di s. Francesco, che nel 1212 prima si fece monaca benedettina e poi si stabilì presso la chiesa rurale di S. Damiano, vicino ad Assisi. La sua Regola fu accettata formalmente da papa Innocenzo IV solo quarant’anni dopo, il 9 agosto del 1253, pochi giorni prima della sua morte; eppure, il successo dell’impresa di Chiara era stato testimoniato dalle decine di conventi femminili sorti ad imitazione del suo nel giro di pochi anni. Agli inizi, Chiara e le sue consorelle si erano ritirate a vivere in ospizi nei pressi delle città, si mantenevano con il proprio lavoro e rifiutavano le donazioni di beni e le offerte; ma già dal 1229 anche alle Povere Donne erano state imposte le due norme tradizionali delle fondazioni monastiche femminili: il possesso dei beni e la clausura. A partire dalla fine del XIII secolo comparvero le Eremitane Agostiniane, che formarono il ramo femminile degli Agostiniani, chiedendo ed ottenendo di porsi sotto il loro governo e la loro assistenza spirituale: il primo monastero italiano fu quello di S. Maria Maddalena di Orvieto, istituito il 16 giugno 1286, al quale seguì nella stessa città il monastero di S. Caterina, ma la vicenda della fondazione a Foligno nel 1230 del monastero femminile di S. Elisabetta secondo la regola agostiniana da parte di una donna tedesca fa pensare a un’iniziativa originariamente tedesca, trasferita poi in Italia. Il primo monastero di Servite, di cui si abbia notizia, nacque a Todi nel 1285 con un gruppo di prostitute convertite da s. Filippo Benizi: le loro fondazioni erano legate al ramo maschile attraverso o il priore generale o il priore provinciale dell’Ordine. Infine, alla metà del XV secolo nacquero anche monasteri di Carmelitane. Gli ordini monastici femminili conobbero una serie di problemi comuni. Di fatto non ottennero il riconoscimento della loro aspirazione alla povertà evangelica, che pure era fortissima in alcune delle loro ispiratrici: si riteneva, infatti, che una condizione di miseria esponesse le donne alle tentazioni ed ai pericoli della “carne”, cioè a relazioni sessuali libere o a pagamento. Nonostante le loro aspirazioni, Francescane e Domenicane si dovettero limitare a uno stile di vita più austero rispetto agli altri monasteri femminili e anche i loro monasteri furono fondati su una base patrimoniale (ma meno doviziosa rispetto a quella dei monasteri aristocratici), arricchita poi con le doti delle singole monache: un’involuzione favorita anche dal grande successo che le case femminili dei Mendicanti riscossero negli stessi ceti aristocratici. Le monache, poi, in quanto donne erano considerate inabili all’amministrazione dei sacramenti; di conseguenza dovevano ricorrere al servizio sacramentale fornito per l’eucarestia e la confessione da religiosi maschi: questa presenza maschile esponeva le monache a rischi e maldicenze, mentre gli stessi religiosi non di rado provavano fastidio e imbarazzo nell’assolvere a questo compito, soprattutto nel caso dei confessori. Inoltre, con la Decretale Periculoso ac detestabili del 1298 confermata nel 1309 dalla Apostolicae Sedis di Clemente V, papa Bonifacio VIII impose anche a questi monasteri l’obbligo della “clausura”, cioè della segregazione rispetto al mondo esterno; tuttavia, la ricezione della decretale, che pure entrò a far parte del Corpus Iuris Canonici, non fu né generale né costante. Sullo scorcio del Medio Evo e gli inizi dell’età moderna, molti monasteri femminili o cessarono di osservare l’obbligo della clausura, o addirittura non lo avevano mai rispettato sin dalle origini. L’apertura dei monasteri e delle case femminili verso l’esterno poteva avere in qualche caso inferenze sentimentali (come testimonia la novellistica), ma più spesso costituiva una scelta obbligata, determinata da concrete esigenze di sopravvivenza: per i monasteri era necessario mantenere rapporti con chi commissionava alle monache lavori di filatura, tessitura, cucito, etc., e in alcuni mesi dell’anno i monasteri più poveri dovevano mandare fuori dal loro chiostro alcune sorelle, per raccogliere le elemosine indispensabili a sfamare la comunità. Soprattutto, l’apertura verso l’esterno manteneva in costante rapporto le singole monache con il contesto sociale, in primo luogo con le proprie famiglie d’origine, rispondendo a esigenze connesse alla gestione economica dei patrimoni monastici e delle doti monacali. Da tempo molte monache non vivevano più “a vita comune”, con refettori e dormitori collettivi, bensì vivevano in “celle”, organizzate su base familiare e clientelare e composte da uno o più locali: qui le monache dormivano, preparavano e consumavano i loro pasti, e svolgevano tutta una serie di lavori, i cui prodotti erano venduti a beneficio della micro-comunità titolare della cella. Spesso le monache di una medesima cella erano legate fra di loro da vincoli di parentela o da rapporti di clientela: così all’interno del monastero si ricostruiva il microcosmo familiare presente nel mondo esterno, compresa la più complessa rete dei comparatici e dei patronati. Come nel caso dei benefici ecclesiastici secolari di patronato privato, con questo sistema le famiglie dei ceti superiori impegnavano una quota del patrimonio domestico per sostentare le figlie non destinate al matrimonio (alla fine del Medio Evo, per esempio, a Firenze una dote monastica poteva ammontare dal 10 al 30 % di una dote coniugale: Trexler, Le célibat à la fin . Per una conferma si veda anche Molho, “Tamquam vere mortua” , 27). Agli inizi dell’età moderna, tranne i casi di autentica vocazione volontaria e autonoma, la scelta dello stato monastico delle fanciulle spettava ai maschi delle loro rispettive famiglie e dipendeva da motivazioni esclusivamente connesse con quelle “strategie familiari”, che erano tese, oltre che a sistemare in qualche modo figlie illegittime o inadatte al matrimonio per evidenti difetti fisici, a conservare e accrescere il patrimonio domestico, senza intaccarlo con l’erogazione di ricche doti coniugali o con lasciti testamentari. Eppure, fino quasi alla metà del Cinquecento queste strategie familiari, così condizionate da motivazioni economiche, erano sopportabili per le interessate, poiché non comportavano la recisione dei loro legami affettivi con le famiglie d’origine. La comunità familiare si perpetuava nel chiostro e l’assenza di clausura consentiva alle donne e ai maschi restati nel “secolo” di visitare le parenti monacate, di servirsi delle celle monastiche per conservarvi i denari, i gioielli e i preziosi di casa nei momenti più turbolenti della vita cittadina, di usare la rinomata cucina monastica per organizzare i banchetti delle grandi feste domestiche, come i matrimoni e i battesimi. Né erano troncati i rapporti con il contesto sociale: una circolarità di rapporti, che, se in misura rilevante interessava gli aspetti della vita monastica nella quotidianità delle sue esigenze materiali, coinvolgeva anche la sfera dei bisogni culturali e delle istanze religiose. Tuttavia, in questo quadro monastico femminile, non segregato dal mondo, col tempo si erano consolidate alcune trasformazioni, che avevano suscitato forti preoccupazioni nei ceti dirigenti locali: a causa dell’assenteismo dei vescovi era cresciuta la subordinazione spirituale e gestionale dei monasteri nei confronti delle rispettive case maschili e la formazione di più ampi stati territoriali era stata accompagnata dall’invadenza dei nuovi governi (sovrani e città “dominanti”) anche nei chiostri femminili delle città dominate, sfruttandone le risorse per mantenere le fanciulle delle dominanti. La consapevolezza del disordine economico provocato da questo sfruttamento indusse alcuni governi ad adottare provvedimenti che garantissero una corretta amministrazione economica dei patrimoni monastici. Nel 1521 a Venezia fu istituita la magistratura dei «Provveditori sopra i monasteri»; nel 1524-25 la città di Parma nominò alcuni deputati sulla clausura e commissioni particolari per ogni singolo monastero femminile; nel 1545 il nuovo duca di Firenze Cosimo I de’ Medici Cosimo affidò la gestione economica di ciascun monastero a quattro Operai, eletti dal Duca stesso all’interno di liste approntate dalle magistrature cittadine e composte da parenti stretti delle monache, e istituì una Commissione centrale di tre “Deputati sopra i Monasteri”; sei anni dopo anche la Repubblica di Genova dette forma stabile ad un ufficio governativo di controllo sui monasteri femminili, operativo già da circa un secolo e composto da laici e chierici. In alcuni di questi provvedimenti politici cominciò anche a prefigurarsi una normalizzazione della disciplina monastica sulla base di un’interpretazione misogina e carceraria del concetto di clausura. Nel frattempo, il Concilio di Trento dedicò solo un fuggevole accenno alla disciplina monastica femminile (Sess. XXV, Decretum de regularibus et monialibus, c. V), puntando soprattutto sul rafforzamento del controllo da parte del vescovo locale a scapito dei superiori regolari, ma la Santa Sede promosse una forte offensiva per introdurre un nuovo stile di vita nei monasteri, minacciando di non riconoscere il carattere religioso alle comunità che non avessero obbedito a questi precetti: il mandato temporaneo dell’ufficio di madre superiora, l’obbligo della vita comune e la realizzazione di un regime di stretta clausura in tutti i monasteri femminili, a qualunque ordine appartenessero e qualunque regola seguissero. Momenti principali di questa strategia disciplinatrice furono alcuni provvedimenti romani. L’8 maggio del 1565 la Congregazione del Concilio, sollecitata da alcuni vescovi, estese la clausura a tutti i monasteri di monache professe e di terziarie; poi, il 29 maggio 1566, con la costituzione Circa Pastoralis officii e due anni dopo con la Lubricum vitae genus, papa Pio V impose l’obbligo della rigida clausura a tutti i monasteri femminili, compresi quelli “aperti” (dalla loro fondazione o da tempo immemorabile); infine con la bolla Deo sacris virginibus del 30 dicembre 1572 Gregorio XIII ribadì gli ordini del suo predecessore, aggiungendovi una minaccia: i monasteri inadempienti sarebbero stati condannati all’estinzione, perché non avrebbero potuto accettare nuove consorelle. L’imposizione dall’alto del rigore disciplinare controriformistico sollevò le proteste generalizzate delle monache e tentativi di resistenza, che si protrassero fino agli inizi del Seicento: con la morte naturale delle monache ribelli, ferme nel rifiuto della nuova disciplina, alcune case monastiche conclusero la loro esistenza plurisecolare. Alla fine, grazie anche al coinvolgimento attivo dei ceti nobiliari e dei patriziati cittadini, ormai alieni dalla cultura umanistica e interessati alla nuova ideologia sottesa alla disciplina della Controriforma, sugli antichi monasteri femminili piombò una pesante cappa claustrale, che solo a partire dalla fine del secolo XVII fu scalfita dagli effetti della rivoluzione scientifica, che riuscì a “medicalizzare”, rendendoli leciti, tutta una serie di comportamenti e consumi (cioccolato, tabacco, soggiorni termali etc.) e poi fu travolta dalla secolarizzazione sette-ottocentesca della società. Le “monacazioni forzate”, intanto, continuarono per tutto l’arco dell’età moderna e, salvo qualche scandalo (come quello della famosa monaca di Monza), i monasteri femminili nascosero quei drammi individuali che provenivano dalle scelte connesse alle strategie familiari tese a consolidare i patrimoni domestici, privilegiando la discendenza maschile nella successione ereditaria. Come era già avvenuto fra Quattro e Cinquecento, quando il fenomeno dell’“Osservanza” regolare era penetrato anche nei chiostri femminili, non mancarono monache che accolsero con entusiasmo l’inasprimento della vita monastica e ne fecero persino il fondamento di nuovi istituti, come, per l’Italia, nel caso delle Cappuccine, la cui nascita è attribuita alla fondazione del monastero napoletano “delle Trentatré” da parte della nobildonna Maria Lorenza Longo: queste monache adottarono la prima regola di s. Chiara (stretta povertà, penitenza, umiltà) e la più stretta clausura monastica, optando per una vita di preghiera e di privazioni. Fortuna arrise in Italia pure alla riforma rigorista delle Carmelitane, iniziata in Spagna da s. Teresa d’Avila, e alle Visitandine di s. Francesco di Sales, dopo che per volere della gerarchia la loro congregazione, nata con fini assistenziali, fu trasformata in un ordine claustrale dedito alla vita contemplativa. Ancora nel Seicento e nel Settecento nacquero in Italia nuovi istituti religiosi femminili di clausura: a Genova nel 1604 Maria Vittoria Fornari Strada fondò l’Ordine della Santissima Annunziata; ad Avellino nel 1654 sorsero le Oblate Sacramentine, che osservavano la stretta clausura, benché si dedicassero all’educazione delle giovani in un conservatorio interno; e nel secolo successivo ad opera di Maria Antonia Felice Solimani nacquero le Romite di san Giovanni Battista, approvate da Benedetto XIV nel 1744. Anche le monache Redentoriste, fondate nel 1731 da Maria Celeste Crostarosa con l’appoggio di Alfonso Maria Liguori, e quelle Passioniste, fondate da s. Paolo della Croce nel 1771, osservavano una stretta clausura e si dedicavano a una vita di preghiera e di penitenza. E negli anni dell’Impero napoleonico la maremmana Caterina Sordini fondò a Roma l’ordine contemplativo delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento. Negli ultimi decenni del Settecento, alcuni sovrani assoluti (come Pietro Leopoldo e Giuseppe II d’Asburgo) attuarono riforme disciplinari d’impianto rigorista per attribuire un’utilità sociale ai monasteri femminili, che ormai versavano in una fase di lenta decadenza a causa di ben diverse “strategie familiari”: strategie inedite, che si affermavano anche nell’Occidente europeo cattolico col sostegno di una letteratura e di una saggistica improntate a modelli di vita simili a quelli europei nord-occidentali. Contro l’ideale della vita contemplativa riemergeva forte il richiamo alla vita attiva, anche nell’ambito della vita religiosa: un richiamo che peraltro non era stato soffocato neanche nell’età della Controriforma e degli Stati confessionali (cf. voce «Congregazioni religiose femminili»). Così, nel 1785 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo impose ai monasteri di clausura di impegnarsi nel campo dell’educazione delle ragazze, obbligando i monasteri femminili e le singole monache a scegliere fra un rinnovato regime di vita rigorosamente comunitaria (con l’abolizione delle celle individuali) e la riconversione in conservatori finalizzati all’istruzione. Quando, dopo le più massicce soppressioni di monasteri e confische dei relativi patrimoni dell’età napoleonica (culminate nei provvedimenti adottati in tutta la Penisola fra il 1806 e il 1810), arrivò la Restaurazione quel modello controriformista di monastero femminile di rigorosa clausura e di vita contemplativa poté recuperare parzialmente le sue posizioni. Il ritorno ai valori e agli stili di vita della tradizione cattolica fu ostacolato non solo dai mutamenti sociali, resi irreversibili di fatto dall’alienazione massiccia dei patrimoni ecclesiastici (acquistati pure da famiglie di sicura fedeltà alla Chiesa e al pontefice), ma anche dalla ripresa dei principi del giurisdizionalismo ecclesiastico, soprattutto in Toscana e nel Settentrione. Per attenuare gli ostacoli frapposti alla vita contemplativa, gli ordini monastici femminili adottarono un atteggiamento di compromesso, facendo coesistere l’osservanza della clausura con l’impegno educativo verso le ragazze. Questa strategia dell’impegno in attività di educazione, d’istruzione e di assistenza si rivelerà utile anche negli anni immediatamente successivi all’Unità per attenuare gli effetti dell’estensione a tutto il Regno d’Italia (legge del 7 luglio 1866) delle leggi piemontesi di soppressione degli enti ecclesiastici non dediti ad attività di utilità sociale (29 maggio 1855). D’altra parte, sia per le vicende generali del nostro paese e delle sue diverse regioni, sia per le situazioni particolari delle singole case monastiche, in Italia è mancata una radicale e generalizzata soppressione di tutti i monasteri femminili osservanti la rigorosa disciplina claustrale: la stessa applicazione delle leggi di soppressione fu più o meno rigorosa a secondo dei luoghi e dei tempi, perché, mentre in alcuni casi le comunità furono del tutto soppresse e le suore disperse, in altri le monache rimasero nei loro istituti anche se a titolo precario e riuscirono persino ad aggirare il divieto di accettare nuove affiliate. Fonti e Bibl. essenziale A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione sia ai singoli ordini monastici femminili, sia a problematiche di carattere generale, si vedano: «De Monialibus» (secoli XVIXVII-XVIII), in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXXIII, 1997, 643-715; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; M. D’Amelia – L. Sebastiani edd., I monasteri femminili in età moderna: Napoli, Roma, Milano, Roma, Carocci, 2009 («Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2009, fasc. 2); K. Di Rocco, Gli orientamenti storiografici intorno al monachesimo femminile, in «Itinerari di ricerca storica», n. 20-21, 2006-2007, 363-394; Donna, disciplina e creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996; L. Scaraffia – G. Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma- Bari, Laterza (“Storia delle donne in Italia”), 1994; Donne sante sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, Milano, Rosenberg & Sellier, 1996; A. Lirosi ed., Le cronache di Santa Cecilia. Un monastero femminile a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2009; M. Modica ed., Esperienza religiosa e scritture femminili tra Medio Evo ed età moderna, Acireale, Bonanno Ed., 1992; F. Medioli, L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; G. Zarri ed., Il monachesimo femminile in Italia dall’alto medioevo al secolo XVII. A confronto con l’oggi, Atti del VI Convegno del «Centro di Studi Farfensi», Santa Vittoria in Matenano 21-24 Settembre 1995, Negarine di San Pietro in Cariano (Verona), Il Segno dei Gabrielli Editori, 1997; G. Pomata e G. Zarri edd., I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005; E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano, Franco Angeli, 2001; Ead., Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2009; C. Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVI, Napoli, Università di Napoli – Istituto di storia medioevale e moderna, 1970; M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, in Il monachesimo in Italia tra vaticano I e Vaticano II, Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 1995, 291-306; S. Seidel Menchi – A. Jacobson Schutte – Th. Kuehn, Tempi e spazi di vita femminile tra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino, 1999; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. 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Benedetto da Norcia (ca. 480-ca. 547), che dalla solitudine anacoretica di Subiaco passa all’organizzazione pienamente cenobitica di Montecassino, comunità centralizzata sotto un unico abate e una sola regola. Due furono i testi che più di altri ebbero successo tra i monaci della penisola come del resto in tutto l’Occidente, essendo già noti negli anni 420-430: il De institutis coenobiorum e le Conlationes di Cassiano, scaturiti dall’esperienza del deserto tra gli anacoreti della Palestina e dell’Egitto, sì da costituire un punto di riferimento per la vita dei monasteri che andavano sorgendo, a Roma in primo luogo, nel corso del sec. V, a partire da quello di S. Sebastiano sulla via Appia fondato da Sisto III (432-440), seguito da altri presso le principali basiliche e le antiche diaconie. Il modello anacoretico rappresentato dall’isola di Lerins nella Gallia meridionale (Cannes) segna la vita del monachesimo italico tra IV e VI sec., come testimoniano gli eremi di Monteluco nei pressi di Spoleto, di Eutizio in Val Castoriana non lontano da Norcia, e ancora quelli costituiti da Equizio, facenti capo alla fondazione di Amiterno vicino L’Aquila. Allo stesso ambito di tradizioni appartiene anche il monastero fondato nel castrum Lucullanum di Napoli dall’africano Eugippio († poco dopo il 536), discepolo del monaco s. Severino, apostolo del Norico. Ad una tradizione monastica tendente alla separazione dalla società, si giustappone in Italia una seconda, fiorente all’interno della comunità ecclesiale, grazie a vescovi come s. Eusebio a Vercelli, s. Ambrogio a Milano, s. Paolino a Nola. Caso isolato infine, sincrono sebbene del tutto estraneo all’esperienza benedettina di Montecassino, è quello di Vivarium presso Squillace in Calabria, dove Cassiodoro, già ministro di Teodorico, reduce da Costantinopoli, fondava intorno al 554 un monastero i cui monaci si dedicavano specialmente allo studio della Bibbia, coltivando al tempo stesso per una retta intelligenza delle lettere sacre quelle profane, in un nobile seppur troppo precoce tentativo di mediazione e sintesi tra antichità pagana e novità cristiana. Da Benedetto di Montecassino a Benedetto d’Aniane (secc. VI-IX). L’abbazia di Montecassino fondata da s. Benedetto verso l’anno 529 fu il punto iniziale di un’avventura monastica che condusse nel corso del medioevo alla formazione in terra italiana di vere e proprie congregazioni, ispirate in misura diversa da quella Regola benedettina che Gregorio Magno nel II libro dei Dialogi definisce «notevole per il senso della misura e bella per la perspicuità della forma» (cap. 36). Dopo la distruzione di Montecassino nel 577 ad opera dei Longobardi, la comunità trovò rifugio a Roma, il luogo più idoneo per una precoce diffusione della stessa Regola benedettina oltre le Alpi, nel territorio della Gallia, dov’è attestata per la prima volta nella lettera inviata nel 625-630 da Venerando, fondatore del monastero di Altaripa in Aquitania, al vescovo Costanzo di Albi. Negli stessi anni, all’incirca dal 629, a Luxeuil (Haute-Saône, Francia), prima fondazione monastica dell’irlandese s. Colombano sul continente europeo, la Regola benedettina e quella colombaniana erano entrambe applicate in un regime di “regola mista” sotto l’abate Valdeberto. Proprio al nome di Colombano è collegato il fatto più notevole della storia religiosa dell’Italia del nord nel sec. VII: la fondazione del monastero di Bobbio nel 614, con il conseguente sviluppo di un monachesimo irofranco che facilitò il graduale avvicinamento dei Longobardi, ancora ariani, all’ortodossia romanocattolica. La svolta religiosa grazie alla quale dalla fine del sec. VII i Longobardi abbandonano gli ultimi residui di arianesimo e di scisma, rende questi ultimi protagonisti di una politica di ampio favore nei riguardi delle istituzioni monastiche sul suolo italico: da S. Pietro in Ciel d’Oro (Pavia) a Nonantola (nel contado di Modena), Farfa, S. Vincenzo al Volturno, la stessa Montecassino che rinasce intorno al 717/718 grazie al bresciano Petronace, con il contributo della vicina abbazia di S. Vincenzo e il sostegno di papa Gregorio II. Nel frattempo in un atto di donazione del gastaldo senese Vuarnefredo per S. Eugenio di Siena nel 730, si legge esplicitamente per la prima volta in Italia che i monaci di quel cenobio erano tenuti a vivere nell’osservanza della Regola di s. Benedetto. Ormai si registra al sud come al nord della penisola una graduale affermazione del codice benedettino su tutte le altre regole, come testimonia il fatto che da Montecassino, durante l’abbaziato di Teodemaro (777/778-796), su richiesta di Carlo Magno re dei Franchi e Longobardi, è inviata ad Aquisgrana una copia dell’esemplare della Regola. Sarà poi lo stesso Carlo a favorire nel regno franco l’ascesa di una grande personalità monastica come Benedetto d’Aniane (†821), al quale, con il successivo determinante appoggio dell’imperatore Ludovico il Pio, si deve il definitivo primato della Regula Benedicti su tutte le altre nei territori dell’Impero, in base a quanto era stato sancito nel primo e secondo sinodo di Aquisgrana (816, 817). Nessun abate italico fu presente in quell’occasione, ma la riforma anianense, pur interrotta dalla prematura morte di Benedetto, avrà modo di diffondersi anche in Italia (Nonantola, Montecassino). Nel frattempo l’abbazia di Cluny, fondata l’11 settembre 909, va perfezionando l’ideale monastico anianense mediante l’osservanza integrale della Regola e il principio del raggruppamento di più case in una istituzione centralizzata (Ecclesia o congregatio Cluniacensis, divenuta tra XII e XIII sec. un vero e proprio Ordo come quello cistercense). Primi influssi cluniacensi a Roma e in Italia. In Italia l’influsso cluniacense si registra in primo luogo nell’opera di riforma compiuta a Roma dall’abate Oddone di Cluny a partire dal 936, specialmente a S. Paolo fuori le mura e S. Maria sull’Aventino, non senza riflessi anche a Montecassino. Pochi anni dopo, richiamato in Italia dal papa nel 939, Oddone estese la sua opera ad altri centri monastici del nord Italia come S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Grazie poi all’azione vigorosa del successore Maiolo (948-994) l’influenza cluniacense toccò altri centri monastici: S. Salvatore di Pavia, Pomposa, ancora S. Paolo di Roma, S. Apollinare in Classe a Ravenna, S. Giovanni di Parma. Usi cluniacensi sono testimoniati a Farfa nella Sabina (Liber tramitis aevi Odilonis, 1027-60) come pure a Cava dei Tirreni presso Salerno. Tra i tanti monasteri italiani tuttavia il solo che fece parte della congregatio cluniacense con il titolo di abbazia fu S. Benedetto di Polirone (San Benedetto Po, Mantova), mentre altri pur notevoli, come Pontida o Vertemate, mantennero il carattere di priorati. E ancora nel quadro dell’influsso cluniacense, notevole fu la fondazione (1003) del monastero di S. Benigno di Fruttuaria (San Benigno Canavese, Torino) ad opera di un discepolo di Maiolo, Guglielmo da Volpiano, il cui impulso riformatore è alla base della vasta rete monastica fruttuariense. 1. Romualdo e gli inizi dell’esperienza camaldolese. Mentre in Italia tra X e XI sec. l’ideale cenobitico riceve l’apporto di correnti monastiche d’oltralpe, s. Romualdo, nato a Ravenna nel 952, rilancia nuovamente in Occidente l’ideale anacoretico nato in Oriente, sebbene la sua organizzazione di tipo eremitico sia basata sul riferimento esplicito alla Regola cenobitica di Benedetto. Il suo progetto consiste infatti nello stretto legame tra cenobio ed eremo sotto la guida di un unico superiore vivente in quest’ultimo. Il cenobio doveva servire alle varie attività destinate al sostentamento materiale dei monaci, svolgendo tuttavia in primo luogo una funzione propedeutica, di preparazione all’eremo. Approvata da papa Pasquale II nel 1113 la nascente congregazione, il cui superiore era lo stesso priore del Sacro Eremo camaldolese, contava già diversi eremi e cenobi, tra i quali i più importanti erano quelli di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo) e di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio. 2. Giovanni Gualberto e i Vallombrosani. Anche per Giovanni Gualberto nobile fiorentino, già monaco nel monastero di S. Miniato, la scelta di ritirarsi in solitudine presso Vallombrosa (Firenze) nel 1036 diede avvio ad una forma monastica di prevalente impronta eremitica, la cui espansione tuttavia in seguito determinò la nascita di una nuova congregazione monastica di tipo cenobitico, che raggiunse il suo massimo sviluppo in Toscana, e che fu particolarmente polemica verso le degenerazioni della vita clericale, come nel caso del vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba. Caratteristica della congregazione vallombrosana, il cui incremento dopo la morte del Gualberto si deve a Bernardo degli Uberti, abate generale, cardinale e vescovo di Parma (†1133), è il fatto che i diversi monasteri godevano di una posizione paritaria, secondo un modello di relazioni più vicino a quello cistercense, che non a quello cluniacense di tipo più verticistico. 3. Guglielmo da Vercelli e S. Giovanni da Matera (Montevergine e Pulsano). Tra XI e XII sec. altri movimenti rigoristici, fondati rispettivamente da s. Guglielmo da Vercelli e s. Giovanni da Matera, si affermano in un ambito locale più circoscritto. Il primo ebbe il suo nucleo d’origine nel monastero di Montevergine (1124) sul monte Vergiliano (Avellino), destinato a divenire sede di un celebre santuario mariano oltre che capo di una florida congregazione, ufficialmente approvata da papa Alessandro III (1161-72) e confermata in particolare da Lucio III e Celestino II. Organizzata con case dipendenti forse sul modello cluniacense e osservante la Regola benedettina, la congregazione verginiana incrementò particolarmente lo spirito di fedeltà a Roma tra popolazioni che prima dell’influsso normanno avevano conosciuto una presenza ecclesiastica e monastica di derivazione bizantina. Giovanni da Matera, dopo diverse e dolorose esperienze dava inizio nel 1129 ad una congregazione monastica di orientamento eremitico e marcatamente penitenziale, detta dei Pulsanesi, dal nome di Pulsano, alle pendici del monte Gargano, via via sostenuta dal riconoscimento e dall’approvazione dei papi Innocenzo II, Eugenio III, Alessandro III, oltre che dalla protezione dei re normanni Ruggero II, Guglielmo I, e Guglielmo II, nonché dello svevo Federico II. Nilo di Rossano (Basiliani) e Bruno di Colonia (Certosini). Altri due grandi esponenti del carisma monastico in Italia furono s. Nilo di Rossano e s. Bruno di Colonia, dalla cui vocazione alla solitudine scaturiranno poi due Ordini monastici. Nilo (†1004) dalla nativa Calabria, dopo diverse esperienze di ascetismo simile a quello praticato dai Padri del deserto (Valleluce presso Montecassino, Serperi a Gaeta), fondò infine l’anno stesso della sua morte il monastero di Grottaferrata nei pressi di Tuscolo (Frascati), divenuto infine centro della congregazione basiliana d’Italia (1579), oggi Ordine Basiliano Italiano di Grottaferrata. Bruno, originario di Colonia, dov’era nato verso il 1030, già canonico di Reims, riuscì a stabilirsi in una valle alpina, in prossimità della Chartreuse, grazie all’aiuto di Ugo vescovo di Grenoble. I suoi compagni vestiti di bianco, conducevano una vita isolata in piccole celle, riunendosi per l’ufficio comune al mattino e alla sera, e soprattutto la domenica e i giorni festivi per la celebrazione della Messa e per il pasto comune. Chiamato a Roma da papa Urbano II nel 1090, Bruno preferì tuttavia ritirarsi in Calabria, stabilendosi l’anno dopo a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove morì nel 1101. Contrassegnato da un’osservanza sostanzialmente eremitica, temperata nondimeno con alcuni elementi di quella cenobitica, l’Ordine certosino ha al suo vertice il priore della Grande Chratreuse, chiamato “generale”, il quale benché eletto dalla sola comunità cui appartiene, ha giurisdizione sull’intero Ordine. All’origine dei Cistercensi in Italia. Il primo ambito territoriale fuori della Francia nel quale si espande la congregazione cistercense è l’Italia, quando nel 1120 un gruppo di monaci per opera dell’abate Pietro di La Ferté, una delle quattro “figlie” di Cîteaux, fonda S. Maria del Tiglieto (diocesi di Acqui, Alessandria). L’anno precedente (1119) papa Callisto II aveva approvato il documento costitutivo dell’Ordo cistercense, la Carta Caritatis di Stefano Harding. Un nuovo sistema organizzativo circa le relazioni tra casa fondatrice e casa affiliata, e al tempo stesso l’istituto del capitolo generale, erano destinati a caratterizzare da questo momento la vita monastica anche in terra italiana, dispiegando gradualmente il loro influsso su altri monasteri e specialmente sulle nuove congregazioni di Regola benedettina sorte fra XIII e XIV sec. Gioacchino da Fiore e la congregazione dei Florensi. Nato verso il 1130 a Celico in Calabria (Cosenza), Gioacchino da Fiore (†1202) era entrato poco più che ventenne nel monastero benedettino di S. Maria Requisita, in seguito occupato dai monaci cistercensi di Casamari. Trasferitosi nell’abbazia benedettina di S. Maria di Corazzo (Carlopoli, Catanzaro), Gioacchino vi fu eletto abate nel 1177. Intanto poiché il suo desiderio di affiliazione all’Ordine cistercense non poté essere accolto, dopo essersi fermato a Casamari (1183) e aver incontrato papa Lucio III che lo incoraggiò nello studio della Bibbia, egli tornò a Corazzo. Qui infine rassegnate le dimissioni da abate, con alcuni compagni si ritirò fra i monti della Sila, dando inizio ad una nuova esperienza monastica, poi culminata nella fondazione di S. Giovanni in Fiore. Respinta anche questa dal capitolo generale cistercense, che nel 1195 dichiarava Gioacchino apostata e fuggitivo, non avendo egli obbedito all’ordine di ritirarsi a Corazzo, nasceva così la nuova congregazione chiamata florense, destinata ad ottenere l’appoggio dei sovrani svevi, e a svilupparsi in Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Lazio, Toscana. Personalità eccezionale, Gioacchino con la sua opera letteraria e monastica, specialmente per la sua concezione di vivere le primizie di un’epoca dello Spirito, avrebbe esercitato un forte influsso sulla spiritualità dei nuovi Ordini religiosi, Francescani e Domenicani, e dell’intero sec. XIII, così animato dall’ansia di riforma e di rinnovamento della vita religiosa e dell’intera Chiesa. La vita monastica nei secc. XIII e XIV tra difficoltà e novità (Albi, Umiliati, Silvestrini, Celestini, Olivetani). Al declino dell’antica istituzione monastica, particolarmente in Italia più che nei territori d’oltralpe, corrisponde nei secc. XIII e XIV una nuova fioritura di congregazioni, il cui punto di riferimento disciplinare resta la Regola di s. Benedetto, seppure ormai in un contesto civile e religioso diverso da quello altomedievale, caratterizzato da istanze sociali emergenti dal basso, da un clima spirituale escatologico e penitenziale, nonché dai nuovi Ordini mendicanti. Di tali novità si segnalano in particolare l’Ordo dei monaci albi di S. Benedetto di Padova, fondato dal b. Giordano Forzatè, in crisi già nel sec. XIV, e gli Umiliati, che si ispiravano al modello cistercense, sul principio (1201) distinti in tre Ordini formanti un unico organismo (chierici e religiose, uomini e donne laici con vita in comune, laici in famiglia), soppressi infine nel 1571. Silvestro Guzzolini (ca. 1177-†1267), canonico della cattedrale di Osimo nella Marca di Ancona, ritiratosi in età matura nei pressi di Valdicastro, da dove poi si trasferì nell’eremo di Montefano (Fabriano), già prima del 1248 adottò per i suoi discepoli la regola di s. Benedetto. Approvato il nuovo Ordo da papa Innocenzo IV nel 1248, esso mostrò ben presto la sua capacità di mettersi in relazione con le nuove forme di organizzazione cittadina rappresentate dai Comuni. Come sui Vallombrosani, anche sui Silvestrini l’abate generale esercitava un potere centralizzato e vitalizio, che solo nel sec. XVI diverrà temporaneo. Caso raro se non unico di un abate temporaneo è invece quello dell’Ordo S. Spiritus de Maiella, che in seguito, dopo la canonizzazione del suo fondatore Pietro del Morrone (ca. 1209-†1296), futuro papa Celestino V, assunse la denominazione di Ordine dei Celestini. L’istituto dell’abate ad tempus avrà un seguito illustre nell’esperienza organizzativa della congregazione olivetana. Iniziata secondo una prassi assai diffusa come esperienza eremitica ad Accona nel 1313, la fondazione di Monte Oliveto (Siena) da parte dei tre nobili senesi Bernardo Tolomei, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini viene sancita ufficialmente dalle due lettere apostoliche del 21 gennaio 1344, con le quali papa Clemente VI dava la sua approvazione alla nascente congregazione olivetana, concedendo altresì la facoltà di fondare dei priorati dipendenti da Monte Oliveto. Segno distintivo del nuovo istituto, destinato ad influire sull’evoluzione stessa della costituzione monastica, è la durata annuale dell’ufficio abbaziale (senza proroghe dal 1349), poi triennale (dal 1351): un’assoluta novità rispetto alla tradizione precedente, che non conosceva, in linea di principio, la temporaneità dell’ufficio abbaziale. Inoltre annualmente il capitolo generale olivetano provvedeva al rinnovo delle cariche e ricostituiva le comunità dei singoli monasteri, i cui membri quindi non erano più legati dal consueto vincolo della stabilità ad un particolare cenobio. Si delinea così il modello organizzativo al quale si ispirerà nel secolo successivo la congregazione benedettina di S. Giustina di Padova. Il sec. XV: la congregazione di S. Giustina e le nuove congregazioni monastiche di Osservanza. Il secolo XV fu ricco di grandi novità per il mondo benedettino, a partire dal pontificato di Martino V, eletto l’11 novembre 1417 nel conclave riunitosi durante il concilio di Costanza, che poneva così fine allo scisma d’Occidente. Fin dal 1419, pur tra gravi problemi, egli non tralasciò la questione della disciplina degli Ordini religiosi: non a caso in questo stesso anno egli istituiva la nuova congregazione di S. Giustina di Padova, dal nome del monastero di cui era abate Ludovico Barbo, già canonico secolare di S. Giorgio in Alga a Venezia. Dopo alcuni anni di difficile rodaggio, e dopo aver superato la sua prima crisi istituzionale, determinata dal diverso modo di interpretare l’originaria costituzione pontificia circa l’esercizio dell’autorità da parte dei vari abati, la nuova congregazione fu denominata de Observantia S. Iustinae de Padua, trovando appoggio e protezione in papa Eugenio IV che ne approvò il definitivo assetto interno con le costituzioni Etsi ex sollicitudinis debito del 23 ottobre e 23 novembre 1432. Tutti i monaci, pur appartenendo a monasteri diversi e professando per il rispettivo monastero, costituivano un solo corpo, il quale, come dispone la bolla del 23 ottobre 1432, veniva rappresentato nella sua globalità – superiori e sudditi – dal capitolo generale annuale che eleggeva 9 definitori – 2 abati e 7 conventuali –, come rappresentanti dell’intero capitolo. Tra l’altro i definitori nominavano gli abati dei singoli monasteri, la cui carica durava un anno, e vigilavano attraverso i visitatori sull’osservanza della Regola all’interno dei monasteri aderenti, i quali dipendevano direttamente dal papa, con l’esclusione perciò di ogni altra interferenza ecclesiastica o laica. Gli influssi del nuovo assetto istituzionale di S. Giustina si estesero anche ad altre nuove congregazioni italiane, come quella cistercense di S. Bernardo in Italia (1497), camaldolese di S. Michele di Murano (1474), degli Eremiti camaldolesi di Monte Corona (1525), nonché di S. Maria di Vallombrosa (1485). Il Cinquecento. Nel sec. XVI la congregazione di S. Giustina, ormai dal 1504 dopo l’ingresso di Montecassino denominata “cassinese”, era destinata ad una notevole fioritura nel corso dell’intero secolo. Non a caso all’apertura del Concilio di Trento (1545) i soli abati benedettini presenti erano cassinesi (Isidoro da Chiari, Luciano degli Ottoni da Goito, Crisostomo Calvini da S. Gemiliano). La congregazione costituiva ormai un rilevante fattore di unità religiosa e culturale in un’Italia politicamente divisa tra regno di Napoli e ducato di Milano sotto il predominio spagnolo, granducato di Toscana, ducato di Parma, repubblica di Venezia, repubblica di Genova, Stato pontificio: dal 1409 al 1596 sono infatti ben 75 i monasteri facenti parte della congregazione, e altri 13 vi aderiranno nel corso del ‘600. Il Seicento. Tra le novità del sec. XVII si registra la divisione della congregazione cassinese in 7 province, decretata da papa Paolo V nel 1607: romana, veneta, lombarda, toscana, ligure, napoletana e siciliana. Nella congregazione 16 erano i monasteri destinati agli studi “formali”, sebbene le dichiarazioni del 1642 disponessero che in tutti i monasteri con almeno 12 monaci si tenessero tra le altre lezioni relative ai casi di coscienza oltre che di Sacra Scrittura. Tra le diverse congregazioni spicca quella olivetana, che possedeva monasteri e santuari, spesso abitati da monaci illustri per virtù e dottrina, in tutte le principali città italiane. Segni del prestigio di cui godeva la congregazione di Monte Oliveto sono alcuni tentativi, non accolti, di unione ad essa da parte della congregazione di Montevergine nel 1580 e nel 1629. Ugualmente non coronata da successo fu lʼunione tra Vallombrosani e Silvestrini, disposta nel 1662 da papa Alessandro VII, e dopo appena cinque anni revocata da Clemente IX. La generale tendenza alla divisione in province raggiunge anche i Cistercensi d’Italia: nasce così la congregazione cistercense romana, approvata da papa Gregorio XV nel 1623. Le costituzioni furono ratificate solo nel 1643, ma dopo un decennio, forse a causa dell’esiguo numero dei monaci, la nuova congregazione fu soppressa il 5 marzo 1660 da Alessandro VII che la unì a quella toscana, mentre trascorso un secolo nel 1762 Clemente XII separava ulteriormente le due province. Altra congregazione cistercense è quella calabro-lucana, sorta nel 1605, raggruppante i monasteri della Calabria e della Lucania, tra cui la fondazione di Corazzo, celebre per la memoria di Gioacchino da Fiore. Nel 1630 inoltre papa Urbano VIII ratifica la decisione della congregazione cistercense dei Foglianti di dividersi in due rami autonomi: la Congregatio Beatae Mariae Fuliensis Ordinis Cisterciensis per la Francia, facente capo allʼabbazia di Feuillant, e per l’Italia la Congregatio monachorum reformatorum sancti Bernardi Ordinis Cisterciensis, la cui sede rappresentativa fu lʼabbazia di S. Pudenziana a Roma. Paolo V nel 1607 distribuì i cenobiti camaldolesi nelle quattro province romana, toscana, veneta e marchigiana. Poco dopo nel 1629 Urbano VIII, riconoscendo lʼimpossibilità di una pacifica coesistenza tra eremiti e cenobiti, dispose il distacco dei monasteri di tipo cenobitico dal Sacro Eremo di Camaldoli: a partire da questo momento fino alla loro soppressione, decretata dalla costituzione apostolica Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935, i cenobiti restarono così distinti dagli eremiti. Il Settecento. Tra le novità più rilevanti del sec. XVIII è la nascita di una nuova congregazione di provenienza orientale, detta dei Mechitaristi, fondata da Pietro Manouk (Mechitar), originario di Sebaste in Armenia (1676-1749), che si impiantò a Venezia sull’isola di S. Lazzaro nel 1715, dopo che trasferitasi da Costantinopoli a Modone in Morea nei domini veneziani del Peloponneso, ottenne l’approvazione da Roma avendo adottato la Regola di s. Benedetto (1711). In questo secolo il 1789, anno della rivoluzione francese, rappresenta un vero spartiacque, una data epocale che segna una svolta decisiva nella storia d’Europa e delle relazioni Stato-Chiesa, con conseguenze notevoli anche sulla vita religiosa, su quella monastica in particolare. Tra il 1806 e il 1810 una serie di provvedimenti eversivi conducono in Italia alla totale soppressione di Ordini e case religiose: dal regno d’Italia alla Toscana, allo Stato pontificio (quest’ultimo annesso nel 1809 all’Impero francese), fu praticata una politica e di conseguenza emanata una legislazione antimonastica; ugualmente nel regno di Napoli, con Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone, il colpo definitivo fu inferto il 13 febbraio 1807, allorché venne promulgata la legge di soppressione degli Ordini monastici. — L’Ottocento. I mali denunziati da una commissione di cinque abati istituita da papa Pio IX nel 1850 con lo scopo di indagare circa le cause della debolezza della vita monastica e porvi rimedio, non erano lievi, e con radici profonde specialmente nei monasteri siciliani, ove, in un clima pressoché ancora feudale, esisteva da tempo una serie di abusi, di interferenze, di fazioni, che impedivano ogni serio tentativo di riforma. L’elezione di Pietro Casaretto, decisamente appoggiato da Pio IX, ad abate presidente della congregazione cassinese nel 1852, non costituì di fatto il rimedio tanto atteso, favorendo anzi gradualmente il distacco del ramo sublacense dal tronco dell’antica congregazione, che rimase tradizionalmente legata al solo territorio della penisola, mentre il 9 marzo 1872 veniva eretta la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco, sin dall’inizio comprendente anche monasteri fuori d’Italia, oltre che animata da uno spirito missionario. Anche per gli Olivetani si registra un declino tra i primi decenni e la metà del secolo, con una ripresa verso la fine, e ugualmente per i Vallombrosani. Infine per Silvestrini e Camaldolesi non è un segno di vitalità bensì di difficoltà il tentativo di unione, poi fallito, tra le due rispettive congregazioni, le cui trattative si protrassero dal 1818 al 1827. Intanto completatosi il processo di unificazione dell’Italia, tra il 1860 e il 1861 furono promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti, sia pure occasionali e disorganici, di abolizione di questo o di quell’Ordine. Infine la legge del 7 luglio 1866 soppressiva di tutti gli Ordini religiosi, estesa al territorio di Roma con altra del 19 giugno 1873, provocava ingenti danni morali e materiali, pur prevedendo speciali riguardi per alcune sedi monastiche più prestigiose, quali Montecassino, la SS. Trinità di Cava dei Tirreni, S. Martino delle Scale nell’arcidiocesi di Palermo, Monreale, La Certosa di Pavia. Fonti e Bibl. essenziale P. Lugano (ed.), L’Italia benedettina, F. Ferrari Ed., Roma 1929; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, Jaca Book, Milano 19832; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; Dall’eremo al cenobio. La civilta monastica in Italia dalle origini all’età di Dante, Scheiwiller, Milano 1987; G. Andenna (ed.), Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio. 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Rapetti, Storia del monachesimo medievale, Il Mulino, Bologna 2013. _________________________________ A cura della Redazione Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia” integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta “Italia” compare sopra la città di Roma OSPEDALI e la Chiesa in Italia Autore: Marina Garbellotti Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre attualmente indica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a partire dall’età moderna, su quelli che si specializzarono nella cura degli ammalati rinviando alla voce assistenza un quadro di insieme delle attività caritative. Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes, conobbero una particolare diffusione in epoca cristiana in virtù del dovere dell’ospitalità presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come istituzioni indipendenti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e bisognosi in crescente aumento e movimento. In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio, Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici, Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetto medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di affermazione territoriale e di preminenza sociale. La presenza femminile negli ospedali non è un elemento trascurabile. Furono numerose le donne che operarono individualmente a favore dei luoghi pii, come pure le comunità femminili, tra cui si possono ricordare a titolo meramente esemplificativo le Oblate ospedaliere terziarie francescane di Santa Chiara al servizio dell’ospedale di Santa Chiara di Pisa, e le Oblate ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze, sorte per assistere gratuitamente le inferme povere. Le donne, però, religiose o laiche che fossero, secondo un tratto che caratterizzerà il loro operato almeno sino all’Ottocento, non ricoprivano ruoli direttivi, bensì di servizio. La moltiplicazione degli ospedali fu indotta anche e principalmente da quel rinnovato sentimento religioso, storiograficamente definito ‘rivoluzione della carità’, che incoraggiò uomini e donne a consacrare se stessi e i propri beni alle opere di beneficenza. Tra le espressioni peculiari di questa devotio laicale, che caratterizzò l’Europa medioevale, vanno menzionate le comunità miste, formate da chierici, conversi e laici di entrambi i sessi, e dedite alla conduzione di luoghi di ospitalità. La peculiarità di queste comunità risiede nell’ampia presenza di laici, uomini e donne celibi o coniugati. Essi consacravano se stessi e i propri beni alle opere di carità e partecipavano direttamente alla vita religiosa mutuandone alcune pratiche come la penitenza, il voto di povertà e di castità, senza tuttavia abbracciare completamente lo stato ecclesiastico. L’esperienza che tuttavia più connota questo periodo è quella confraternale. Sebbene il panorama medievale contempli ospizi promossi da istituzioni comunali, vescovi, uomini comuni, monasteri, corporazioni di arte e di mestiere, quelli fondati da confraternite conobbero una particolare proliferazione. Oltre agli aspetti devozionali tali associazioni accordarono particolare rilevanza alla carità delle opere colmando profonde lacune sociali che si condensavano nell’aiutare le frange più marginali della popolazioni. Questa diffusa propensione ad aiutare i poveri si manifestava nella distribuzione di viveri e di elemosine e nella fondazione di ospedali. Fatta eccezione per i lebbrosari, gli ospedali accoglievano nella medesima struttura poveri e infermi colpiti da diverse affezioni e dispensavano elemosine e beni di prima necessità agli indigenti, svolgendo una significativa funzione semipubblica in un settore assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo. Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti, tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati. Da un punto di vista giurisdizionale i loca pia ricadevano sotto la tutela episcopale, come aveva stabilito il concilio di Vienne del Delfinato (1311). Riaffermando antecedenti norme canoniche, l’assise aveva legittimato il vescovo a controllare la gestione patrimoniale degli ospedali e la condotta del personale ivi operante, con l’eccezione di quelli gestiti dagli ordini ospedalieri sottoposti alla vigilanza del loro capo spirituale e giuridico. Di fatto questi controlli avvenivano in occasione delle visite pastorali, in età medievale rare, lasciando dunque agli amministratori dei loca pia ampi spazi di azione. Questa situazione rimase pressoché invariata sino alla seconda metà del Quattrocento, allorché l’espansione demografica, il rialzo dei prezzi, il susseguirsi di carestie e di epidemie provocarono un notevole aumento del numero degli indigenti. La povertà divenne un grave problema sociale che le autorità di governo tentarono di risolvere regolando il fenomeno della mendicità e rinnovando la rete ospedaliera esistente formata da ospizi generici e privi di una regia che li coordinasse. Allo scopo di razionalizzare il sistema assistenziale, a partire dalla seconda metà del XV secolo, fu avviata la cosiddetta riforma ospedaliera, che seguì percorsi differenti e non ebbe gli stessi esiti. In alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. È tuttavia opportuno precisare che non tutti gli ospedali maggiori erano chiamati a coordinare gli altri istituti assistenziali cittadini, come avvenne ad esempio per quello di Milano; inoltre, la loro presenza non impediva la nascita di nuovi enti caritativi. In altre città come Verona, Venezia, Padova, Bologna, non sorse alcun ospedale maggiore e fu riorganizzato il sistema caritativo esistente: alcuni enti furono soppressi, altri convertiti in ospedali o in istituti specializzati, altri ancora fondati ex novo. Entrambe le soluzioni miravano a formare una rete assistenziale articolata in grado di accogliere in enti distinti ammalati generici, infermi incurabili, esposti, fanciulle bisognose, ragazzi abbandonati a se stessi, poveri inabili, donne dall’onore compromesso e sole. Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche, intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali, identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi visibilità e potere economico. Furono queste motivazioni a indurre alcune Compagnie d’arte della città di Modena a ostacolare l’unione delle Opere Pie e degli Ospedali caldeggiata dalle autorità amministrative e attuata a fatica nel 1541. I progetti di unificazione e di riorganizzazione della rete assistenziale furono osteggiati altresì dalle autorità ecclesiastiche, contrarie alla soppressione di enti appartenenti alla propria sfera giurisdizionale, come accadde a Milano a seguito del disegno messo in atto da Francesco Sforza per unificare gli ospedali. Nonostante queste vicende, prevalse la via della collaborazione, del compromesso, e le autorità ecclesiastiche appoggiarono e parteciparono attivamente alla riforma ospedaliera. Da parte sua la Chiesa cercò di riaffermare la giurisdizione sulle istituzioni ospedaliere riconfermando con il Concilio di Trento il diritto di visita dell’ordinario sui luoghi pii (Sess. XXII c. 8 de ref.), e attribuendogli la facoltà di controllare annualmente la contabilità (Sess. XXII c. 9 de ref.). I controlli vescovili non sempre poterono svolgersi pacificamente, essi incontrarono resistenze, a volte forti opposizioni da parte dei rettori ospedalieri, pienamente appoggiati dalle autorità laiche, e furono tendenzialmente circoscritti agli aspetti spirituali. Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di separare le rispettive sfere di competenza. In questa cornice offrirono una risposta convincente le numerose congregazioni religiose, nate nel corso del Cinquecento e distintesi per il dinamismo nell’ambito caritativo e sanitario, fra le quali è opportuno segnalare quella dei Teatini, dei Camilliani, dei Fatebenefratelli. L’attività sociale dei Chierici Regolari Teatini si esprimeva, oltre che nel conforto ai condannati a morte e ai carcerati, nell’assistenza agli ammalati incurabili, proseguendo l’opera dei membri dell’Oratorio del Divino Amore. Tra le iniziative assistenziali sostenute da questa società vi fu la fondazione in varie città italiane – la prima esperienza fu quella genovese del 1499, replicata poi a Roma e a Napoli – di ospedali per gli incurabili, cioè per le persone colpite dalla sifilide. Tra gli affiliati del Divino Amore molti afferirono alla congregazione dei Teatini, il cui co-fondatore Gaetano Thiene, contribuì a riorganizzare l’ospedale della Misericordia di Vicenza e nel 1522 promosse a Venezia la fondazione dell’ospedale degli incurabili, grazie anche alla sollecitudine di alcune nobildonne veneziane. Altrettanto incisiva nel settore ospedaliero fu l’opera dei Chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Camilliani dal nome del fondatore Camillo de Lellis, e l’attività degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio o Fatebenefratelli, tutt’oggi attivi in Europa e in altri continenti. Accanto ai tre voti sostanziali della vita religiosa (povertà, castità ed obbedienza), questi ultimi ne pronunciavano un quarto con il quale si impegnavano a soccorrere i bisognosi e gli infermi. I Camilliani, nati come congregazione di secolari dediti all’assistenza degli ammalati ricoverati nel San Giacomo, l’ospedale romano riservato agli incurabili, si configuravano come una sorta di corpo infermieristico specializzato nella cura degli infermi, soprattutto di quelli colpiti da malattie gravi e pericolose come la sifilide e la peste, nonché nell’organizzazione dell’assistenza all’interno degli ospedali. La voce di questo impegno si diffuse rapidamente e le loro prestazioni furono richieste, a fianco o in sostituzione del personale laico, a Genova, a Napoli, a Firenze, a Mantova, a Bologna e a Milano, presso il prestigioso Ospedale Maggiore, che negli anni Novanta del Cinquecento mostrava considerevoli inefficienze sul piano organizzativo. Ugualmente rilevante fu l’opera dell’Ordine regolare laicale degli ospedalieri di San Giovanni di Dio – detti popolarmente Fatebenefratelli – organizzatisi per proseguire l’opera del portoghese Giovanni Ciudad (1495-1550), che pure professavano un quarto voto di servire gli infermi. A un secolo dalla sua morte nella penisola italiana esistevano sei province (romana, siciliana, napoletana, milanese, barese e sarda) e gli ospedali fondati o amministrati dai Fatebenefratelli in Europa erano circa 300. Il reclutamento di tali religiosi negli ospedali dipendeva dalle loro competenze sanitarie e soprattutto dalla possibilità di risparmiare sulle spese di gestione, ma non fu privo di frizioni. La loro presenza infatti poteva interferire, persino rompere, gli equilibri instauratisi tra i diversi attori politici, come accadde ai Camilliani in servizio dagli anni Novanta del Cinquecento presso l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel corso del tempo essi divennero invisi a più ambienti: a quello diocesano che si era visto sottrarre un importante campo di intervento, nonché ai rettori dell’ospedale milanese, voce del patriziato cittadino, che temevano di vedere compromessa la direzione dell’istituto. L’esito di questi attriti fu dapprima la riduzione del numero dei religiosi, per giungere nel 1632 all’interruzione della collaborazione. Leggendo le direttive sulla preparazione medica di questi religiosi si ricava l’impressione di una particolare attenzione alla formazione. Le costituzioni dei Fatebenefratelli risalenti al 1596, ad esempio, prevedevano che prima di essere ammessi al noviziato i candidati dovessero essere esaminati dal ‘fratello maggiore’ e inviati in un ospedale della congregazione per imparare a servire e assistere i degenti. Si tratta di proposte importanti per l’epoca, se si tiene presente che sovente negli ospedali gli infermieri non possedevano specifiche competenze mediche. Trattandosi però di testi normativi si rende necessario verificare se queste direttive fossero un manifesto di intenti oppure se e in che misura venissero messe in pratica. Contribuisce ad ampliare le conoscenze sull’argomento l’esperienza dell’ospedale fiorentino intitolato a San Giovanni di Dio amministrato dai Fatebenefratelli. I ricoverati, per lo più affetti da febbri, erano assistiti e curati dai religiosi infermieri, i quali possedevano solide conoscenze nell’arte della spezieria e competenze di bassa chirurgia. Per quanto concerne l’attività delle congregazioni religiose femminili, almeno in età moderna, esse privilegiarono l’istruzione e l’aiuto alle fanciulle povere. Tra le poche dedite all’assistenza degli infermi si possono menzionare le Figlie di Carità. Istituite in Francia da Vincenzo de’ Paoli nel 1633 per il soccorso a domicilio dei poveri e degli infermi, esse si diffusero rapidamente in altri paesi, giungendo anche in Italia. Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale, destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati –, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli. Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa. Nonostante la complessità delle opere descritte, a contrassegnare l’Ottocento fu soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere femminili vocate all’assistenza degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli ospedali. Accanto alle Figlie di Carità, alle cui regole si ispirarono e si modellarono molte famiglie religiose, iniziarono a prestare la propria opera negli enti ospedalieri le Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, nate a Lucca per volontà di Maria Domenica Brun Barbantini, le Sorelle della Misericordia, fondate da don Carlo Steeb a Verona nel 1840, le Ancelle di Carità, istituite nel 1840 da Paola di Rosa, per menzionarne soltanto alcune. Le religiose divennero una presenza abituale nei reparti ospedalieri consentendo alla Chiesa di riguadagnare nell’ambito assistenziale un significativo spazio e ruolo sociale. Fonti e Bibl. essenziale G. Albini, Carità e governo della povertà (secoli XII-XV), Unicopli, Milano 2002; R. Amico, Le monache dell’Ordine di S. Giovanni: il monastero di Pisa, in M. Aglietti (ed.), Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, ETS, Pisa 2009, 323-349; J. Arrizabalaga – J. Henderson – R. French, The Great Pox. The French Disease in Renaissance Europe, Yale University Press, New Haven – London 1997; E. Diana, San Matteo e San Giovanni di Dio. Due ospedali nella storia fiorentina, Le Lettere, Firenze 1999; A. Esposito – A. Rehberg (edd.), Gli ordini ospedalieri tra centro e periferia, Viella, Roma 2007; A.G. 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Le confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, La Città del Sole, Napoli 2002. _________________________________ A cura della Redazione Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia” integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta “Italia” compare sopra la città di Roma OSPEDALI e la Chiesa in Italia Autore: Marina Garbellotti Chi intenda ripercorrere la storia ospedaliera italiana non può esimersi dal considerare il rilevante contributo apportato dagli uomini e dalle donne di Chiesa. Essi scrissero un capitolo significativo di questa storia promuovendo la fondazione di ospedali, prestando servizio nelle strutture sanitarie civili e attivando corsi per la formazione del personale sanitario di base. A questa ragguardevole presenza, però, non corrispondono altrettante ricerche. Molti degli studi esistenti si concentrano sulle questioni istituzionali, in particolare sui secolari contrasti tra Stato e Chiesa, che hanno connotato la storia ospedaliera e quella assistenziale italiana, mentre tendono a soffermarsi marginalmente sull’organizzazione e sul grado di medicalizzazione degli ospedali religiosi, sulla preparazione del personale sanitario ivi operante, rendendo la descrizione di un quadro d’insieme parziale. Quanto segue non può non riflettere tale indirizzo storiografico. Proseguendo l’orientamento dei governi della Restaurazione, negli anni immediatamente successivi all’Unità la politica sociale promossa dallo Stato è dominata dall’obiettivo di realizzare l’accentramento amministrativo degli ospedali. Tale processo, destinato a protrarsi sino all’entrata in vigore della legge ospedaliera del 1968, è segnato da non poche contraddizioni. Se per un verso lo Stato cercò di estendere il controllo sul sistema assistenziale, per l’altro non riuscì, o meglio non intese, sottrarre la gestione delle opere pie ai tradizionali amministratori. Questa tendenza emerge chiaramente dalla legge sulle opere pie del 1862: si tratta della legge Rattazzi varata in Piemonte nel 1859 e ripresa dopo l’Unificazione. La norma, che prevedeva l’istituzione delle Congregazioni di Carità in ogni comune del Regno d’Italia col compito di coordinare gli interventi a favore dei bisognosi, non intervenne sull’organizzazione delle opere pie e sul loro ambito di azione lasciando ai notabili locali e agli ecclesiastici la gestione degli istituti ospedalieri e caritativi. Beninteso, tale scelta fu dettata dal proposito di salvaguardare le reti clientelari e i profitti economici derivanti dalla direzione degli enti caritativi, mentre lo Stato assumeva esclusivamente il ruolo di garante mediante un’attenta sorveglianza sull’operato degli istituti assistenziali e di beneficienza. Poco prima dell’approvazione della legge sulle opere pie il governo avviò un’inchiesta per censire e per conoscere la situazione delle opere pie attive nel territorio nazionale al 1861 in relazione al numero, alle finalità, alla natura giuridica e all’aspetto patrimoniale. Secondo i dati raccolti, pubblicati tra gli anni 1868-1873 in 15 volumi – uno per regione, ai quali ne venne aggiunto uno per il Lazio –, le opere pie erano 20.123, di cui 955 ospedaliere (pari al 5% del totale) e nello specifico 897 erano ospedali per infermi, 23 ospizi di maternità e 35 manicomi. Massiccia era presenza delle Opere miste di beneficenza e di culto in tutto 8.744. Come è noto, le tensioni tra Stato e Chiesa culminarono con la legge eversiva del 1866 (estesa alla Provincia Romana nel 1873), che decretava la soppressione degli «Ordini, Corporazioni e Congregazioni religiose regolari e secolari, Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico». Di fatto, però, nessun ordine religioso fu soppresso o scomparve. Non era questo l’intento del legislatore, il quale si proponeva di togliere il riconoscimento giuridico agli istituti religiosi e di trasferirne i beni nelle casse statali. Inoltre, la disposizione non fu applicata ovunque con rigore e soprattutto le amministrazioni locali non erano in grado di rinunciare al servizio prestato dai religiosi e dalle religiose negli ospedali, nelle scuole e nel settore assistenziale. Ciò non significa che il provvedimento fu inefficace. In questo contesto merita di essere menzionato quanto accadde a Roma, dove, dopo il 1873, furono chiuse o vendute 134 case religiose abitate da circa 3000 mila persone. Per effetto della legge, poi, le cui ripercussioni si avvertirono anche dopo qualche decennio, alcuni ospedali diretti dagli ordini ospedalieri dovettero cessare la loro attività – così accadde a Padova e a Cremona per i nosocomi dei Fatebenefratelli – e molti religiosi furono estromessi dai luoghi di cura. Sintomatico il caso del manicomio veneziano di San Servolo, dal quale i Fatebenefratelli dovettero ritirarsi dopo averlo gestito per più di un secolo. Nonostante lo Stato perseverasse nel progetto di ridurre la presenza degli istituti ecclesiastici, i religiosi si riorganizzarono. I Camilliani, ad esempio, continuarono a prestare la loro opera nelle case private offrendo soccorso materiale e spirituale agli infermi, e promossero la fondazione delle cosiddette Case della Salute, cliniche private dipendenti dall’ordine dei Ministri degli Infermi, presso le quali i religiosi potevano professare il quarto voto di assistenza agli ammalati. Nel 1890 con l’approvazione della legge Crispi, invano contrastata da cattolici e conservatori, fu compiuto un ulteriore passo nella direzione intrapresa dallo Stato di assoggettare le istituzioni assistenziali. Nell’intento, raggiunto parzialmente, di migliorare e di laicizzare il servizio assistenziale e sanitario, essa trasformava le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza (IPB), dove per opere pie si dovevano intendere gli enti riservati ai poveri, «tanto in stato di sanità quanto di malattia», finalizzati a favorirne «il miglioramento economico e morale» mediante l’istruzione, l’avviamento al lavoro o altre modalità. Definendo enti pubblici le opere pie, il legislatore intendeva sottoporre al medesimo regime giuridico istituti di natura diversa, in particolare quelli rientranti nel sistema caritativo privato ed ecclesiastico, al fine di inserirli nell’organizzazione amministrativa dello Stato. Anche in questo caso il principio fondamentale dell’autonomia delle opere pie fu rispettato, ma venne accentuato il controllo sulla conservazione e sulla gestione dei patrimoni. Il prevalere di interessi localistici e l’importanza delle attività assistenziali e sanitarie sostenute dai religiosi, però, allentarono la rigida osservanza della norma. La sua importanza, tuttavia, risiede nell’introduzione di un principio fondamentale di politica assistenziale, e cioè nell’obbligo di soccorrere chiunque almeno nei casi di urgenza. Cominciava a maturare l’idea che l’ospedale dovesse svolgere un servizio pubblico. Durante il periodo fascista la politica assistenziale mirò a proseguire e a rafforzare il programma di centralizzare la vigilanza sulle istituzioni benefiche e nel contempo favorì la nascita di enti assistenziali nati in seno al partito. Tra gli esiti di questo disegno va annoverata la legge del 1923 che tra i vari provvedimenti estese le attività di controllo sulla gestione amministrativa degli enti di assistenza e di beneficienza (ora denominate IPAB, non più IPB), pur non intaccandone l’autonomia. Fu inoltre ribadito con maggiore rigore il principio che l’assistenza ospedaliera era un diritto pubblico stabilendo la prestazione ospedaliera erga omnes nei casi di urgenza. Seppure lentamente l’ospedale si avviava ad assumere la funzione di luogo di cura dotato di personale specializzato e a servizio di tutti i cittadini. Occorrerà, infatti, arrivare alla legge ospedaliera del 1968 per assistere a una riforma radicale in questa direzione. Prima di illustrare gli elementi salienti di questa norma, è opportuno ricordare che l’orientamento laicista, tratto peculiare della storia dell’assistenza, subì un forte ridimensionamento durante il periodo fascista, allorché, per ragioni di natura esclusivamente politiche, fu concesso alla Chiesa di riguadagnare spazio nell’ambito sanitario e assistenziale. Esempio di questa politica è la legge Ferderzoni del 1926, che riammise gli ecclesiastici nei consigli amministrativi delle istituzioni assistenziali e pochi anni dopo riconobbe agli ordini e alle congregazioni religiose personalità giuridica permettendo, quindi, agli stessi la capacità di acquistare e di possedere. L’attività assistenziale e sanitaria promossa dalle istituzioni religiose riprese dunque vigore. Sempre in questa fase storica, nel 1937 le Congregazioni di Carità furono sciolte e trasformate in Enti comunali di assistenza (ECA) allo scopo di coordinare tutti gli istituti finalizzati all’assistenza generica. Nonostante queste alterne vicende la Chiesa continuò a vigilare sui numerosi ospedali di pertinenza degli Ordini religiosi ospedalieri, quali i Fatebenefratelli, i Camilliani, l’Ordine di Malta. Relativamente a questa tipologia di ospedali un significativo cambiamento avvenne con la già menzionata legge ospedaliera del 1968. In attuazione a quanto disposto dall’art. 32 della nostra Costituzione, che afferma la tutela del diritto alla salute e riconosce tale diritto a tutti, la legge considera l’assistenza ospedaliera un servizio sanitario pubblico destinato all’intera collettività, superando la precedente legislazione in cui il concetto di assistenza era legato a quello di beneficienza. Essa, inoltre, intese conferire un assetto unitario all’organizzazione dell’assistenza ospedaliera, avviando un processo di ‘statalizzazione’ della sanità. Nell’intento di proporre un’organica disciplina in materia, gli ospedali ecclesiastici, al pari degli altri, purché dotati dei requisiti richiesti, potevano essere classificati nell’ambito di una delle categorie di ospedali stabiliti dalla legge per essere inseriti nella programmazione ospedaliera. A seguito di questa norma molti ospedali di pertinenza degli ordini religiosi hanno ottenuto la «classificazione» e di conseguenza assunto valenza pubblicistica. Con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuta nel 1978, non fu introdotta alcuna novità in ordine al regime giuridico-amministrativo degli ospedali ecclesiastici. In Italia il peso della Chiesa nel campo sanitario è diminuito notevolmente rispetto ai secoli passati, nonostante gli ospedali religiosi, privati e classificati, continuino a operare. Diversamente, esso è divenuto incisivo e rilevante in quei paesi extraeuropei dove è carente o inesistente il sistema sanitario pubblico. In questo breve excursus storico corre l’obbligo di affrontare il tema delle suore infermiere per l’imponente ruolo che svolsero nel campo dell’assistenza sanitaria a domicilio e negli ospedali sino alla prima metà del Novecento. Sono innumerevoli le congregazioni femminile, molte delle quali nate nel corso dell’Ottocento, dedite all’assistenza degli infermi, tra le quali si possono menzionare le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli, le Suore della Carità della Thouret, le Figlie di san Camillo, le Sorelle della Misericordia, le Suore di Maria Bambina, e l’elenco potrebbe continuare. L’infermiera religiosa divenne una presenza abituale e non facilmente sostituibile nei luoghi di cura. Pronunciando il quarto di assistenza agli infermi, le suore soccorrevano anche gli ammalati contagiosi ed erano sempre disponibili a prestare servizio. Nel 1902, ad esempio, i religiosi impiegati negli ospedali risultavano 4.313 (70 maschi e 4.243 femmine), e le suore rappresentavano il 40% del personale sanitario, una cifra destinata a crescere nei decenni successivi. La cura degli infermi era vissuta come una missione alla quale votarsi pienamente, caratteristiche queste che plasmarono il profilo di tale figura professionale. Sino agli Settanta del secolo scorso, infatti, essa era associata alla donna preferibilmente nubile e, almeno in Italia, gli uomini furono ammessi alle scuole per infermiere professionali dal 1971. Prima dell’apertura delle scuole infermieristiche laiche, la cui nascita in Italia si colloca solo nel primo decennio del Novecento, in ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, erano dunque le suore ad occuparsi della formazione del personale infermieristico e a prevalere nel corpo infermieristico offrendo un servizio qualificato e a costi ridotti. Ragioni etiche e di decoro proibivano alle suore infermiere di prestare cure agli ammalati uomini e di assistere nei reparti di maternità, tuttavia queste limitazioni furono sovente risolte con l’introduzione di una figura-ponte tra la religiosa e l’ammalato e nel corso del tempo alcuni istituti religiosi ridussero le proibizioni in tal senso. Pur privilegiando altri settori di intervento, la presenza delle religiose infermiere negli ospedali è stata determinante. Secondo i dati raccolti nel 1950 dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, ad esempio, il 26,4%, pari a 34.796 religiose italiane, prestava la propria opera nei servizi sanitari ospedalieri, mentre la maggior parte era impegnata nei servizi scolastici (43,3%) e il 30,3% si dedicava a quelli educativi assistenziali. Dagli anni Cinquanta del Novecento si registra il calo numerico delle religiose infermiere: dal 1975 al 1992 esse passarono da 15.234 a poco più di 10.000 con una flessione tutt’oggi in corso che ha prodotto una inversione di tendenza. Mentre in passato gli ospedali laici assumevano numerose religiose per assolvere compiti sanitari e organizzativi, negli ultimi decenni sono gli ospedali religiosi a ricorrere al personale laico. La curva decrescente delle religiose infermiere si spiega sia con la diminuzione delle vocazioni avvenuta negli ultimi decenni, che ovviamente si ripercuote sulle attività sociali praticate dai religiosi e dalle religiose, sia, e forse soprattutto, con i mutamenti avvenuti nella società civile. Il maggiore spazio conferito all’occupazione femminile ha indotto le religiose a rinunciare all’assunzione dei tradizionali ruoli di infermiera e di insegnante, largamente assunti da persone laiche, per votarsi all’attività sanitaria, assistenziale ed educativa in ambiti più ricettivi tra i quali primeggiano le missioni. Fonti e Bibl. essenziale S. Andreoni, Da Porta Pia agli anni Trenta, in S. Andreoni, C.M. Fiorentino, M.C. Giannini, Storia dell’Ordine di San Camillo. La provincia Romana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, parte terza, 175262; P. Battilani, I protagonisti dello Stato sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 639-670; A. Brusco, L. Biondo (edd.), Religiose nel mondo della salute, Edizioni Camilliane, Torino 1992; P. 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La designazione è generica comprendendo i diversi culti nazionali (si parla di paganesimo greco e di paganesimo romano), i misteri, i culti astrali e altre espressioni religiose diffuse nei primi secoli della nostra era, ma si estende anche agli usi, ai costumi, ai sistemi morali connessi a quella visione del mondo. Il sostantivo deriva dall’aggettivo latino paganus, la cui etimologia non è chiara. Una prima ipotesi vede una stretta connessione con pagus, che significa ‘villaggio di campagna’, ma anche ‘distretto’, ‘cantone’, ‘provincia’, quindi un territorio in cui vi risiede l’autoctono, che è fedele alle tradizioni sacre del luogo e si limita a rendere omaggio agli dei locali, a differenza di chi abita i centri urbani e pratica i culti che vi sono diffusi. Quindi ‘pagani’ sarebbero stati denominati gli abitanti dei villaggi di campagna, nei quali il cristianesimo si diffuse tardivamente e con lentezza. Ma in questo caso la designazione non potrebbe essere anteriore al IV secolo, al tempo cioè in cui in cui l’Impero romano va cristianizzandosi (come attestano due iscrizioni C.I.L. X2, 7112 e C.I.L. VI, 30463 e successivamente altre testimonianze fino a che diviene d’uso corrente). È noto che, per esempio, nell’Alta Italia e in Romagna ancora nei primi decenni del IV secolo, le tracce cristiane sono scarse e ancora decrescono guardando verso Occidente. Una seconda ipotesi valorizza un significato secondario che ha l’aggettivo paganus nel latino classico, ove vuol dire anche ‘civile’ ‘borghese’, ‘non soldato’. In un passo di uno scritto di Tertulliano, risalente ai primi anni del III secolo (De corona 11,5) si legge: «Apud hunc [scilicet Christum] tam miles est paganus fidelis quam paganus est miles fidelis». Ivi lo scrittore vuole dire che il Signore non fa differenza quanto alle condizioni degli uomini e il gioco di parole verte su fidelis, mentre paganus non ha il senso di ‘pagano’ nella accezione tecnica cristiana, ma, nel passo citato, continua a significare ‘civile’, ‘non soldato’. Lo prova un altro luogo tertullianeo del De pallio (4,8): «paganos in militaribus (uestibus). Una terza ipotesi suppone che la parola sia stata adottata nella lingua comune con il senso più largo di ‘particolare’, ‘profano’, di chi non appartiene a un gruppo definito, di chi insomma non è membro di una comunità. I pagani sarebbero stati dunque coloro che non appartenevano al gruppo dei cristiani gli alieni a civitate Dei (cf. Orosio, Hist., Prol 1,9) Mohrmann). Queste le ipotesi che lasciano aperto il problema, pur tentando di giustificare un così deciso trapasso semantico del termine paganus, da un senso profano a un senso religioso. A mio credere, ritengo plausibile la prima ipotesi in quanto è sostenuta da varie ragioni. Nel tempo più antico il significato dei paganus non ha a che fare con il senso religioso assunto successivamente. Inoltre i ‘pagani’, negli scritti degli autori cristiani antichi erano denominati con altri termini. Ancora Tertulliano, intorno al 200, quando scrive un’opera contro di loro, la intitola Adversus nationes, come più tardi farà Arnobio, mentre solamente all’inizio del V secolo Paolo Orosio intitolerà Adverus paganos i suoi Historiarum libri VII (però, come si sa, i titoli delle opere antiche vanno presi con cautela per la tradizione manoscritta che ce li fa conoscere). Il termine nationes (o gentes) traduce il greco ethne, che nella traduzione dell’A.T. dei LXX si contrappone a laos, riferito al popolo santo di Israele (presso gli Ebrei specialmente il termine goyim – plurale di goy – designa i popoli stranieri, i ‘pagani’ in contrapposizione a Israele). A sua volta il N.T. riprende il vocabolo ethne, con il suo derivato, cioè ethnikoi. Infine l’uso dell’aggettivo paganus e del sostantivo paganismus, con riferimento a chi praticava i culti antichi, sono usati, per quanto mi consta, da autori del IV secolo o di secoli successivi. Come si può notare il cristiano definisce il paganesimo a partire da se stesso, in funzione della propria coscienza. Un cenno va fatto a gruppi di persone che rivendicano anche oggi la definizione di ‘pagani’e che esprimono sentimenti di ‘simpatia culturale’ o praticano forme di culti pagani (non solo greco-romani, ma anche germanici o celtici). Essi hanno voce anche in Italia e trovano ispirazione, tra gli altri, in Nietzsche, che ha rivalutato e reinterpretato l’antico movimento. La visione del mondo proposta è, come ben si può capire, profondamente diversa da quella cristiana: per esempio, rivaluta il ‘sacro’, rifiuta la creazione e la storia, esalta i tradizionalismo, respinge l’idea di colpa. Fonti e Bibl. essenziale A von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. ital., Lionello Giordano Editore, Cosenza 1986, 513 ss.; A. Pincherle, in Enciclopedia Italiana, Roma 1949, 922, s.v ‘Paganesimo’; H. Maurier, Teologia del paganesimo, trad. ital., Gribaudi, Torino 1968; Id., in Dizionario delle Religioni diretto da P. Poupard, vol 3, Milano 2007, 1652-1654, s.v. Paganesimo; P. Siniscalco, in NDPAC, A. Di Berardino (ed.), Marietti, Casale Monferrato 2008, 3747-3749, s.v. Pagano-paganesimo; Chr.Mohmann, “Encore une fois: paganus”, in Eadem, Études sur le latin des Chrétiens, t. III, Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi, Roma 1979, 277-289 (ivi si sono dati i riferimenti dei contributi di autori moderni che hanno proposte le varie ipotesi citate); L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, Dehoniane, Roma 1988; F. Ruggiero, La follia dei cristiani. La reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002 (alle pp. 335 ss. ampia bibliografia). L. Lugaresi, “Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica del neopoliteismo contemporaneo,” in Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità, a cura di A.M. Mazzanti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009, 282-347. _________________________________ A cura della Redazione Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia” integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta “Italia” compare sopra la città di Roma PAGANESIMO e la Chiesa in Italia Autore: Angelo G. Dibisceglia Con la libertà religiosa introdotta dalla Rivoluzione Francese, l’antico concetto di paganesimo – fino a quel momento utilizzato per indicare forme religiose altre ed estranee rispetto al cristianesimo ufficiale, oppure espressioni di religiosità popolare identificate con proiezioni magiche e, per questo, ritenute poco ortodosse dalla religione ufficiale – assunse un inedito significato. Se fino alla fine del XVIII secolo, la tradizionale alleanza fra trono e altare aveva rappresentato l’unica condizione in grado di assicurare al cristianesimo di Roma di vivere influente e libero da ogni persecuzione e, quindi, di compiere la sua missione evangelizzatrice, il secolo dell’Illuminismo – di fatto – favorì lo sgretolamento di quel rapporto, determinando la secolarizzazione dello Stato e, con essa, la nascita della laicità che, nei confronti della Chiesa, attraverso una riduzione degli spazi gestiti fino a quel momento dal cattolicesimo, assunse il volto della libertà religiosa. A partire da quel momento, la Chiesa non doveva più soltanto fare i conti con i movimenti religiosi alternativi alla fede cristiana e il paganesimo non era più soltanto ciò che si contrapponeva alla Chiesa, ma cominciò a simboleggiare – anche – l’insieme dei fenomeni che, strumentalizzando la Chiesa, avrebbero mirato al raggiungimento dei propri obiettivi. In quel contesto, un ventaglio più ampio offriva percorsi di salvezza, in alcuni casi paralleli a quelli proposti dalla Chiesa cattolica, in altri opposti alla fede di Roma. In alcuni Paesi europei quei processi, a partire dalla metà del XIX secolo, con la pubblicazione nel 1848 del Manifesto del Partito Comunista di Carlo Marx e Federico Engels, assunsero il volto del socialismo la cui diffusione sfociò, in breve, nella lotta di classe. In Italia, la definitiva affermazione della politica liberale sancita dal principio cavouriano di una “libera Chiesa in libero Stato”, nonché la velata diffusione delle logge massoniche, definirono ulteriormente l’estraneità della Chiesa cattolica da una società caratterizzata da notevoli progressi umani, ma anche e soprattutto da profondi turbamenti sociali. Il processo di laicità e di liberalizzazione innescato dalla rivoluzione francese e sancito dalla rivoluzione industriale diventava, quindi, un ineludibile percorso in grado di guidare la società verso ambiti sempre più estranei – perchè lontani – alla Chiesa. Di fronte a quella situazione, la Chiesa subì un senso di emarginazione, affidandosi in un primo tempo all’arma della condanna con la pubblicazione del Sillabo nel 1864, in una fase successiva al proporre una via alternativa alla lotta di classe con la pubblicazione della Rerum novarum di Leone XIII nel 1891. I primi anni del Novecento registrarono il diffondersi del modernismo, che minò alla base l’infallibilità del pontefice, e della conseguente “guerra al prete”, ufficialmente condannato il 3 luglio 1907 con il decreto Lamentabili del Sant’Uffizio e, di lì a poco, con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907). Nuove forme di paganesimo si svilupparono in Italia in concomitanza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando il conflitto generò la “sacralizzazione della guerra”, impegnando vescovi e clero – animati da spirito nazionalistico su diversi fronti – a benedire truppe e armi. Anche il primo dopoguerra registrò fenomeni pagani come l’accentuarsi dei particolarismi e degli egoismi nazionali, la sopraffazione dei vinti, la mancanza di qualsiasi solidarietà fra le nazioni, favorendo la nascita di miti – come la “vittoria mutilata” in Italia – che, nonostante tutto, continuarono a seminare odio. Quei miti non solo rafforzarono il nazionalismo, ma lo resero irrazionale, favorendo l’esigenza di un totalitarismo che, in una società scristianizzata, rappresentò il tentativo di colmare il vuoto causato dalla mancanza di valori assoluti. Fu la sacralizzazione della politica che, come valore assoluto ed unico, annullò qualsiasi libertà, anche quella di pensiero. Nacquero e si svilupparono da quelle premesse, nelle nazioni dove più debole fu il senso della democrazia, i regimi totalitari: Mussolini in Italia, Salazar in Portogallo, Franco in Spagna, Hitler in Germania. Sistemi di vita che individuarono nella religione uno dei punti di appoggio per la propria affermazione ma che, alla fine, non si lasciarono cristianizzare. Quei sistemi, nel tentativo di assolutizzare la politica, cercarono di sostituirsi all’esperienza religiosa, tentando di confinare la religione in un ambito secondario della società italiana. In quelle stesse nazioni, la Chiesa cattolica svolse un ruolo da protagonista, se non proprio primario. In quegli stessi anni, infatti, si passò da una fase di dialogo fra Stato e Chiesa a delle importanti concessioni ricevute dalla Chiesa cattolica. Fu l’epoca dei concordati che non significarono soltanto riconoscimento di un ruolo, ma talvolta rappresentarono un vero ricatto e una sofferta e silenziosa strumentalizzazione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale – e la condanna di papa Pio XI quasi simultanea dei totalitarismi nazista pagano (enciclica Mit brennender Sorge – 1937) e comunismo ateo (Divini Redemptoris – 1937) – la Chiesa di Pio XII dimostrò che la democrazia non era più percepita semplicemente come un sistema di governo tra gli altri, ma piuttosto come un sistema di valori conforme ai postulati della legge naturale e – per tale ragione – in perfetta consonanza con lo spirito del Vangelo. Furono i principi ispiratori dell’impegno dei cattolici nell’Italia del secondo dopoguerra, quando la Chiesa, attraverso la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e la scomunica dei comunisti decretata nel luglio 1949, riconquistò il monopolio per la cristianizzazione della società. In quel contesto, papa Pio XII ribadì la posizione equidistante della Chiesa dagli schieramenti che, nel clima della Guerra Fredda, stavano regolando l’assetto della geopolitica internazionale, e richiamò l’autorità ecclesiale – in quanto realtà “sovranazionale” – a contribuire alla realizzazione di un nuovo modello di società, diversa al comunismo di origine sovietica e dal capitalismo di matrice americana. Di fronte alla inedita diffusione dei processi di secolarizzazione – come il pericolo di una nuova propaganda protestante frutto della presenza alleata in Italia durante il più recente conflitto – e gli effetti di una società ormai caratterizzata dagli effetti del boom economico, gli strumenti a disposizione della Chiesa per individuare e dare risposte mostrarono la loro inadeguatezza. Erano i primi segni di un paganesimo che ritornava sotto le allettanti prospettive del progresso. In Italia non mancarono i timori dell’avvento di un società senza Dio determinata e affrettata anche dalla disattenzione e dalla negligenza degli stessi credenti. In quegli anni, auspicando un profondo rinnovamento morale della nazione, la Chiesa italiana richiamò il Paese a una unità duratura e affermò la propria prerogativa a intervenire per la determinazione, secondo un progetto di matrice pacelliana, di una società fondata sui principi della “restaurazione cristiana”. In quel contesto fu l’episcopato a farsi promotore di una concezione della quotidianità basata sulla diffusione di corretti costumi cristiani, sul ritorno alla moralità della esistenza degli individui, sulla cura della gioventù e su un corretto uso dei mezzi di comunicazione. Era il progetto verso la cui realizzazione la Chiesa in Italia aveva puntato fin dalla fine del secondo conflitto mondiale, ispirato dalla figura e dal magistero di Pio XII. In quel clima fu chiaro che la contemporaneità esigeva un approccio diverso alle diverse problematiche prospettate da una società diversa perché nuova. Era necessaria una fase di aggiornamento, assicurata dalle conclusioni del Concilio Vaticano II. La mondializzazione registrata a più livelli – sviluppo economico, demografico, sociale – tra gli Anni Sessanta e Settanta impose una ridefinizione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle diverse forme di modernizzazione. In quel contesto si svilupparono nuove forme di secolarizzazione che, conseguenza dei nuovi stili di vita introdotti dal benessere sociale, finirono per innescare forme di neopaganesimo, all’interno delle quali, ancora oggi, secolarismo, scristianizzazione e relativismo continuano a impegnare l’etica e la morale cattolica. Fonti e Bibl. essenziale A. Acerbi, La Chiesa nel tempo. Sguardi sui progetti di relazioni tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Vita e Pensiero, Milano 1979; G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Guida Editore, Napoli 1983; G. Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico. L’inchiesta parlamentare sulla miseria, 1951-1954; P. Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2004; A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Editori Laterza, Roma-Bari 1991; F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa Cattolica verso il terzo millennio, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007. _________________________________ A cura della Redazione Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia” integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento Paola Picardi Paolo Fusar Imperatore Nato nel 1981, ordinato prete nella diocesi di Cremona nel 2007, licenziato in Storia della Chiesa (Alberico e il governo di Roma nel Medioevo – 2010), ha discusso la tesi dottorale in Storia della Chiesa presso la Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana di Roma (Il tavolo del Cardinal nipote a quarant’anni dal Concilio di Trento – 2014). Insegna presso gli Studi Teologici Riuniti delle diocesi di Crema, Cremona, Lodi e Vigevano e presso l’Istituto di Scienze Religiose Sedes Sapientiae a Crema. Paolo Siniscalco Vita e Opere ….