Torniamo a Keynes, ma senza caricature

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Torniamo a Keynes, ma senza caricature
Torniamo a Keynes, ma senza
caricature
Torniamo a Keynes, ma senza caricature
Andrea Pezzoli
Una politica che pensi ai nostri nipoti, non ai propri cognati. E che non dimentichi le virtù della
concorrenza. Il senso di una ripartenza keynesiana, anno 2010
L’autocritica formulata da Richard Posner pubblicata su
New Republic (poi diffusa nell’articolo di John Cassidy nella sua “Lettera da Chicago”
pubblicata dal
New Yorker) con tanto di invito a tornare a Keynes sono una buona notizia per chi pensa che la
politica economica abbia ancora molto da apprendere dagli insegnamenti dell’autore della
Teoria Generale, le cui disgrazie sono più ascrivibili ai suoi epigoni che alla bontà delle sue
intuizioni (Leijonhufvud, 1976; Skildesky, 2009).
Ed è un po’ questo il punto. Sarebbe auspicabile che il ritorno o, calcisticamente, la ripartenza
da Keynes non avvenisse dalla sua caricatura (il Keynes della spesa pubblica comunque sia…)
ma piuttosto rileggendolo nella sua interezza.
Di sostegno pubblico all’economia in questa fase di crisi c’è stato bisogno e probabilmente non
si è ancora fatto abbastanza. Il dibattito oltreoceano e le critiche ruvide ma costruttive che
Krugman rivolge all’amministrazione Obama ne offrono conferma. In Italia, tuttavia, una
“riscoperta” di un keynesismo caricaturale cavalcata dal partito della spesa pubblica e dagli
scettici delle virtù (delle virtù non dell’onnipotenza) della concorrenza potrebbe risultare esiziale.
Tanto più esiziale quanto più si consideri la diffusa corruzione che nel nostro Paese
contraddistingue il settore dei lavori pubblici, dove insofferenza per le gare, emergenza e “cultura
del fare” sembrano sempre più spesso funzionali alle “prospettive economiche dei loro cognati”
piuttosto che a quelle dei nostri nipoti…
Sembrerebbe utile, perciò, riscoprire l’intera opera di Keynes “…
non per trovarvi ricette già belle e pronte ma una fonte di ispirazione la cui durevole validità
…consiste soprattutto nel preservarci di ricadere in antichi errori” (Caffè, 1981). Oltre che per la
politica della domanda pubblica - peraltro dallo stesso Keynes non considerata appropriata in tutti
i tempi e in tutte le circostanze (Lerner,1978) - l’insegnamento di Keynes può essere
fondamentale per molto altro.
Innanzitutto per prendere le distanze da qualsiasi accattivante “magia”, sia essa costituita da “
un’intrinseca stabilità del sistema privato” (Minsky, 1981) ovvero da un’onniscente azione
collettiva. Il bambino del mercato non va gettato con l’acqua sporca del “supercapitalismo”. Le
virtù del mercato e della concorrenza vanno solo calate nella realtà e non agitate in astratto.
Poi, per essere realmente disponibili ad un approccio eclettico, consapevole di quanto poco
sappiamo del futuro e di quanto gli economisti abbiano bisogno dei contributi di tutte le
elaborazioni teoriche (in quest’ottica appare particolarmente appropriato il testo del 1937 di
Keynes
). consigliato da Lunghini e pubblicato su questo stesso sito
Infine, per ribadire l’indissolubile legame tra schema conoscitivo e progetto operativo nonchè
l’insofferenza per la cautela non sempre giustificata e la propensione all’inazione delle persone
in posizioni di responsabilità (Harrod, 1951).
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Non dimenticando, soprattutto, che obiettivo delle politiche keynesiane (le
agenda, ovvero le decisioni che nessuno assumerebbe se non fossero assunte dallo Stato), è
quello di far svolgere al mercato la sua funzione ad un più elevato livello di produzione e di
occupazione senza interferire sul suo funzionamento (le
non agenda, ovvero le attività che i singoli individui già svolgono) (Keynes, 1926). L’intervento
pubblico va circoscritto ai casi in cui è indispensabile per ridurre l’incertezza.
D’altro canto, se è fuor di dubbio che l’intensità della grande depressione degli anni Trenta è
stata fronteggiata con programmi di lavori pubblici di sapore keynesiano e con l’infrazione delle
regole della “finanza sana”, la sua durata ha risentito non poco della sostanziale sospensione
della disciplina antitrust.
Stando agli studi ampiamente citati dell’Universita di California (Ohaniamn, 2004), la mancata
applicazione delle regole di concorrenza e l’esplicita sottrazione dalla disciplina antitrust di alcuni
settori avrebbe contribuito a prolungare la crisi economica di almeno sette anni. Alla sospensione
delle regole di concorrenza si può pertanto attribuire almeno parte del rallentamento
dell’economia e della disoccupazione che in quegli anni sfiorava il venti percento.
Ciò non significa che la politica della concorrenza da sola sia sufficiente per uscire dalla crisi e
che non richieda corposi aggiustamenti in termini di pragmatismo e flessibilità (ma non
compromessi sui principi) per essere applicata in una fase di difficoltà economica (Lowe, 2009).
Tuttavia la concorrenza, se certamente non è parte del problema, è senz’altro parte della
soluzione. A conferma di ciò l’evidenza empirica ormai ampia sui rapporti virtuosi tra
concorrenza e crescita mostra come la politica della concorrenza non sia solo potente strumento
di efficienza con benefiche ricadute sui consumatori ma anche un ingrediente importante per
tornare a crescere (Oecd, 2009).
Per ciò che qui rileva, significa che nella riscoperta di Keynes non va dimenticato come la sua
concezione di intervento pubblico non avesse “
nulla di incompatibile con …il carattere essenziale del capitalismo, vale a dire il suo fare appello al
profondo istinto degli individui di far quattrini e di amare i quattrini, quale principale forza motrice
della macchina economica” (Keynes, 1926). Un intervento pubblico incompatibile solo con una
concezione del mercato che nel
laissez faire individuava un suo ingrediente irrinunciabile.
Dunque, proprio perché si ritiene che Keynes abbia “avuto ragione” sembra saggio rileggerlo
per intero, non dimenticando mai che il contesto ideale nel quale vanno collocati i suoi
insegnamenti è quello di un riformista appassionato e liberale, che vede nella politica economica
uno strumento per il raggiungimento di una “civiltà possibile” e non per eliminare quel “sistema
privato” intrinsecamente instabile e da solo incapace di garantire un equilibrio di piena
occupazione.
In sintesi, senza ricorrere a citazioni che ribadiscano la formazione liberale di Keynes e il suo
radicamento nelle convinzioni politiche e morali della “borghesia colta”, la rivincita di Keynes,
oggi avvalorata anche dal timbro dell’apostata Posner, non può che essere la rivincita delle idee
di Keynes e non certo quella di un’inconcepibile ortodossia keynesiana, irrispettosa di una delle
più preziose specificità del metodo di Keynes: la disponibilità a “cambiar pelle” per aggiustarsi
al cambiamento.
Si rischierebbe, altrimenti, di commettere gli stessi errori che Posner imputa alla Scuola di
Chicago: non aver valorizzato le differenze e di essere stata, oscurata dal dogma, sorda ai
contributi esterni.
Riferimenti bibliografici
F.Caffè (1981), “Keynes oggi”, in
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L’Economia Contemporanea, Edizioni Studium.
H.L. Cole-L.E. Ohaniamn (2004),
New Deal Policies and the Persistence of the Great Depression.
A General Equilibrium Analysis, Journal of Political Economy.
R.F. Harrod (1951),
The Life of J.M. Keynes, Macmillan.
J.M. Keynes (1926), “La fine del laissez faire”, in J.M. Keynes (1975),
Esortazioni e Profezie, Garzanti.
A. Leijonhufvud (1976),
L’economia keynesiana e l’economia di Keynes, Utet.
A. Lerner (1978), “The scramble for Keynes’ mantle
”, Journal of Post-Keynesian Economics.
P. Lowe (2009), “Competition Policy and the Economic Crisis
”,
Competition Policy Intenational.
H.P. Minsky (1981),
Keynes e l’instabilità del capitalismo, Boringhieri.
Oecd (2009),
Competition and Financial Markets. Key Findings, Parigi.
R. Skildesky (2009),
The Return of the Master, Allen Lane.
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