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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 14 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
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CULTURA E SCUOLA
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L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 14/05/14, pag. 9
1000 miliardi di euro in 10 anni
Raffaella Bolini
Ucraina. Il budget «atomico» esposto nel libro di Hessel «Esigete! Un
disarmo nucleare»
In giro per il mondo, in ogni minuto della nostra vita e qualsiasi cosa stiamo facendo, ci
sono 20.500 bombe atomiche, per un potere distruttivo totale pari a 600 mila volte quella
di Hiroshima. Le possiedono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con
diritto di veto delle Nazioni unite (Usa, Russia, Regno Unito, Francia e Cina) e anche
India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Molti altri paesi le hanno sui propri territori,
pronte all’uso o stoccate nei depositi. Circolano per terra e per mare trasportate su
portaerei e via strada. In Europa armi nucleari sono installate nelle basi Nato in Germania,
Belgio, Paesi Bassi, Turchia. In Italia i depositi sono ad Aviano e Ghedi. Dieci sono i porti
italiani in cui possono attraccare navi armate di missili nucleari o sommergibili a
propulsione nucleare: Augusta, Taranto, Livorno, Brindisi, Gaeta, Castellammare di
Stabia, Cagliari, Napoli, Trieste, La Spezia. Il budget del nucleare militare nel mondo per i
prossimi dieci anni è previsto in mille miliardi di euro. Una cifra che non include il grande
comparto di spesa che finanzia l’intersezione fra nucleare militare e civile –con
quest’ultimo che nutre la ricerca, la modernizzazione e la capacità di potenziale dei paesi
che sono «sulla soglia», non possedendo armi nucleari ma essendo in condizione di
produrla. Queste e molte altre informazioni sono contenute nel breve ma intenso libro
postumo di Stephane Hessel Esigete! Un disarmo nucleare totale pubblicato in Italia da
Ediesse a cura di Mario Agostinelli, Luigi Mosca e Alfonso Navarra.
È l’ultimo appello che Hessel rivolge ai giovani del suo paese e del mondo intero.
A differenza della Francia, paese dell’autore, in Italia ci sono generazioni di attivisti formati
nella lotta contro il nucleare civile e militare. Grandi movimenti di massa nei decenni
passati hanno fatto di questa battaglia una grande priorità politica e culturale.
Molti dei dati che il libro riporta sono conservati nel codice genetico di migliaia e migliaia di
persone nel nostro paese. Grazie anche a quel patrimonio di esperienza e
consapevolezza, siamo stati in grado di vincere due referendum contro il nucleare civile.
Eppure, o forse proprio per questo, il libro di Hessel va letto e diffuso, ovunque. È un
grande aiuto a far sì che la coscienza antinucleare si rigeneri, si trasmetta, si riproduca.
Hessel, insieme ai curatori del libro, ci ricorda che le armi atomiche sono un pericolo
permanente, pervasivo, quotidiano. Un sottofondo di terrore che accompagna la vita di tutti
e di ciascuno anche nei tempi o in luoghi in cui paiono non esplicitamente minacciose.
Chernobyl è un deserto che ancora semina veleno nella terra e nelle vene delle persone,
ventotto anni dopo. La radioattività di Fukushima naviga per gli oceani. Le conseguenze
mortali degli esperimenti nucleari dei decenni passati chissà se mai sarà possibile
misurarle. Le scorie radioattive riempiono il pianeta –terre dei fuochi sono seminate
ovunque. Sono 146 i paesi che hanno votato all’Onu per una Convenzione di eliminazione
delle armi nucleari. Ma la corsa non si ferma, e ci coinvolge direttamente.
Le nuove bombe B61 saranno rese trasportabili entro il 2020 dagli F35. Viene fatto
passare per un ammodernamento, in realtà si tratta di un grande salto di qualità: sono
bombe che, una volta sganciate, non cadono per gravità ma possono dirigersi su obiettivi
specifici. Il pacifismo è tornato in campo alla grande, con l’Arena di Verona. Ce n’è
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bisogno, su tanti fronti dell’azione pacifista, mentre con l’Ucraina ritorna la guerra sul
continente europeo insieme a una nuova guerra fredda.
Disarmo e lotta al nucleare sono componenti fondanti di un nuovo progetto politico e
sociale. Il Presidente della Repubblica ha recentemente tuonato contro l’antimilitarismo.
Per fortuna, c’è l’articolo 11 della nostra Costituzione a sancire invece che esso è un
valore. Grazie, partigiano Hessel.
Da Adn Kronos del 13/05/14
Immigrati: Arci, aprire subito corridoi
umanitari
Roma, 13 mag. (Adnkronos) - "Vengano subito aperti dei corridoi umanitari per evitare che
si rischi la vita per avere diritto d'asilo". È quanto chiede l'Arci, in una nota del responsabile
immigrazione, Filippo Miraglia. "I morti nel Mediterraneo sono responsabilità di tutti scrive-.
L'Italia e l'Europa non devono nascondersi: i viaggi sulle carrette del mare sono la diretta
conseguenza dell'impossibilità di entrare legalmente nei paesi dell'UE a causa delle leggi
che ne regolano gli ingressi in modo restrittivo".
Un sistema di prima e seconda accoglienza dignitoso non può più essere derogato,
sostiene Miralia, che chiede anche "la fine delle polemiche sui costi dell'operazione Mare
Nostrum. Una polemica fatta per meri scopi elettorali e propagandistici che contraddice
l'art. 10 della nostra Costituzione. Condividiamo il richiamo alle responsabilità indirizzato
all'UE, ma denunciamo l'inadempienza dell'Italia nell'applicazione degli standard previsti
dalle direttive europee nelle misure di accoglienza e tutela rivolte ai richiedenti protezione
internazionale". L'Arci infine denuncia "il modo improvvisato con il quale è gestita
l'accoglienza dei minori: nel comune di Augusta 25 sono attualmente alloggiati nella
stessa struttura con persone affette da disagio mentale grave. Altri 170 minori sono
all'interno di una scuola senza alcun servizio di mediazione e tutela. Gli ultimi sbarchi
raccontano la presenza di sempre più minori e sempre più piccoli. È il segnale di una forte
disperazione nei luoghi di partenza. Cosa aspettiamo -conclude la nota- a riconoscerli tutti
come bisognosi di protezione?".
Da Repubblica.it (Genova) del 13/05/14
De Gennaro alla Fondazione Ansaldo, per
Vesco è "sconcertante"
Anche SeL Genova si unisce all'appello contro la nomina del presidente
di Finmeccanica, capo della polizia durante il G8 2001
De Gennaro alla Fondazione Ansaldo, per Vesco è "sconcertante"Gianni De Gennaro
La nomina di Gianni de Gennaro, alla presidenza della Fondazione Ansaldo, "una delle più
importanti istituzioni dedicate alla cultura industriale e lavorativa" della Liguria è
"sconcertante". E' quanto afferma l'assessore regionale al Lavoro della regione Liguria
Enrico Vesco, sottolineando che "nessuno ha dimenticato che De Gennaro era a capo
della polizia nel periodo del G8 di Genova, delle violenze contro i manifestanti, degli abusi
alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto". "Mi associo all'appello contro questa nomina
e sono convinto che le istituzioni locali debbano respingere con forza questa assurda
imposizione e costringere Finmeccanica a fare marcia indietro", ha affermato Vesco.
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E anche Sinistra e Libertà genovese aderisce all'appello lanciato da Comunità di San
Benedetto, Arci e cittadini contro la nomina che è vista, come scrive il coordinatore
provinciale Massimiliano Milone, "come un atto provocatorio nei confronti della nostra città
e delle centinaia di migliaia di persone che hanno pacificamente partecipato alle
manifestazioni di Genova durante il G8 del 2001e che ancora oggi sono segnati dagli
avvenimenti di quei giorni" .
Sabato scorso il presidente della Fondazione per la Cultura palazzo Ducale, Luca Borzani,
aveva rimesso il suo mandato di consigliere della Fondazione nelle mani del sindaco
Marco Doria. Che però, con un lungo intervento postato sulla sua pagina Facebook, aveva
chiarito l'intenzione di confermare la fiducia a Borzani, sottolineando altresì che "doveroso
è rispettare le sentenze, tutte, quelle che hanno condannato e quelle che hanno assolto. E
tale rispetto è assolutamente obbligato e giusto da parte di chi ricopre ruoli istituzionali. Le
sentenze e i processi non sono comunque sufficienti per elaborare una valutazione storica
e politica delle giornate genovesi del luglio 2001".
Una posizione che è stata ritenuta insufficiente dai promotori della mobilitazione, che
chiedono la revoca della nomina, condivisa anche dai pacifisti dell'ora in silenzio, che su
questo tema hanno preparato il volantino che sarà distribuito domani dalle 18 alle 19
davanti al Ducale.
http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/05/13/news/de_gennaro_alla_fondazione_ansald
o_per_vesco_sconcertante-86049653/
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ESTERI
del 14/05/14, pag. 6
Rajoy e socialisti tremano, avanza Izquierda
Unida
Jacopo Rosatelli
Spagna. Circola l’ipotesi di larghe intese, mentre i sondaggi danno i due
partiti al minimo storico. Ma ieri la campagna elettorale si è fermata per
l'uccisione della segretaria del Partido popular della provincia di León.
E c’è chi strumentalizza
Per un giorno, la campagna elettorale in Spagna si è fermata. Ieri tutto sospeso in segno
di lutto per l’omicidio della segretaria del Partido popular (Pp) della provincia di León, nel
nord del Paese. Un crimine non a sfondo politico, ma compiuto molto probabilmente da
una donna di 35 anni, arrestata dalla polizia, per una sorta di vendetta. Non manca però,
sullo sfondo della vicenda, lo scenario di crisi che in cui versa il Paese iberico: la presunta
colpevole è una disoccupata, già lavoratrice precaria della provincia. E non mancano, di
conseguenza, le strumentalizzazioni: isolate, ma rumorose. Come quella della sindaca di
Valencia, Rita Barberá, esponente dell’ala più di destra del Pp: l’omicidio è certamente
dovuto a questioni personali, ha dichiarato, «ma in Spagna si è creato un brodo di coltura
di radicalismo e violenza» contro il quale le istituzioni devono agire «per recuperare uno
spirito di convivenza civile». L’accusa di Barberá non è nemmeno troppo velata: i
«mandanti morali» dell’omicidio della leader del Pp di León sono tutti coloro che,
dall’acampada di Puerta del Sol (15 maggio 2011) in avanti, hanno manifestato in modo
«illegale» contro le politiche antisociali dei governi di José Luís Zapatero, prima, e di
Mariano Rajoy ora. Sul banco degli imputati dovrebbero finire, dunque, occupazioni di
case, picchetti durante gli scioperi, manifestazioni non autorizzate intorno al Parlamento,
azioni di resistenza nonviolenta contro gli sfratti. E forse, nella visione dell’arcireazionaria
sindaca di Valencia, anche l’opposizione del partito socialista (Psoe), sempre accusati
dagli avversari del Pp di «alzare troppo i toni». In realtà, negli ultimi giorni si sono
moltiplicate le voci, anche nel seno dei socialisti, che ipotizzano per la Spagna (e l’Europa)
un futuro di «larghe intese» sul modello tedesco. Un’idea rilanciata con forza dall’ex
premier Felipe González, che ha costretto il segretario Alfredo Pérez Rubalcaba a correre
ai ripari: «Finché sarò alla guida del Psoe — ha dichiarato — non ci sarà mai una grande
coalizione con il Pp». Sulla stessa linea anchen la capolista alle europee, Elena
Valenciano. Non potrebbe essere altrimenti: difficile mobilitare il proprio elettorato (e
pescare fra gli astensionisti) se ciò che si prospetta è un accordo con l’impopolare forza
attualmente al governo. Un sondaggio diffuso ieri (in Spagna la legge lo consente) ha
messo in luce che la formazione del premier Rajoy il 25 maggio perderà consensi rispetto
alle politiche del 2011: un risultato che si tradurrebbe in un quarto di eurodeputati in meno
di quelli ottenuti cinque anni fa. Non farebbe molto meglio il Psoe, incapace di recuperare
il consenso evaporato a causa delle scelte pro-austerità dell’ultimo anno di governo
Zapatero: il numero di seggi a Strasburgo calerebbe, anche nel loro caso, di circa un
quarto. Decisamente positive le previsioni che riguardano Izquierda unida, la lista che in
Spagna sostiene la candidatura di Alexis Tsipras a presidente della Commissione Ue, che
moltiplicherebbe i rappresentanti nell’Europarlamento dagli attuali 2 a 8. In salita i centristi
laici di Upd, stabili i nazionalisti di centrodestra catalani e baschi, mentre sono un’incognita
due liste che si affacciano all’appuntamento con le urne per la prima volta: podemos e il
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partito x. Due forze che, in modo diverso, si richiamano all’esperienza degli indignados e
di cui nessuno è in grado di prevedere l’impatto sul sistema politico iberico. Nemmeno i
sondaggisti, come denunciano proprio gli esponenti del partito x, che lamentano il proprio
oscuramento dalle rilevazioni di opinione: «Vedono solo quello che c’è già e non sono in
grado di capire l’umore della strada».
del 14/05/14, pag. 9
«Se la Nato si allarga, a Kiev guerra civile»
Simone Pieranni
Ucraina. Wikileaks rilascia un cable dell’ambasciatore americano a
Mosca del 2008
Wikileaks ha rilasciato un cable del primo febbraio 2008, nel quale l’allora ambasciatore
americano a Mosca, rende note le opinioni di esperti e di Lavrov, il ministro degli esteri
russo, circa la possibilità di un allargamento della Nato a est e in particolare un’eventuale
adesione dell’Ucraina. Gli esperti e Lavrov appaiono chiari — siamo nel 2008 — al
riguardo: l’ipotesi di un coinvolgimento ucraino nell’Alleanza, scrive l’ambasciatore Usa,
«potrebbe portare a una vera e propria guerra civile in Ucraina». Come puntualmente
avvenuto, quest’anno. Come molti altri cable rilasciati da Wikileaks, non è tanto la novità
degli argomenti ad essere rilevante, per lo più si tratta di aspetti già usciti nel corso del
tempo, grazie a itnerviste, analisi, reportage. Quello che assume primaria rilevanza è
invece la conferma di alcuni fatti, che abbiamo la fortuna di poter esaminare a posteriori,
una volta accaduti. Oggi siamo di fronte a un vero e proprio conflitto civile in Ucraina, nato
a seguito di un feroce scontro a Kiev tra le forze contro Yanukovich e la polizia.
L’ex presidente è stato destituito, il governo ad interim di Majdan è stato acclamato dalla
folla in piazza, vittoriosa grazie alla manolanza dell’estrema destra, dopo che l’originaria
piazza — più composita — è stata «conquistata» dai paramilitari di Settore Destro.
All’interno di questo primo scontro, che sarebbe poi tracimato nell’annessione russa della
Crimea e all’attuale stato di conflitto tra Kiev e le regioni orientali, fin da subito è apparso
chiaro il coinvolgimento degli Stati uniti e della Nato. La prima indiscrezione si ebbe a
seguito della telefonata con cui Victoria Nuland insultava l’Unione europea («fuck the Eu»)
ed evidenziava l’impegno statunitense affinché Yatseniuk potesse diventare il nuovo primo
ministro ucraino. Arseni Yatseniuk, considerato «l’uomo americano», poteva essere
disponibile al prestito del Fondo monetario e ad un lieve e costante avanzamento della
Nato ad est. Poter esaminare tutto quanto ha portato a questa situazione, attraverso la
lettura, odierna, di conversazioni e analisi del 2008, permette di dare una linearità a tanti
eventi accaduti negli ultimi due mesi. E non si tratta neanche degli unici cable che hanno a
che vedere con l’Ucraina, la Nato e la Russia. Nel marzo scorso, alcuni leaks avevano
anche consegnato la possibilità di interpretare l’annessione della Crimea alla Russia, a
seguito di una costante sensazione di «accerchiamento» aumentata negli anni, da parte di
Mosca nei confronti della Nato. Partiamo dall’ultimo cable rilasciato ieri da Wikileaks.
L’ambasciatore americano a Mosca, William J. Burns, inizia il cable scrivendo che «a
seguito di una blanda reazione alla prima richiesta dell’Ucraina di avviare il processo il
Membership Action Plan della Nato al vertice di Bucarest, il ministro degli Esteri Lavrov e
altri alti funzionari hanno sottolineato una forte opposizione, sottolineando che la Russia
interpreterebbe un’ulteriore espansione verso est della Nato come una potenziale
minaccia militare. L’allargamento della Nato, in particolare per l’Ucraina, resta un problema
emotivo e nevralgico per la Russia».
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Quali elementi possiamo prendere in considerazione? Innanzittutto che negli ambienti
diplomatici Usa già nel 2008 si valuta l’idea, su richiesta ucraina, di avviare la cosiddetta
Map, ovvero il Member Action Program, definito sul sito della Nato, «un programma
dell’Alleanza di consulenza, assistenza e sostegno pratico su misura per le esigenze
specifiche dei paesi che desiderano aderire all’Alleanza». Nel cable l’ambasciatore
americano sottolinea come queste «pratiche» rischino di portare il paese nel caos, a
causa del sentimento anti Nato, da parte di gran parte della popolazione filorussa.
«La Russia — scrive Burns –è fortemente preoccupata che le spaccature in Ucraina circa
il sentimento nei conronti della Nato possano portare a violenze, o peggio a una guerra
civile». A questo si aggiunge il giudizio del ministro degli esteri di Mosca, sull’opera di
allargamento della Nato a est. «Lavrov ha sottolineato che che alcuni paesi, sotto
l’ombrello della Nato, rischiano di riscrivere la storia e glorificare i fascisti».
del 14/05/14, pag. 15
Merkel: “Io parlo sempre con Putin Il dialogo
è l’unica via praticabile”
STEFAN HANS KLASENER
MARTIN KORTE
L’INTERVISTA
BERLINO
«LA crisi ucraina? Certo non ci sono soluzioni militari». «Putin e io riusciamo sempre a
parlare, anche in questa difficile fase». Lo dice la cancelliera Angela Merkel.
Crede nell’efficacia di sanzioni contro la Russia?
«Dall’inizio seguiamo una strategia su tre punti per risolvere la crisi: primo, appoggiamo
l’Ucraina nel suo percorso politico di autodeterminazione, e in questo senso le
presidenziali del 25 sono un passo importante. Aiutiamo il paese e i suoi cittadini
concretamente, consigliando riforme urgenti. Secondo, puntiamo al dialogo con la Russia
e, insieme alla Osce, a una tavola rotonda in Ucraina, per una soluzione diplomatica.
Terzo, siamo pronti a ulteriori sanzioni, se la Russia non s’impegnerà per la
stabilizzazione. Noi europei dobbiamo anche pensare a medio termine e renderci più
indipendenti dal gas russo. La proposta del premier polacco Tusk per un’unione europea
dell’energia va nella giusta direzione».
Ma se la Russia si mostrerà indifferente alle sanzioni?
«La crisi non può avere soluzioni militari. Adesso può sembrare che in Crimea e altrove
s’imponga la legge del più forte, ma se mostreremo ampio respiro alla fine s’imporrà la
forza del diritto».
Sanzioni più dure colpiranno anche noi…
«Dopo le catastrofi del ventesimo secolo l’Europa si è data regole irrinunciabili fondate sul
diritto internazionale, che danno sicurezza a tutti. Se diventa possibile violare l’integrità
territoriale d’un paese, pagheremo tutti un alto prezzo, anche l’economia tedesca con i
suoi interessi nell’export. Proprio per la nostra economia è centrale che non siano posti in
discussione i fondamenti della coesistenza pacifica in Europa».
Una buona parte dell’opinione pubblica tedesca ha comprensione per Putin:
perché?
«Quest’anno celebriamo i 100 anni dall’inizio della prima guerra mondiale, i 75 anni dallo
scoppio della seconda, i 25 anni dalla caduta del Muro. Le esperienze amare del secolo
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scorso hanno messo radici profonde nella memoria della gente. Ciò non significa che la
gente accetti violazioni del diritto, bensì che spera come noi tutti in una soluzione
diplomatica».
Si fida ancora di Putin?
«Putin e io possiamo sempre parlarci, anche in questa fase difficile. Lui e io vediamo molti
aspetti della crisi ucraina in modi totalmente differenti. Non posso e non voglio tornare
come se niente fosse all’ordine del giorno, perché se un simile comportamento tra Stati
farà scuola avrebbe per conseguenza scontri imprevedibili in Europa. E l’Ucraina ha
rinunciato alle sue atomiche in cambio di una garanzia russa sulla sua integrità
territoriale».
Davvero lei ha un canale speciale con Putin?
«Anche altri lavorano intensamente per una soluzione costruttiva: il ministro degli Esteri
Steinmeier, i responsabili della Osce, il presidente dell’esecutivo europeo Van Rompuy,
lady Ashton, diversi capi di governo. La cosa importante è che l’Europa e i suoi partner
transatlantici mostrino unità d’azione».
La Ue ha premuto molto, troppo dicono alcuni, per l’accordo di associazione con
l’Ucraina.
Non è stato un errore?
«Spesso si dimentica che fu l’ex presidente Yanukovich a negoziare per anni
quell’accordo e a dire che lo voleva. Il suo improvviso dietrofront causò una profonda
delusione in parte dell’opinione pubblica ucraina, là fu l’origine del movimento di Majdan.
Negli anni scorsi la Ue e il governo federale sono stati in stretto dialogo anche con la
Russia sul vicinato comune».
I separatisti devono partecipare alla Tavola rotonda per risolvere la crisi?
«Tutti i rappresentanti delle regioni e della società ucraina, che si identificano nella
rinuncia alla violenza dovrebbero partecipare a questo dialogo nazionale ».
Intanto nella Ue, con le elezioni imminenti, nazionalisti e antieuropei accrescono i
loro consensi, e probabilmente meno del 50 per cento degli elettori andrà a votare.
Come vuole rianimare lo spirito dell’Europa?
«L’Europa unita — la crisi ucraina torna a mostrarcelo — ha per noi tutti valore
inestimabile. Le generazioni prima di noi dovettero ancora andare in guerra. Noi
costruiamo nella pace il futuro del nostro continente, e ogni elettore può esprimere la sua
libera scelta il 25 maggio. È importante comunicare alla gente ogni giorno che viviamo in
sicurezza, libertà e benessere. A noi tedeschi fu tesa la mano, dopo il 1945. Noi l’abbiamo
accettata, e abbiamo dato il nostro contributo alla costruzione dell’Europa: soprattutto noi
dovremmo dare grande valore alla costruzione di pace chiamata Europa. Senza stretti
legami di amicizia coi vicini, non avremmo mai avuto la riunificazione. E anche
economicamente, l’Europa è per noi un vantaggio enorme».
del 14/05/14, pag. 14
Esplosione nell’impianto di Soma Centinaia di operai intrappolati
Strage in miniera più di 150 vittime a due
chilometri di profondità
CORSA contro il tempo nella notte nella miniera di carbone di Soma, nella provincia di
Manisa della Turchia nord-occidentale, con i soccorritori lanciati nel tentativo di salvare tra
i 200 e i 300 minatori rimasti intrappolati a duemila metri di profondità, dopo un’esplosione
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che ha provocato un incendio e il crollo di parte della struttura. Secondo le autorità, a tarda
notte i corpi recuperati erano 104 e i feriti 54. Il sindaco di Manisa, Caner Erguen, ha
parlato di almeno 157 morti e 75 feriti.
Somiglia a un inferno quello ripreso dalle immagini delle televisioni turche: i soccorritori
escono dalla miniera trasportando barelle, sopra i feriti con il volto nascosto dalle
maschere a ossigeno, ma anche corpi senza vita, avvolti in coperte. Il timore che il numero
delle vittime alla fine possa essere molto più alto deriva soprattutto dal fatto che già
durante la notte le riserve di ossigeno erano probabilmente già agli sgoccioli. Per questo i
soccorritori hanno continuato a pompare aria fresca verso le gallerie in profondità, ma
senza certezza. Davanti alle proporzioni che sembra poter assumere il disastro di Soma
(che ricorda drammaticamente la tragedia del 1956 a Marcinelle in Belgio, in cui morirono
262 minatori in gran parte italiani), il premier Recep Tayyip Erdogan ha annullato una
visita prevista oggi in Albania. Secondo il governatore provinciale, Bahattin Atci, fra 200 e
300 minatori sono rimasti bloccati a quattro chilometri dalle uscite in fondo alla miniera di
carbone di proprietà di una società privata, situata a circa 120 chilometri a nord-est di
Smirne. Dalle 19 i soccorritori hanno iniziato a raggiungere alcuni degli uomini bloccati
sotto terra. Ma hanno estratto anche molti corpi ormai senza vita. Secondo il fratello di uno
dei minatori bloccati, le maschere antigas hanno un’autonomia fra 45 minuti e un’ora e
mezza. L’incidente si è verificato nel pomeriggio di ieri durante un cambio di turno.
Secondo l’emittente Ntv l’esplosione, avvenuta a due chilometri di profondità, sarebbe
stata provocata da un cortocircuito. Le gallerie sono state invase da fiamme e fumo denso.
Al momento dello scoppio in fondo alla miniera c’erano 580 minatori. Circa 300, che si
trovavano in altre gallerie, sono riusciti a fuggire subito. I soccorritori sono stati divisi in
quattro squadre, lavorando senza sosta nel disperato tentativo di estrarre dalle viscere
della terra i sepolti vivi. Il fumo, l’incendio e il black-out elettrico hanno reso l’intervento
pericoloso e diversi soccorritori hanno dovuto essere ricoverati. Centinaia i familiari dei
minatori intrappolati che si sono riuniti davanti ai cancelli della miniera, in un’angosciante
lunghissima attesa.
del 14/05/14, pag. 7
Il ciclone Modi segna la fine di un’epoca
Matteo Miavaldi
NEW DELHI
India. Exit poll, vince la National Democratic Alliance
L’esito delle urne anticipato dagli exit poll indiani incorona all’unanimità il candidato del
Bharatiya Janata Party (Bjp) Narendra Modi come prossimo primo ministro della
Repubblica indiana, seppur con un’enorme incognita.
Storicamente gli exit poll in India si sono rivelati strumenti poco affidabili per interpretare
realisticamente l’esito finale del voto – atteso per venerdì 16 maggio – come provano le
esperienze recenti delle elezioni locali di Delhi (nessuno aveva predetto l’emergere
dell’Aam Aadmi Party come terzo partito nella capitale) o delle nazionali del 2009, quando
tutte le proiezioni indicavano una vittoria schiacciante del Bjp, salvo poi essere ribaltate
dalla riconferma al governo della coalizione guidata dall’Indian National Congress (Inc).
Nonostante queste premesse, i media indiani hanno celebrato ampiamente l’effetto
devastante della cosiddetta «Modi Wave», la marea pro Modi in grado di assicurare alla
coalizione di destra della National Democratic Alliance (Nda) un numero di seggi da
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record: tra i 250 e i 280, sicuramente intorno alla soglia di 273, la maggioranza
parlamentare necessaria per la formazione dell’esecutivo.
In una tornata elettorale per molti aspetti destinata ad entrare nella Storia – record di
aventi diritto al voto, 815 milioni; record di affluenza, 66,38 per cento – il popolo indiano
sembra aver premiato la meticolosa campagna elettorale architettata dagli strateghi al
servizio di Modi, un connubio perfetto di propaganda mediatica indirizzata alle élite urbane
– con social network e copertura televisiva inedita – e lavoro «sul campo» tra gli strati
sociali tradizionalmente estranei al partito della destra hindu.
Se nell’India meridionale, dove temi, lingua e istanze hanno creato un panorama politico a
sé, il Bjp si è riconfermato largamente minoritario (virtualmente inesistente in Tamil Nadu,
dove il partito regionale dravidico di Jayalalithaa ha fatto il pieno con oltre il 40 per cento
delle preferenze), oltre a consolidare la propria presenza nel nord ovest indiano, Modi ha
sbaragliato il resto dei partiti in Uttar Pradesh (Up) e Bihar, un bacino da oltre 140 milioni
di voti rappresentato alla Lok Sabha (la Camera bassa del parlamento centrale) da 120
seggi. In una personalizzazione dello scontro politico, Modi aveva deciso di candidarsi –
oltre che nel «suo» Gujarat – anche nella circoscrizione della città santa di Varanasi,
legittimandosi agli occhi dell’elettorato di fede hindu come il candidato prescelto da una
delle divinità del pantheon induista, territorio che, incidentalmente, il Bjp sapeva di dover
fare proprio per aumentare il numero di seggi vinti strappandoli ai partiti locali: il
Samajwadi Party (partito di governo in Uttar Pradesh, espressione delle caste basse) e il
Bahujan Samaj Party (partito dei dalit). In Up il Bjp si sarebbe assicurato, come minimo,
ben 50 seggi, mettendo di fatto un piede nella residenza di South Block, Raisina Hill, gli
appartamenti riservati al primo ministro indiano a New Delhi. L’Inc, reduce da una
campagna elettorale mal gestita affidata a un leader in perenne carenza di carisma com
Rahul Gandhi, si prepara ad incassare la disfatta. Perdendo quasi ovunque nel paese il
partito della dinastia Nehru-Gandhi si aggiudicherebbe, secondo gli exit poll, non più di
100 seggi, un risultato al di sotto delle aspettative più catastrofiche. Le alte sfere del partito
ieri hanno disertato le dirette tv degli exit poll, uscendo solo oggi allo scoperto nel tentativo
di salvaguardare la figura del delfino Rahul dall’ecatombe elettorale. In caso di conferma
degli exit poll, hanno sottolineato, la debacle non sarà imputabile al figlio di Sonia Gandhi,
bensì ai ministri e rappresentanti dell’esecutivo ora in carica (del quale il giovane Rahul
non ha mai fatto parte). Aspettando i risultati di venerdì, l’euforia dell’elettorato pro Modi
sembra annunciare davvero la fine di un’era.
del 14/05/14, pag. 8
Cuba, ecco le riforme contro l’isolamento
Roberto Livi
L'AVANA
Trattative con l'Ue. L’Europa ha avviato trattative ufficiali con il governo
cubano per accordi bilaterali di natura politica e di cooperazione
economica. L’Italia è il secondo partner commerciale europeo
dell’Avana, con un giro d’affari di 340 milioni di euro
L’Unione europea ha formalmente avviato alla fine di aprile trattative con il governo di
Cuba, per giungere a un Accordo di dialogo politico e di cooperazione. Nella prima
riunione, svoltasi all’Avana, il capo negoziatore del Servizio esteri della Ue, Christian
Leffler e il viceministro degli Esteri cubano Abelardo Moreno hanno definito «positiva e
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costruttiva» la linea adottata. Ovvero discutere di tutti i temi in questione (politici,
economici commerciali e diritti umani) «senza porre precondizioni» e con l’obiettivo di
giungere a un nuovo trattato bilaterale con l’isola che superi la cosidetta «Posizione
comune», decisa dall’Unione nel 1996 e che subordinava le relazioni bilaterali con l’Avana
alle acccuse che la destra europea rivolgeva al governo cubano riguardo al rispetto dei
diritti umani. Le critiche si riferivano principalmente allo stato della libertà di espressione e
associazione, ignorando altri aspetti dei diritti umani – scuola e sanità gratuite, ad esempio
— per i quali Cuba era ben più avanti di altri paesi partner dell’Ue.
Com’era accaduto – e continua a verificarsi– per il cinquantennale embargo unilaterale
imposto dagli Stati Uniti, anche la «Posizione comune» non è servita a muovere di un solo
millimetro il governo di Cuba dalle proprie posizioni. E se nell’isola da anni sono in corso
riforme del modello socio– economico (socialista) che vanno nella direzione di
un’economia mista– legalizzazione del lavoro privato, varo di una nuova legge sugli
investimenti esteri che garantisce nuovi possibilità per il capitale straniero– e aprono spazi
alla società civile – libertà di comprare e vendere case e auto, diritto di poter viaggiare,
moratoria alla pena di morte, innanzi tutto– tutto questo è stato per scelta e decisione
autonoma del governo cubano sotto la presidenza di Raúl Castro.
Non solo, anche l’isolamento che Cuba ai tempi della «Posizione comune» (1996) doveva
subire a livello del subcontinente latinoamericano, ispirato,se non imposto, dagli Stati uniti
è ormai acqua passata. Il recente vertice dell’Avana della Comunità degli Stati
latinoamericani e dei Caraibi (Celac) ha dimostrato che la situazione è radicalemente
cambiata: ospiti del più giovane dei Castro erano più di trenta tra capi di Stato e di governo
della regione. Inoltre, due grandi paesi latinoamericani, Brasile e Messico, hanno assunto
un ruolo quasi da fratello maggiore che fa la guardia per garantire un ambiente non
conflittuale attorno a Cuba – in riferimento alla questione dei diritti umani– oltre che a
investire nello sviluppo dell’isola. Posizione non condivisa da altri stati latinoamericani, ma
di fatto accettata perché oggi a tutti serve diporre di uno spazio (la Celac) in cui poter, in
maggior o minor grado e secondo il momento, marcare una distanza dagli Stati Uniti.
La linea di trattare con il governo di Raúl Castro per giungere a nuove aperture sociali e,
un domani, anche politiche è sostenuta anche dalla Chiesa cattolica cubana. «A Cuba non
vi sarà una primanera araba, ma una tranzione alla cubana centrata sul dialogo con il
governo», hanno ripetuto il mese scorso a Madrid Roberto Veiga e Lenier González,
direttore e vicedirettore di Espacio laical, rivista che ospita interventi non solo di intellettauli
cattolici, ma anche di elementi di spicco del partito comunista, oltre che contributi di
cubano-americani. Leffler, ha messo in chiaro che l’Unione ha preso atto di questi
cambiamenti ed è disposta «ad accompagnare le riforme» cubane mediante trattative a
tutto campo che favoriscano, appunto, nuove aperture economico-sociali nell’isola. Il
negoziatore dell’Ue ha messo in risalto come un accordo di cooperazione e dialogo
politico con l’Unione va nel senso delle priorità della politica estera cubana, in cerca di una
maggiore autonomia attraverso la diversificazione dei propri partner (commerciali). Ma
anche per gli impresari europei si prospettano nuove opportunità di investimenti nell’isola
in base alle recenti aperture del governo dell’Avana e del suo interesse ad attrarre capitale
estero, specie nella Zona speciale di sviluppo di Mariel, una zona franca con un porto in
acque profonde a 45 chilometri dalla capitale. «L’Europa ha un tempo limitato per
posizionarsi a Cuba prima che sfumi il vantaggio che le offre il fatto che l’embargo
decretato dagli Usa impedisce alle imprese statunitensi di competere per il mercato
dell’isola. Ma questa situazione potrebbe cambiare in un prossimo futuro, visto che cresce
l’interesse per tale mercato da parte di forti gruppi imprenditoriali nordamericani», afferma
l’analista Arturo López-Levy. «L’Italia è uno dei Paesi dell’Unione che ha favorito questa
evoluzione della posizione comunitaria, cercando appunto di aumentare il margine di
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consenso del mandato negoziale, pur tenendo ferma la questione dei diritti umani»,
afferma Pietro De Martin consigliere politico dell’Ambasciata italiana all’Avana. Il nostro
paese è il secondo partner commerciale europeo di Cuba, con un giro di affari
complessivo di 340 milioni di euro –270 milioni di esportazioni e circa 70 milioni di
importazioni da Cuba, con un attivo per l’Italia di circa 200 milioni. Lo sviluppo di tali
relazioni commerciali si basa anche «su una solida relazione tra i due Paesi» che,
anticipando i tempi dell’Ue, «hanno già siglato (nel 2011 all’Avana, dall’allora
sottosegretario Scotti) un accordo di Dialogo politico e cooperazione» che «prevede tre
pilastri, quello, appunto, di politica estera, quello commerciale che registra un promettente
incremento e quello della cooperazione, già attiva specialmente nel settore agricolo.»,
afferma De Martin. Due seessioni di dialogo politico sono state condotte dal
sottosegretario Mario Giro, nell’ottobre dello scorso anno all’Avana e in aprile a Roma.
«Che vi sia interesse nel mercato cubano da parte di imprese italiane lo dimostra la forte
partecipazione italiana sia nella Fiera dell’Avana dell’autunno scorso dove, oltre a quelle
già operanti nell’isola, hanno partecipato più di 70 nuove imprese e anche nella recente
Fiera delle costruzioni vi è stata una nutrita presenza di imprenditori italiani che vogliono
esplorare i vantaggi della nuova legge sugli investimenti». Secondo il consigliere politico,
uno dei punti forti di questa legge è la possibilità di costituire imprese miste tra investitori
stranieri e cooperative (anche non agricole) cubane. Dunque la possibilità di «investire nel
settore non statale». Su questo punto, la collaborazione con il settore cooperativo italiano,
afferma De Martin, «l’interesse cubano è forte. Per ora la richiesta è di una sorta di
assitenza teorico-giuridica, in concreto di una commissione italiana a livello governativo
composta di esperti in materia fiscale, giuridica e organizzativa del movimento cooperativo
che dia informazioni ed eventualmente indicazioni pratiche alla controparte cubana. In
seguito, speriamo che si passi a una collaborazione orizzontale, con accordi tra
cooperative italiane e cubane».
La settimana scorsa il quatidiano del Pc Granma metteva in luce come l’Italia sia uno dei
paesi che più mostra interesse a investire nella Zona franca di Mariel. De Martin conferma
questa tendenza «anche se, commenta, speriamo che il governo cubano ci aiuti di più a
informare gli imprenditori italiani sulla realtà di Mariel. Ad esempio organizzando una visita
alla Zona di sviluppo speciale per gli ambasciatori dei Paesi, come il nostro, che mostrano
maggior interesse a investire».
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INTERNI
del 14/05/14, pag. 1/15
Il vestito su misura
Livio Pepino
Corruzione Expo. Decenni di malaffare dimostrano che non siamo di
fronte a una corruzione nel sistema ma a una ben più grave corruzione
del sistema. Se non si parte da qui, traendone le dovute conseguenze,
le promesse di cambiamento sono pura ipocrisia
Di nuovo arresti eccellenti e relazioni pericolose eclatanti. Addirittura – almeno in parte –
gli stessi nomi di vent’anni fa. E, con essi, le forze politiche eredi dei partiti protagonisti di
Tangentopoli. Vent’anni fa il terreno privilegiato della corruzione era il Metrò, oggi è Expo
2015, che si aggiunge al sistema sanitario lombardo, alle municipalizzate romane, all’alta
velocità ferroviaria toscana, alla attività del Monte dei Paschi di Siena per limitarsi alle
vicende più recenti e conosciute.
Nulla è cambiato, anche se alcuni editorialisti indipendenti si affannano a spiegare che è
diminuita l’entità delle percentuali richieste nel rapporto corruttivo e che gli arricchimenti
personali prevalgono sul foraggiamento del sistema politico (sic!).
A fronte di ciò il Presidente del Consiglio inanella banalità: «Se ci sono problemi con la
giustizia, si devono fermare i responsabili e non le grandi opere»; «l’Italia è molto più
grande delle nostre paure, è molto più bella delle nostre preoccupazioni». Incredibile ma
vero, e, a seguire, l’ennesima operazione di maquillage, con la nomina di un commissario
straordinario di cui, tra l’altro, non si conoscono i poteri.
Benissimo: fermiamo i responsabili e non le grandi opere! Ma possono – per favore – il
presidente del Consiglio e il suo brillante entourage spiegarci perché ciò non è stato fatto
negli ultimi trent’anni (e si potrebbe andare molto più addietro, ché già nel 1916 Vilfredo
Pareto denunciava che all’origine di tutti i grandi patrimoni ci sono attività illecite connesse
con gli appalti governativi, le opere ferroviarie e le imprese pubbliche)?
L’inerzia al riguardo è stata tale da indurre Piercamillo Davigo, uno dei pubblici ministeri
protagonisti di Mani pulite a dichiarare che «per l’attività di contrasto alla corruzione in
Italia potrebbe rivelarsi addirittura profetico quanto Joseph Roth scriveva a proposito della
protagonista di uno dei suoi racconti: ’Nessuno aveva desiderato che restasse in vita e
perciò era morta’». Abbiamo da decenni una corruzione che costa ai cittadini oltre
sessanta miliardi di euro l’anno. Parallelamente i costi della politica sono aumentati in
modo esponenziale e la campagna elettorale del 2008 è costata, nel nostro paese, dieci
volte di più di quella del 1996. E così difficile ipotizzare che tra i due fenomeni ci sia un
nesso? Non aveva eluso il problema – né aveva usato luoghi comuni rassicuranti – Enrico
Berlinguer che, già in una famosa intervista del 1981, aveva segnalato, con efficacia e
lungimiranza, che «la questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri,
dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna
scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia
d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro
correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e
con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati.
Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano». Difficile non
cogliere l’abissale differenza tra l’analisi dell’allora segretario del Pci (avvalorata dalla
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storia degli anni successivi) e le spensierate rassicurazioni dell’attuale segretario del Pd e
presidente del Consiglio. Ma non è un caso. Ricordo due episodi.
Il primo, poco più di un anno fa quando venne arrestata la presidente di Italferr ed ex
presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti. Con l’accusa di essere al centro di
uno scambio di favori illeciti (elargizione di incarichi, vantaggi per gli amici, attribuzioni di
consulenze etc.) ruotanti intorno ai lavori per il tunnel destinato al passaggio dei treni
superveloci sotto il centro di Firenze (in un contesto in cui – guarda caso – il costo delle
linee Tav nel nostro paese supera di sei-sette volte quello di Francia, Spagna o
Giappone). Nessuno parve sorprendersi: neppure del fatto che la potente notabile Pd
definisse “terrorista” l’onesto funzionario regionale che si ostinava a chiamare i “rifiuti” con
il loro nome…
Il secondo si riferisce a qualche mese dopo quando mi accadde di partecipare a un
seminario in cui Alberto Vannucci (autore di un prezioso “Atlante della corruzione”,
pubblicato nel 2013 per le Edizioni Gruppo Abele) richiamò l’analisi di Berlinguer e citò, a
sostegno, Sandro Pertini. Nel 1974, all’epoca del primo scandalo dei petroli, richiesto se
riuscisse a rendere partecipi della propria intransigenza al riguardo i suoi compagni
socialisti, Pertini rispose: «Mica sempre. Mi accusano di non avere souplesse. Dicono che
un partito moderno si deve adeguare. Ma adeguarsi a cosa, santa madonna?». Ebbene, il
commento regalato ai propri vicini da un politico emergente, oggi ministro del Governo
Renzi, fu eloquente: «Che palle! Ancora citazioni di trenta o quaranta anni fa, come se da
allora non fosse cambiato niente!». Decenni di malaffare dimostrano che non siamo di
fronte a una corruzione nel sistema ma a una ben più grave corruzione del sistema. Se
non si parte da qui, traendone le dovute conseguenze, le promesse di cambiamento sono
pura ipocrisia.
del 14/05/14, pag. 1/2
Quelle cinque volte nella villa di Silvio
PIERO COLAPRICO EMILIO RANDACIO
«C’È UNA busta indirizzata ad Angelo Paris? Dammela», dice Rodighiero al custode.
Cattozzo: «Parla piano, parla piano! Quei nomi lì dilli piano, era su tutti i giornali anche
lui». «È quella più leggera, portamele tutte», dice Rodighiero. Se Rodighiero si occupa
abitualmente dei messaggi, per i pm lo fa anche andando ad Arcore.
I contatti del faccendiere Gianstefano Frigerio, più volte condannato, con Silvio Berlusconi
e con la Regione trovano ancora più credito leggendo 104 pagine, quelle con cui la
procura chiede l’arresto del manager Expo Angelo Paris. Come per il caso Ruby e per il
Bunga Bunga, così per il caso Expo: ai pubblici ministeri basta incrociare i telefonini degli
indagati con la cella telefonica di Arcore per avere i riscontri che servono. In cinque date,
ecco che Gianni Rodighiero, collaboratore di Frigerio, si trova ad Arcore. E, una volta, ci
vanno Rodighiero e Frigerio insieme. «Tale dato — scrivono i pubblici ministeri —
conferma la veridicità dei riferimenti effettuati da Frigerio ai suoi contatti con i massimi
livelli politici del partito (...) per sponsorizzare ai massimi livelli la posizione di Angelo
Paris». La ricostruzione dei fatti è limpida. Siamo a poche settimane fa. Il 28 marzo 2014 è
un giorno importante per la «cupola». All’hotel Michelangelo, dove Berlusconi lancerà la
campagna per le Europee, s’incontrano alle 11,35 Frigerio e Paris.
Nel frattempo (poco dopo le 11) Rodighiero è con Sergio Cattozzo, democristiano, ora
Udc, beccato giovedì, al momento delle perquisizioni, con alcuni post-it, che aveva tentato
di nascondere. Non c’è riuscito, aveva segnato l’importo delle tangenti ricevute
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dall’imprenditore Enrico Maltauro: 590mila euro in due anni, 490 più 100), con accanto
lettere dell’alfabeto, date, suddivisioni, le percentuali dello 0,3 e dello 0,5 a seconda
dell’appalto. I due parlano. Cattozzo: «Tieni conto che Gianstefano (incomprensibile) aver
parlato di Berlusconi e Berlusconi...».
Rodighiero: «Sì, e anzi gli ha parlato e in più gli ha anche scritto, perché l’ho visto io (inc.)
andare ad Arcore. Sai che, non dico tutte le settimane, ma il lunedì e il venerdì (impreca),
ci ho sempre la lettera da portare. Solo che adesso bisogna stare più abbottonati, c’è il
cerchio magico di Berlusconi». I due passano dalla portineria dell’ufficio intitolato a
Tommaso Moro e usato come base della cupola.
I VERBALI
SONO pertanto effettivamente emersi i seguenti dati: Rodighiero, dicono i detective, era
ad Arcore il 22 novembre (venerdì), il 20 dicembre (venerdì), il 23 dicembre (lunedì), il
giovedì 6 febbraio 2014 e il giovedì 27 febbraio 2014. Com’è noto, Paris il 3 febbraio 2014
aveva partecipato «a una cena ristretta presso Villa San Martino, evento collegabile a
Frigerio ». Per quanto riguarda la Regione, si sa dalle intercettazioni e dalle carte
giudiziarie che Frigerio incontra una volta per caso Roberto Maroni, che dice di mandargli
messaggi per sollecitare «il lavoro delle vie d’Acqua», vantandosi subito dopo per gli
interventi del governatore lombardo: «Lo vedi che ho scatenato Maroni sulle vie d’acqua».
Ed ecco ancora una volta Rodighiero che compare in Regione per portare questi «pizzini».
È lui che il 24 marzo 2014 manda un sms a Gianluigi Frigerio, il nipote prediletto di
Gianstefano, dicendo: «Sono giù in Regione», e la cella telefonica si attiva due volte nella
zona di Palazzo
Lombardia. Con Mario Mantovani il rapporto è ancor più stretto, Frigerio senior e junior si
sono impegnati «in coincidenza con la campagna elettorale regionale del
2013», scrivono i magistrati, e «fattivo» è stato il «contributo di Frigerio Gianluigi». Risulta
a Repubblica che Gianlugi sia diventato un funzionario della Regione Lombardia. Sta nella
«sottounità operativa delle politiche urbane e interventi per l’attrattività e la promozione
integrata del territorio». Più che di millanterie, Frigerio sembra insomma disporre di «maniglie» solide. Uno dei suoi quartieri generali è una saletta del bar del Westin
Palace. È qui che Frigerio incontra il direttore generale degli acquisti di Expo, Angelo
Paris. Serve «una soluzione d’emergenza destinata a ripartire solo tra i principali
appaltatori già assegnatari dei lavori da svolgere». Quindi: «Prendete le più grosse —
ordina Frigerio a Paris — gli date dieci per una. Semplifica. Se è l’unica via!». Il professore
chiede di esercitare pressioni anche sul commissario straordinario: «Con Sala insisti!». I
diktat vengono eseguiti: il 21 febbraio Paris mette ansia a Simona Trapletti, responsabile
area patrimonio Infrastrutture lombarde. Le dice che entro fine luglio devono concludersi i
lavori «underground dei lotti ». Il progetto dev’essere inviato categoricamente entro
il 30 aprile: «Se entro quella data non mi mandi il progetto — minaccia — lo faccio io
d’ufficio ». Esattamente come da istruzione del «professore».
Ma dentro la società Expo sale la tensione, e si scatena la battaglia tra “buoni” e “cattivi”. Il
25 febbraio il direttore generale della divisione partecipanti Expo, Stefano Gatti, contatta
Paris per lamentarsi proprio della lettera inviata alla Trapletti. Da alcune parole di Gatti —
scrivono i pm nell’integrazione d’arresto del manager Expo — «emerge la volontà di Paris
di scavalcare in qualche modo Giuseppe Sala
al fine di far prevalere le sue intenzioni sulla realizzazione dei padiglioni e sulla relativa
tempistica». È categorico Gatti: «Mi arrivano in mano cose che sono totalmente diverse da
quello che è stato deciso... io continuo a concordare delle cose con Peppe (Sala, ndr) e
poi mi arrivano delle cose da te che sono completamente diverse ». Gatti avverte Paris:
«Stai entrando in un circuito di una pericolosità pazzesca che finirà con incidenti pazzeschi
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con i Paesi (espositori, ndr ) ». Il manager si scaglia contro il collega, accusandolo di voler
«far saltare in aria l’intero progetto». I rimproveri proseguono con quella che
Gatti considera l’anomalia della gestione del padiglione cinese: «Paese a cui viene
lasciato un eccessivo margine di autonomia». «Perché — prosegue Gatti — diamo il
messaggio al cinese “tana libera tutti”, se a un certo punto passa il messaggio che il
cinese fa come cazzo gli pare, tutti gli altri dicono scusa, ma perché a me hai rotto i
coglioni?». Non è casuale che proprio la gestione degli spazi di Pechino sia
particolarmente agevole. Per i pm, infatti «rappresenta uno degli affari di massimo
interesse per Primo Greganti, circostanza ben nota al Paris».
del 14/05/14, pag. 4
Il procuratore: provvedimenti per tornare alla normalità Ma Pomarici lo
attacca: anomalie su Ruby e Sallusti
Bruti accusa Robledo “Su Expo ha
intralciato” E al Csm è battaglia
LIANA MILELLA
«EMENTRE erano in corso servizi di pedinamento e videoriprese di incontri tra gli
indagati. Ciò ha esposto a grave rischio il segreto dell’inchiesta». Un doppio pedinamento
disposto dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo? «Solo la reciproca conoscenza del
personale della Gdf, che si è incontrato sul terreno, ha consentito di evitare gravi danni». E
comunque, scrive sempre Bruti, si è verificata «una situazione surreale».
In sette pagine, e nove puntigliosi allegati, datati 12 maggio, Bruti scrive il suo atto
d’accusa contro Alfredo Robledo, l’aggiunto responsabile del pool sulla pubblica
amministrazione che il 12 marzo ha presentato a palazzo dei Marescialli un espostodenuncia contro di lui. Bruti ribadisce la sua verità e chiude così: «Mi permetto di confidare
che i documenti e i chiarimenti forniti possano contribuire a una sollecita definizione della
vicenda consentendo alla procura di Milano di svolgere il suo difficile compito in un clima
di “normalità”, fuori dai riflettori sullo “scontro”».
Ma al Csm, dopo due giorni in cui, nella prima (trasferimenti d’ufficio) e nella settima
commissione (organizzazione degli uffici), sono stati ascoltati i procuratori aggiunti Ilda
Boccassini, Nunzia Gatto, Francesco Greco, Ferdinando Pomarici, la querelle è aperta. La
destra dei laici (Fi e Lega) e della magistratura (Mi) farà di tutto per ottenere altre
audizioni. Le toghe di centro (Unicost) e di sinistra (Area) e i laici del Pd chiederanno di
chiudere subito. Ma i numeri sono ballerini. E Robledo? Al Csm c’è chi ipotizza un
possibile trasferimento d’ufficio, perché la sua figura ormai non sarebbe più compatibile col
lavoro dei colleghi. È una bomba il dossier di Bruti. Mentre, a voce, Pomarici ribadisce che
«fu anomalo assegnare l’inchiesta Ruby a Boccassini» perché era il capo del pool
Antimafia, e ci fu un comportamento anomalo di Bruti su Sallusti, destinatario di una
decisione «unica» solo dopo estesa ad altri (niente domiciliari), ecco che il capo della
procura contesta di nuovo le affermazioni di Robledo. Innanzitutto il caso Expo, l’inchiesta
che ha rischiato una discovery a sorpresa «per colpa » dell’aggiunto (così sostiene Bruti),
il quale non può lamentare di essere stato escluso perché, scrive il procuratore, «il
coordinamento aveva trovato puntuale attuazione attraverso la co-assegnazione a sostituti
di diversi dipartimenti », i pm Gittardi (Antimafia di Boccassini) e D’Alessio (pubblica
amministrazione di Robledo). Ma Robledo è di parere opposto e invia carte riservate al
Csm che «nonostante la copertura (di dubbia efficacia) col tratto nero del numero di
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registro e di alcune parti dei testi, con elevato grado di probabilità, avrebbero potuto
consentire di individuare il fascicolo con grave danno per le indagini». Non basta. Robledo
«ha ritenuto di poter autonomamente disporre di corrispondenza interna riservata e di un
atto del procedimento decidendo autonomamente se e cosa dovesse essere omissato».
Lo stesso è avvenuto per la vicenda San Raffaele dove Robledo, «senza alcuna
interlocuzione né con il sottoscritto, né con il procuratore aggiunto Greco, né con i sostituti
assegnatari del fascicolo, ha preso visione, estratto copia e trasmesso a codesto Csm atti
di un procedimento di cui non era assegnatario». Qui Robledo accusa Bruti e Greco di un
anno di ritardo nell'aver iscritto Formigoni nel registro degli indagati, ma Greco replica che
quel ritardo non ci fu. Infine Sallusti, il direttore del Giornale condannato per diffamazione
che non andò in carcere. Sconto ad personam? Bruti: il provvedimento su Sallusti è del 26
novembre 2012, ma diventa operativo il 4 dicembre, i criteri applicativi che valgono per
tutti sono del 6 dicembre. Bruti: «La successione temporale dimostra che i tempi
ristrettissimi del caso “unico” non ha prodotto discriminazione sui casi normali, ma è
accaduto il contrario: il caso unico ha generato prassi e interpretazioni più adeguate».
del 14/05/14, pag. 7
L’ex Cav, gli Usa e il golpe mai visto
Federica Fantozzi
Lo statunitense Geithner rivela:«Nel 2011 dall’Europa mi proposero un
piano per far cadere Berlusconi». FI chiede Una commissione
d’inchiesta. Alfano: «Valuteremo»
Chiarimenti» al governo, il premier Matteo Renzi a riferire in Parlamento e l’istituzione di
una commissione di indagine parlamentare urgente. Queste le richieste di Forza Italia
dopo le rivelazioni dell’ex ministro del Tesoro americano Tim Geithner, secondo cui
nell’autunno 2011 da «funzionari europei» fu proposto agli Usa «una trama» per far
cadere il premier Silvio Berlusconi. Un piano che prevedeva, come armadi pressione, il
rifiuto di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia. Obama però respinse la richiesta e puntò
sull’asse con Draghi. Il partito azzurro considera le rivelazioni del politico americano la
conferma che sia stato un«complotto » a mandare via, poco dopo, il loro Leader da
Palazzo Chigi. E chiede al governo di intervenire. Ottenendo dal ministro dell’Interno
Alfano un’apertura sulla commissione d’indagine: «Valuteremo». «Questione del passato
»chiude invece il ministro degli Esteri Federica Mogherini. Mentre Brunetta scrive a
Napolitano: «Fatti gravi». «Non sono sorpreso, ho sempre detto che nel 2011 c’è stato un
movimento partito dal nostro interno ma poi esteso all`esterno per tentare di sostituire il
mio governo, eletto dai cittadini, con un altro», dice Berlusconi a proposito delle notizie.
Mentre a proposito del risultato di Grillo alle europee, nel corso della Telefonata con
Canale 5 dice: «In Europa verrà messo in un angolo. Un importante deputato europeo mi
ha detto: stiamo allargando i cessi e li metteremo lì. Si tratta di un partito di protesta e
distruzione. Qualcuno lo ha chiamato Adolf Grillo».
LA «TRAMA» DEI FUNZIONARI
Nell’autunno del 2011, con l’Europa in mezzo alla tempesta dello spread,
l’amministrazione Obama fu contattata da alcuni «funzionari europei» con la proposta di
un piano per far cadere Berlusconi. Lo rivela Geithner nel suo libro di memorie: questi
“officials” (alti burocratiosherpa governativi) «ci contattarono con una trama per cercare di
costringere il premier italiano a cedere il potere. Volevano che noi rifiutassimo di sostenere
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i prestiti dell’Fmi all’Italia fino a quando non se ne fosse andato». Nel memoriale del
ministro Usa la proposta fu respinta:«Parlammo a Obama di questo invito sorprendente,
ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa non potevamo
coinvolgerci in un complotto come quello.“ Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre
mani” io dissi». Washington puntò invece sull’intervento della Bce, adoperandosi per
piegare le resistenze di Angela Merkel, finché nel luglio 2012 arrivò l’impegno di Mario
Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. Il resto dei fatti è noto. A novembre ci
fu il G20 di Cannes che segnò uno spartiacque nei rapporti internazionali. Il 12 novembre
Napolitano accetta le dimissioni dell’ex Cavaliere e il giorno dopo - al termine di
consultazioni lampo- viene nominato al suo posto l’ex commissario Europeo Mario Monti.
E l’esistenza di un «complotto», come lo chiama esplicitamente Geithner, è stato più volte
evocato - in contorni molto più vaghi - da Berlusconi. Che, prima di essere tacitato dalle
limitazioni imposte dall’affidamento ai servizi sociali, si è sgolato nel denunciare il (quarto
peraltro) «golpe» ai suoi danni. Forza Italia scende sul piede di guerra. Toti,Romani,
Brunetta, insorgono: «È la prova che Silvio aveva ragione». Il partito aveva già reagito
duramente alle rivelazioni del libro di Alan Freidman «Ammazziamo il gattopardo». Il
Giornalista americano ha ricostruito, concentrandosi anche lui sulla rovente estate 2011,
che il presidente della Repubblica aveva sondato Monti già in quel periodo - tre mesi prima
del passo indietro di Berlusconi - sulla sua disponibilità come capo del governo.
Ricostruzione confermata dallo stesso ex premier: «In quell' estate ho avuto dal presidente
della Repubblica dei segnali: mi aveva fatto capire che in caso di necessità dovevo essere
disponibile. Ma non è un’anomalia». In più, Friedman ha rivelato l'esistenza di un
programma di governo stilato dall'exministro Corrado Passera e discusso con Monti e il
Quirinale. Priorità indicate nel documento: ricostruire la credibilità dell'Italia, far ripartire la
crescita, portare in pareggio i conti pubblici. Passera indicava anche alcune misure di
politica economica, in parte riprese dal governo (a parte la patrimoniale): portare l'Iva
al23%entro il 2012, tassare le rendite finanziarie al 20%, tassare la casa. Fatti che oggi,
alla luce delle parole di Geithner, Berlusconi rilegge partendo dalla primavera in cui «non
era scoppiato l`imbroglio degli spread». Chiamando in causa Napolitano,con cui i rapporti
dopo la decadenza da senatore sono gelidi: «Il capo dello Stato riceveva Monti e Passera
per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e stilare il documento programmatico...
Io avevo contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo ritenuto che ci fosse una
precisa regia». Poi fa riferimento a quanto scritto dall’ex premier spagnolo Luis Zapatero:
«AlG-20di Cannes colleghi mi dissero: 'Hai deciso di dare le dimissioni? Perché tra una
settimana ci sarà il governo Monti…'». Mentre, in quell’occasione, Obama non lo tradì: «Si
comportò bene con me. Fummo chiamati da Merkel e Sarkozy a due riunioni dove si tentò
di farmi accettare un intervento dal Fmi. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non
avevamo nessun bisogno di aiuti. Rifiutai questa offerta che avrebbe significato
colonizzare l'Italia come la Grecia».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 14/05/14, pag. 9
Ok dal procuratore, ora tocca al governo: decisione prevista entro pochi
giorni
Dell’Utri, primo sì all’estradizione
FRANCESCO VIVIANO
BEIRUT .
La Procura Generale ha detto sì all’estradizione di Marcello Dell’Utri dal Libano in Italia.
Sono bastati pochi giorni alla procuratrice aggiunta Nada Al Asmar, per decidere se la
richiesta d’estradizione dell’ex senatore di Forza Italia, arrestato a Beirut il 9 aprile scorso
all’Hotel Phoenicia, doveva essere accolta. Il magistrato ha letto le “carte” inviate dal
nostro ministero di Giustizia e ha tenuto conto dell’interrogatorio di garanzia dell’altro ieri e
forse anche delle pressioni del nostro governo e l’imbarazzo che il caso Dell’Utri ha creato
in Libano (dove tra pochi giorni si eleggerà il nuovo Presidente): così la massima autorità
giudiziaria, Samir Hammud, si è convinta ad accelerare i tempi per la procedura di
estradizione. Il “si” della Procura generale al trasferimento di Dell’Utri sarà formalizzato
oggi quando Hammud invierà il suo “parere” al ministro di Grazia e giustizia Nuhad
Almasch che a sua volta lo trasferirà al primo ministro libanese, Tamam Salam che dovrà
controfirmare insieme al Presidente della Repubblica, l’atto finale che consentirà
eventualmente alle autorità italiane di prendere “in consegna” l’ex senatore. Dell’Utri
intanto rimane agli arresti nel reparto detenuti della clinica Al Ayat, dov’è sorvegliato da
militari armati di mitra e pistole: porta d’ingresso sprangata, a seguito delle “irruzioni” di
due giorni fa di Sky e Repubblica nella stanza 410.
La decisione “politica” per l’estradizione di Dell’Utri potrebbe essere già presa venerdì
quando si riunirà il Consiglio dei ministri. Ma il suo avvocato libanese, Akram Azoury, sta
tentando ancora di bloccare tutto annunciando che se il governo libanese dovesse
accogliere il “parere” del procuratore generale presenterà subito ricorso.
«Qualsiasi decisione potrà essere impugnata presso il Consiglio di Stato — dice l’avvocato
Azoury — e presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo perché Dell’Utri è
innocente e la sentenza italiana è una sentenza politica». «Un ricorso che — dice
un’autorevole fonte giudiziaria — in ogni caso non bloccherà la procedura di estradizione
del condannato”». Sarebbe infatti un ricorso “amministrativo” fatto al Consiglio della
“Shura”, equivalente del Tar italiano che chissà quando deciderà. E che il caso Dell’Utri sia
“urgente” per le autorità libanesi è testimoniato anche dal fatto che ieri mattina un ufficiale
di collegamento dell’Interpol italiano si è incontrato con la procuratrice aggiunta Nada Al
Asmar per preparare il viaggio di ritorno di Marcello Dell’Utri: da Beirut a Roma.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 14/05/14, pag. 18
Migranti, scontro con l’Ue “L’Italia dica cosa
vuole” “Ridicoli, basta letterine”
Polemica tra la commissaria Malmstrom e Alfano Poi la telefonata tra i
due: “Nessuna critica a Roma”
VLADIMIRO POLCHI
ROMA .
Dopo la tragedia, le polemiche. Con le navi della Marina militare ancora in mare a prestare
soccorso, è di nuovo scontro tra Italia e Unione europea. A riaccendere la miccia, il
ministro dell’Interno, Angelino Alfano: «L’Europa ha due strade: o issa la bandiera europea
sull’operazione Mare Nostrum oppure una volta che avremo definito lo status dei migranti
e accertato che vogliono andare in altri Paesi, li lasceremo andar via». La replica delle
Commissione Ue non si fa attendere: «Siamo qui per ascoltare le autorità italiane, ma ci
devono dire cosa si attendono da noi», dichiara Michele Cercone, portavoce della
commissaria Ue agli Affari interni, Cecilia Malmstrom. Poi il giallo della lettera: «La
commissaria ha inviato una lettera alle autorità italiane per verificare quali misure concrete
possano essere messe in campo. Ma non abbiamo ricevuto indicazioni precise».
Il botta e risposta prosegue. Alfano parla di «dichiarazioni tra il provocatorio e il ridicolo.
Vogliono che gli scriviamo una letterina?». Poi rivendica di aver dato sempre quattro
indicazioni. Primo: «Assistenza umanitaria in Africa». Secondo: «Il soccorso in mare lo
deve fare l’Europa con Frontex ». Terzo: «Frontex abbia sede in Italia». Quarto: «I migranti
devono esercitare il diritto d’asilo anche in altri Paesi europei». Alle 19.30, Alfano e
Malmstrom si parlano al telefono e tentano una riconciliazione: «Ho detto al ministro che la
Commissione non ha mosso alcuna critica all’Italia spiega la commissaria Ue - e che la
lettera del 14 aprile aveva il solo scopo di fornire ulteriore assistenza ».
Sul fronte accoglienza, i Comuni chiedono nuovi criteri di distribuzione dei rifugiati e
incassano la promessa del sottosegretario Delrio che, in una lettera del 6 maggio all’Anci,
si impegna ad avviare tavoli regionali di confronto. Intanto al porto di Catania attracca la
fregata Grecale. A bordo le salme di 17 migranti e i 206 superstiti dell’ultimo naufragio.
del 14/05/14, pag. 5
Immigrati, una strage di donne e bambine
Carlo Lania
ROMA
Immigrazione. 17 i corpi recuperati, tra i quali anche due bimbe
Una strage di donne e di bambine. E’ sempre più drammatico il bilancio dell’ultimo
naufragio di migranti nel Mediterraneo. Delle 17 salme recuperate fino a ieri dai militari
dell’operazione Mare nostrum 12 appartengono a donne e due ad altrettante bambine, una
di pochi mesi e una di massimo due anni, a ulteriore prova di come a pagare i costi più alti
di queste fughe da guerra e disperazione siano soprattutto i più deboli. Tre sono invece i
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corpi degli uomini recuperati. Unica nota positiva, se così si può dire, è che a bordo
dell’imbarcazione affondata lunedì potrebbero non esserci state 400 persone, come si
riteneva all’inizio, ma molte meno. «Sui dispersi non vi posso dare certezze, ma questa
barca è come quelle che si vedono spesso e i numeri su questi natanti vanno dai 200 ai
250 passeggeri al massimo per volta», ha detto ieri il comandante della nave Grecale,
Stefano Frumento, ridimensionando così il numero dei dispersi.
L’immigrazione diventa intanto terreno di scontro tra Roma e Bruxelles che si rimpallano la
responsabilità degli interventi a favore dei migranti insufficienti ad evitare nuove morti. E i
toni crescono per tutta la giornata, con il portavoce della commissaria per gli Affari interni
Cecilia Malmstrom che rivela di aver chiesto più volte all’Italia di cosa avesse bisogno per
far fronte ai numerosi barconi che arrivano lungo le coste siciliane e il ministro degli Interni
Alfano che replica definendo «parole fra il provocatorio e il ridicolo» quelle che arrivano da
Bruxelles. Fino a sera quando una telefonata tra Alfano e la stessa Malmstrom sancisce la
tregua. Almeno ufficialmente e almeno fino al prossimo scontro.
E’ chiaro ormai da tempo che l’immigrazione sarà uno dei temi caldi che caratterizzerà il
semestre di presidenza italiana che comincerà dal prossimo mese di luglio. Del resto
Roma ha più volte chiesto a Bruxelles di rivedere la politica troppo rigida adottata finora
dall’Unione europea nei confronti dei disperati che vedono proprio nell’Europa una
possibilità di salvezza da guerre, persecuzioni e miseria. Lunedì, giorno in cui l’ultimo
barcone è naufragato a poche miglia dalle coste libiche, per la verità un cambio di marcia
da parte della stessa Malmstrom c’è stato. Mentre Alfano denunciava per l’ennesima volta
come l’Italia fosse stata lasciata sola ad accogliere i migranti, la commissaria ha chiesto ai
paesi membri di «impegnarsi nella ricollocazione dei rifugiati direttamente dai campi fuori
la Ue e nell’apertura di canali legali» di ingresso. E anche se è vero che dopo la tragedia
che si è consumata a Lampedusa il 3 ottobre scorso, alle tante promesse non è seguito
neanche un fatto, l’apertura della Malmstrom potrebbe significare un importante cambio di
linea. A fare infuriare Alfano sono le dichiarazioni rilasciate dal portavoce della Malmstrom,
Michele Cercone: «La commissaria a marzo ha inviato una lettera alle autorità italiane
dando la disponibilità della Commissione per verificare quali altri misure concrete possano
essere messe in campo. Ma non abbiamo ricevuto indicazioni precise», spiega. E per
quanto riguarda la possibilità che altri Paesi accolgano i richiedenti asilo sbarcati in Italia,
come sollecitato da Alfano, «noi all’Ue possiamo finanziare il ricollocamento dei rifugiati
ma non possiamo obbligare i paesi ad accoglierli».
Immediata la replica del ministro, che ricorda di aver presentato all’Ue quattro richieste
precise: «La prima: accoglienza umanitaria in Africa, in particolare in Libia. La seconda: il
soccorso in mare deve farlo l’Europa attraverso Frontex. La terza è che Frontex abbia una
sede in Italia e non a Varsavia. Infine, elemento importantissimo — conclude Alfano —
siccome i migranti non vogliono stare in Italia, devono avere la possibilità di esercitare il
diritto di asilo politico anche nel resto di Europa. Altrimenti trasformiamo l’Italia nella
prigione dei rifugiati politici». Una possibilità quest’ultima sollecitata anche dal ministro
della Difesa Roberta Pinotti. «Sia l’Europa ad assumersi una responsabilità — spiega il
ministro al Copasir — e noi pensiamo che sia importante anche l’intervento dell’Onu,
perché i due terzi di coloro che fuggono lo fanno da situazioni di difficoltà e di guerra, in
particolare da Centro Africa, Mali e Siria, sono persone che hanno diritto di asilo».
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del 14/05/14, pag. 19
A Catania i sopravvissuti dell’ultima strage Le bare sul molo davanti ai
turisti di una crociera poi lo sbarco dei corpi delle vittime: una neonata
e una bimba di due anni, dodici donne e tre uomini. “Forse non ci sono
altri dispersi”
Il dramma dei due fratellini “Papà e mamma
spariti tra le onde”
ALESSANDRA ZINITI
DAL NOSTRO INVIATO
CATANIA .
Scendono dalla passerella in braccio a due donne del personale della fregata Grecale
tenendosi per mano. Sono orfani e ancora non lo sanno questi due fratellini eritrei, un
maschietto e una femminuccia che sembrano avere 4 e 6 anni. La mamma e due fratelli
più grandi, poco più che ragazzi, sono stati pietosamente ricomposti in tre sacchi che,
quando è ormai notte, vengono portati giù dalla nave della Marina militare e affidati al
personale delle pompe funebri che per tutto il pomeriggio, con i loro carri e le bare, hanno
atteso pazientemente sul molo dei croceristi del porto di Catania. A pochi metri c’è la Star
pride Nassau, la grande nave da crociera che alle sei del pomeriggio, con la sua musica
festante diffusa sui ponti e i turisti che salutavano con la mano la folla di cronisti e
cineoperatori, ha lasciato il posto al mesto arrivo della Grecale
con il suo dolente carico di vivi e di morti: 206 i superstiti (16 sono bambini), 17 le salme
recuperate e tra queste quelle di due batuffoli dalla pelle nera, due bambine, una di pochi
mesi, l’altra di poco più di un anno. Nessuno, tra gli uomini e le donne salvati dell’ultimo
naufragio nel Canale di Sicilia, ha cercato quelle due piccole, segno che i loro genitori, o
quantomeno le loro mamme, sono tra le dodici donne (una era incinta) annegate sotto gli
occhi disperati degli uomini dell’equipaggio di quel rimorchiatore di una piattaforma
petrolifera, che era stato incaricato dal comando dell’operazione Mare nostrum di seguire
da vicino quel barcone che non era stato intercettato. Quel che sembra scongiurato è che
il bilancio di questa nuova tragedia del mare sia così pesante come era sembrato nelle
prime ore quando, dalle testimonianze dei superstiti, sembrava che i dispersi fossero quasi
duecento.
«Impossibile che su quella barca di 15 metri vi potessero essere stipate tante persone —
dice il comandante della nave Grecale Stefano Frumento — anche perché proprio io, poco
prima, avevo recuperato i migranti a bordo di un barcone gemello partito, quasi
contemporaneamente dalle coste libiche, e a bordo vi erano 224 persone». Dunque,
considerato che i superstiti del naufragio sono 206 e le vittime recuperate 17, non si
dovrebbe andare oltre qualche decina. Gli scafisti, probabilmente due, sarebbero già stati
individuati dalla squadra mobile di Catania salita a bordo insieme al sostituto procuratore
Monia Di Marco. La storia dei due fratellini eritrei ha emozionato tutto il personale di bordo
della Grecale. «Quando li abbiamo presi a bordo facendoli salire dal rimorchiatore che li
aveva salvati avevano il terrore negli occhi — racconta il comandante Frumento — una
donna che diceva di essere una parente ha fatto capire che i loro genitori erano morti, loro
non parlavano, ogni tanto chiamavano la mamma. Se ne sono presi cura le nostre donne
dell’equipaggio che sono riuscite a farli addormentare e già questa mattina sembravano
più sereni». Quando racconta di quelle altre due bambine, “piccolissime e con la pelle
scura”, probabilmente di origine subsahariana come buona parte dei migranti salvati, al
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comandante si velano gli occhi. «Noi lo facciamo per missione, ma quando assistiamo a
drammi di questo genere, ci viene una forza di volontà ancora più grande».
I due piccoli eritrei, affidati alle cure della comunità di Sant’Egidio, ieri sera sono stati
ospitati insieme a tutti gli altri profughi al Palarcidiacono, il palazzetto dello sport utilizzato
di solito per la scherma, che ieri il Comune ha riempito di brandine. «Catania non si tira
indietro e anche oggi faremo la nostra parte, con la dignità della nostra gente, ma va detto
che siamo al collasso », dice il sindaco Enzo Bianco già di mattina sulla banchina per
sincerarsi che si stia facendo il meglio per accogliere i migranti. Quando è già buio, sulla
nave sale anche l’imam Kheit Abdelhafid, presidente della Comunità islamica di Sicilia. Al
sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, presente allo sbarco, ha chiesto un
funerale dignitoso per le vittime. «Che non si ripeta l’indecenza di ottobre scorso, quando
a tanti dei morti di Lampedusa non si è riusciti né a dare un nome né a riportarli
a casa».
del 14/05/14, pag. 9
Per arginare la crisi Bruxelles punta sul
«reinsediamento»
Marco Mongello
Per la Commissione l’emergenza potrebbe essere tamponata se i
governi accettassero direttamente i profughi nei loro Paese di origine
Accettare i rifugiati direttamente nei campi profughi per evitargli traversate pericolose può
essere fatto subito, ma tocca agli Stati membri fare il primo passo. La Commissione
europea lo ha detto chiaramente: non servono altre riunioni straordinarie. Per affrontare
l'emergenza immigrazione bisogna passare dalle parole ai fatti. L’occasione per i governi
dei 28 Stati membri dell'Ue arriverà il mese prossimo. Il 5 e 6 giugno infatti il ministro
dell'Interno Angelino Alfano si troverà a Lussemburgo con i suoi colleghi europei per la
riunione del Consiglio Affari Interni e il 26 e 27 giugno si terrà a Bruxelles il Summit Ue dei
capi di Stato e di Governo. In entrambe le riunioni la questione immigrazione è in cima
all'agenda, anche se la riforma di un tema così sensibile e di competenza nazionale sarà
un processo lungo. Secondo la Commissione europea però l’emergenza potrebbe essere
tamponata subito se i singoli governi accettassero i rifugiati direttamente nei Paesi di
origine o di transito. «Se ogni Paese dell’Ue si facesse carico di qualche migliaio di rifiutati
si potrebbero cambiare le cose e diminuirebbe la pressione sull'Italia», ha spiegato ieri
Michele Cercone, portavoce della commissaria Ue agli Affari interni Cecilia Malmstrom.
La questione era già stata messa nero su bianco a dicembre quando la task force della
Commissione per l'immigrazione, istituita dopo la tragedia di Lampedusa dello scorso
ottobre, aveva stilato una lista di azioni concrete per affrontare l'emergenza. In particolare,
scriveva a dicembre la Commissione, è il reinsediamento «l' ambito dove gli Stati membri
possono fare di più per garantire che chi ha bisogno di protezione arrivi nell’Ue senza
correre rischi». Il programma di resettlement è gestito attualmente dall' Unhcr, l'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Questo sistema però è usato raramente
dagli Stati membri. Nel 2012 solo 4930 persone sono state reinsediate in dodici Stati
membri, tra cui manca l'Italia. «Se tutti gli Stati membri partecipassero al reinsediamento e
mettessero a disposizione un numero proporzionato di posti, l’Unione sarebbe in grado di
accogliere migliaia di persone in più dai campi profughi - si legge nel documento della
Commissione - per dare impulso al reinsediamento nel 2014-2020 saranno messi a
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disposizione fondi per sostenere sforzi e impegni aggiuntivi in questo senso. La
Commissione europea prevede di mettere a disposizione un importo forfettario fino a 6000
euro per ogni rifugiato reinsediato ». In molti Paesi del mondo il reinsediamento è il
sistema privilegiato per accogliere i rifugiati. La percentuale di asili accordati attraverso
programmi di resettlement è dell'85% in Nuova Zelanda, del 72% negli Stati Uniti e del
55% in Australia. Tra i Paesi europei la Finlandia è al 34% e la Danimarca al 27%. L'Italia
invece, che non partecipa in modo stabile al programma dell'Unhcr, ha una percentuale di
rifugiati accolti con il reinsediamento minore dello 0,01% nel periodo 2008-2012. La
questione sarà sul tavolo dei ministri degli Interni europei a giugno, insieme a quella dei
salvataggi. L'agenzia europea per le frontiere esterne, Frontex, sarebbe l'ente deputato a
controllare le coste e a salvare i barconi in mare. In realtà però mancano le risorse e le
operazioni di Frontex sono fatte con i mezzi che gli Stati membri mettono a disposizione
su base volontaria. Di fatto i soccorsi sono lasciati all'Italia, attraverso l'operazione Mare
Nostrum, che comunque per questo riceve dei finanziamenti comunitari. Ieri il Consiglio
Affari generali, a cui ha partecipato il sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi, ha
approvato delle nuove regole operative per le operazioni coordinate da Frontex. Lo scopo,
si legge in una nota, è quello di «migliorare l'efficacia e la certezza giuridica delle
operazioni». Il vero passo avanti però dovrebbe arrivare con il summit di fine giugno,
quando i leader dell'Ue metteranno mano alle normative di base che disciplinano l'intera
materia. Sandro Gozi, che nella riunione di ieri ha preparato con i colleghi europei il
summit di giugno, ha spiegato gli obiettivi dell'Italia. «Vogliamo – ha detto - delle vere
politiche di gestione comune delle frontiere e di gestione dell’immigrazione legale, e anche
un vero sistema europeo sul diritto d’asilo ». In particolare, ha precisato il sottosegretario,
«vogliamo un ruolo più forte di Frontex, sia in termini operativi che di risorse per quanto
riguarda la gestione comune delle frontiere esterne, vogliamo arrivare ad un mutuo
riconoscimento delle decisioni in materia di asilo, vogliamo rafforzare i partenariati per la
mobilità, cioè gli accordi tra Unione europea e Stati di origine e di transito» e «vorremmo
maggiore cooperazione da parte degli Stati membri nella lotta contro i trafficanti».
del 14/05/14, pag. 5
In 98 nascosti in due tir sul traghetto dalla
Grecia
Mario Di Vito
La stima ufficiale della questura si ferma a quota 98, ma c’è anche chi ne conta qualche
decina in più. Tanti sono i migranti sbarcati nel tardo pomeriggio di lunedì al porto di
Ancona a bordo del traghetto Cruise Olympia della Minoan Lines, partito dal porto greco di
Igoumenitsa. Siriani, per lo più, ma anche somali e altri dalla nazionalità incerta: alla fine
sono riusciti a rimanere in Italia appena in otto tra richiedenti asilo, minori e feriti,
trasportati con le ambulanze all’ospedale Torrette. A questi va aggiunto chi è riuscito a
scavalcare le reti metalliche, dileguandosi poi nella notte.
La tensione è esplosa alle nove di lunedì sera, davanti al varco Da Chio della dogana
portuale di Ancona. Durante i controlli di routine, la polizia ha trovato decine di persone
nascoste dentro a due tir, ammassate, in preda al panico. Poi qualcuno ha squarciato i
teloni dei rimorchi e così è cominciata la fuga generale. Alcuni sono riusciti a superare gli
uomini in divisa e a scappare in strada. Altri hanno provato ad aggrapparsi alle cime della
nave per poi cercare di saltare sulla banchina, altri ancora, decisamente provati dalle oltre
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venti ore di viaggio, non avevano le forze nemmeno per cercare di fuggire. Gli autisti dei
due mezzi pesanti — uno con il passaporto turco, un altro greco — sono stati arrestati e
accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per tutta la notte la polizia di
frontiera marittima ha perlustrato le acque davanti al porto, senza trovare eventuali
dispersi, mentre gli uomini della guardia di finanza hanno battuto in lungo e in largo le
strade di Ancona alla ricerca dei fuggiaschi. La Polmare ha trattenuto per ore sulla barca
ormeggiata alla banchina 14 i superstiti, per identificarli e capire chi avesse i requisiti per
restare e chi, invece, sarebbe stato rimandato verso la Igoumenitsa. Fuori una ventina di
attivisti dell’Ambasciata dei Diritti di Ancona urlava forte: «Ask for asylum!» — chiedete
asilo politico -, nel tentativo di non far incappare i migranti nelle maglie del Dublino II, che
regola gli ingressi in Europa dei rifugiati. Alla fine non c’è stato nulla da fare: chi non si è
dichiarato rifugiato, è stato affidato al capitano della Cruise Olympia e rispedito verso la
Grecia. «Il problema — spiega Danilo Burattini dell’Ambasciata dei Diritti — è che chi non
richiede formalmente asilo si vede preclusa la possibilità di rimanere qui. Tanti di quelli
sbarcati lunedì proveranno a imbarcarsi nuovamente, poi magari ci sarà anche chi riuscirà
a fuggire, ma sono colpi di fortuna». Sono mesi ormai che l’Ambasciata chiede l’apertura
di un canale umanitario con la Siria per consentire ai migranti di circolare liberamente nei
paesi dell’Ue, ma, al momento, non sembrano esserci spiragli in questo senso.
Non è la prima volta, d’altra parte, che il porto di Ancona diventa teatro di situazioni del
genere: ad aprile in tredici sono stati trovati nascosti dentro dei sacchi di ghiaia,
ammassati nel vano di un camion. La reazione della politica locale è stata, al solito,
tremenda, con il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Zinni che chiedeva di
reprimere con maggiore veemenza gli sbarchi, rilanciando pure la bufala su una nuova
ondata di Ebola. «Il porto di Ancona è diventato un fortino dal quale respingere donne e
uomini in fuga da fame e guerre», dice Francesco Rubini, consigliere comunale di Sel.
«Una storia che si ripete da anni — prosegue — malgrado le ripetute denunce di
associazioni e movimenti per i diritti dei migranti. Il mix legislativo italiano ed europeo in
tema di immigrazione è repressivo, disumano e inefficace. Occorre ripensare il sistema
d’accoglienza, uscendo dalla logica securitaria di questi anni».
del 14/05/14, pag. 5
Addio «Lampedusa in Berlin», tendopoli della
contraddizione
Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi
BERLINO
Oranienplatz, due mezzi della polizia stazionano a bordo strada. Di fronte, una dozzina di
immigrati africani, gli irriducibili di ciò che resta di «Lampedusa in Berlin». Materassini,
sacchi a pelo, cartoni per terra e sotto gli alberi testimoniano la volontà di non
abbandonare la trincea di Kreuzberg. Hanno puntato i piedi: sciopero della fame, una
piattaforma «politica», trattativa ad oltranza fin dentro le stanze del ministero dell’Interno.
Alle spalle i campi di concentramento equivalenti ai Cie introdotti dalla Turco-Napolitano e
un futuro senza prospettiva né diritti. Una sola certezza: non arrendersi al gioco del
nascondino delle autorità tedesche.
Dall’altra parte della piazza, il simulacro della tendopoli che per mesi ha ospitato centinaia
di rifugiati e «rianimato» la solidarietà del quartiere turco. Avevano iniziato lo scorso
autunno a piantare picchetti e ad assemblare bancali, mentre la gente portava cibo, vestiti,
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ombrelli, libri. Un autentico villaggio africano a 5 km dalla Cancelleria di Angela Merkel,
Frontex nella capitale dell’Europa, un’emergenza ostica da governare perfino dal punto di
vista rosso-verde. Erano i naufraghi di Lampedusa, i fuggitivi dai campi profughi del sud
della Germania, migranti senza permesso di soggiorno. Tutti uniti contro il nuovo «muro»
di Berlino, alla ricerca di una soluzione dignitosa. Invece, è scattata la trappola del divide
et impera con l’offerta di un vero alloggio in cambio dell’autodemolizione dell’isola di
Oranienplatz. Migranti contro migranti, con frau Napuli Langa arrampicata sulla cima di un
platano pur di rimanere ancorata all’ultima zattera comune, tra chi si faceva strada senza
tanti complimenti per «incassare» il tetto promesso. Una brutta storia, una cicatrice
insanabile, la guerra tra disperati. Ha lasciato il segno anche fra chi (gruppi antirazzisti,
volontari del teatro Buhnenwatch, associazioni di quartiere) per mesi ha sostenuto la
protesta. Adesso l’impatto visivo della tendopoli è svanito. La massa degli immigrati è
stata diluita nella Berlino per ausländer. A presidiare la piazza resta solo il pugno di
irriducibili. Eppure qualche settimana prima lo scenario era diametralmente opposto con
Karim, 30 anni, rifugiato del Mali, che riassumeva così le ragioni della lotta. «Siamo arrivati
dalla Sicilia nel novembre 2012 e abbiamo tutti documenti rilasciati dalle autorità italiane.
Cosa vogliamo? La possibilità di cercare un lavoro e costruirci un futuro. E che finiscano le
deportazioni». Non è una metafora né un problema di traduzione. Parla proprio di
«deportazione, una parola-tabù nella coscienza collettiva tedesca. Del resto il 5 marzo sul
sito malijet.com Abdoulaye Ouattara scolpiva nome e cognome degli specialisti
dell’espulsione; a cominciare dall’ambasciatrice del Mali a Berlino Ba Hawa Keita
«complice nella deportazione dei propri cittadini».
Funzionava così: «L’ufficio migranti tedesco offre 800 euro a chi lascia la Germania, ma é
una compensazione ridicola per chi ha sacrificato tutto». Alla base, l’inquietante patto di
scambio così simile a quello di Berlusconi con Gheddafi o alla cooperazione sussidiaria in
Africa. «La Germania versa 100 milioni di euro al Mali, in cambio si aspetta che regoli il
flusso dei propri migranti». I risultati dell’accordo sono riassunti da una giovane maliana.
«Quando ho chiamato la mia ambasciata per avere un numero di telefono mi hanno
risposto: «sister sarebbe meglio che tu lasciassi l’Europa, se torni a casa ti paghiamo». Un
altro africano denuncia: «Mi hanno chiesto di firmare le carte per il rimpatrio, mi sono
rifiutato: “Bene, allora lascia la Germania” ha tagliato corto il funzionario».
Storie di normale amministrazione quando la burocrazia e l’Ue vanno in corto circuito.
Così la tendopoli delle contraddizioni: rifugiati, ma senza ottenere un vero asilo politico;
regolarmente certificati a Lampedusa, di fatto carta straccia in Germania; «residenti» nel
centro immigrati eppure impossibilitati a ricongiungersi con la famiglia già diventata
tedesca. In mezzo, i berlinesi che incollano sui vagoni della metro gli adesivi «Refugees
welcome». In centinaia il 16 marzo erano a Oranienplatz per fermare il rally razzista di Pro
Deutschland, partito di estrema destra che pretendeva la distruzione di Lampedusa. La
piazza è stata circondata dalla polizia, ma non c’è stato alcuno scontro. Gli xenofobi erano
solo in tre, compreso quello con il megafono.
Oggi, senza più tende e baracche, per le autorità il problema si riduce all’inflessibile
rispetto della destinazione d’uso del suolo. Un’area verde deve rimanere tale, le norme
anticendio bruciano i diritti umani, il regolamento comunale non fa sconti né eccezioni. E
scatta l’arresto anche per chi piscia sui cespugli, come Patras Bwansi.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 14/05/14, pag. 27
QUEL NUOVO FEUDALESIMO NELLE
NOSTRE CAMPAGNE
CARLO PETRINI
ALL’ORIZZONTE delle nostre campagne si preannuncia un nuovo feudalesimo. Lo
chiamano proprio così i giovani agricoltori che con sconcerto stanno constatando come la
nuova Politica agricola comunitaria (Pac) possa, ancora una volta, trasformarsi in uno
straordinario strumento di disuguaglianza e speculazione, invece di essere ciò che i padri
fondatori dell’Europa vollero che fosse: un mezzo per limitare la distanza tra le opportunità
di chi vive e lavora in città e di chi fatica sulla Terra Madre per produrre il cibo.
Il programma di aiuti europei che sono destinati al settore primario è appena stato varato e
varrà dal 2014 al 2020. Ne abbiamo già parlato altre volte, sforzandoci di avere una
visione più equilibrata di chi, da un lato voleva che la Pac rimanesse uguale a ciò che era
stata in passato, quando aveva prodotto eccedenze e distorsioni importanti del mercato, e
chi sosteneva che dovesse essere abolita, per dare sfogo al libero mercato, considerato la
panacea di tutti i mali. L’agricoltura europea è la più controllata del mondo, retta da
istituzioni che finora si sono mosse con prudenza (e anche lentezza); è custode del 90%
della superficie del vecchio continente, con un patrimonio di cultura e tradizioni unico per
varietà e ricchezza. Aiutare i nostri contadini a rimanere tali, e i giovani che lo desiderano
a ritornare alla terra, è un obiettivo meritorio e diventa un uso intelligente delle risorse
(ingenti: oltre un terzo del bilancio europeo) che l’Unione europea mette a disposizione del
settore: zone rurali curate e popolose sono, a tacer d’altro, la migliore garanzia contro i
disastri idrogeologici. Ma queste risorse devono andare a chi davvero coltiva la terra e
alleva professionalmente: non a speculatori che vivono a centinaia di chilometri dalla terra
che conducono solo sulla carta o si danno un pedigree zootecnico liberando qualche
decina di asini su latifondi. Una Pac che finanzia questi fenomeni replica gli errori del
passato, rinverdisce il mito della Regina d’Inghilterra, un tempo prima beneficiaria della
Pac ma non certo contadina, e ripropone logiche che ci paiono degne del Gattopardo, non
del XXI secolo!
Il meccanismo è semplice e approfitta abilmente (fatta la legge, trovato l’inganno...) di una
piega legale. Dal 2000 in poi il contributo agli agricoltori non è più stato collegato a quanto
essi producessero: si voleva evitare di ripetere ciò che avveniva in precedenza, quando
erano nate aziende per produrre beni non destinate al mercato, ma solo ai fini di ottenere il
contributo pubblico. Era certamente una distorsione inaccettabile: la terra coltivata per
produrre cibo che nessuno avrebbe consumato, di cattiva qualità, destinato magari a
essere esportato sotto costo nel terzo mondo (producendo altri gravissimi guasti). Una
vergogna cui si è posto rimedio separando l’aiuto agli agricoltori da quanto essi
producessero: in gergo, si chiama disaccoppiamento. Tuttavia, poiché il vecchio sistema
era una cuccia comoda e aveva fondato delle economie in cui prosperavano non solo certi
agricoltori di grossa taglia, ma anche consulenti e organizzazioni, il disaccoppiamento non
è stato totale: si è preso un certo anno di riferimento della produzione aziendale e si è
stabilito di collegare a quelle quantità e varietà prodotte un titolo (come le azioni di una
società, per capirci, che maturano delle cedole) su cui basare per il futuro l’erogazione del
connati tributo. Insomma, si è detto: d’ora in avanti non guarderemo più quanto hai
prodotto per decidere quanto pagarti, ma ci baseremo sull’anno X. Un metodo discutibile,
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a cui si aggiunge un ulteriore dettaglio: questi titoli, proprio come le azioni, si possono
comprare e vendere. Inoltre i titoli danno diritto a contributi diversi, a seconda del tipo di
coltura censito nell’anno X. Un esempio vi chiarirà il tutto. Un imprenditore agricolo
lombardo acquista titoli Pac relativi alla produzione del tabacco in Toscana (che valgono
un contributo molto alto per ettaro) per 100 ettari. Dopodiché affitta i terreni di un Comune
montano in provincia di Cuneo, che da secoli servono per portarci al pascolo gli animali
nei tre mesi estivi in cui c’è l’erba invece della neve. Così, l’imprenditore riceverà il
contributo dell’Unione europea come se su quei pascoli coltivasse il tabacco (ma non
importa che non lo faccia: l’aiuto è disaccoppiato...). Ovvio che non sarà un problema
pagare un profumatissmo canone di affitto al Comune proprietario dei pascoli, che prima,
dagli allevatori che davvero li usavano per il loro scopo naturale, incassava molto meno, e
di soprammercato potrà subaffittare i pascoli all’allevatore rimasto senza erba, che sarà
ben lieto di portare le proprie bestie a pascolare nei luoghi di sempre. Così ecco all’opera il
nuovo feudalesimo: l’Unione europea fornisce le risorse che rendono arbitro della vicenda
un soggetto che si accaparra la terra, senza che sia un vero agricoltore, asservendogli,
pur di continuare a lavorare e sopravvivere, coloro che sono davvero contadini e
dovrebbero essere davvero sostenuti da Bruxelles.
È questo che vogliamo? È questa concorrenza sleale e inaccettabile tra agricoltori e
allevatori veri, che conducono davvero la terra, e questi imprenditori delle carte e delle
domande Pac, arricchiti con i soldi di tutti i cittadini europei? Lo chiedo in modo ultimativo
ai nostri politici, al ministro Martina, che è competente e quindi perfettamente capace di
capire quanto scrivo; lo chiedo a tutti i parlamentari e i consiglieri regionali che si
riempiono la bocca della rappresentanza dell’agricoltura, in ogni occasione pubblica; lo
chiedo ai sindaci, che in queste settimane chiudono i bandi (che i Comuni approvano) per i
pascoli: chiarite se state con l’agricoltura vera oppure con l’agricoltura degli squali
speculatori. E se dite di stare con la prima, fate qualcosa di chiaro. Subito.
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CULTURA E SCUOLA
del 14/05/14, pag. 2
Invalsi, disobbedienza civile con tweet, ironie,
test in bianco
Roberto Ciccarelli
Studenti. Larga adesione alla campagna di boicottaggio. Per i Cobas il
30% delle classi ha boicottato la prova, per il Miur l’1,79%
A metà pomeriggio, l’hashtag #invalsi2014 aveva superato #veritàpirandelliane. Una
coincidenza molto più che simbolica che ieri ha fatto esplodere la rete italiana dove, a
migliaia, si sono riversati i tweet ironici e di protesta contro le prove Invalsi che hanno
coinvolto 562 mila studenti in seconda superiore. Tra foto di prove boicottate nelle maniere
più fantasiose, e alcuni disegni ingegnosi, gli studenti italiani hanno mostrato di avere
appreso la lezione pirandelliana sull’ironia. Lo sberleffo, il segno grafico, la battuta anche
pesante sul personaggio di «Nello» — l’incolpevole astrazione che verrà ricordata per tutta
la prossima generazione — hanno fatto percepire l’estraneità degli studenti rispetto ai
valori di una società neoliberale che affida alla valutazione di questi test la distribuzione
delle risorse alle scuole e l’aumento degli stipendi dei docenti «meritevoli». Meritevoli di
avere modificato la loro didattica e permettere ai loro studenti di scegliere la risposta
giusta con una crocetta. Non sono mancate le frecciate agli esperti che hanno stilato il
test. A cominciare dall’indicazione che imponeva di «non girare pagina finchè non ti sarà
detto di farlo». Qualcuno ha risposto, «Dobby non ha padroni, Dobby è un elfo libero».
Oppure: «Non girare il foglio altrimenti arrivano i partigiani in classe». Il migliore è stato chi
ha risposto a questa ingiunzione così: «Genny ’a Carogna ha detto che posso girarla!».
Alla domanda «metti una sola crocetta« tra maschio e femmina i ragazzi si sono scatenati,
dimostrando tra l’altro una certa conoscenza sul dibattito sul Queer. «Pensavo di metterne
due», ha scritto qualcuno. Oppure: «Sono un periodo di transizione». E ancora: «Signori e
signore, pensavo fossimo ibridi». Lo spirito irriverente ha colto il punto: i ragazzi vivono i
test come un’imposizione dall’alto. Non sopportano di essere le cavie della didattica
neoliberale e ribadiscono i dubbi espressi da illustri accademici in tutto il mondo sulla
validità pedagogica e conoscitiva dei test. In molte città ci sono state anche manifestazioni
e cortei partecipati. Abbiamo scritto ieri dell’occupazione dell’ex teatro Lirico a Milano,
ribattezzato «Boycott Invalsi Space» dagli agguerriti studenti milanesi. Senz’altro l’azione
politica più riuscita della settimana di boicottaggio lanciata da tutte le organizzazioni
studentesche (l’Uds. la rete degli studenti medi, l’Udu e numerosissimi collettivi). «Gli
studenti — hanno sostenuto i Cobas — hanno ridicolizzato in mille modi i quiz
annullandone ogni validità o impedendone l’effettuazione e inficiando ogni credibilità dei
risultati in circa il 30% delle classi». Negli istituti di Venezia e Mestre centinaia di studenti
hanno organizzato cortei selvaggi. A Napoli in 500 tra studenti e professori hanno sfilato
tra fumogeni e con le maschere, non di Anonymous ma con la «X» del test stampata sul
volto. Così poi a Vicenza, Rimini e Padova, mentre a Bologna è stata scelta una forma di
protesta «ermetica». Così l’hanno definita quegli studenti che hanno «chiuso» con il
silicone e catene le serrature dei portoni, accompagnando l’azione con un massiccio
volantinaggio contro «l’inutilità e la danosità» della somministrazione dei test. Una
mobilitazione diffusa e capillare che ha sorpreso gli stessi organizzatori della protesta.
L’Uds ha anche promosso uno «sportello SOS #invalsi2014»: «Il prof valuta le invalsi? è
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illegale!». L’invito agli studenti è scrivere a [email protected] o telefonare
allo 06/69770332.
INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 14/05/14, pag. 3
La «sussidiarietà» di Renzi
A. Mas.
Terzo settore. Servizio civile e 5 per 1000, la riforma che volevano le
associazioni. Alle linee guida ha lavorato Edoardo Patriarca, ex
presidente dell’Agenzia tagliata dal governo Monti
È la riforma che chiedevano le associazioni: servizio civile aperto anche agli immigrati,
potenziamento del 5 per mille ed eliminazione del tetto di spesa, la creazione di
un’authority del terzo settore. In un colpo solo il governo Renzi riconsegna il welfare alle
organizzazioni del privato sociale – il premier lo definisce «welfare partecipativo», un misto
tra il servizio civile ante-abolizione della leva e la sussidiarietà formigoniana che tanto
piace a Cl e a molte organizzazioni del privato sociale cattolico – e incassa il sostegno del
terzo settore, che ha contribuito materialmente alla stesura delle linee guida attraverso
alcuni parlamentari “amici” quali Edoardo Patriarca, senatore Pd e presidente del Centro
nazionale per il volontariato. Un colpo ben assestato, in piena campagna elettorale, che fa
seguito al lavoro svolto dal ministro Giuliano Poletti – diventato un punto di riferimento per
le associazioni — fin dal suo insediamento. Non a caso le linee guida sono state
presentate ieri, alla vigilia delle elezioni, mentre la legge delega vera e propria è prevista
per il prossimo 27 giugno. È dall’abolizione della leva obbligatoria, infatti, che il terzo
settore soffriva di una crisi di “militanza”, sia pure forzata, che rendeva più difficile gestire
progetti di volontariato e di assistenza. Ma nella riforma non c’è solo questo, anche se le
linee guida di Palazzo Chigi prevedono infatti Servizio civile universale aperto a 100 mila
giovani, nel primo anno, della durata di otto mesi, prorogabili per quattro. Una «opportunità
di servizio alla comunità e un primo approccio all’inserimento professionale», per Matteo
Renzi. La riforma viene incontro, infatti, alle richieste di agevolazioni fiscali e all’idea di
potenziare la sussidiarietà, cavallo di battaglia di Comunione e liberazione e di una parte
del solidarismo cattolico. Che vuol dire, tradotto in uno slogan, meno Stato, più privato
sociale. Per quanto riguarda il primo aspetto, è previsto il potenziamento del 5 per mille,
con l’eliminazione del tetto massimo di spesa «onde evitare che esso si riveli in realtà 4
per mille o anche meno». Inoltre, ci sarà un riordino delle forme di fiscalità di vantaggio,
l’obbligo per i beneficiari del 5 per mille di pubblicare on line i bilanci e la semplificazione
delle procedure amministrative in modo da «superare gli attuali tempi di erogazione delle
quote spettanti», un toccasana quest’ultimo per le casse delle associazioni.
Per quanto riguarda il welfare, è prevista la sperimentazione di un «voucher universale per
i servizi alla persona e alla famiglia», mentre sarà definito un trattamento di favore per
«titoli finanziari etici», al fine di incentivare gli investimenti dei cittadini nella finanza etica.
Infine, il terzo settore sarà maggiormente coinvolto nella gestione dei beni confiscati alle
mafie: i criteri con i quali essi vengono concessi in comodato d’uso saranno rivisti.
Per Renzi la riforma si propone, oltre alla costruzione di un nuovo welfare, di «valorizzare
lo straordinario potenziale di crescita e di occupazione insito nell’economia sociale e nelle
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attività svolte dal terzo settore» e di «premiare con adeguati incentivi e strumenti di
sostegno tutti i comportamenti donativi dei cittadini e delle imprese».
Il Forum del terzo settore da giorni scalpitava per l’annuncio in arrivo. Il portavoce Pietro
Barbieri commenta entusiasta: «È un testo nel quale ci riconosciamo e al quale abbiamo
attivamente e costruttivamente contribuito. Nel documento sono presenti i nostri principi
ispiratori, la valorizzazione della sussidiarietà verticale e orizzontale e dell’economia
sociale, la costruzione di un welfare partecipativo, l’incentivo alla partecipazione, alla
donazione e alla prosocialità». Anche l’economista Stefano Zamagni, ultimo presidente
dell’Agenzia per il terzo settore prima che essa fosse tagliata due anni fa dal governo
Monti, si spertica in elogi: «Renzi ha fatto quello che nessun altro governo ha mai fatto».
Facendo capire a chi ha strizzato l’occhio il premier con questa riforma.
del 14/05/14, pag. 1/12
Troppi giovani disoccupati servizio civile per
100mila
LUISA GRION
DALLA garanzia giovani al servizio civile: per arginare il dilagante fenomeno della
disoccupazione under 30 e dare una scossa ai “neet” (un paio di milioni di ragazzi che non
studiano e non lavorano) il governo punta alla versione riveduta e corretta della vecchia
“obiezione di coscienza”.
ITEMPI dell’opposizione alla leva obbligatoria sono finiti da un pezzo e il servizio civile, da
anni, è un’occasione data ai giovani, maschi e femmine, che nel volontariato vedono sì,
un’occasione formativa, ma anche la possibilità di trasformare quell’esperienza in lavoro.
Ogni anno i bilanci dello Stato dedicano al servizio civile un budget che va a finanziare i
bandi e i programmi degli enti che partecipano all’operazione. Oggi i volontari in servizio
sono poco più di 14 mila, lavorano in 3.293 enti accreditati e incassano ogni mese (il
servizio civile dura un anno e la domanda per entrarne a far parte si fa direttamente
all’associazione che propone il piano) un rimborso spese di 433 euro netti. Se le condizioni
economiche resteranno invariate, l’obiettivo di Renzi di impegnare con questa formula
centomila giovani l’anno richiederà quindi un investimento fra i 400 e i 600 milioni di euro.
Il costo annuo per persona è valutato infatti in 6 mila euro circa, ma il nuovo servizio civile
dovrebbe durare 8 mesi eventualmente allungabile di altri 4, non più direttamente
12. Ad occuparsi della partita che sfocerà in un disegno di legge delega varato dal
Consiglio dei ministri il prossimo 27 giugno (anche in questo caso Palazzo Chigi non
incontra le parti sociali, ma invita chi vuole a dire la sua online mandando, entro il 13
giugno, una mail a terzosettorelavoltabuona@ lavoro.gov.it) è il sottosegretario al Lavoro
Luigi Bobba, deputato Pd ed ex obiettore di coscienza. «Rispetto al modello attuale di
servizio civile - precisa - noi vogliamo passare dai 14 mila al 100 giovani coinvolti, ma
intendiamo ridurre la durata dell’esperienza e coinvolgere in maggior modo le Regioni, le
province autonome e probabilmente anche gli enti che offriranno la possibilità di
effettualo». Una maggiore partecipazione, spiega Bobba, che potrebbe tradursi in un
contributo alla spesa alleviando, anche se in piccola misura, il peso degli investimenti a
carico dello Stato. Un altro abbattimento della spesa potrebbe derivare dalla possibilità già riconosciuta dal Consiglio di Stato - di rinunciare all’Irpef del 10 per cento oggi versata
sul rimborso spesa. «Parte dei fondi necessari a impegnare il tetto dei 100 mila giovani
potrà essere recuperata dal miliardo e mezzo di euro investiti sul progetto Garanzia
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giovani, visto che il servizio civile è appunto una delle nove possibilità indicate per
l’impiego». Certo è che comunque sia l’entità dello sforzo richiesto è enorme rispetto agli
attuali investimenti. Al servizio civile, negli ultimi anni, sono state dedicate risorse
decrescenti: nel 2013 ai bandi sono stati riservati 70 milioni scarsi, ma va pur detto che a
volte , nel passato, i contributi sono rimasti inutilizzati per mancanza di progetti idonei. I
tanti soggetti interessati alla partita, dalle coopertive sociale alle Acli, plaudono all’idea di
Renzi. Giuseppe Guerini, portavoce di Alleanza Cooperative Sociali, fa notare che «uno su
tre dei giovani impegnati da noi nel servizio civile viene poi assunto». Secondo Maurizio
Gardini, presidente di Confcooperative, sarà però fondamentale esercitare una attenta
attività di controllo: «Quando le risorse si moltiplicano bisogna vigilare affinché nessuno ne
approfitti: gli enti ammessi al servizio civile dovranno essere accreditati e di provata
esperienza, non lasciamo spazi ai soggetti dell’ultima ora». In realtà il governo Renzi,
guardando al semestre di presidenza europea, già svolge lo sguardo altrove: ha in mente
un servizio civile allargato a tutta l’area Ue.
del 14/05/14, pag. 8
Il servizio civile sarà con benefit e crediti
formativi
Le linee guida della riforma Impegnati ogni anno fino a 100mila giovani.
Il governo: «Leva universale per la difesa della Patria» ● Aperto agli
stranieri e darà possibilità nel mondo del lavoro
Adriana Comaschi
Una riforma epocale, per un settore «che chiamano il Terzo ma che in realtà è il primo».
Con un’Authority ad hoc, un Testo Unico chiamato a raccogliere e semplificare le norme
vigenti e un rinnovato Servizio civile nazionale universale, aperto anche agli stranieri,
anticamera per l’ingresso nel mondo del lavoro. Questo il succo delle linee guida sulla
riforma del Terzo Settore, twittate tra lunedì e martedì da Renzi per lanciare una raccolta
di pareri da qui al 13 giugno. Il testo integrato dalle osservazioni delle associazioni
confluirà in un disegno di legge delega, da portare in Consiglio dei ministri il 27 giugno.
Dopo anni di oblìo mediatico dunque Renzi riporta il Servizio civile sotto i riflettori. Istituto il
6 marzo 2001 con la legge n° 64, dal 2005 solo su base volontaria, il Servizio civile si
rivolge a giovani tra i 18 e 28 anni «ed è un modo di difendere la patria - si legge sul sito
del governo - quanto alla condivisione di valori comuni e fondanti l’ordinamento
democratico». Il premier ne sottolinea proprio il carattere di «impegno civile, per la
formazione di una coscienza pubblica e civica». E lo ridisegna con obiettivi ambiziosi.
Anzitutto nei numeri: dovranno poterlo svolgere, su richiesta, «fino a 100 mila giovani
l’anno per il primo triennio», per 8 mesi (meno dell’anno di servizio militare e dell’attuale
Servizio civile, comunque prorogabili a 12), un modo per «fare un’esperienza significativa
che non li tenga bloccati per troppo tempo». Già questo dà l’idea della nuova rilevanza che
il Servizio civile «universale» dovrebbe acquisire, Renzi parla di «assicurare una leva di
giovani per la difesa della Patria» accanto al servizio in divisa. Per dare un termine di
paragone l’ultimo turno dell’attuale Servizio Civile coinvolge 1.541 fra ragazzi e ragazze,
impegnati in 198 progetti che fanno capo a enti diversi: moltissimi i Comuni, che li
impiegano dall’assistenza agli anziani alla tutela del patrimonio artistico, e poi Asl,
associazioni ambientaliste o attive nel sociale. Le proporzioni del Servizio universale
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immaginato da Renzi sono dunque ben diverse e affiancate da novità rilevanti. Spicca
quella dell’apertura anche agli stranieri, un segnale forte anche in vista di un confronto
politico sullo ius soli. A renderlo più appetibile dovrebbero poi contribuire la «previsione di
benefit per i volontari, quali crediti formativi universitari; tirocini universitari e professionali;
riconoscimento delle competenze acquisite durante il servizio». L’ingresso dei volontari nel
mondo del lavoro verrà poi facilitato da «accordi» con le associazioni di imprenditori e
cooperative del terzo settore, che garantiscano anche corsi di formazione. Le linee guida
hanno però una portata ben più ampia. Si punta certo a «valorizzare lo straordinario
potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale del terzo settore, l’unico
che negli anni della crisi ha continuato a crescere». Ma «delineando i confini, separando il
grano dal loglio». Ecco allora il riordino giuridico, per fare chiarezza su alcune ambiguità
ancora presenti ad esempio tra volontariato e impresa sociale, con la modifica del titolo II
del libro I del Codice civile ovvero delle norme sulla costituzione degli enti no profit e sulla
loro gestione economica. Previsti poi «forme di controllo e accertamento dell’autenticità
sostanziale dell’attivita realizzata» e «un regime di contabilità separata tra attivita
istituzionale e imprenditoriale».Ma anche una «codificazione dell’impresa sociale » e
procedure più semplici e «digitalizzate » per il riconoscimento della personalità giuridica».
5 PER MILLE E VOUCHER
Tra le facilitazioni, anche quelle economiche con un «potenziamento del 5 per mille»,
sempre all’insegna della trasparenza con un elenco visibile a tutti delle realtà che ne
beneficiano. Da notare poi l’introduzione di «voucher o detrazioni fiscali» per chi «sceglie
liberamente un’impresa sociale». Un impianto subito accolto «molto bene» da Forum del
Terzo settore, che raccoglie 80 reti nazionali: «Il documento contiene molti dei nostri
princìpi ispiratori, anzitutto quello della valorizzazione della sussidiarietà verticale e
orizzontale - spiega il portavoce Pietro Barbieri -, l’idea di costruire un welfare
partecipativo e di investimenti per creare una vera economia dal Terzo settore. Forse
questa è davvero #lavoltabuona».
del 14/05/14, pag. 1/15
La privatizzata gioventù
Giulio Marcon
Servizio civile . Servono 400 milioni, aspettiamo di vederli
L’annuncio di ieri di Renzi sulle «Linee guida per una riforma del terzo settore» contiene
una serie di annunci, di ipotesi generali — alcune sbagliate — sulle quali, al pari di altri
spot, il tempo ci dirà cosa c’è di concreto e cosa no. È bellissimo dire che si vuole fare un
servizio civile con 100mila giovani, ma perché Renzi non finanzia intanto quello che già
c’è? Ai tempi di Prodi partivano oltre 70mila giovani e c’era un finanziamento di 300 milioni
di euro. Ai tempi di Renzi ne partono 18mila ed il finanziamento è intorno ai 70 milioni di
euro. Se Renzi crede nel servizio civile non faccia annunci su leggi che devono essere
ancora scritte, discusse e approvate (chissà quando) ma sostenga la legge che già c’è,
magari prevedendo nuovi finanziamenti a partire dal decreto sull’Irpef in discussione al
Parlamento. E poi perché dire “massimo” 100mila giovani? Perché togliere agli altri questo
diritto e questa possibilità? Per fare un servizio civile per 100mila giovani servono almeno
400milioni di euro. Vediamo se Renzi li troverà, visto che fino ad oggi per l’edilizia
scolastica –suo cavallo di battaglia– ne ha trovati per il 2014 solo 122 (aveva promesso
3miliardi e 700 milioni solo un mese fa). Ci sono poi elementi che non possono essere
certo sottovalutati, come l’accesso degli stranieri al servizio civile, la possibilità di maturare
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crediti formativi, ecc, anche se manca paradossalmente qualsiasi riferimento ai “corpi civili
di pace” che un emendamento nella scorsa legge di stabilità ha deciso di finanziare per i
prossimi tre anni. Comunque sfidiamo Renzi: dimostri che non si tratta di uno spot e ci
faccia vedere qualcosa per la legge di stabilità. E inoltre: un conto è dire che che i giovani
del servizio civile devono svolgere un ruolo integrativo al settore pubblico, un altro è
prevedere che svolgano un ruolo sostitutivo, sorte che è toccata ad una parte del terzo
settore. E un’idea di privatizzazione del welfare aleggia in queste “linee guida”. Quando si
dice nel testo di Renzi che le organizzazioni non profit che svolgano una qualsiasi attività
economica debbano diventare “imprese sociali” (sulla base di una fallimentare legge, i cui
decreti attuativi sono stati scritti dal governo Berlusconi) questo induce qualche sospetto.
Quando poi ci si ricorda che la normativa sulle “imprese sociali” prevede che possano
esserlo anche le società profit che gestiscono attività nel settore sanitario, del l’istruzione,
dell’assistenza, allora il sospetto diventa realtà. E’ la nuova frontiera dei mercati sociali,
dove impera il business e non i diritti. Perché obbligare un’organizzazione di volontariato o
un’associazione a diventare “impresa sociale” solo perché gestiscono un servizio per i
cittadini, che magari ha una qualche rilevanza economica? E’ una torsione economicistica
del terzo settore che si coniuga con quella della privatizzazione del welfare, mascherata
dalla “scelta dell’utente”: la decisione , nelle linee guida, di incentivare i voucher gia’
previsti dalla legge 328 del 2000 (quella sui servizi sociali) va esattamente in questa
direzione, quella dei nuovi mercati sociali. Nelle linee guida si parla poi tanto di 5 per mille
per il volontariato, ma mai si usa la parola “stabilizzazione” di questa misura. Attualmente,
ogni anno, la legge di stabilità rinnova lo stanziamento. L’associazionismo da anni chiede
che ci sia una legge che renda stabile e permanente lo stanziamento del 5 per mille, ma
Renzi non da’ risposte a questa richiesta. Si ripropone un’Authority per il terzo settore, che
già c’era (abrogata dal governo Monti) e che non ha brillato per il suo lavoro. Un’Authority
per fare cosa? Per controllare il terzo settore o per sostenerlo? Non si capisce. Superflua
è poi la prima parte del documento dedicata –come fosse una grande novità– alla riforma
del codice civile per la parte che riguarda le associazioni, le fondazioni, i comitati e le
cooperative. Se ne sono occupati gli ultimi tre governi, senza grandi risultati. Nulla di
nuovo. Vedremo, dunque cosa succederà. Per il momento questo governo produce
tantissime “linee guida”, e non tutte sono buone. Almeno però sul servizio civile, che e’
una cosa seria, non si faccia del marketing.
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ECONOMIA E LAVORO
del 14/05/14, pag. 2
C’è fiducia nel precariato
Roberto Ciccarelli
Anche la Camera ieri ha dato il via libera al «decreto precari per sempre» che porta il
nome del ministro del lavoro Giuliano Poletti. 333 deputati hanno votato a favore, 159
contro. Il governo Renzi ha così incassato la nona fiducia del suo mandato, la terza su un
testo che è cambiato altrettante volte nella navetta tra Camera-Senato-Camera. Una
decisione presa per evitare trappole, tranelli e ripensamenti dell’ultim’ora da parte di una
maggioranza eterogenea, di cui il presidente del Consiglio si fida poco, evidentemente.
Tutti, alla fine, si sono detti soddisfatti.
Il Partito Democratico con Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro alla
Camera, secondo il quale il Decreto Poletti «è un compromesso accettabile» perché
mantiene inalterata la sostanza delle correzioni apportate in prima lettura alla Camera.
Anche il Nuovo Centro Destra canta vittoria perché ritiene di avere «smontato» la riforma
Fornero e sottratto il provvedimento dalle grinfie della Cgil. Una posizione surreale per
giustificare il peggioramento del testo, in particolare sulla multa alle aziende che non
rispettano il limite massimo di contratti di lavoro a termine pari al 20% dell’organico stabile.
La destra al governo celebra il fatto che «ora ci sono meno rigidità per le imprese»,
svincolate da uno dei pochi obblighi imposti dalla riforma Fornero. Di tutt’altro avviso i
deputati di Sel che ieri hanno indossato una maschera bianca contro un provvedimento
«che rende ineluttabile e naturale la condizione precaria per tutti i giovani» ha detto Titti Di
Salvo. Per Marco Revelli, portavoce dell’Altra Europa con Tsipras, presente a un presidio
in piazza Montecitorio organizzato da precari, studenti e sindacati di base, il decreto Poletti
è «una grande beffa, non produrrà lavoro, ma avrà il solo effetto di sostituire in modo
permanente quel pò che resta del lavoro “buono”, ossia stabile, con quello “cattivo”, ossia
precario». Per Francesco Raparelli, tra i portavoce delle Clap, Camere del lavoro
autonomo e precario di Roma «il decreto rappresenta l’inizio di una nuova politica postsalariale del lavoro,sempre più precarizzato che osteggeremo». L’appuntamento è per
sabato 17 maggio dove le ragioni contro questo primo scampolo di «JobsAct» sfileranno
insieme a quelle dei movimenti per i beni comuni, contro il Fiscal Compact e il patto di
stabilità.Tra le novità del decreto Poletti c’è anche l’esclusione degli enti di ricerca dal
limite del 20% sui contratti a termine. Per tutti gli altri casi è stata introdotta una «norma
ponte» per cui l’obbligo di adeguamento alla soglia scatterà dal 2015, sempre che la
contrattazione collettiva non fissi un altro limite. Per le lavoratrici madri viene rafforzato il
diritto di precedenza delle donne in congedo maternità per le assunzioni.
Sull’apprendistato sono stati ridotti gli obblighi di assunzione dei lavoratori nelle aziende
oltre i 50 addetti. Il ministro del lavoro Poletti è stato contestato ieri mattina ad un
convegno di presentazione della «Garanzia giovani» a Porta Futuro a Roma. Nonostante
un fitto schieramento di polizia, i manifestanti sono riusciti ad esporre lo striscion
«#stopjobsact. Reddito, welfare, diritti per tutti», intervenendo in un’assise dove c’erano
anche la presidente della Camera Blodrini e il presidente della regione Lazio Zingaretti.
Per gli attivisti, i 900 mila posti promessi dalla «garanzia giovani» sono tutt’al più dei «mini
jobs» o semplici ammortizzatori sociali. All’opposto, per i governanti sono un’«occasione»
da non perdere per stagisti e apprendisti. Poletti ha ribadito che il suo decreto «non
aumenta la precarietà» Il ministro sostiene che la criticatissima norma che cancella per tre
anni la causale sui contratti a termine permetterà «all’impresa di rinnovare allo stesso
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lavoratore il contratto». Di parere opposto, e con solidi argomenti, sono i giuristi
democratici che hanno annunciato di ricorrere in Europa contro un provvedimento che
viola le normative europee sui contratti a termine. «Se i numeri ci daranno torto — ha
aggiunto Poletti — prenderemo atto di avere preso una strada non giusta». Qualcuno ha
sincronizzato gli orologi, ieri, a piazza Montecitorio.
Acampada al Senato
Nelle stesse ore del presidio alla Camera, i movimenti della casa hanno sfilato per il centro
di Roma contro l’approvazione in corso del piano Lupi sull’emergenza abitativa. Il voto
finale dovrebbe esserci oggi al Senato su un provvedimento che contiene misure che
metteranno il turbo ai lavori dell’Expo a Milano: spese per manutenzuione del verde, 25
milioni di euro al comune di Milano, agevolazioni fiscali. Ciò che inquieta di più i movimenti
che si sono accampati a Sant’Andrea della Valle, a pochi metri da piazza Madama, è
l’articolo 5 che taglierà le utenze a tutte le occupazioni abitative in Italia. Per i movimenti si
tratta di un vero e proprio atto di rappresaglia. «Solo a Roma ci sono centinaia di sfrattati,
100 mila appartamenti vuoti, — ha detto Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani) —
vogliamo vedere in faccia chi ucciderà il diritto alla casa».
del 14/05/14, pag. 5
«Basta dimissioni in bianco»
Rachele Gonnelli
L’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite che promuove gli
standard minimi di diritto del lavoro in tutto il mondo, nel suo Rapporto sulla tutela della
maternità pubblicato ieri, si rivolge direttamente al governo italiano perché elimini la
deleteria pratica della richiesta di dimissioni in bianco.
L’indagine del Centro studi dell’Ilo, diretto per questo settore da Mauela Tomei, non
nasconde che l’Italia rispetto a Paesi come il Mozambico o la Malesia brilla per tutele delle
lavoratrici in gravidanza. La legislazione italiana brilla ancora persino in Europa, dove pure
i Paesi membri sono chiamati a osservare la Direttiva comunitaria del ‘92 che prevede 14
settimane di astensione dal lavoro assistita per le puerpere. Persino la Grecia riluce in
questo campo avendo dalle 13 alle 17 settimane di maternità pagata (l’Italia ne riconosce
22 settimane), anche se - precisa il Rapporto - con la crisi, l’adozione di misure di
austerità, l’impennata di disoccupazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro si è
notevolmente ridotta la platea delle lavoratrici che possono effettivamente usufrire dei
benefici. Così in Serbia, dove il sindacato Nezavisnost denuncia che, con l’aumento
vertiginoso dei contratti atipici, solo le dipendenti a tempo indeterminato sono di fatto
coperte dalle tutele di legge, cioè appena il 7,8 per cento delle donne. Anche in Spagna le
ong denunciano fenomeni di «mobbing contro le madri» ma è un’anomalia tutta italiana
quella del ricatto delle dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. La convalida
richiesta davanti all’Ufficio del lavoro - precisa l’Ilo - non è un deterrente efficace e le
dimissioni in bianco continuano a colpire le donne tra i 26 e i 35 anni ed è aumentato nel
biennio 2011-2012 del 9 per cento. Perciò l’Ilo chiede esplicitamente al governo di
eliminare l’autorizzazione prevista nel 2012.
Una proposta di legge volta a ripristinare e aggiornare, tramite dichiarazione digitale, le
norme della legge 188, risalente all’ultimo governo Prodi, è passata alla Camera il mese
scorso. Ma il presidente della commissione Lavoro al Senato, Maurizio Sacconi, lo stesso
che da ministro di Berlusconi abrogò la legge 188, ha ora assorbito la proposta nella legge
delega nota come Jobs Act, stemperandone di fatto le procedure di tutela.
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