Non usavo più l`auto da un pezzo per andare al lavoro e nemmeno

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Non usavo più l`auto da un pezzo per andare al lavoro e nemmeno
Pane e mortadella.
Certe volte li vedo bruciare il giallo ai semafori o sbuffare fermi in coda
lungo i viali della circonvallazione.
Sono colleghi che conosco da una vita ma, a guardarli dalla mia vecchia
bicicletta, fanno uno strano effetto.
Sembrano tanti buffi personaggi dei film di Chaplin scaraventati dalla
cellulosa nel fermento ribollente della strada.
Condividere problemi e soluzioni in azienda ha ridotto col tempo le distanze
tra noi, ma non abbastanza da gettare un ponte tra i nostri modi differenti di
vedere la vita.
In effetti, sono rimasto un cane sciolto, legato a un passato di isolamento ed
emarginazione, da cui non mi sono emancipato abbastanza da accettare lo
stile spregiudicato che il business impone.
Come gli altri pesco le carte dal mazzo truccato del croupier, come gli altri
cerco di fiutare i bluff in anticipo, ma proprio non mi riesce, come gli altri, di
mantenere le relazioni coi pollici incollati all’Iphone e neppure di rinsaldare le
amicizie a colpi di allusioni e doppi sensi nei locali alla moda di Corso Como.
Preferisco frequentare gli ultimi della strada. Quelli senza documenti in tasca
e neppure un sogno nel cassetto, che negli anni bui della mia adolescenza mi
hanno accolto come un fratello.
E’ difficile scorgerli. Stanno in posti dove la Milano da bere non guarda mai e
lasciano segni labili della loro presenza.
Come la schiuma del sapone di marsiglia che galleggia nella fontana di San
Francesco a Garibaldi, dove Maria lava la biancheria intima al sorgere del
sole.
Di giorno va a caccia degli oggetti dimenticati dai viaggiatori alla stazione e
scompare e ricompare come nei giochi di prestigio.
Qualche volta la vedo far la fila alla mensa dei poveri e pagare il piatto di
minestra coi piedi gonfi tutto il giorno.
Quando sta male non vuole gente attorno e neppure farsi portare in ospedale
dai volontari del 118.
“Non voglio nessuno tra i piedi quando sto da cani. Se vivo, vivo. Se crepo,
crepo.” dice infastidita.
So bene che non serve a nulla cercare di farle cambiare idea. Le prendo della
tachipirina e aspetto tempi migliori.
Quando sta bene invece scherza e ride per un nonnulla senza vergognarsi di
quella sua bocca sgangherata costellata di buchi.
Maria non sopporta la ressa e il chiasso dei fast food dove per parlare bisogna
usare il megafono. Predilige i posti tranquilli.
Bastano un pacchetto di sigarette, delle birre e dei panini alla mortadella per
farla felice. Tutte cose che mi porto dietro quando vado a trovarla alla
stazione.
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Ci sediamo su una panchina poco frequentata e mangiamo. Certe volte si
lascia andare ai ricordi e racconta della sua Sicilia.
“Ero una ragazza quando mio padre mi ha preso per mano e mi ha detto ce
ne andiamo in un posto bello. Ho smesso allora di credere alle favole. La
Sicilia l’ho lasciata con la morte nel cuore. Mi sono scordata l’odore delle
zagare e il fastidio della sabbia negli occhi quando mette a scirocco, ma il
profumo della mortadella me lo ricordo ancora.”
Si ferma, beve un sorso di birra, poi continua: “Il pomeriggio andavo sempre
al mare coi compagni di scuola e mi portavo dietro il pane e la mortadella
che mi dava mia madre. Restavo come una scema a guardare i gabbiani, il
cielo azzurro, le onde del mare, poi vedevo la mia amica mangiarsi con gli
occhi il panino che tenevo in mano e facevamo a metà. Alla fine rimaneva la
fame a tutte e due. Ma allora era diverso. Era tutto bello. Pure la fame.”
Il pane di Milano non ha la fragranza e la consistenza del pane di semola di
Sicilia, ma per lei fa lo stesso.
Chiude gli occhi, si lascia prendere dall’aroma della mortadella e se ne va.
Non so dove. Non glielo voglio chiedere. Mi farei sorprendere con gli occhi
lucidi e non mi va. Piuttosto sto lì e aspetto che torni dal suo viaggio.
A volte dice che l’indifferenza della gente gela il cuore più della tramontana
e, mentre parla, piglia un po’ di mollica e se la ficca svelta in tasca.
Lo so. La mette da parte per i piccioni. Quando me ne accorgo, provo a fare il
brillante e ammicco: “Va là. Parli tanto di solitudine, ma mica dici di avere
un sacco di spasimanti che ti ronzano attorno.”
Lei scoppia a ridere e io sono contento d’essere riuscito a farle buttare nel
dimenticatoio almeno per un po’ l’ennesima notte infame coi cartoni al posto
delle coperte.
Un giorno che pioveva a dirotto l’ho incrociata per caso in un vicolo deserto.
Eravamo entrambi bagnati fradici. Io in bicicletta, lei con un sacchetto di
plastica in testa e il carrellino della spesa con dentro le sue cose a rimorchio.
Le ho dato dei soldi e ho detto: “Dai Maria, non andare in giro con questo
tempo. Sembra la Siberia oggi. Torna alla stazione per favore e vai in una
trattoria a mangiare qualcosa di caldo.”
Aveva il morale sotto i tacchi. Tremava dal freddo. Ha preso controvoglia i
soldi e mi ha detto: “Devi essere un angelo. Che Dio ti benedica.”
Non era un complimento. Era un modo gentile per liquidarmi senza
mandarmi al diavolo.
Non l’avevo mai vista in quelle condizioni. Sembrava spenta. Non sapevo
che fare. Mi sentivo fuori posto. Un Don Chisciotte in sella a un Ronzinante a
due ruote sotto un ombrello con la tela rattrappita e le bacchette sporgenti
come le pale di un mulino a vento.
Ho cercato una battuta spiritosa per convincerla ad andarsene sotto un tetto
qualunque, ma non l’ho trovata, neppure a pagarla un milione, e me ne sono
andato col magone in gola.
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Da allora non l’ho più vista. Ho provato a chiedere di lei in giro, ma nessuno
si è mai accorto della sua presenza, figuriamoci della sua assenza.
Ora faccio una strada diversa, ma passo ancora in bicicletta da Garibaldi ogni
tanto. Mi fermo alla fontana di San Francesco e osservo i bordi della vasca in
cerca dei rimasugli di sapone. Guardo e riguardo prima di dirmi che dovrei
smettere di credere alle favole.
Del resto il campionario della miseria si rinnova ad ogni stagione come nella
moda. Delle rimanenze si sa poco o nulla. Finiscono in qualche magazzino
dimenticato da Dio e dagli uomini.
A Garibaldi ora furoreggiano gli zingari. Li vedo tentare di lavare i vetri
delle auto ai semafori e gli automobilisti avanzare a strattoni per evitare di
pagare il dazio.
Certi siparietti improvvisati sulla strada raccontano la fame, la violenza e la
grettezza umana meglio dei libri di storia. Mostrano la parte buia dell’uomo.
Quella senza riscatto.
Talvolta non li reggo e cerco un particolare che mi ricordi la bellezza. Fisso la
mano aperta di Francesco offrire briciole di pane ai passerotti e penso alla
mollica per i piccioni di Maria.
Certi gesti sono senza tempo. Non appartengono a chi li compie, ma alla vita.
Assomigliano ai fiori gialli del tarassaco che crescono sui cigli delle strade tra
gli scarichi delle auto e i sacchi pieni di spazzatura.
Ma queste in fondo sono facezie. Particolari trascurabili per la maggior parte
delle persone che vedono soltanto il miraggio dei soldi dentro il girone
infernale dove vivono rintanate.
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