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Jim Kelly
Trappola bianca
Traduzione di
Mauro Boncompagni
Titolo originale:
Death Wore White
Copyright © Jim Kelly, 2008
All rights reserved
Progetto grafico di collana: Yoshihito Furuya
Progetto grafico di copertina: Adria Villa
www.giunti.it
© 2012, 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: febbraio 2012
Ristampa
6 5 4 3 2 1 0
Anno
2019 2018 2017 2016 2015
Per Bob
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Lunedì 9 febbraio
L’ Alfa Romeo avanzava come la macchia lasciata da un rossetto su
un paesaggio color seppia. La neve punteggiava il terreno sabbioso
sul bordo delle acque increspate del Wash. Verso l’interno si stendeva la palude salmastra, una trama di un nitore invernale intorno
a una distesa di gelida acqua nera. Più in là, verso il mare, un convoglio di sei piccole imbarcazioni era avvolto in una chiazza porpora
che sfumava nell’oro nel punto in cui il sole stava tramontando.
L’ auto sportiva si avvicinò al limite di velocità mentre Sarah
Baker-Sibley osservava il primo fiocco di neve cadere sul parabrezza. Lo spazzò via con un colpo di tergicristalli, spinse l’accendisigari
e contò con le labbra fino a dieci, tenendo pronta una sigaretta tra
i denti.
Dieci secondi. Prese a tamburellare con le dita sul volante rivestito in pelle.
Mancavano due minuti alle cinque e i fari dell’Alfa proiettavano
la loro luce contro i catarifrangenti. Sarah estrasse l’accendisigari.
Il cerchietto di metallo infuocato parve sollevarle il morale e lei
rise tra sé, cominciando ad aspirare la nicotina.
Uno spirografo di ghiaccio aveva invaso il parabrezza, così Sarah mise il riscaldamento al massimo. Il termometro che indicava
la temperatura esterna sullo 0, in quel momento scese a -1. Lei
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ridusse la velocità a 80 chilometri all’ora e diede un’occhiata allo
specchietto retrovisore per controllare il traffico alle sue spalle;
era stata superata una volta e il veicolo era ancora davanti a lei di
circa ottocento metri. Dietro vide delle luci, ma più vicine, a un
centinaio di metri o anche meno.
Spazzò via altri fiocchi di neve dal parabrezza col tergicristallo.
Attaccata al cruscotto con una ventosa c’era la piccola foto incorniciata di una ragazza con i capelli fino alla vita: indossava un
costume da bagno e sullo sfondo c’era una spiaggia assolata. Sarah
toccò l’immagine come se fosse un’icona.
Affrontando una stretta curva sulla destra, vide le luci di coda
davanti a sé per alcuni secondi. Poi, al centro della carreggiata, le
apparve un cartello segnaletico luminoso, nero su sfondo giallo,
con la sigla dell’Automobile Club, ac, nell’angolo in alto a sinistra.
deviazione
allagamenti
Una freccia puntava bruscamente a sinistra, in direzione del mare,
giù per un’angusta strada in terra battuta.
«Accidenti.» Colpì il volante con la parte bassa del palmo. Rallentando ancora, diede un’occhiata all’orologio: le 17.01. Doveva
passare a prendere la figlia a scuola alle 17.30. Non era mai mancata, puntuale come un orologio svizzero. Quello era uno dei principali vantaggi dello svolgere un’attività in proprio: poter disporre del
tempo senza dover rendere conto a nessuno. Ecco perché prendeva
sempre la vecchia strada costiera e non la nuova autostrada a doppia carreggiata: lì non c’erano mai ingorghi, nemmeno d’estate.
Era sempre sgombra. Una volta, forse due, era rimasta bloccata al
negozio per un contrattempo, così aveva telefonato per avvisare
che sarebbe arrivata tardi. In quell’occasione Jillie era rincasata a
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piedi, ma a Sarah dispiaceva sempre deluderla. Specie quella sera,
dato che avevano annunciato neve. Sarebbe arrivata puntuale anche con la deviazione, sempre che non ci fosse nient’altro a farle
perdere tempo.
Guardando di nuovo nello specchietto retrovisore, si accorse
che la macchina dopo di lei si era avvicinata, così innestò la prima
e, sterzando, uscì dalla strada costiera per immettersi nel sentiero
coperto di neve. I fari setacciarono il bosco mentre l’auto svoltava,
ma Sarah non si accorse che la luce cadde per un fugace attimo
anche su una sagoma immobile con indosso un giaccone scuro
screziato di neve e la testa – incappucciata – girata da un’altra parte.
Notò tuttavia un cartello stradale.
siberia belt
Davanti aveva le luci di coda del veicolo che stava seguendo. Ci fu
un improvviso silenzio mentre si scatenava un turbine di neve che
avviluppò il mondo esterno. Si levò di nuovo il vento soffiando con
forza da destra, le raffiche erano come pugni attutiti dal guantone
di un pugile. Sarah controllò lo specchietto retrovisore cercando la
vista confortante dei fari alle sue spalle. Non ce n’erano. Le luci di
coda davanti a lei però erano ancora visibili: calde, brillanti, sicure.
Continuò in fretta l’inseguimento.
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A circa ottocento metri di distanza, l’ispettore Peter Shaw stava in
piedi sulla spiaggia mentre la neve cadeva, cercando di sorridere
al vento dell’Artico che soffiava da nord. Il paesaggio marino era
di un blu ghiaccio, e la spuma biancastra rompeva le onde prima
che arrivassero a infrangersi sulla spiaggia. Al largo, un banco di
sabbia era spolverato di neve: una distesa di zucchero a velo sul
marzapane. La raffica era passata subito dopo il suo arrivo, ma
Shaw sapeva che entro la notte si sarebbe scatenata una tempesta:
le nuvole cariche di neve si erano già ammassate all’orizzonte come
una catena montuosa.
«Sta per salire la marea» disse, togliendosi un fiocco di neve
dalle labbra con la lingua. «Perciò quella roba dovrebbe essere qui.
Proprio qui.» Prese a battere in modo ritmico con la scarpa per
terra, creando una piccola pozza simile a sabbie mobili intorno
alla sua impronta, poi tirò su la zip del giaccone impermeabile
giallo. «Un bidone giallo, di un giallo intenso, no?» chiese. «Color
mostarda, come l’altro. E allora dov’è?»
Il sergente George Valentine stava in piedi sottovento, a circa
due metri dall’ispettore, il viso girato dalla parte opposta rispetto
al mare. Soffocò uno sbadiglio digrignando i denti. I suoi occhi
lacrimavano fortissimo: un’allergia, dovuta forse alle alghe marine
o al sale nell’aria. Valentine si guardò i piedi, avvolti nei mocassini neri da cui stillava acqua salata. Era troppo vecchio per quelle
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cose: gli mancavano cinque anni alla pensione ed era tormentato
dai reumatismi. Avevano ricevuto la segnalazione della Guardia
costiera un’ora prima: rifiuti tossici avvistati al largo di Scolt Head
Island, che andavano alla deriva verso la costa.
Sei settimane prima, tre bidoni erano finiti sulla spiaggia di
Vinegar Middle, un banco di sabbia al largo della costa vicino a
Castle Rising. Shaw era impegnato nel primo turno a St. James’s,
la centrale di polizia di Lynn. Sua figlia Francesca veniva a giocare
sulla spiaggia, a volte, perciò lui osservava il luogo con occhi da
genitore. Quando era arrivato sul posto, una bambina di cinque
anni stava infilando un bastoncino nella parte alta del bidone, nel
punto in cui si era spaccato. Shaw le aveva detto di gettarlo, ma
non era stato in grado di nascondere il tono di apprensione, quasi
di comando, nella sua voce. Leggere il viso di un bambino non è
uno di quegli esercizi che si imparano nei manuali. Lui aveva còlto
l’espressione di improvvisa paura della piccola, ma gli era sfuggita
l’altra, quella di rabbia. Alla bimba non piaceva sentirsi dire quello
che doveva fare, così gli aveva agitato il bastoncino in faccia mentre
Shaw le afferrava un braccio per toglierla dalla pozza liquida in
cui aveva messo i piedi. La piccola non voleva colpirlo, ma mentre
l’ispettore si piegava, l’aveva centrato all’occhio.
La ferita era stata coperta da una garza e la medicazione fissata
con una striscia di cerotto; i bordi rossi, infiammati, di una cicatrice
fresca, erano appena visibili. Lui si toccò la fasciatura, muovendola
leggermente per allentare la pressione. La sostanza chimica contenuta nel bidone si era rivelata un mistero: una miscela instabile di
residui di acido nitrico e solforico, i sottoprodotti di un processo
manifatturiero non controllato. Una sostanza «classe otto», altamente corrosiva, con una notevole capacità di aggredire il tessuto
epiteliale, cioè la pelle.
«Dove sarà?» chiese di nuovo Shaw. Doversene stare così, im13
mobile, era una specie di tortura. Avrebbe voluto correre lungo la
riva, sentire il cuore che pulsava, il sangue che circolava veloce,
la marea intossicante degli antidolorifici che gli sommergeva il
cervello: lo sballo di chi ama la corsa.
Sollevò un piccolo cannocchiale portandoselo all’occhio buono,
che aveva l’iride di un azzurro pallido come l’acqua di una cascata,
ed esplorò il panorama. Il viso di Shaw si rivolgeva al mare aperto;
era quel tipo di viso che trova sempre un orizzonte da esplorare.
Aveva gli zigomi alti, sembrava un intraprendente guerriero dell’orda mongola spinto a nord della costa del Norfolk per piantare la
tenda accanto alle capanne sulla spiaggia.
Il sergente Valentine diede un’occhiata all’orologio. L’ aveva
comprato per una sterlina ed era piuttosto sicuro che il marchio
rolex fosse falso. Il tic-tac dell’orologio era sospettosamente sonoro. Rabbrividì tenendo la testa bassa, quasi penzolante dal collo
sottile, simile a quella di un avvoltoio. Tentò di tenere la bocca
chiusa, perché sapeva che i denti avrebbero cominciato a dolergli
se fossero venuti a contatto col vento.
Una radio gracchiò e Valentine la tirò fuori dall’impermeabile
informe che indossava. Si mise in ascolto, disse semplicemente
«Bene» e, armeggiando di nuovo tra le pieghe dell’impermeabile,
estrasse un tubetto di caramelle alla menta, ne fece schizzare fuori
una e la masticò immediatamente.
«Era la Guardia costiera. Hanno perso di vista il bidone un’ora
fa. L’ acqua si sta agitando, ora che sale la marea.» Scrollò le spalle come se conoscesse gli umori dell’oceano. «Non c’è molto da sperare.»
Shaw si passò una mano tra i capelli corti e biondi. I due rimasero così, in piedi, uno che guardava a sud e l’altro a nord,
chiedendosi come fossero arrivati a quel punto: Shaw e Valentine,
la più recente coppia di detective del Dipartimento di polizia del
West Norfolk.
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Qualche burlone nel settore amministrativo, aveva pensato
Shaw, qualche vecchio idiota che conosceva il passato e a cui non
importava niente del futuro. C’era bisogno di un nuovo partner
per lui, che a trentatré anni era l’ispettore più giovane in servizio,
l’enfant prodige con la sua bella laurea e un padre che, un tempo,
era stato candidato al ruolo di capo della polizia. E gli avevano
abbinato George Valentine, un relitto vivente che proveniva da un
mondo del tutto diverso, un mondo in cui poliziotti cinici intraprendevano guerre senza speranza contro la criminalità di strada.
Un uomo che da miglior detective della sua generazione, a causa
di un errore, era finito sulla lista nera da cui stava ancora tentando
di uscire. Un uomo la cui carriera pareva descrivere la traiettoria
di un mattone sul punto di precipitare a terra.
Era la loro prima settimana insieme, come partner, e a entrambi
sembrava già una vita.
Shaw si guardò in giro. Aveva giocato su quella spiaggia da
bambino. «Andiamo lassù» disse, indicando una bassa collina tra
le dune. «Gun Hill. Lì si sale a una certa altezza. Magari ci riesce
anche di vederlo, quel bidone.»
Valentine annuì senza entusiasmo. Diede la schiena al vento
che proveniva dal mare e guardò verso l’interno, lungo la curva
in cui era impresso il segno dell’acqua alta. «Là» disse, togliendo una mano nuda dalla tasca dell’impermeabile con una certa
riluttanza.
Un barile metallico di petrolio, di colore giallo, rotolava fra le
onde.
«Andiamo» disse Shaw, che era già partito correndo: teneva
un’andatura al piccolo galoppo, compatta, quasi senza sforzo.
Il coperchio del bidone era così arrugginito e arricciato che il
contenuto aveva cominciato a fuoriuscire. Shaw riuscì a sentirne
l’odore anche a due metri di distanza, con quel forte aroma quasi
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corrosivo di ammoniaca. Il liquido che si spandeva lungo le pareti
esterne del bidone era verde, sembrava fluorescente, gelatinoso. La
vernice del fusto si sfogliava al contatto.
«Chiamo la Guardia costiera» disse Valentine senza fiato, tirando fuori la radio. «L’ imbarcazione potrebbe essere là fuori. Chissà
quanti altri barili avranno scaricato.»
«Chiama anche la centrale» disse Shaw. «Devono mandarci un
team di chimici per mettere in sicurezza questo bidone e portarlo
via dalla spiaggia. Meglio che noi ce ne stiamo qui fino all’arrivo
dei ragazzi. Dagli le coordinate.» Shaw lesse ad alta voce i numeri
sul suo Gps.
Mentre Valentine continuava a trafficare con la radio, Shaw
si accovacciò, raccolse una decina di gusci di patelle giallastri e li
allineò sulla sabbia. «Potremmo anche accendere un fuoco» disse
ad alta voce. Il vento era calato e, con l’avanzare del buio, l’aria
stava diventando gelida. Immaginò il breve crepuscolo, il fuoco
che si accendeva sul segnale di acqua alta, e si sentì meglio. Dopo
aver messo in tasca le conchiglie, cominciò a raccogliere dei relitti
galleggianti, tra cui una cassetta di birra, alcuni pezzi di quercia di
torbiera e i resti rinsecchiti di una copia del Telegraph, poi si voltò
con le braccia cariche.
Fu allora che vide qualcos’altro in mezzo alle onde. L’ acqua a
Ingol Beach digradava dolcemente, così, sebbene quella cosa si
trovasse a cento metri di distanza, toccava già il fondo, flettendosi
e piegandosi leggermente tra le acque bianche. Un canotto, uno di
quei giochi da bambini in colori disneyani. Shaw restò fermo per
alcuni secondi, guardandolo venire lentamente a riva. Il gommone
s’incagliò a una trentina di metri da lui, bloccandosi.
Valentine vide il suo ispettore togliersi scarpe e calze. Gesù!,
pensò guardandosi intorno, nella speranza che fossero ancora soli
e, soprattutto, che Shaw si fermasse alle calze. L’ ispettore avanzò
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a guado; il contatto con l’acqua gelida gli diede quasi una scossa
elettrica e gli provocò una fitta alle ossa.
C’era qualcosa dentro il gommone, qualcosa che non rispondeva allo strascicamento e al dondolio delle acque. Un peso morto.
Quando vide le mani – entrambe nude – e i piedi, chiusi in scarpe
da ginnastica inzuppate di acqua marina, capì che si trattava del
corpo di un uomo: aveva peli neri sulle mani e un vistoso anello
con sigillo. Sentì il sangue pulsargli improvvisamente nelle orecchie mentre il suo corpo reagiva alla vista della morte. L’ impulso
di fuggire, di scappare dal pericolo, era quasi travolgente. Provò
anche la sensazione che il tempo si fosse fermato, come se intorno
a lui tutto si svolgesse a una velocità tremendamente lenta.
Si sforzò di osservare, di tenersi lontano dalla scena.
Morto, sì, ma da quanto? Meno di quarantotto ore. Le braccia
e le gambe erano in posizioni innaturali, piegate in angoli orribili
a vedersi, perciò il rigor mortis non era ancora passato.
Posò una mano sul bordo del gommone per raddrizzarlo, stringendo con le dita una maniglia sistemata all’altezza della prua.
Jeans, T-shirt, un pesante giubbotto dal collo di pelliccia indossato
solo per metà, che gli lasciava libero un braccio. Sul fondo c’erano
un paio di centimetri di acqua marina mescolata a sangue.
Valentine andò incontro a Shaw sulla sabbia asciutta, e i due
girarono il gommone in modo che quel po’ di sole che restava
illuminasse la testa del morto; impossibile non guardarlo adesso.
L’ uomo era privo di vita, sicuramente, nonostante il corpo si muovesse insieme alle onde. Un volto umano: la passione di Peter Shaw,
perché ciascun viso rappresentava un equilibrio e uno squilibrio
unico di lineamenti non meno individuali delle impronte. Notò il
gonfiore e il profondo pallore, sembrava grasso freddo, con quelle
tonalità quasi iridescenti di blu e verde. Un uomo giovane, con
una barbetta rada sul mento, gli occhi semiaperti ma spenti, senza
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luce, una palpebra più chiusa dell’altra. Rughe orbitali laterali –
le zampe di gallina – decisamente pronunciate, come se l’uomo
avesse passato la vita a tenere gli occhi socchiusi per via del sole. I
muscoli sottostanti modellavano la pelle come la superficie di un
pezzo di ferro battuto. Ma fu la bocca ad attirare l’attenzione di
Shaw. Le labbra, due righe diseguali, si erano ritratte scoprendo i
denti, macchiati di sangue.
«Merda» disse Valentine, girandosi, avanzando di tre passi e
vomitando nella sabbia.
Tornò pulendosi le labbra. «Mi succede quando vedo il sangue»
disse, evitando lo sguardo di Shaw. Poteva anche essere un poliziotto con trent’anni di esperienza, ma questo non l’aveva abituato
a stare in compagnia dei morti.
Shaw cercò di rianimare il viso della vittima nella sua mente,
come gli era stato insegnato. Gli tese la mascella, ricompose gli
occhi, rimise a posto l’arco delicato delle labbra. Un volto non
cerebrale, ma muscolare.
Fu Valentine il primo ad accorgersi del segno sul braccio. L’ acqua del mare l’aveva ripulito e non sanguinava più, ma era impossibile sbagliarsi sulla forma: era quella di un morso. Un morso
umano. I denti avevano bucato la pelle in profondità, affondando
malignamente nel tendine e nel muscolo, quasi incontrandosi in
una secca, doppia incisione.
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Sarah Baker-Sibley bloccò l’Alfa dietro le luci di coda ferme, lasciando
una distanza di tre auto tra sé e la macchina più vicina. Il veicolo in
testa si era fermato e un pino, che illuminato dai fari assumeva una
tonalità argento, ostruiva la strada. Guardando davanti a sé, Sarah
vide che non si trattava di una macchina, ma di un camioncino nel
cui vano posteriore era stato depositato un basso carico coperto. La
cabina era munita di un lunotto che faceva passare la luce attraverso
un vetro smerigliato. Il motore girava al minimo, e i gas di scarico svanivano come per incanto a ogni alito di vento. A un tratto, nel silenzio,
avvertì una musica: un pezzo urban, nervoso e sonoro. Poi più nulla.
Il brano successivo, più forte, era persino meno melodico. Le folate
di neve erano cessate, ma continuavano ancora a cadere dei fiocchi.
Lei attivò la chiusura centralizzata e frugò nella borsetta alla ricerca del cellulare. Era un modello recentissimo, regalo di uno dei
suoi fornitori, prezzo al dettaglio 230 sterline. Connessione a Internet, Gps, foto-videocamera, retro decorato con un particolare delle
Ninfee di Monet.
segnale assente
ricerca rete
Gettò il telefonino sul sedile del passeggero. Davanti, la neve sulla
strada era già alta sei centimetri e pulita come l’asciugamano di un
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albergo. I due solchi paralleli, appena visibili, lasciati dai copertoni,
si stendevano fino al camioncino bloccato.
Poi sentì il rumore di un veicolo alle sue spalle e, guardando
nello specchietto retrovisore, vide i fari avanzare fino a quando non
furono così vicini da cadere nella sua ombra. Non appena l’effetto
abbagliante delle luci svanì, vide l’autista. Un uomo solo. Controllò
che la portiera avesse la chiusura automatica inserita.
Osservò l’uomo sollevarsi a fatica dal sedile del conducente,
uscire e raddrizzarsi con una mano sulla macchina in cerca di sostegno. Il tizio avanzò barcollando, ma si fermò subito, non appena
il vento riprese a soffiare, si fece forza e attese che passasse il peggio.
Si affacciò al finestrino chiuso del conducente. Un sorriso forzato, i capelli bianchi spruzzati di neve, le dita grassocce che tenevano
stretto il colletto di un giaccone da lavoro. Un paio di occhiali
dalla pesante montatura nera gli ingrandivano gli occhi, che erano
lattiginosi per via dell’età. Il gelo aveva conferito un minimo di
colore alle sue guance, ma per il resto l’uomo era pallido e come
prosciugato, con la fronte imperlata di sudore freddo.
«Tutto ok?» disse l’uomo non appena lei abbassò il finestrino
di qualche centimetro. Sentì di nuovo il suono della musica, ora
anche più forte, che proveniva dal camioncino.
«Siamo bloccati» disse lei secca. «Io però ho un bisogno assoluto di proseguire, perché devo andare a prendere mia figlia a scuola.
Non è che potrebbe controllare più avanti e vedere se possiamo
rimuovere quell’albero?»
Lui guardò davanti a sé e si inumidì le labbra con aria riluttante,
poi si mosse. Lei osservava le orme lasciate dall’uomo sulla neve:
un’unica linea di impronte piatte, leggermente irregolari. L’ uomo
scivolò sull’orlo del fossato non appena il vento riprese a soffiare; le
braccia gli scattarono all’insù come se si fosse messo a fare segnali,
mentre il giaccone si gonfiava.
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«Ci mancava solo questa» disse lei, spingendo l’accendisigari
in profondità. «Il nonno in ammollo.»
Pulì la condensa sul parabrezza con un panno e osservò l’uomo raggiungere il finestrino del pick-up. Lui si chinò leggermente
all’altezza della vita, parlò per pochi secondi e poi si raddrizzò
infilando entrambe le mani nelle tasche del giaccone.
Tornò un minuto dopo, forse anche meno, talmente in affanno
che dovette appoggiarsi al tettuccio dell’Alfa. «Allora... Impossibile
spostare quell’albero, almeno adesso. Quello dice che dovremmo
fare tutti marcia indietro. Ce l’ha un cellulare?» chiese.
«Non c’è segnale.»
«È quello che mi ha detto anche lui. Io non ho il cellulare.» Si
strofinò un occhio sotto le lenti spesse. Lei si accorse che la faccia
dell’uomo, nonostante il freddo, era tutta bagnata di sudore.
La donna espulse il fumo dalle narici, serrando le labbra in una
smorfia contrariata. «Cerchi di non agitarsi» disse.
Lui si chiuse il bavero del giaccone. «Io sto bene. Cercherò di
fare retromarcia fino all’incrocio. Lì c’è un sentiero che porta a una
fattoria. Mi dia solo qualche minuto.» Se ne andò prima ancora che
lei avesse il tempo di replicare.
L’ uomo tornò barcollando alla sua auto, tolse la neve dal parabrezza con la manica e poi si abbassò per sedersi al posto del
conducente e mettere in moto. Sbirciò prima verso il cruscotto,
poi verso lo specchietto retrovisore.
«Eddai!» disse Sarah. «Non è che devi far partire uno Shuttle,
che cazzo!»
L’ uomo non si mosse. Lei aprì la portiera di scatto e uscì fuori
nella notte, mettendosi una mano sopra gli occhi per impedire che
i fiocchi di neve le rimanessero impigliati nelle ciglia. Si piegò e
curvò le spalle nel tentativo di proteggere il collo dal freddo.
Vide l’auto del vecchio con chiarezza per la prima volta. Una
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Corsa a tre porte color argento, con un paio di scale fissate accuratamente al portapacchi.
Ma fu quello che vide snodarsi dietro la Corsa a far imprecare
Sarah Baker-Sibley. Una fila di fari che tentava di retrocedere; erano
tutti bloccati dalla neve.
Lei alzò lo sguardo e lasciò che qualche fiocco le si posasse sul
viso. «Perché io?» chiese. Pensò a Jillie che arrancava verso casa
nella neve. «E perché proprio adesso?»
Come se avesse ricevuto l’imbeccata, la tempesta alla fine si
scatenò; la nevicata si fece sempre più intensa, sostenuta dal vento
che soffiava dal mare. La visibilità si ridusse a pochi metri. Sarah
si strofinò via i fiocchi dalle palpebre e tornò in fretta al riparo
nella sua auto.
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Nella tempesta, Shaw e Valentine agirono in fretta. Trascinarono
il gommone lungo la distesa di sabbia fino alla Land Rover nera dell’ispettore, parcheggiata oltre un boschetto di biancospini.
Quando terminarono di fissare il telone, zavorrandolo agli angoli
con qualche pietra, la nevicata si era ormai scatenata. Allora rimasero seduti all’interno ad aspettare e, da un finestrino aperto,
Shaw osservò l’alta marea che stava inghiottendo la spiaggia. Erano
undici anni che faceva il poliziotto, ma quella era la prima volta
che scopriva un cadavere e provò sconcerto nel rendersi conto che
l’impatto emotivo non accennava ad attenuarsi. Shaw sentiva un
vuoto allo stomaco e continuava a vedere la bocca del morto, con
quel sangue rosso mattone sullo smalto bianco dei denti.
Valentine si piegò in avanti con le mani sulla ventola dell’aria
calda, continuava a mandar giù catarro mentre la polvere gli irritava senza sosta la gola. Aveva cestinato l’ultimo pacchetto vuoto
di Silk Cut alla centrale di polizia, così chiuse gli occhi cercando di
non pensare alla nicotina, cercando di non pensare al cadavere nel
gommone. Ma era difficile scuotersi di dosso l’immagine di quella
ferita apparentemente autoinflitta. Provò a inoltrare una chiamata
via radio: la centrale operativa gli disse che il patologo della polizia,
una donna, era in arrivo e una squadra della Scientifica del West
Norfolk si stava riunendo giusto allora, ma la nevicata aveva portato
il caos sulle strade costiere, perciò ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
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La tempesta passò in una ventina di minuti e si diresse poi verso
l’interno, trascinata da venti impetuosi, e seguita da aria calma. Gli
ultimi fiocchi di neve assomigliavano ai papaveri lanciati in alto il
Giorno dell’Armistizio, ed erano di un bianco rossiccio.
La pazienza di Shaw si esaurì. L’ ispettore aprì la portiera con
forza e rabbrividì al contatto con l’aria, incredibilmente fredda.
Tirò le chiavi a Valentine. «Porta la Land Rover sulla spiaggia e tieni
i fari accesi. Dentro c’è una fotoelettrica, comunque.» Si protese
all’interno e diede un colpetto a un interruttore rosso. «Cammina
fino al segno dell’acqua alta e vedi se riesci a trovare qualcosa; che
so, abiti, un’arma, qualsiasi cosa. Se ci sono altre orme nella sabbia,
a parte le nostre, segnalale con le bandierine apposite, che sono nel
bagagliaio. Ah, c’è anche del nastro; usalo e delimita il punto in cui
ho tirato a riva la salma, anche se ormai sarà sott’acqua, probabilmente. Ci sono delle buste per le prove nello sportello del cruscotto.
Appena arrivano i Vigili del fuoco o i nostri ragazzi, aggiornali. E
non dimenticarti delle regole che vanno rispettate sulla scena di
un delitto: niente fumo.»
Valentine fece schizzare fuori dal pacchetto un’altra caramella.
«Io mi arrampico lassù e vedo cosa si può vedere da lì. Torno
tra dieci minuti, non di più.»
«Bene» disse Valentine.
Shaw sentì una nota di riluttanza in quell’unica parola che diceva così tanto. Gli tornò in mente George Valentine sul letto di
morte del padre, con un bicchiere di whisky al malto in mano e
una sigaretta che si consumava tra le dita ingiallite.
La noia, quella casetta e il pensionamento precoce – forzato
– avevano ucciso l’ispettore capo Jack Shaw. L’ avevano ucciso in
fretta, per fortuna. La conclusione prematura del lavoro e il ritorno
alla vita da borghese erano venuti dopo l’ultimo, noto caso del
padre. Fin lì, quei due avevano costituito la coppia più gloriosa del
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dipartimento: l’ispettore capo Jack Shaw e l’ispettore investigativo
George Valentine. Un paio di sbirri all’antica in un mondo all’antica. Perciò Shaw sapeva a cosa stava pensando Valentine adesso:
che, dieci anni prima, loro avrebbero risolto un caso simile senza
tutti quegli insensati meccanismi delle procedure di polizia, senza
una bella laurea in discipline forensi (qualsiasi cosa fossero) e senza
quella filosofia del controlla e ricontrolla ogni cosa.
Valentine rigirò i due dadi attaccati all’accendino che facevano
da portachiavi. Verdi e avorio, con i puntini dorati. «Cos’è questo
odore?» chiese prima che Shaw si fosse allontanato di una decina
di metri.
Shaw si fermò annusando la brezza marina. «Potrebbe essere
menta, George. Mastica un altro po’ di quella roba e spaventerai
anche le pecore.» Ma Valentine aveva ragione. C’era qualcos’altro
nell’aria, qualcosa che sapeva di ozono e di alghe marine. «È benzina. Che sia un fuoribordo?» chiese Shaw.
Valentine tirò fuori un fazzoletto e si tamponò gli occhi irritati,
che continuavano a lacrimare.
«Presidia il fortino» disse Shaw, avviandosi con passo leggero
attraverso le dune e cominciando la sua scalata. Scelse una stretta
cresta in cui la neve si era appena attaccata alla sabbia e all’erba.
Giunto in cima, si spinse fino a una vecchia postazione per cannoni, ormai ridotta a una massa di cemento e di ferro arrugginito. Lo
sforzo fisico lo fece sentire meglio, disperdendo lo stress accumulato. Lì in alto il vento soffiava ancora con forza e i fiocchi di neve
continuavano a cadere, strisce luminose come fuochi d’artificio.
Più in giù, sulla spiaggia, Shaw riuscì solo a vedere la Land Rover
e il telone steso sulla sabbia.
Girandosi, si rivolse a sud, verso le luci di una fattoria: in una
sola occhiata, vide la lamiera ondulata che ricopriva un fienile e una
luce bianca che illuminava una piccionaia sul tetto di un vecchio
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complesso di stalle. Erano passati in macchina dal cortile della fattoria un’ora prima, durante il tragitto verso la spiaggia, e l’ispettore
aveva notato il nome: Gallow Marsh Farm.
Poi, voltandosi verso l’entroterra, vide le luci delle auto: una
coda di veicoli allineati dietro un pino caduto sulla strada, con
i rami piegati e spezzati. I fumi dei gas di scarico erano sospesi
nella notte senza vento. Era quello l’odore nell’aria, non il motore di un fuoribordo in mare. Shaw tirò fuori il cannocchiale e lo
portò all’occhio buono, mettendo a fuoco il veicolo all’inizio della
coda. Un camioncino. La luce nell’abitacolo era accesa, i finestrini
erano screziati di neve e qualcuno si stava muovendo all’interno.
Guardò all’indietro, risalì la coda: ciascun veicolo spiccava tra i
cumuli di neve.
Sul mare le nuvole minacciose si erano dissolte, lasciando scoperto uno spicchio di cielo sereno nella notte, un planetario di
luci, da cui il chiarore lunare s’irradiava sulle acque. Shaw osservò
il bianco disco della luna muoversi di traverso lungo l’orizzonte,
come un arredo scenico in uno spettacolo teatrale per bambini. La
silhouette di uno yacht, che avanzava lieve verso est, fece rotta in
direzione della costa; il motore ronzava con efficienza, e sulla vela
bianca spiccavano le valve azzurre di un mollusco.
26
5
La fila degli otto veicoli sembrava fatta di zucchero a velo, un modello squisito di torta nuziale che nessuno aveva toccato. La luna
era apparsa sopra lo scenario; le nuvole cariche di neve si erano
spostate dopo un’ultima pesante raffica, e ora le stelle si stendevano a nord sopra il mare, verso il lontano polo. Gli uccelli della
palude erano silenziosi, le chiuse erano intasate dal ghiaccio e,
dopo l’alta marea, l’acqua era tornata indietro remissiva scoprendo la distesa di sabbia. Più vicino ai veicoli bloccati dalla neve si
udivano segni di vita: una nota di basso, brani musicali, il ronzio
dei motori lasciati accesi per il riscaldamento. Dal camioncino
all’inizio della fila, si sentiva la radio locale: una melodia aspra e
metallica che andava e veniva insieme al segnale.
A tre veicoli dalla coda del piccolo convoglio, c’era un Astravan bianco avorio. Era sintonizzato su Radio 2, e una voce all’interno continuava a cantare rumorosamente una ballata su una
ragazzina che dava la caccia a un vecchio. Fred Parlour tenne
la nota finale con sorprendente abilità, poi rise per la sua performance. Era attraente, sui cinquantacinque anni, con un viso
compatto e simmetrico e una mascella che non dava alcun segno di cedimento nonostante le prime ciocche grigie alle tempie.
L’ uomo, che indossava una tuta fresca di bucato, sfoggiava delle
unghie pulitissime e dei capelli dal taglio impeccabile.
Accanto a lui sedeva Sean Harper, l’apprendista della ditta. Por27
tava i capelli corti e a punte, appiccicosi per il troppo gel, e teneva
il naso – su cui si notava un piercing eseguito con un chiodo –
affondato in una rivista pornografica. «Finirà che diventi cieco»
disse Parlour.
Harper guardò le luci del furgone che stazionava davanti a
loro. «E allora? Dobbiamo stare qui tutta la notte, no? Tanto vale
che mi diverta.»
Un cagnolino, un Jack Russell, infilò il muso tra i sedili, lo
strofinò contro le sue dita e fece schioccare la lingua con un suono
liquido.
«Quanto credi che ci metteranno ad arrivare?» chiese Parlour
in tono più cordiale. Il furgone davanti aveva una scritta impressa
sugli sportelli posteriori:
north norfolk security
01553 121212
i numeri della vostra sicurezza
Sean Harper era uscito non appena avevano dovuto fermarsi.
Non riusciva a trovare il segnale col suo telefonino, così si era
messo a correre lungo il lato che dava sul mare, sotto la neve che
continuava a cadere, per vedere se gli occupanti del veicolo davanti a loro avevano una radio. Era un furgone rimesso a nuovo
della Securicor, un vecchio modello, si vedeva la ruggine intorno
ai rivetti. Davanti era seduta una guardia con indosso un’uniforme che le cadeva male e uno sguardo non più intimidatorio
di quello della maschera di un teatro. Il tizio si era limitato a
sollevare il pollice, ma non aveva abbassato il finestrino. E non
aveva nessuna radio.
«Non mi piacciono le uniformi» aveva detto Sean al suo ritorno. «E nemmeno le teste di cazzo che ci stanno dentro.»
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Parlour si strinse nelle spalle. «Non è che ora si metteranno a
svaligiare il furgone, eh?»
Tirò fuori il cellulare dal taschino e controllò il segnale: una
tacca, ma poi anche questa scomparve. Il cane gli annusò il collo,
così lui allungò il braccio all’indietro, prese di peso l’animale e se
lo mise sulle ginocchia, strofinandogli la pancia nel punto in cui il
pelo era più rado sulla pelle rosea. Prese un biscotto per cani dal
vano portaoggetti e lo porse all’animale.
«Tutto bene, Milly?» Parlour infilò la testa sotto il mento del
cane, premendo. «La porto un attimo fuori. Mi sa che non ne può
più.»
Diede un’occhiata all’orologio: le 19.40. Erano fermi da più di
due ore. Spingendo la portiera contro il piccolo ammasso di neve
che si era formato dal lato del conducente, Parlour fece uscire il
cane. Il rumore della portiera che sbatteva fu attutito dalla neve,
ma un paio di oche si levarono rapidamente in volo dalla palude,
starnazzando.
L’ aria era innaturalmente tranquilla, di attesa, come in un teatro
vuoto.
Parlour rimase fermo a tossire nel freddo, passando in rassegna
con lo sguardo la fila di veicoli. Non si sentiva nessuna eco; la neve
soffocava ogni suono, avvolgendolo nel silenzio. Sean aveva detto
di aver visto un albero sul davanti, che bloccava la strada, e una
macchina messa di traverso alla fine della coda, dietro la Morris
Minor che si trovava alle loro spalle. Quando aveva proseguito
oltre il furgone, si era imbattuto in un altro autista un po’ più su
lungo la fila; un muso giallo, aveva detto in tono sprezzante, anche
se era stato costretto ad ammettere che si esprimeva in un buon
inglese. Sean gli aveva chiesto cosa fosse meglio fare, secondo lui.
«Starsene seduti tranquilli» gli aveva risposto Parlour, voltandosi.
Così erano rimasti seduti tranquilli.
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Parlour si stirò nell’aria fredda e tentò di ascoltare il sussurro
del mare. Si avvicinò alla Morris e batté sul finestrino. Non c’era
luce all’interno, così come non c’era nessun segno di vita. Poi vide
una fragile mano che armeggiava con la manopola del finestrino,
intralciata da un grosso anello in ambra a un dito. La conducente
abbassò il vetro. «Dovremo restare qui ancora per molto?» chiese,
come se lui fosse un uomo dell’Automobile Club. Il trucco, in un
accanito tentativo di sfidare gli anni, dava al suo viso un aspetto
artificiale; le sopracciglia erano due linee nere tracciate con la matita, e al posto delle labbra c’era una macchia cremisi.
Parlour disse che non sapeva quanto ancora sarebbero dovuti
restare lì, aggiungendo però che il cielo si era aperto e che ben
presto li avrebbero individuati. Ma ci poteva volere anche tutta la
notte. E i cellulari erano inservibili.
«Lo so» disse lei. «L’ ho sempre detto.»
Milly si mise a fiutare tra le scarpe dell’uomo.
«Ha spento il riscaldamento?» le chiese lui.
Lei lo guardò come se fosse un idiota. «Sto bene» disse, e poi,
con quello che parve uno sforzo: «La prego, non si preoccupi
per me».
Parlour controllò la spia della benzina; le restava ancora un
quarto di serbatoio, forse meno. «Ok. Ma se dovesse aver freddo,
noi siamo qui davanti.»
«Ora mi metto a dormire» disse lei, tirando su il finestrino.
L’ auto successiva era l’ultima della fila, una Mondeo, bloccata di
traverso in mezzo alla strada. Fred si stava chinando per bussare sul
vetro quando la portiera si aprì di colpo e lo centrò in piena fronte.
Fece giusto in tempo ad aggrapparsi al telaio, risparmiandosi una
caduta tra le acque scure e il canneto.
Nel chiarore lunare vide la piccola scia di sangue sulle dita,
mentre si toccava la ferita.
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Un ragazzo con un berretto da baseball uscì dalla macchina, il
cavallo dei jeans che gli arrivava fin quasi alle ginocchia. Sembrava
accaldato, tanto era rosso in viso, e indossava una T-shirt con la
scritta Pi is God scolorita dal sudore. Sul resto del tessuto si intravedevano dei numeri azzurri. Il ragazzo aveva la classica magrezza
degli adolescenti e muoveva le braccia formando strane angolazioni. La pelle era chiara e il viso magro, dominato da sopracciglia
folte e scure. Parlour non si accorse del respiro corto e rapido del
ragazzo, e del tremito che gli faceva vibrare le mani nelle tasche.
Non si accorse nemmeno delle scarpe da corsa: un paio di Nike
che, nuovo, non costava meno di 180 sterline.
«Sì?» disse il ragazzo, tirando una mano fuori dalla tasca prima
di rimetterla subito dentro.
«Non è che il tuo cellulare funziona, vero?» chiese Parlour.
Lui scosse la testa e si mise a guardare su e giù lungo la coda.
«No.» Si leccò le labbra. «E adesso cosa succederà, secondo lei?»
Tipico accento di Londra o del sud-est dell’Inghilterra, anche se
di sottofondo si percepiva la sottile inflessione dei ragazzi del ceto
medio cresciuti guardando Art Attack.
Parlour si strinse nelle spalle. «Mi sa che tra un po’ finiremo
per mangiarci a vicenda.»
«No.» Il ragazzo produsse un rumore di gola che non era una
risata. «Senta, ma... ma cosa potrebbe succedere?» La nota di supplica era inconfondibile. Parlour vide gli occhi del ragazzo riempirsi
di lacrime.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi» rispose, levando lo sguardo
alle stelle. «La polizia farà arrivare un elicottero al più presto. Non è
possibile che siamo gli unici a essere rimasti bloccati. Hai qualcosa
da mangiare? Dell’acqua?» Vide una bottiglia di vodka sul sedile
del passeggero.
Il ragazzo guardò in direzione della palude, calandosi il berretto
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da baseball sui capelli neri, corti e folti. «Crede che potrei farcela
ad arrivare dall’altra parte? E se fermassi una macchina lungo la
strada? Potrei chiedere aiuto.»
Parlour scosse la testa. «Meglio aspettare. Se cadi là dentro,
stanotte, finirai per morire assiderato. Non ne vale la pena. Comunque, questo aggeggio da solo può produrre abbastanza calore
da aumentare il riscaldamento globale. Perciò qui dentro starai
alla grande. Come sei messo a carburante?»
Il ragazzo tornò a sedersi al posto di guida fissando il cruscotto con aria assente, poi impugnò il volante con entrambe le
mani. Parlour notò che il volante aveva un rivestimento in pelle
di serpente con un motivo a zigzag in bianco e nero. Mise a fuoco
l’indicatore del carburante. «Ah, ecco. Non va poi tanto bene, eh?
È sul rosso. Se fossi in te, spegnerei i fari, darei una bella riscaldata all’abitacolo e poi bloccherei il motore. Vedi quanto riesci a
resistere. Ma non preoccuparti; se resti a secco, vieni da noi, va
bene?» Parlour gli tese la mano. «Io sono Fred. È la macchina di
tuo padre, vero?»
Nessuna risposta. Il ragazzo chiuse la portiera con un colpo
secco.
Parlour si girò e vide un paio di occhi verdi riflettenti più in là,
nella palude: una volpe lo stava guardando e annusava tutti loro,
pietrificata dall’intrusione. L’ animale batté le palpebre, all’inizio, e lui seguì l’ombra che sgattaiolava nel fitto di una macchia
erbosa ricoperta dalla neve. Davanti a sé, Parlour vide qualcuno
che tornava indietro lungo la colonna di veicoli. Una donna sulla
quarantina, forse qualche anno in più, che indossava un costoso
giubbotto da vela giallo, buono per tutte le stagioni, e che agitava
una torcia.
Si incontrarono davanti al furgone degli idraulici. «Io sto
nell’Alfa Romeo rossa» disse la donna. Tirò fuori un pacchetto
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di sigarette, armeggiò fino a quando non se ne mise una tra le labbra e l’accese con un accendino d’oro grosso quanto un lingotto.
«Dovevo dirlo a qualcuno» cominciò, quasi a sottintendere
che lui andava bene come chiunque altro. «Il vecchio nella Corsa
dietro di me, quella odiosa macchinina...» Lasciò che il fumo
arrivasse in profondità, prima di espellerlo dal naso. «Credo che
sia morto.»
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6
Il telone che ricopriva il cadavere sulla spiaggia adesso era rigido
per il gelo. La centrale operativa aveva mandato un messaggio radio
comunicando che la squadra della Scientifica era ancora a un’ora
di distanza, se non di più. Non si muoveva nulla a Ingol Beach,
tranne la marea che avanzava centimetro dopo centimetro. Valentine aveva delimitato con il nastro il bidone che conteneva rifiuti
tossici e l’aveva illuminato con una fotoelettrica portatile, poi si
era inginocchiato, inzuppandosi i pantaloni sottili, per cercare a
tastoni il segno dell’acqua alta.
Shaw gli disse che aveva visto delle macchine intrappolate dietro il pino caduto sulla strada. Forse il conducente era andato a
schiantarsi contro l’ostacolo? Qualcuno aveva bisogno di cure? La
coincidenza rese inquieto Shaw: una morte violenta, innaturale,
sulla sabbia, e adesso il pino precipitato a Siberia Belt, in un punto
che si poteva quasi vedere a occhio nudo da lì. «Ok» disse, ripiegando la cartina. «La scena è al sicuro. C’è solo una strada d’accesso, ed
è bloccata. Per adesso non abbiamo più niente da fare qui. Vediamo
se qualcuno ha bisogno di noi a Siberia Belt.»
Valentine lo seguì, contento di mettere una certa distanza tra
sé e il cadavere ora nascosto. La vista del sangue gli dava sempre
la sensazione che la terra non fosse poi un posto così solido su
cui poggiare i piedi. Questo lo portò a desiderare un pacchetto di
sigarette, che però non aveva, così, per ritorsione, sputò nella neve.
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Attraversarono la distesa di sabbia gelata fino a raggiungere
la diga che separava Siberia Belt dalla spiaggia, superandola nel
punto in cui sorgeva il cancello che conduceva a una chiusa, con
le rotelle e le leve del meccanismo di ferro ricoperte da uno strato
di ghiaccio. Avvicinandosi al convoglio dei veicoli da sud, Shaw
arrivò prima alla Mondeo, ma attese che Valentine lo raggiungesse.
Il sergente appariva una figura solitaria, che seguiva le orme di
Shaw con la testa sottile piegata all’ingiù come quella di un uccello.
Respirando affannosamente, si fermò non appena lo raggiunse, poi
annuì in direzione della Mondeo. «Ultimo modello... con navigatore satellitare tra gli accessori di base.»
Valentine non riusciva quasi a parlare perché gli mancava il fiato. Enfisema, pensò Shaw. Il liquido gli sta riempiendo i polmoni. Se
ha rinunciato a fumare, l’ha fatto troppo tardi. A Shaw non serviva
un navigatore satellitare per conoscere la destinazione di Valentine.
La nota di basso di uno stereo risuonava dietro i finestrini appannati della vettura.
«Controlla» disse Shaw. «Io mi porto in cima alla coda e vedo di
capire qual è il problema.» Un gruppetto di persone stava in piedi
accanto alla terza auto in coda, illuminata dalla luce che filtrava
dall’interno perché la portiera dal lato del conducente era stata
aperta.
Valentine si irritò per il tono perentorio usato dall’ispettore,
ma cercò di abituarsi all’idea che Shaw fosse il capo, non più il ragazzino in pantaloni corti con cui un tempo giocava a calcio sulla
spiaggia. Certo, sarebbe stato più facile se Shaw si fosse dato una
calmata con quella sua ossessione per le verifiche. Il «Controllore»:
ecco come lo chiamavano alla stazione di polizia. Controlla questo,
controlla quello, controlla ogni dannata cosa. Il signor Politically
Correct. Il signor Regolamento. E Valentine sapeva da dove veniva quella mania. Sapeva perché Peter Shaw era così ansioso di
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informare il mondo intero che lui era il poliziotto perfetto: perché
suo padre non lo era stato, ecco perché. Jack Shaw e George Valentine erano stati piuttosto sbrigativi nel loro ultimo, grosso caso.
Roba importante. Che cos’aveva detto il giudice? Che erano stati
negligenti.
Valentine usò un piede per allentare l’altra scarpa nera e togliersela; poi, appoggiandosi contro la Mondeo, svuotò la scarpa
dall’acqua prima di rimettersela.
Shaw raggiunse la Morris Minor e si voltò con delle istruzioni
nuove. «Controlla anche questa.» Congiunse i palmi e li avvicinò
alla guancia, inclinando la testa di lato come se si accingesse ad
appoggiarla su un cuscino. Una donna anziana, coperta solo a metà
da un plaid scozzese scivolato da una parte, dormiva dentro l’auto,
i cui finestrini all’interno erano leggermente gelati. Shaw riuscì
a scorgerne il viso: c’era un sorriso sulle labbra sottili, e le mani
spuntavano al di sopra della coperta, come quelle di un bambino.
La portiera della Mondeo si aprì prima che Valentine potesse
bussare sul tettuccio. Il ragazzo scattò in piedi, appoggiandosi alla
portiera. «C’è speranza di andarcene da qui?»
Valentine si strinse nelle spalle. «Cos’è successo?» Fece un cenno con la testa in avanti, verso il gruppetto accanto alla Vauxhall
Corsa color argento.
«Chi cazzo se ne frega?» Il giovane rimbalzò sulle punte dei piedi e Valentine si accorse che continuava a mettersi le mani in tasca
e poi a toglierle, strofinandole contro la parte posteriore dei jeans.
«Frega a me.» Valentine tirò fuori il tesserino. «Perché si trova
su questa strada, signore, se posso chiedere?»
Il ragazzo fece un passo indietro e scoppiò a ridere in modo
del tutto improprio. «Una deviazione. C’era un cartello sulla strada
costiera, un po’ più giù; parlava di allagamenti.» Il suo accento era
diventato più fluido: era risalito di tre classi socioeconomiche e si
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era avvicinato di quasi cinquanta chilometri a Londra. Aveva lo
sguardo fisso davanti a sé. «Poi è successo questo.» Posò la mano
sulla portiera della macchina e la tolse in fretta, come se il metallo
fosse troppo caldo per poter essere toccato, ma Valentine aveva notato un segno sulla parte superiore della mano, i rimasugli bluastri
di un timbro a forma di cerchio che racchiudeva due lettere: bt.
Sul cruscotto spiccava un cellulare.
«È suo?»
«Una figata» disse il ragazzo. «Fotocamera da due megapixel;
centoquindici grammi; sei virgola sette ore di autonomia di
conversazione.»
«Bene, ma funziona?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Pensavo di tornare a piedi
sulla strada principale.»
Valentine scosse la testa. «Un chilometro e mezzo, ed è
pericoloso.»
«Due» disse. «Ho controllato il contachilometri.»
«Se ne stia qui, va bene?» Valentine stava perdendo la pazienza.
«Abbiamo chiesto aiuto via radio, ma ci vorrà del tempo.» Tirò un
sospiro supplementare e fece correre lo sguardo sulla verniciatura
porpora della Mondeo: impeccabile. Sul sedile posteriore c’erano
una coperta, un cesto da picnic, uno di quegli sgabelli pieghevoli
che si trasformano in bastoni da passeggio e un frisbee. Il volante
aveva un rivestimento con un motivo a zigzag in bianco e nero;
sembrava la pelle di un animale, forse quella di un serpente. Il
sergente si avviò in avanti, poi si voltò per memorizzare il numero
di targa. Aveva una buona memoria, se qualcuno gli chiedeva di
usarla. Il ragazzo l’aveva innervosito. La solita storia: il classico
teenager che aveva preso la macchina di papà.
Shaw aveva raggiunto il furgone degli idraulici e, attraverso il
lunotto termico e la griglia, l’occhio gli era caduto su un giovanotto
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intento a leggere una rivista. Si portò di fianco alla vettura e notò
solo allora le orme di zampe nella neve in mezzo a quelle delle
scarpe, poi bussò sul finestrino dalla parte del conducente e aprì
la portiera.
«Polizia» disse, appoggiando il ginocchio sul sedile di guida e
dando un’occhiata alla rivista. «Posso?» La prese. Era tedesca, un
prodotto di importazione illegale, pornografia estrema. Tenne la
testa leggermente inclinata su un lato per mettere meglio a fuoco
l’immagine.
«Nome?» disse Shaw.
Il tizio scrollò le spalle. «Das Fleisch» disse, storpiando le parole.
«Prendono dei turchi da Francoforte e li portano sul posto.»
«Il suo nome.»
«L’ ho trovata dove abbiamo fatto l’ultimo lavoro stamattina.
Un cantiere nell’Arndale. Era nel prefabbricato che ho usato per
preparare il tè. Ce n’erano vagonate. Con roba anche peggiore...»
Shaw attese. Studiò il viso del giovane. Notò la perdita prematura dei capelli sulle tempie, le cicatrici lasciate dall’acne e la fossetta
pronunciata sul mento, la cosiddetta fovea.
«Sean Harper. Quello è il mio capo» disse il giovanotto, accennando in direzione del gruppetto in piedi nel fascio di luce.
«Fred.» Sorrise convinto, come se quella fosse la migliore delle
referenze.
«Questa la tengo io, signor Harper» disse Shaw, piegando la
rivista e infilandosela all’interno del giaccone.
«Ma... non è mica un crimine, no?»
«Be’, per la verità lo è» disse Shaw. «Ne parliamo dopo.»
«Ci va anche lei a fare i salvataggi con le barche?» chiese Harper,
indicando il distintivo dell’Rnli sul bavero del giaccone di Shaw e
sforzandosi di sorridere.
«Già.»
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«Fantastico» disse Harper, osservando la rivista mentre gli veniva portata via. «Ci ho pensato anch’io, sa? Di fare il volontario,
voglio dire.»
Per la prima volta, Shaw notò la coperta dietro i sedili, un tessuto scozzese arruffato e avvolto a spirale per formare una cuccia.
Fece una pausa e annusò l’aria aspettandosi di sentire il tipico odore di cane, ma il furgone era lindo e ordinato, e all’interno l’aroma
soverchiante era quello del deodorante alla fragola applicato sul
cruscotto.
«Dovrebbe» disse Shaw senza sorridere.
Subito dopo, in coda, c’era il furgone ristrutturato della Securicor. Il conducente si rifiutò di aprire il finestrino fino a quando non
vide il tesserino premuto contro il vetro, dopo di che lo abbassò di
un paio di centimetri.
«Problemi?» chiese Shaw, rendendosi conto che aveva già visto
quell’uomo da qualche parte. Sul banco degli imputati in tribunale?
Ma per quale crimine? Frugò nella sua memoria, eppure non riuscì
a identificare il caso. Si trattava però di qualcosa di violento, questo
lo sapeva. Un’azione violenta che l’uomo aveva compiuto con le
sue mani mentre era alla ricerca di denaro. Allora perché, si chiese
Shaw, se ne stava seduto lì, a sorvegliare un furgone pieno di soldi?
Poteva avere tra i venticinque e i trent’anni, capelli neri e un bel
viso, rovinato da un naso stretto che una volta rotto era stato poi
malamente riparato, e che non riusciva quasi a separargli gli occhi,
incorniciati da sopracciglia cespugliose che si congiungevano al
centro. Aveva dei baffi appena accennati e una barbetta rada.
«Ha una sala di controllo da chiamare?» chiese Shaw.
Il conducente tirò fuori la voce. «Non abbiamo radio in dotazione, e qui i cellulari non prendono.»
Shaw indietreggiò di un passo, guardando la fila dei veicoli.
«Ora chiedo al mio sergente di mandare un messaggio radio per
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lei. C’è già abbastanza caos in giro, dopo la tempesta, senza dover
mandare metà dei nostri uomini a cercare lei e i suoi lingotti d’oro.
Cosa c’è là dietro?»
La guardia controllò un portablocco a molla. «Denaro contante. Facciamo i negozietti di quartiere, i supermercati nelle zone
residenziali e il mercato del pesce all’ingrosso giù al porto. Circa
ottantamila; non molto di più, comunque.»
«Se ne stia qui tranquillo» disse Shaw, chiedendosi se il datore
di lavoro dell’uomo fosse a conoscenza dei suoi precedenti. Lui era
un convinto fautore della riabilitazione, ma far gestire un bar da
un alcolizzato significava attirare solo guai.
Davanti a sé vide entrambe le portiere sinistre della Corsa aperte, con due sagome che si tenevano un po’ indietro e lo guardavano.
Una, un uomo in tuta da lavoro, prese a gesticolare e si piazzò una
mano sul cuore, dandosi dei colpetti su un giaccone imbottito.
Shaw alzò una mano.
«Problemi?» gridò.
L’ uomo puntò l’indice all’interno della Corsa, poi si diede qualche altro colpetto sul torace. «Il cuore.»
Shaw superò in fretta l’auto seguente, un vecchio modello di
Volvo station-wagon, con una scritta dipinta a mano sul lunotto
nella quale si leggeva the emerald garden. L’ aroma inconfondibile della salsa di soia si mescolava ai gas di scarico. Non c’era
l’autista e non c’erano passeggeri.
Un signore anziano giaceva di lato sul sedile anteriore della
Corsa. Shaw gli diede sessantacinque anni, forse settanta. Aveva
dei vistosi occhiali con una montatura in plastica nera, e i sottili
capelli bianchi erano appiccicati alla testa. Il viso era del colore
della muffa nel formaggio Stilton, e la saliva agli angoli della
bocca rifletteva la luce. Il vomito gli ricopriva il mento e la parte
superiore del pesante giaccone di un azzurro delicato, viscoso.
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Shaw avvertì l’intenso odore degli aghi di pino, ma non riuscì a
vedere il deodorante.
Una donna con un giubbotto giallo si teneva leggermente indietro e fumava. Inginocchiandosi, l’uomo in tuta blu prese la mano
del tizio che si era sentito male. Il suo viso si contrasse in una
smorfia ansiosa, mentre sulla fronte una piccola ferita era ancora
umida di sangue. Un Jack Russell si era acquattato sotto il veicolo
e rovistava col naso tra i piedi dell’uomo.
«Credo che gli sia venuto un infarto» disse l’uomo con la tuta.
«Non è che il suo cellulare prende, eh? È rimasto bloccato anche
lei?»
«Io sono un poliziotto» disse Shaw. «Abbiamo avvisato via radio. Posso dare un’occhiata, per favore?»
Si chinò e si accorse che sul sedile del passeggero c’era un altro
uomo. Aveva lineamenti da cinese e teneva le ginocchia piegate
sotto il corpo. «Non si sente il polso» disse con un accento che lo
portava a smussare le consonanti.
Shaw estrasse un temperino e tagliò la cravatta che si era aggrovigliata inestricabilmente intorno alla gola dell’uomo. Poi aprì
il pesante giaccone oversize e la camicia, facendo saltare diversi
bottoni. Girò il colletto allontanandolo dal collo e notò l’etichetta:
rfa. Piegandosi, si avvicinò ulteriormente al viso dell’uomo e gli
mise una mano sulla fronte. Capì all’istante che l’uomo era vivo:
le gocce d’acqua sulle sopracciglia erano tiepide, e per quanto le
labbra fossero bluastre e non si muovessero, erano ancora inumidite dal fiato che le attraversava, come la corrente d’aria sotto
una porta.
Si girò e chiamò Valentine, che si era accovacciato accanto alla
Morris e parlava attraverso il finestrino dal lato del conducente.
«George» gridò. Valentine si mise lentamente in piedi, appoggiando una mano sulla macchina per sostenersi. «Chiama un eli41
cottero. Emergenza medica. Un uomo sui sessantacinque anni ha
avuto un arresto cardiaco. Ci vedranno dall’alto. Dì che scendano
dal lato del mare; lì la sabbia è liscia sotto la neve.»
Shaw infilò di nuovo la testa dentro la Corsa, introdusse una
mano nella tasca dell’uomo e trovò un portafoglio con una patente
in una taschina di plastica trasparente. John Blickling Holt. Nato il
30 dicembre 1941 e residente a Devil’s Alley, King’s Lynn. Era un
indirizzo che Shaw conosceva bene: una stretta strada acciottolata
che scendeva al porto e puzzava di pesce e di mare. Per lo più poveri
magazzini fatiscenti in un dedalo di edifici medievali.
L’ uomo sul sedile del passeggero disse di chiamarsi Stanley
Zhao. Pur vedendolo con le ginocchia piegate, Shaw si rese conto
che il tizio non corrispondeva affatto allo stereotipo razziale del
cinese, dato che era alto non meno di un metro e ottanta. Dimostrava una cinquantina d’anni, ma i capelli erano ancora neri come
le penne di un pinguino. Shaw gli disse di restare dentro la Corsa,
di portare il riscaldamento su valori medi e di suonare il clacson,
se Holt avesse ripreso i sensi o fosse peggiorato.
Poi l’ispettore chiuse la portiera e drizzò le spalle portando il
viso al livello del tettuccio dell’auto, sul quale vide le due scale fissate accuratamente con le cinghie. La donna col giubbotto giallo e
l’uomo con la tuta blu stavano in piedi tra lui e i primi due veicoli
della coda.
«Mi chiamo Baker-Sibley, Sarah Baker-Sibley» disse la donna.
«Ho assoluta urgenza di far pervenire un messaggio a mia figlia.
Dovevo passare a prenderla da scuola – St. Agnes’ Hall – e sono
preoccupata. Arrivo sempre puntuale, oppure telefono. Oggi con
lei non c’è Clara – sarebbe la sua migliore amica. Ha una lezione di
clarinetto dopo la scuola» aggiunse. «Perciò mia figlia rincaserà a
piedi. So che cercherà di farlo. Sono più di tre chilometri; l’ha già
fatto prima perché ha le chiavi, ma non è mai successo d’inverno...
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con questo tempo» continuò, guardando verso il campo innevato.
«Ha tredici anni, e quindi ci proverà senza pensarci su due volte.» Si
mise a ridere, poi gettò via la sigaretta fumata per metà e armeggiò
alla ricerca del pacchetto. «Mi scusi, ma non è che potrei rivedere
il suo tesserino?»
«Il mio collega, il sergente investigativo Valentine, prenderà i
suoi dati, signora Baker-Sibley» disse Shaw, tenendo il tesserino un
po’ troppo vicino alla faccia della donna perché lei si sentisse del
tutto a suo agio. «Il sergente può mettersi in contatto radio.
«Quell’Alfa è sua?» le chiese Shaw, spostandosi in avanti. «Me
ne starei lì dentro per ora» aggiunse non sentendola rispondere.
«E il veicolo davanti?»
«L’ uomo che si è sentito male era andato a dare un’occhiata
proprio a quello, quando siamo rimasti bloccati» disse lei. «Il
conducente non è mai uscito. Magari si è addormentato, anche
se aveva messo su della musica orrenda a tutto volume, tanto per
cominciare.»
La radio suonava ancora, ma il volume adesso era basso e il
suono stridulo.
Guardando in avanti lungo la strada rialzata, Shaw vide una fila
irregolare di orme che serpeggiavano fino al camioncino, accanto
a segni di pneumatici un po’ sgonfi. Le tracce del ritorno mostravano un incerto tentativo di ripercorrere gli stessi passi. Orme di
zampe, più nette, zigzagavano tra quelle impronte. Il lunotto nella
parte posteriore dell’abitacolo mostrava ancora una luce all’interno. I fari del camioncino erano di un giallo bruciato, e Shaw intuì
che la batteria doveva essere ormai scarica. Mentre si avvicinava i
capelli gli si rizzarono sulla nuca e una folata di vento gli abbassò
la temperatura corporea di un grado. Qualcosa si mosse nel cielo e
lui alzò lo sguardo appena in tempo per vedere una stella cadente,
un lampo argenteo che si estinse prima di raggiungere il mare.
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Il camioncino era abbastanza largo da bloccare la strada quasi per intero, lasciando solo uno spazio molto stretto dal lato del
conducente. Shaw si portò da quella parte e ne approfittò per sollevare il telone che copriva il carico sottostante: numerosi fogli di
cartongesso, per pareti economiche.
Piegandosi, afferrò la maniglia della portiera, rompendo per la
prima volta il silenzio con la sua voce.
«Salve. Polizia.»
Abbassò la maniglia e aprì la portiera, saltando rapidamente
in avanti per aggrapparsi alla barra di sostegno. Si trovava a circa
mezzo metro dal conducente e gli ci vollero solo tre secondi, forse
anche meno, per capire che quello che stava guardando era un
cadavere.
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