Prefazione Enrico Berlinguer tra Orwell e Steve Jobs
Transcript
Prefazione Enrico Berlinguer tra Orwell e Steve Jobs
Prefazione Enrico Berlinguer tra Orwell e Steve Jobs di Ferdinando Adornato Penso che l’era moderna si possa dividere, e certamente si dividerà per gli storici, in due grandi epoche: a.J. e p.J. ante Jobs e post Jobs. Il segno di Steve Jobs sulla vita del pianeta si è rivelato, infatti, l’epifania di un vero e proprio salto di civiltà. L’umanità a.J. è già di fatto (e sempre più così verrà considerata) espressione di uno stadio inferiore dell’evoluzione rispetto all’umanità p.J. L’homo sapiens sapiens si va trasformando nell’homo technologicus. La geniale intuizione di marketing del fondatore della Apple fece in modo che proprio l’orwelliano 1984 diventasse l’anno zero della nuova civiltà. L’anno in cui fu lanciato sul mercato il computer Macintosh. Uno scatolotto beige con monitor integrato, venduto 5 con mouse e tastiera. Il primo personal FRPSXWHU FRQ LQWHUIDFFLD JUDÀFD /D prima pietra della nuova civiltà. La seJXLWLVVLPDÀQDOHGHO6XSHU%RZOYHQQH illuminata dal celebre spot pubbliciWDULR GHO 0DF ÀUPDWR GD 5LGOH\ 6FRWW Titolo: appunto, 1984. Il portale era spalancato. Nel 2001 sarebbe arrivato l’IPod. Nel 2007 l’IPhone. Nel 2010 l’IPad. Signore e signori, il futuro. *** Nel novembre del 1983 Enrico Berlinguer era un uomo segnato dalla storia. Le sue eleganti giacche di tweed, i suoi occhi miti e profondissimi, la perenne Turmac sulle labbra a mascherare appena la dolcezza del sorriso, non riuscivano a nascondere le riottose correnti che contrastavano la sua navigazione politica. La stagione della solidarietà nazionale si era appena malamente conclusa e, con la morte di Moro, anche il leader comunista si era improvvisamente trovato senza bussola. Come se anche la sua strategia fosse rimasta senza vita, lì nel bagagliaio di quella Renault rossa in via Caetani. Quasi tutti gli analisti (ma an6 che molti dirigenti del Pci) esattamente questo pensavano: che il suo tempo poOLWLFR IRVVH ÀQLWR /D VYROWD RSHUDLVWD H antigovernativa, sancita ai cancelli della )LDWQHOVHWWHPEUHVFRQÀWWDDSSHna un mese dopo dalla “marcia dei quarantamila” che avrebbe portato Cesare Romiti al dominio assoluto in azienda) aveva immalinconito e incattivito un partito che, solo pochi anni prima, aveva VÀRUDWRO·DSRJHRGHOSRWHUH'LOuÀQRDO famoso referendum sulla scala mobile, che Berlinguer fece in tempo a lanciare ma non a subirne il fallimentare esito, si era avviata per lui una tormentosa via crucis. Persino il mito della “diversità” del Pci era sul viale del tramonto e il sacrosanto impeto del leader sardo nel GHQXQFLDUH OD ´TXHVWLRQH PRUDOHµ ÀQu anch’esso per isolare un partito del quale si continuava ad apprezzare la predica etica, ma si cominciava a contestare il pulpito. Anche dal punto di vista dei comportamenti pubblici. *** Ero di fronte a Berlinguer, in quel novembre del 1983, nella mitica stanza 7 del segretario del Pci, al secondo piano delle Botteghe Oscure. Più di ventotto anni fa. Per la politica, anni luce. Io avevo (oggi direi appena) ventinove anni. Ero uscito dal Pci da tre anni e, di lì a qualche mese, dopo la morte di Berlinguer, avrei lasciato anche «l’Unità». Avevo chiesto l’intervista in realtà senza troppe speranze. Innanzitutto per una questione politica: ero uscito dal partito perché entrato in urto con la sua leadership e dopo essere stato attaccato proprio da Berlinguer dal podio del temutissimo Comitato centrale, come una sorta di dissidente in erba. Ma anche per una questione editoriale: la liturgia voleva che un solo giornalista dell’«Unità» avesse il privilegio di “parlare con il Capo”, ciò che a quel tempo spettava all’indimenticato Ugo Baduel. Viceversa, a sorpresa, da Botteghe Oscure arrivò il via libera. 1984: speciale sulla “profezia” di Orwell. Il colloquio con Berlinguer avrebbe aperto un supplemento per il quale avevo predisposto contributi di un certo rilievo: tra gli altri, Isaac Asimov, Heinrich Böll, Massimo Cacciari, Federico Fellini, Ken 8 Follett, Günter Grass, Jacques Le Goff, 5R\ 0HGYHGHY &HVDUH 0XVDWWL /HRnardo Sciascia. Una parte della redazione e del partito non riteneva il tema e OHÀUPHVXIÀFLHQWHPHQWH´QD]LRQDOSRpolari” per un giornale come «l’Unità». Anche per questo già il semplice sì di Berlinguer fu un segnale di innovazione. E ricordo, con un pizzico di orgoglio retrospettivo, che il giorno dell’uscita, il 18 dicembre 1983, «l’Unità» diffuse oltre un milione di copie. Ma le novità OLWXUJLFKHQRQÀQLURQRTXD/·XOWLPDVL manifestò al momento stesso dell’intervista. Era noto: non c’era incontro di Enrico Berlinguer che non venisse accompagnato dalla presenza materna di Tonino Tatò. A limare le parole del leader, a monitorarne i concetti. Con il movimento degli occhi, oppure quando l’intervento appariva più urgente, con quello dell’intero corpo, che la sedia a quel punto non bastava più a contenere. Ebbene quella volta Berlinguer, con un gesto nascosto della mano, fece segno a Tatò di lasciarlo da solo. Cominciò così quella che sarebbe stata l’ultima intervista di un certo peso 9 del segretario del Pci prima della sua scomparsa. Oggi mi mette i brividi pensare che quel giorno mancavano solo sette mesi al momento nel quale la vita lo avrebbe abbandonato. L’11 giugno del 1984, dopo un comizio a Padova. Proprio mentre Steve Jobs lanciava quel futuro sul quale Berlinguer si interrogava. La macchina del tempo umano sa essere capricciosa e crudele. Ripensandoci poi, anche per me quell’intervista sarebbe stata una sorta di “ultimo atto”. L’ultimo atto di permanenza nella stagione della mia formazione. Proprio dopo la morte di Berlinguer, infatti, avrei attraversato la “linea d’ombra”, cominciando un lungo pellegrinaggio che, dalla politica al giornalismo e poi ancora alla politica, PLDYUHEEHLQÀQHFRQGRWWRGRYHDOORUD non avrei immaginato: tra gli eredi delOD'F8QSDUWLWRFKHDYHYRPROWRDPmirato ma sempre contrastato. È stato però per me come un ritorno a casa: perché quello era il partito di mio padre, che molto avevo amato ma sempre contrariato. Gioco della sorte, si chiamava anche lui Enrico e sarebbe morto 10 esattamente un anno dopo Berlinguer. Il più grande mistero della vita sono le sue sliding doors. Ma una cosa è certa: nessun software sarà mai in grado di leggere il nostro destino. La tecnica non può sostituirsi D'LR *** Eppure era proprio questo il timore abbastanza diffuso, all’epoca, in diversi settori dell’intellighenzia europea, comunista e cattolica, ma anche liberale, ancora condizionati dall’egemonia del marcusianesimo. Il timore, cioè, che un nuovo Leviatano si stesse affacciando a dominare l’umanità. Che la tecnologia si costituisse come divinità cui sottomettere ogni pensiero e sentimento. Che essa arrivasse ad alterare, in modo irreversibile, i connotati della vita. Nell’immaginario collettivo del tempo il 2000 era ancora una data mitologica. Una frontiera legata più alla fantascienza che alla vita reale. Il 1984 invece era a un passo. Giungeva perciò utile la metafora di Orwell a permettere di esibire liberamente ogni 11 pessimismo. Nel 1977 la Apple era già stata trasformata da garage in azienda, ma nessuno ancora poteva immaginare i traguardi che l’attendevano o l’avvento di internet e la rete. Nessuno perciò poteva accusare Steve Jobs di progettare il Palazzo del Grande Fratello. Eppure la sola stessa parola “computer”, associata alle mirabolanti previsioni scientiÀFKHLQGXVWULDOLVRFLRORJLFKHGHOOHVXH possibili applicazioni nella vita quotiGLDQDHUDVXIÀFLHQWHDGHVWDUHDVVLHPH alla paura dell’ignoto, il cupo allarme del ÀQLVWHUUDH. Enrico Berlinguer era un uomo con i piedi saldamente piantati nell’era a.J. 'LSLHUDQRWDODVXDSLJQRODWHVWDUGD LQWUDQVLJHQ]D FRQVHUYDWULFH (UD ÀJOLR di un crocevia culturale nel quale cattolicesimo e comunismo si tendevano la mano alla ricerca di quello che veniva chiamato “un nuovo modello di sviluppo”, capace di superare, insieme, i difetti del comunismo e quelli del capitalismo, giudicati, sotto il punto di vista etico, come “mali equivalenti”. Se il collettivismo totalitario conduceva l’uomo all’anomia morale, l’individualismo capita12 listico, da parte sua, lo rendeva schiavo GL XQ·DUWLÀFLRVD DOLHQD]LRQH GHOOH VXH facoltà naturali e della sua dignità. Ed era proprio questa la litania che parte dell’intellighenzia europea cominciava D LQWRQDUH GL IURQWH DOOH ´PDJQLÀFKH sorti e progressive” dell’era elettronica. Perciò quel giorno del novembre ’83, recandomi a Botteghe Oscure, ero preparato a una “messa cantata” della quale ben conoscevo lo spartito. Ma la messa, attesa in latino, diventò una messa rock. Tanto che, una volta pubblicata sotto il titolo Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere, diventò un sonoro schiaffone alla cultura dominante nel Pci. Intendiamoci: riletto oggi, il linguaggio usato (nelle domande come nelle risposte) appare legnoso e accademico e la prosa di Berlinguer esibisce alcuni dei più vieti luoghi comuni dell’ortodossia comunista: la difesa scolastica del marxismo, la concezione unilaterale dei movimenti per la pace, il preconcetto giudizio sul reaganismo, LOULÀXWRGLGHÀQLUHO·8UVVFRPH´,PSHro del Male”, la costante evocazione del VRFLDOLVPR FRPH ÀQH XOWLPR 1RQ F·q 13 da stupirsi. Nonostante la storia abbia celebrato, a ragione, il suo “revisionismo” occidentale, stiamo comunque parlando di una personalità politica SLHQDPHQWHÀJOLDGHOXQPRQGRGLYLVR in blocchi. Ma, rituali ortodossie a parte, il messaggio di fondo lanciato dal segretario del Pci costituì, all’epoca, una vera e propria svolta di inattesa quanto decisa innovazione culturale. In particolare su un punto chiave della critica più diffusa al berlinguerismo: ODGLIÀGHQ]DYHUVRODPRGHUQL]]D]LRQH Invece: proprio nel tempo del Berlinguer che si arrocca nel fortino operaista, del Berlinguer che combatte la degenerazione genetica del craxismo, del Berlinguer che si prepara a lanciare il referendum sulla scala mobile, il segretario del Pci lancia un forte appello a non aver paura del logos della modernità. In genere l’intellettuale non accetta volentieri i fenomeni di socializzazione e teme spesso, ma in buona fede, che la PDVVLÀFD]LRQHSRVVDSRUWDUHDXQDFDGXWD GL WRQR GHOOD FLYLOWj 'HO UHVWR TXHVWR nella storia è già accaduto. L’entrata di 14 nuove masse ha talvolta prodotto davvero la caduta di intere civiltà. In fondo l’Impero Romano non è stato travolto dai barbari che erano appunto “popoli nuovi”? Ma era un fatto ineluttabile. Non ci si può opporre ad avvenimenti di questo genere schierandosi con il vecchio o cercando di mantenere un carattere chiuso al patrimonio culturale. Perché, portata all’estremo, questa diventa una posizione reazionaria. E Berlinguer si spinge anche oltre: Mettiamola così: tutti questi mezzi danno maggiore possibilità di arrivare a una dimensione onnilaterale dell’uomo proprio perché sono portatori di un enorme arricchimento delle conoscenze e offrono la possibilità di una cultura politecnica. È il caso di ricordare che la formula “dimensione onnilaterale dell’uomo” costituiva, sulla scorta di Marx e di *UDPVFL O·HVLWR ÀQDOH GHO FRPXQLVPR e che, viceversa, la sinistra europea, HUDFRPHGHWWRDQFRUDLQÁXHQ]DWDGDO Marcuse dell’Uomo a una dimensione che denunciava la formidabile repressione umana messa in atto dal nuovo capi15 talismo. In questo contesto si può apprezzare la profondità della svolta di Berlinguer: l’odiata modernizzazione diventava addirittura lo strumento di uno spirito umano rinnovato! Al lettore di oggi, specie se giovane, possono sembrare considerazioni scontate e un po’ cervellotiche. Ma, per la cultura dell’epoca, soprattutto per quella “chiesa” ideologica che restava il Partito comunista, si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale. Non si pensi però che in questa svolta si manifesti un inedito “comunista liberale” votato a oscurare il “Berlinguer cattolico” sul quale tanto si è discusso. In realtà (credo consapevolmente) le parole del segretario del Pci riecheggiano considerazioni già in auge nell’ispirazione cristiana. Già nel lontano 1964, Paolo VI, rivolgendosi al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, aveva usato parole assai chiare e suggestive. Il Centro stava elaborando l’analisi elettronica alla Summa Theologiae di san Tommaso e anche alla Bibbia. In 16 quell’occasione papa Montini, nel suo discorso disse: La scienza e la tecnica, una volta ancora affratellate, ci hanno offerto un prodigio, e, nello stesso tempo, ci fanno intravedere nuovi misteri. Ma ciò che a noi basta per FRJOLHUH O·LQWLPR VLJQLÀFDWR GL TXHVW·Xdienza, è notare come codesto modernissimo servizio si mette a disposizione della cultura; come il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze. Non avete voi cominciato ad applicare codesti procedimenti al testo della Bibbia latina? Che cosa avviene? È forse il testo sacrosanto che viene abbassato ai giochi mirabili, o non è codesto sforzo di infondere in VWUXPHQWLPHFFDQLFLLOULÁHVVRGLIXQ]LRQL spirituali, che è nobilitato e innalzato a un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata a eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio? Si tratta di un approccio che è poi riPDVWR FRVWDQWH QHOOH SL VLJQLÀFDWLYH ULÁHVVLRQL WHRORJLFKH 3L UHFHQWHPHQ17 te Benedetto XVI, nella sua Caritas in Veritate ricorda come sarebbe riduttivo considerare la tecnologia soltanto come frutto di una volontà di potenza e di dominio. Al contrario, «essa è un fatto profondamente umano, legata all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia». In altre parole, la tecnologia è la forza di organizzazione della materia da parte dell’uomo come essere spirituale. Il cristiano, quindi, è chiamato a comprendere la natura profonda, la vocazione stessa delle tecnologie digitali in relazione alla vita dello spirito. Ovviamente la tecnica è ambigua (si noti come Berlinguer esprima un concetto simile, usando la parola “neutra”) perché la libertà dell’uomo può essere spesa anche per il male, ma proprio questa possibilità mette in luce la sua natura legata al mondo delle possibilità dello spirito. È probabile che l’insieme di queste ULÁHVVLRQL SRVVDQR HVVHUH ULFRQGRWWH D XQD IRQWH VSLULWXDOH FKH DYHYD LQÁXHQ18 zato anche Berlinguer e cioè quella del JHVXLWD,JQD]LRGL/R\RODLOTXDOHVXJJHULYDGL©FHUFDUHHWURYDUH'LRLQWXWWH le cose». Ma non è il caso di allontanarsi troppo dal nostro sentiero. Ciò che qui conta rilevare è come l’ultimo grande segretario del Pci dicesse al suo popolo FKHLOORUR'LR´O·XRPRRQQLODWHUDOHµVL nascondeva proprio nella modernizzazione, rispetto alla quale ogni paura era “reazionaria”. Berlinguer, in sostanza, dice al suo popolo: non avere paura del cambio di civiltà. Cambio di civiltà, si badi, che avrebbe prodotto un fenomeno clamoroso per il mondo comunista: l’estinzione della classe operaia. E Berlinguer, proprio nel tempo della sua nouvelle vague operaista (nelle vignette veniva orPDLUDIÀJXUDWRFRQODWXWDGDRSHUDLR non più con le vestaglie borghesi con OH TXDOL HUD VWDWR ÀQR D TXHO PRPHQWR HIÀJLDWR GHQXQFLD LO WUDPRQWR GHO “soggetto” dominante di tutta l’impalcatura teorica comunista. I sociologi più avvertiti lo scrivevano certamente da tempo, ma la rilevanza storica è diversa se a dirlo è il segretario del Pci. 19 «Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la proJUHVVLYDGLPLQX]LRQHGHOSHVRVSHFLÀco della classe operaia tradizionale». Berlinguer colloca in avanti di alcuni decenni l’affermarsi della nuova centralità dei lavoratori intellettuali, tecnici e ricercatori. Si sbaglia di poco: ma certamente non sembra lo stesso Berlinguer che tre anni prima arringava gli operai della Fiat o che si apprestava a promuovere il referendum sulla scala mobile in lacerante disaccordo con Luciano Lama. Un piccolo grande mistero la cui soluzione lasciamo volentieri agli storici. La mia personale sensazione è che %HUOLQJXHUYROOHDSSURÀWWDUHGHOO·DXWRUH di 1984 per lanciare un segnale di aperta contestazione (rinunciando perciò a ogni liturgia) a chi lo giudicava ormai al tramonto, in preda a una sindrome di arroccamento. Lui che sostanzialmente da solo, pur con tutte le contraddizioni esistenti, aveva portato il Pci più lontano da Mosca che mai, mal sopportava di essere dipinto come un conservatore. 20 Nessuno può dire se gli anni successivi sarebbero stati caratterizzati da questo insolito Berlinguer aperto, piuttosto che da quello ormai barricato nel fortino. La morte ha deciso di fermare la sua storia. *** ,QÀQH ULOHJJHQGR O·LQWHUYLVWD PL KD colpito la sostanziale omogeneità di vedute sul libro di Orwell tra Enrico Berlinguer e Ken Follett. Entrambi giudicano errata la tesi che ha voluto leggere in 1984 solo un terribile atto d’accusa contro l’Unione Sovietica. Non certo perché l’apologo orwelliano non denunci i crimini che l’uniformità coatta delle dittature produce, quanto perché l’autore, scontato il suo odio per Mosca, teneva più a lanciare l’allarme sul possibile contagio che il Grande Fratello totalitario poteva determinare nelle democrazie occidentali. «Mi ha molto sorpreso rileggendo il libro» diceva Follett nel testo pubblicato nello speciale dell’«Unità» «il modo in cui Orwell si serviva di aspetti della società britannica durante la seconda 21 guerra mondiale come elementi del suo incubo. 1984 ha molti echi dell’austerità, della propaganda e della sospensione dei diritti democratici del tempo di guerra. Il libro fu scritto tra il ’47 e il ’48 ma fu progettato nel ’43 e io immagino che Orwell sia stato colpito dalla naturalezza con la quale un governo poteva, in tempo di guerra, trasformare dei cittadini liberi, anche i più indipendenti, in schiavi volontari». Non so se Follett abbia ragione. Non so se il Grande Fratello Stalin sia poWXWR DUULYDUH D LQÁXHQ]DUH :LQVWRQ Churchill (senza dimenticare, però, che il protagonista del libro si chiama :LQVWRQ 4XHOOR FKH VR q FKH OD GLDlettica tra sicurezza e diritti attraversa perennemente le democrazie occidentali e che, da sempre, noi abitanti delle terre liberali siamo colpiti dal terribile dubbio di Amleto, se sia giusto, per difenderci da nemici “disposti a tutto”, mostrarci anche noi disposti a tutto, ÀQDQFKHDWUDGLUHLYDORULXPDQLGHOOD nostra civiltà. È una discussione che, dagli anni della seconda guerra monGLDOHÀQRDOWHPSRGHOODORWWDFRQWUR$O 22 Qaeda, convive con noi e con la nostra coscienza. Il socialista democratico Eric Arthur Blair, in arte George Orwell, ci ammonisce di stare molto attenti. Il Grande Fratello non è Steve Jobs, ma è l’immagine del nostro nemico che, coPHLQXQRVSHFFKLRVSLHWDWRSXzULÁHWtersi dentro di noi. *** Quando l’editore, che ringrazio di cuore, mi ha manifestato la volontà di ripubblicare questa vecchia intervista, confesso che, sul momento, sono stato tentato di dire di no. Troppo lontana nel tempo, troppo legata a un mondo che non è più il mio. Ma ora sono contento di aver accettato. Se non altro, per celebrare un grande uomo della nostra storia. A prescindere dalle attuali collocazioni politiche e culturali, credo che nessuno possa negare che tutti i principali protagonisti della Prima Repubblica, da Enrico Berlinguer a Aldo Moro, da Ugo La Malfa a Giorgio Almirante, appaiono oggi come giganti di fronte alla penosa decadenza della classe politica della Seconda Repubblica. Ecco, 23 se vale la pena di rileggere interviste come questa, non è solo o tanto per il merito degli argomenti, quanto per ricordare, e testardamente mai dimenticare, che non c’è vera politica senza vera cultura. Senza passione per la storia e per le idee. Comunque la pensiate, GLIÀGDWHGHOOHFDULFDWXUH 24