La Voce Irredentista - MOVIMENTO IRREDENTISTA ITALIANO
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La Voce Irredentista - MOVIMENTO IRREDENTISTA ITALIANO
La Voce Irredentista di Movimento Irredentista Italiano 1 Proseguono le nostre pubblicazioni, come prosegue il nostro impegno. Di fronte all‟indifferenza nazionale, le nostre voci libere non taceranno mai. Siamo ad Ottobre, un mese denso di ricorrenze, alcune delle quali abbiamo voluto ricordare in questo numero. El Alamein, un nome che evoca una sconfitta, ma gloriosa come nessun‟altra sconfitta è mai stata nella storia. Uomini contro acciaio, sangue contro oro. Il ricordo dei bersaglieri e dei paracadutisti, lanciati all‟attacco quasi a mani nude contro i mostri corazzati inglesi, nel deserto egiziano, indica e indicherà per sempre la via a noi che di quegli eroi siamo gli eredi. Le loro gesta ci dicono ancora oggi che la via per far tornare a brillare il nome “Italia”, è quella del coraggio, della tenacia, dell‟impegno fino al sacrificio supremo. Ottobre riporta anche più indietro nel tempo, a quei fatidici giorni del 1917, in cui gli austriaci dilagarono nel nord Italia dopo aver sfondato a Caporetto. Una disfatta ritenuta irreparabile, e che invece sarà l‟alba di una nuova Italia, di una nuova generazione che strapperà l‟Istria e la Venezia Giulia, il Trentino e l‟Alto Adige dalle grinfie dell‟aquila bicipite. Una vittoria, quella di Vittorio Veneto, che, ironia della sorte, troverà compimento sempre in Ottobre, esattamente un anno dopo. Un ultimo pensiero va ad un personaggio, che insieme a molti altri, non riuscì a gustare il calice della vittoria. Un personaggio che forse più di tutti rappresenta quella generazione che sceglierà l‟intervento, in barba alla codardia, in nome dei propri interessi, della borghesia e della classe dirigente dell‟epoca. Un nome circondato da un‟aura leggendaria, al quale abbiamo voluto dedicare un piccolo articolo, con il desiderio di volerne omaggiare il ricordo, ma prima ancora di spingere chi leggerà ad approfondire, ben consapevoli di non poter racchiudere in poche righe il suo pensiero, la sua filosofia di vita, le sue battaglie: Filippo Corridoni. di Emanuele Piloni 2 IN QUESTA 12^ USCITA NEL BEL PAESE CONDANNATO A MORTE 4 LIVORNO-VERONA. CONDANNA UNANIME PER IL CORO CONTRO MOROSINI 7 STORIA 24 MAGGIO – II PARTE 10 LEGIONARI PER LA DALMAZIA ITALIANA 14 INDEFICIENTER – X PARTE 21 SI FANNO ONORE IN RICORDO DI FILIPPO CORRIDONI 25 SCATTI IRREDENTISTI FERROVIE CONCESSE E TRAMVIE ESTRAURBANE TRIESTE, 27 FEBBRAIO 1988 9 30 STOCCATA FINALE 3 EQUA DIVISIONE DELL‟ISTRIA 31 TROVA LE DIFFERENZE 32 L‟EPOPEA DELL‟ASILO ITALIANO DI ZARA 33 CONDANNATO MORTE di Sebastiano Parisi Ovviamente la notizia è stata diffusa subito dai giornali francesi; se ne sono occupati anche quelli spagnoli con El Mundo ed El Pais in testa e persino quelli inglesi con la BBC e il Guardian. Ma c‟è una grande assente, incomprensibile certi versi, per cioè l‟Italia. Parliamo di un fatto di sangue successo a poche miglia da noi, ma di cui neanche il minimo eco ci ha raggiunto, ovvero l‟uccisione dell‟indipendentista avvocato di Yvan Colonna Antoine Sollacaro. Sollacaro è stato assassinato da due motociclisti martedì 16 ottobre mentre, recandosi al lavoro, si era fermato a comprare il giornale ad un rifornimento di benzina nel centro di Ajaccio. Stava ripartendo alla guida della sua auto, quando uomini armati a bordo di moto gli si sono affiancati, sparando all‟impazzata sul povero penalista. In tutto l‟hanno raggiunto nove colpi, di cui cinque alla testa. Non sono note le cause del delitto, ma diversi media stranieri come anche alcuni esponenti del governo francese si sono esposti, accusando le “bande criminali”, la lotta per il potere della malavita e per il controllo del mercato nero i quali, secondo gli accusatori, si legherebbero con gli indipendentisti. Eppure, un‟ora prima dell‟assassinio di Sollacaro, era stato trovato morto il 50enne ex-membro dell‟Armata Corsa Jean-Dominique Allegrini-Simonetti, il cui corpo giaceva crivellato di colpi a fianco di quello Con della moglie queste ultime nella loro uccisioni auto, si è ferma col carico di arrivati a quota 15 sangue nei assassinii pressi dall‟inizio di Aregno. dell‟anno. Il 9 ottobre invece era tornato a farsi vivo l‟FLNC con un attentato presso una stalla di Figari. Antoine Sollacaro, 63 anni, era un‟importante figura di riferimento per l‟indipendentismo corso; nella sua carriera di avvocato ha difeso molti nazionalisti corsi e i suoi successi sono stati innumerevoli, con ben 75 assoluzioni su 300-400 casi. 4 Nel 1979, insieme all‟avvocato Vincent Stagnara, Sollacaro difese i militanti corsi dell‟FNLC nel primo grande processo intentato contro di loro dalla Francia, processo passato alla Storia con la denominazione “dei 21”. Durante il secondo processo a Yvan Colonna, l‟avvocato definì “ giunta birmana” la Corte d‟Assise di Parigi che condannò il patriota. Yvan Colonna, condannato all‟ergastolo nel 2007 per l‟omicidio del prefetto corso Claude Erignac nel 1998, era innocente per l‟avvocato Sollacaro e, da avvocato e uomo libero che era, stava cercando di dimostrarlo, impugnando quell‟ingiusta sentenza politica, che però verrà confermata nel 2009. La “libertà professionale dell‟avvocato e il suo coraggio” sono certamente tra le cause che hanno portato al suo assassinio per l‟avvocato Marc Maroselli, sconvolto dal terribile fatto di sangue. Dovremo ora aspettare l‟evolversi degli eventi e l‟arrivo di nuovi particolari, anche se c‟è la sensazione che il tutto sia già stato impacchettato per bene seguendo un percorso preordinato e non veritiero. Ma possiamo fare delle considerazioni. Innanzitutto, bisogna dire che è perlomeno “singolare” questa strana scia di sangue che si è abbattuta sugli indipendentisti corsi, che, nell‟ultimo caso, ha visto come vittima un personaggio eccellente, un vero e proprio pilastro del movimento separatista. In passato ci sono stati altri importanti esponenti del movimento indipendentista corso ad essere stati bersaglio di assassinii e attentati. Non parliamo della faida tra servizi segreti francesi e militanti corsi consumatasi negli anni 70‟-80‟, ma di veri e propri assassinii che sarebbero stati organizzati dai servizi d‟oltralpe. Si dice che ci fosse una lista di cinque nomi, di cinque importanti esponenti della resistenza corsa: Iviu Stella, Petru Poggioli, Alanu Orsoni, Leo Battesti. Il quinto nome l‟abbiamo già visto in questo articolo, si tratta dell‟avvocato Vincent Stagnara che, come abbiamo detto, insieme a Sollacaro, ha difeso i militanti corsi nel processo “dei 21” e ha difeso anche Yvan Colonna, sempre con Sollacaro. Stagnara è stato vittima di tre attentati, nel 1976, nel 1978 e, l‟ultimo, nel 1993. E‟ riuscito a scamparla ed‟è morto per cause naturali nel 2010. Sicuramente ci troviamo di fronte a una bella serie di “coincidenze”. Bisogna precisare inoltre che l‟avvocato Sollacaro in questi mesi era al lavoro per il processo sulla latitanza di Yvan Colonna, che vede imputati Marc Simeoni, Patrizia Gattaceca e Andrè Colonna d‟Istria. Si tratta di un processo importante, in cui i tre militanti sono accusati di aver aiutato in diverso modo Yvan Colonna durante i quattro anni di latitanza. Antoine Sollacaro, in questo processo, ovviamente difendeva i militanti. A causa della morte di Sollacaro, il processo è stato rinviato all‟11 e 12 aprile. Anche questa dunque pare una strana “coincidenza”. Infine facciamo un‟ultima considerazione sull‟assassinio di Sollacaro; appare strano che a poche ore dall‟assassinio i media francesi e importanti esponenti dello Stato francese si siano immediatamente avventati con sospetta quanto irresponsabile sicurezza contro presunte “bande criminali”, quasi a mo‟ di capro espiatorio. Nei giorni seguenti è stata persino rincarata la dose ed‟è sceso in campo anche il presidente Hollande che ha denunciato la “resa dei conti” in Corsica, aggiungendo che “la violenza in 5 Corsica non è nuova, ma ha cambiato la sua natura e l‟intensità” e andando poi a colpevolizzare in generale il “crimine organizzato”. Poi i ministri Valls (Interni) e Taubira (Giustizia) hanno dichiarato che visiteranno l‟isola a novembre e, anche loro, hanno inserito l‟assassinio di Sollacaro in un contesto di “banditismo”, “mafia”, “racket” che imperversa in Corsica. La ciliegina sulla torta la mette invece Ayrault, il quale annuncia l‟elaborazione di un “direttivo di politica penale specifico” per la Corsica, come quello che il Consiglio dei ministri ha recentemente adottato per la regione di Marsiglia, raggruppando in una sola struttura le inchieste sugli affari della medesima natura. Insomma, tutti, grazie a non meglio precisate virtù soprannaturali degne di una medium, hanno individuato immediatamente i colpevoli e, col passare dei giorni, sembra che le ipotesi siano già certezze (almeno per loro). Ma c‟è una voce fuori dal coro, una voce che rischia di dare una bella gatta da pelare a chi credeva di chiudere la questione scaricando tutto sui “banditi” che dilagherebbero in Corsica. Parliamo di Paul Sollacaro, figlio di Antoine e, anche lui come il padre, avvocato. Lunedì 22 ottobre ha rilasciato un‟illuminante intervista al quotidiano Le Parisien, dove accusa quelli che sarebbero i colpevoli della morte di suo padre; innanzitutto dichiara che Antoine Sollacaro, come altri avvocati, denunciò il sistema della JIRS (Giurisdizione Interregionale Specializzata sulle Inchieste sulla Criminalità Organizzata , con sede a Marsiglia e creata nel 2004, gestisce anche le inchieste corse), un organismo sovra-regionale che costituisce un‟eccezione al normale sistema giuridico. Paul Sollacaro denuncia i sistemi illegali usati dalla JIRS, come ad esempio “l‟ausilio di testimoni anonimi”. Questo organismo giuridico, sempre secondo Paul, “è incompetente e illegittimo e gli avvocati, dallo JIRS, non sono più visti come colleghi, ma come nemici da abbattere”, e sono ingiustamente accusati di essere “i complici dei loro clienti”. “La polizia”, continua Paul, “è responsabile della morte di mio padre” e aggiunge che la sua rabbia è rivolta soprattutto verso “i burattinai” rispetto che ai “burattini” che hanno poi fatto il lavoro sporco. Queste dichiarazioni fanno davvero pensare, rendendo evidente, per chi ancora avesse dubbi, che la questione è molto complessa e segue trame pericolose, tanto che lo stesso Paul Sollacaro non vuole, per il momento, andare oltre con le accuse, le quali comunque sono già molto gravi. Intanto però Paul dichiara che vuole “un‟interrogazione parlamentare sul funzionamento della JIRS”. Questa si è permessa persino di farsi carico dell‟inchiesta sulla morte di suo padre, un‟ipocrisia che Paul respinge, dicendo: “è un‟insulto alla mia famiglia”. Staremo a vedere come si evolveranno gli eventi, augurandoci che la Verità, quella vera, (concedetemi questo gioco di parole) venga a galla il prima possibile e non tra decenni; anche se un simile augurio è da ingenui. 6 LIVORNO-VERONA. CONDANNA UNANIME PER IL CORO CONTRO MOROSINI. E PER QUELLO CONTRO I MARTIRI DELLE FOIBE? di Emanuele Piloni Durante la partita Livorno-Verona di sabato 20 Ottobre, abbiamo ancora una volta assistito a gesti vergognosi, che insultano ed umiliano lo sport, e quei sani valori che dovrebbe trasmettere. Le tifoserie dell‟Hellas Verona e del Livorno, da anni rivali per questioni politiche (di estrema destra/neofascista la prima, di estrema sinistra/comunista la seconda) hanno nuovamente mostrato come le curve siano, sempre più spesso, palcoscenico più per l‟ignoranza popolare, che per il tifo sportivo. La curva dei tifosi del Verona (e poco importa quale delle due abbia “cominciato”) ha intonato un coro contro Piermario Morosini, il calciatore livornese morto durante Pescara-Livorno la scorsa stagione, tirando in ballo presunte ed assurde motivazioni politiche. Tutto il mondo civile è giustamente insorto per condannare il gesto. Le istituzioni sono scese in campo con dichiarazioni forti ed importanti, la Digos ha già individuato i responsabili grazie alle registrazioni video, la FIGC interverrà con dure sanzioni. Giustissimo. Intonare cori contro un ragazzo di 25 anni morto giocando a calcio, seguendo un sogno, è quanto di più inqualificabile e triste si possa fare. Non ci dilunghiamo oltre, poichè tutti i media nazionali hanno dato ampio spazio alla notizia. Noi vogliamo soffermarci su altro, poichè come troppo spesso accade in Italia, alla condanna totale e collettiva di una parte, segue spesso l‟assoluzione e la santificazione dell‟altra. La tifoseria del Livorno, notoriamente comunista, espone da anni in curva, striscioni offensivi contro la memoria dei martiri delle foibe e degli esuli giuliano-dalmati. Il tutto accompagnato da cori vergognosi, che inneggiano alle foibe e agli assassini colpevoli del massacro di migliaia di italiani e dell‟esodo popolo. I di un ripetuti intero vilipendi avvengono a dispetto della legge del 2004 che ha istituito il “Giorno del ricordo dei martiri delle foibe e dell‟esodo giuliano-dalmata”, volto a tutelare la memoria di fatti rimossi dalla memoria popolare per quasi 60 anni. Una legge tra l‟altro approvata a larga maggioranza, contro la quale votarono solamente 15 parlamentari, ai quali non vogliamo fare pubblicità nominandoli, 7 ma tra i quali figurano due persone che al momento occupano importanti incarichi: uno sindaco di una grandissima città, l‟altro governatore di una regione e candidato alle primarie dello schieramento che probabilmente vincerà le prossime elezioni. E‟ giusto condannare il coro contro un ragazzo morto giocando a calcio per mere questioni di rivalità tra tifoserie. Ma perché nessuna istituzione è intervenuta in merito al coro dei tifosi del Livorno (nel video)? Perché la Digos non ha identificato anche questi elementi che, in barba ad una legge, insultano migliaia di morti quasi settimanalmente? Perché non sequestrano gli striscioni (in foto) che inneggiano ad assassini ed insultano la memoria di un intero popolo? Ancora una volta la nostra tristezza è grande, e vogliamo esprimere tutto il nostro dolore nel constatare come, finite le obbligatorie parole di rito durante le ricorrenze da parte delle autorità, i morti istriani, fiumani, dalmati, triestini, goriziani tornino ad essere trascurabili. I tifosi del Verona andranno puniti. Allo stesso modo dovrebbero essere puniti quelli del Livorno. E in questo caso non si tratta di politica portata allo stadio. Si tratta di apologia di massacri costati la vita a migliaia di persone innocenti, di un‟ideologia portatrice di morte, di personaggi autori di genocidi programmati. Se i media nazionali hanno taciuto, alcune voci libere come la nostra hanno voluto riportare la verità per intero. I delinquenti e gli ignoranti non si estingueranno mai, continuando ad abbeverarsi ai libri di storia corrotti e manipolati. Noi continueremo a resistere e a difendere la nostra memoria, i nostri martiri, la nostra storia. Come sempre. 8 di Domenico Verta 9 24 MAGGIO – II PARTE di Domenico Verta Gli Ascari furono i veri protagonisti, oltre che delle imprese coloniali italiane, della difesa della colonia. Quello italiano fu l‟unico colonialismo, infatti, ad evolversi nel suo contrario ossia in un ferreo e genuino patriottismo che portò negli anni della dominazione italiana alla nascita di un‟ idea di Nazione eritrea, di una coscienza nazionale eritrea che determinò, decenni dopo, la liberazione del Paese non dall‟ex potenza coloniale, come era avvenuto in altre parti d‟Africa ma dall‟ imperialismo di un altro Stato africano, l‟Etiopia. Aldilà d‟ogni retorica gli eritrei combatterono con fedeltà granitica e con eroico coraggio per il Tricolore italiano a Cheren ed ad Agordat non solo perché all‟Italia erano affezionati ma anche e soprattutto perché la bandiera d‟Italia era anche la loro bandiera, la bandiera dell‟ Eritrea intesa come piena entità politica e sociale, anche se colonia e non ancora nazione. Anche dopo il crollo dell‟Africa Orientale Italiana nel maggio del 1941, molti eritrei, sia Ascari che civili, continuarono a combattere contro gli inglesi nella guerriglia italiana in Africa Orientale che vide tra i suoi principali protagonisti Amedeo Guillet. Guillet affermò anni dopo che i capi eritrei gli dichiararono che essi avrebbero combattuto “o per la Bandiera italiana e per il Re d‟Italia o per l‟ indipendenza” rifiutando l‟amministrazione degli invasori inglesi o peggio l‟annessione all‟Impero Etiopico. Alcuni Ascari o notabili eritrei del governo coloniale italiano divennero i padri dell‟ indipendenza eritrea come Ibrahim Sultan Alì ed Hamid Idris Auatè, il Garibaldi eritreo, che in gioventù fu Ascari ed agente segreto dell‟ intelligence italiana. L‟ultimo combattente delle Forze Armate italiane a cessare le ostilità nella Seconda Guerra Mondiale fu il muntaz Alì Gabrè nel giugno del 1946, ossia un anno dopo la fine del conflitto. Il decennio che va dal ‟41 al ‟52 vide la resistenza degli eritrei (affiancata inizialmente da ufficiali italiani) all‟occupante britannico e l‟opposizione alle mire annessionistiche etiopiche. Intanto sorsero alla fine degli anni Quaranta associazioni e movimenti politici in tal senso come il Comitato Rappresentativo degli Italiani d‟Eritrea (CRIE), l‟Associazione Italo – Eritrei, l‟ Associazione Ascari Veterani promosse dal medico italiano Vincenzo Di Meglio. In seguito sempre Di Meglio fondò il Partito Eritreo pro Italia (Sciara Italia) che raccolse in poco tempo 200.000 iscritti tra gli eritrei a testimonianza dell‟affetto che essi nutrivano per il nostro Paese. L‟obiettivo della Sciara Italia era quello di condurre il Paese all‟ indipendenza dopo averne preservato l‟unità politica grazie al ritorno della presenza italiana nelle forme dell‟amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite. Questo partito si unì poi alla Lega Musulmana di Ibrahim Sultan Alì ed al Partito per la Libertà ed il Progresso di Uoldeab Uoldemariam nel Blocco Indipendenza, consociazione di formazioni politiche eritree indipendentiste. Nel frattempo la Sciara Italia aveva mutato il suo nome in Partito Nuova Eritrea ed al Blocco Indipendenza aderirono il CRIE ed altre formazioni minori. Indipendentista e favorevole al ritorno, sia pur temporaneo, dell‟Italia era ovviamente l‟Associazione Ascari Veterani benché non fosse un partito. Grazie a Di Meglio ed agli altri politici del Blocco, gli eritrei 10 poterono sventare la minaccia di una divisione del paese progettata da Londra alla fine della sua occupazione: inglesi ed etiopi, infatti, si erano accordati affinché il Paese fosse spartito nel 1950 (al Sudan, protettorato inglese, sarebbe andato il nord-ovest, all‟Etiopia il sud-est). Gli inglesi inoltre appoggiarono le azioni terroristiche degli sciftà (banditi) in funzione antitaliana ed antieritrea fomentate dall‟Etiopia nonostante quasi tutti gli eritrei fossero favorevoli al mandato italiano ed all‟indipendenza. Nel ‟50 le Nazioni Unite delusero però le aspirazioni del popolo eritreo: l‟ex colonia italiana non sarebbe stata divisa ma venne sancita la federazione con l‟Impero Etiopico benché i sostenitori dell‟Etiopia fossero un‟infima minoranza per di più legata agli sciftà. L‟Italia, pur impegnandosi stranamente di più dal punto di vista politico e diplomatico per la difesa delle sue colonie rispetto a quella dell‟ Istria e degli altri territori orientali (il governo ed i partiti puntavano all‟ ottenimento del mandato ONU sulle colonie prefasciste, compreso il PCI di Togliatti che però intendeva installare delle basi sovietiche in Tripolitania se questa fosse tornata italiana mentre per la questione giuliana e dalmata appoggiò in toto gli iugoslavi), non riuscì ad ottenere il mandato in Eritrea né a farle avere la piena indipendenza: dopo il 1950 l‟ Italia mantenne i rapporti con l‟ex colonia solo attraverso la diplomazia ossia senza urtare troppo il Negus. Agli Ascari comunque venne assegnata la pensione ed i coloni italiani poterono restare nel Paese. L‟ annunzio della federazione con Addis Abeba lasciò scontenti quasi tutti e provocò proteste e tumulti malgrado gli abissini si affrettassero a promettere un‟ ampia autonomia. Nel 1960 però nacque al Cairo il Fronte di Liberazione Eritreo (FLE), movimento politico e militare indipendentista. L‟anno successivo l‟eroe Hamid Idris Auatè diede inizio alla guerra di liberazione dell‟Eritrea organizzando le formazioni militari del FLE, mettendo subito in scacco l‟esercito imperiale. Benché fossero male armate e privi di aviazione, i patrioti sconfissero più volte le truppe del Negus nonostante queste ultime potessero contare sull‟appoggio degli Stati Uniti. Il genio militare di Auatè, il grande patriottismo ed un‟impeccabile organizzazione bellica ed ideologica fecero però dei rivoluzionari dei soldati tenaci come gli spartani di Leonida e consentirono loro di sopperire alla mancanza di mezzi, armi e viveri. Non pochi speravano in un aiuto dell‟Italia alla causa eritrea, magari nell‟invio di armi e di aiuti d‟altro genere (sarebbe stato giusto e doveroso) ma l „Italia non fornì alcuna assistenza. I patrioti dovettero contare solo sulle proprie forze. Nel ‟62 Hamid Idris Auatè morì forse per via delle ferite riportate in guerra, forse assassinato dagli etiopi ma la rivoluzione non terminò anzi si acuì. Sempre nel ‟62 la federazione venne abolita e l‟Eritrea venne brutalmente annessa all‟Etiopia ma i patrioti riuscirono a strappare al Negus ampie zone del Paese. Nei primi anni ‟70 ci fu una scissione nel FLE in quanto l‟ala d‟ispirazione socialista diede vita al Fronte Popolare di Liberazione Eritreo (FPLE) che ben presto assunse la guida della rivoluzione. Nel ‟74 il Negus venne deposto da una giunta militare comunista, il Derg che tuttavia non rinnegò l‟imperialismo negussita. Il Derg ottenne presto aiuti militari dall‟Urss ed un contingente cubano raggiunse l‟Etiopia per aiutare Hailè Mariam Menghistù, il dittatore etiope, nella lotta contro la resistenza eritrea. Vi furono alcune sconfitte del FLE – FPLE ma in seguito i patrioti si organizzarono sconfiggendo ripetutamente gli 11 etiopi sino alla vittoria finale del 1991 ed alla liberazione dell‟ Eritrea. Nel 1993 gli eritrei in seguito ad un referendum optarono per l‟indipendenza, proclamata il 24 maggio dello stesso anno. Da allora l‟Eritrea è guidata in modo dittatoriale da Issaias Afeuorchi, uno dei leader del FPLE, divenuto in seguito formazione politica col nome di Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDG). Nel 1998 l‟Etiopia sferrò un attacco all‟Eritrea occupando la città di Badammè ed altre zone di confine: fu una sfibrante guerra di posizione combattuta tra roventi pietraie simili a quelle del Carso. La guerra finì nel 2000 con la vittoria sul campo dell‟Etiopia ma la comunità internazionale stabilì che Badammè appartenesse all‟Eritrea perché già inclusa nei confini della colonia italiana (Accordo di Algeri); l‟Etiopia non ha però ancora restituito la cittadina all‟Eritrea. In realtà la questione di Badammè è solo un pretesto: gli etiopi miravano e mirano tuttora ad erodere lo Stato eritreo per provocarne il crollo ed annetterne almeno una parte. Ciò costringe gli eritrei ad un continuo stato di preallarme dal punto di vista militare o comunque ad uno stato di “pace armata”. L‟Italia deve impegnarsi con la sua diplomazia affinché Badammè torni all‟ Eritrea perché solo così le sue frontiere potranno essere sicure: è chiaro che l‟irredentismo eritreo si contrappone all‟imperialismo etiopico – che, peraltro, ha portato all‟invasione della turbolenta Somalia da parte di Addis Abeba- e che la riunificazione di Badammè all‟Eritrea rappresenterà una debacle per politica egemonica dell‟Etiopia, fomite di destabilizzazione e di tensioni nel Corno d‟Africa. L‟Italia non può dimenticare di nuovo la sua nazione sorella: negli anni Sessanta e Settanta lo fece perché i governi d‟allora non volevano inimicarsi (di nuovo) Hailè Selassiè e forse perché il mondo della cultura, quasi tutto schierato su posizioni marxiste, avrebbe storto il naso dinanzi ad un‟azione italiana –benché pacifica in quanto si sarebbe trattato di aiuti ai patrioti e non di un intervento militare- nel suo antico possedimento osteggiandola come “mira colonialista ed imperialista”. I “rivoluzionari” di casa nostra, però, dimenticavano che proprio 12 contro l‟imperialismo gli eritrei stavano combattendo. Per decenni gli italiani, salvo eccezioni, hanno dimenticato gli eritrei e non molti, oggi, saprebbero trovare l‟Eritrea sulla carta geografica. A partire dal 2000 però, nel contesto di un risveglio della promozione culturale italiana nel mondo, i rapporti tra Eritrea ed Italia, già buoni sin dall‟indipendenza, si sono intensificati; al contempo in Italia vi è stata (e continua tuttora) una lenta ma costante riscoperta del nostro passato coloniale e quindi dell‟Eritrea stessa. Dell‟Eritrea in passato si occuparono Indro Montanelli, Paolo Caccia Dominioni e, in modo fortemente politicizzato, Angelo Del Boca ma nel 2002 lo storico e giornalista Domenico Quirico ha scritto “Squadrone Bianco”, lavoro incentrato sulle truppe coloniali italiane; nel 2003 Arrigo Petacco ha pubblicato “Faccetta Nera” sulla Campagna d‟ Etiopia e nel 2004 si è avuta una Mostra sugli Ascari, non senza polemiche. Oggi vi sono alcuni siti dedicati agli Ascari, all‟Eritrea ed al colonialismo italiano che si affiancano alle pubblicazioni dei nostri ex coloni; anche sui siti sociali vi è una riscoperta del tema. Importantissimo sul piano culturale e narrativo è il romanzo “Morire è un attimo” (2008) del giornalista Giorgio Ballario, creatore del noir coloniale italiano. Ambientato nell‟Eritrea italiana alla vigilia del conflitto italo – etiopico, il romanzo ha riscosso un vasto successo. 13 LEGIONARI PER LA DALMAZIA ITALIANA (PRIMA PARTE) di Sebastiano Parisi Le origini La questione dalmata che nacque dopo la vittoria dell‟Intesa nella Grande Guerra, fu probabilmente la più complicata e triste che riguardò il nostro Paese. Il governo italiano si mostrava diplomatico e cauto per non complicare una situazione che però era già più che compromessa, dove il tradimento degli “alleati” e l‟incapacità dei nostri diplomatici crearono un mix micidiale che ci impedì di far valere le nostre legittime ragioni sulla settentrionale maggioranza adriatiche. Dalmazia e la delle isole D‟Annunzio ruppe gli indugi e occupò Fiume, una serie di simili accadimenti riguardarono pure la Dalmazia, Zara in primis. Ma torniamo torniamo novembre a indietro, quel 1918. 4 Quel giorno la regia torpediniera 55 AS del capitano di corvetta De Boccard giunse a Zara, vi attraccò e ne prese possesso in nome del Regno d‟Italia nel delirio totale degli abitanti che attendevano con ansia quel momento storico. Ma purtroppo molto ancora doveva essere fatto per rendere effettiva quella sacrosanta annessione. A Versailles i nostri “alleati” rigettarono il Trattato di Londra in una sorta di coalizione non dichiarata contro l‟Italia: Wilson, assolutamente ignorante sulla storia dei territori in questione e sugli equilibri etnici delicati che li caratterizzavano era spudoratamente filo-slavo; idem i francesi, che vedevano con timore un‟espansione di quelle proporzioni dell‟Italia nell‟Adriatico orientale, la cui ovvia conseguenza sarebbe stata l‟evoluzione del nostro Paese in grande potenza mediterranea; infine gli inglesi avevano interesse affinchè la questione non venisse risolta in modo che i nostri diplomatici si concentrassero sulla Dalmazia, perdendo di vista la spartizione delle colonie tedesche, che infatti avvenne senza di noi e l‟Italia non ne ebbe manco una briciola. Queste tensioni si rifletterono sui soldati dell‟Intesa di stanza a Fiume e su quelli italiani, oltre che sugli abitanti della città. I militari francesi difendevano la causa delle genti slave e istigavano questi ultimi contro gli italiani. Diverse furono le occasioni di scontro tra il nostro contingente supportato dai fiumani e i francesi. Il 6 luglio 1919 ci furono morti e feriti, tra i francesi e i marinai italiani 14 delle navi Emanuele Filiberto, Dante Alighieri e San Marco. La situazione degenerò sempre più, i Granatieri di Sardegna furono allontanati dalla città, per tornare poi il 12 settembre 1919 al comando di Gabriele D‟Annunzio. I Legionari presero il controllo della città tra l‟entusiasmo dei fiumani e nei giorni seguenti i contingenti francese, inglese e americano abbandonarono Fiume. Dopo aver consolidato la sua posizione, il Vate pensò subito al prossimo passo e in un consiglio di guerra tenuto il 13 novembre 1919 disse: “Bisogna perciò dimostrare che Fiume e la Dalmazia costituiscono due aspetti di un unico problema. Bisogna andare a Zara!”. Il giorno seguente cominciò cosi l‟Impresa di Zara. La notte tra il 13 e il 14 novembre furono segretamente imbarcati sulla RN Cortellazzo diverse formazioni di volontari, per un totale di circa 600 legionari. Sul cacciatorpediniere Nullo (a scorta della Cortellazzo) s‟imbarcava invece il Comandante. Partivano pure la torpediniera 66 PN e il MAS 22 (l‟affondatore della corazzata austriaca Santo Stefano). L‟impresa era comandata dal capitano di corvetta Castruccio Castracane e partecipava anche il leggendario eroe Luigi Rizzo, oltre che a Giurati, Host-Venturi, Keller, il maggiore Reina e il tenente dei carabinieri Cabruna. La piccola flotta legionaria navigando a luci spente eluse la sorveglianza italiana e solo all‟alba una squadra navale la individuò. Ma Zara era in vista, ormai era fatta. Era il 15 novembre. Tutte le campane cominciarono a suonare ininterrottamente, la gente scese per strada ad accogliere i liberatori. Le scene di delirio accompagnavano lo sbarco del Comandante con al seguito i suoi Legionari. Tutta Zara era per strada a festeggiarli. D‟Annunzio si recò a colloquio con l‟ammiraglio Enrico Millo (che era il governatore dei territori dalmati occupati dal Regno d‟Italia). Questi promise al Vate che non avrebbe abbandonato la Dalmazia fino all‟annessione all‟Italia. Poi raggiunse il palazzo municipale, strinse forte la bandiera consacrata dal sangue di Giovanni Randaccio e dal balcone parlò agli zaratini: “… al morente avevo promesso di issarla a San Giusto. Ma l‟ho mostrata in Campidoglio al popolo di Roma ed avevo promesso allora di portarla anche a Fiume. L‟ho portata e oggi la porto qui a Zara, per Zara e ancora più oltre”. E la folla in un unico boato rispose: “A Spalato”. Il sindaco di Zara Luigi Ziliotto faceva affliggere sui muri della città un manifesto: “ Concittadini! Gabriele D‟Annunzio è qui. Nessuna parola: continuate a piangere di gioia: la Dalmazia resta per sempre d‟Italia ”. Dopo il breve ma significativo blitz il Vate lasciò Zara nella giornata del 15. In città rimanevano però i volontari dalmati, con una consistenza di due terzi di un battaglione andavano a costituire la Legione del Carnaro al comando del maggiore Giovanni Giurati, che dopo 4 giorni fu però richiamato dal Vate per una missione segreta col conseguente passaggio di comando al capitano Luigi Corrado, inizialmente comandante della compagnia Bersaglieri di Fiume. Le tre compagnie della Legione erano le seguenti: Arditi di Sernaglia, al comando del capitano Giuseppe Vianello; Bersaglieri di Fiume, comandati dal capitano Luigi Corrado; Randaccio al comando di Egone Blatt. 15 Si passa all’azione Il blitz di D‟Annunzio a Zara sblocca una situazione incerta e apparentemente già compromessa. Gli zaratini si organizzano, vogliono passare all‟azione, non solo Zara, ma tutta la Dalmazia deve essere salvata. Già subito dopo la fine della guerra era stata ricostituita la vecchia associazione sportiva Juventus Jadertina. Ma quella sportiva era solo una maschera, si trattava infatti di una organizzazione paramilitare volontaria. Erano ammessi i maschi con un‟età minima di 17 anni, ma anche le donne potevano farne parte come affiliate. Subito vi furono centinaia di adesioni. Gli addestratori “ginnici” erano gli ufficiali zaratini volontari nella guerra. In un protocollo riservato dello Statuto era scritto: “ Il vero scopo della Juventus Jadertina è di organizzare la resistenza armata per difendere le rivendicazioni d‟Italia su questa sponda… Il corpo in divisa ha quindi il compito di allenare tutti i volontari all‟eventuale cimento… A tale scopo la Juventus Jadertina favorirà l‟accasermamento di volontari… ”. Il 23 settembre 1919, al Teatro Verdi di Zara, 932 volontari della Juventus Jadertina giurarono sul tricolore di portare a compimento Dalmazia, la redenzione anche a costo della della propria vita. Nei giorni seguenti i circa 1000 volontari diedero vita al battaglione Francesco Rismondo, al comando di Buono Bonvicini. Erano quattro le compagnie del battaglione e tutte dedicavano il nome a un eroe irredentista: Oberdan, Sauro, Battisti e Filzi. C‟era anche il nucleo mitraglieri dedicato a Pier Fortunato Calvi, al comando del tenente Viola. I volontari tenevano il copricapo usato da D‟Annunzio a Fiume e sulla divisa spiccavano le fiamme azzurre, tipiche dei combattenti dalmati. L‟armamento era quello italiano, col mitico moschetto 91, ma c‟erano anche i fucili austriaci preda bellica. La Legione del Carnaro e il battaglione Francesco Rismondo, oltre al tricolore, usavano come bandiera anche il leggendario vessillo dalmata con le tre teste di leopardo ed era usata da alcuni reparti pure la bandiera con le 7 stelle dell‟Orsa Maggiore (o anche delle 7 principali città dalmate) su sfondo porpora. Queste bandiere sventolavano anche a Parigi davanti alla sede della Legazione e, seppur tale rappresentanza non fosse riconosciuta, riusciva a imprimere pressioni sui “grandi” del mondo. Quasi tutte le bandiere avevano una fascia nera, a ricordo di quanto D‟Annunzio disse al Capidoglio a Roma: “Io voglio abbrunare la mia bandiera… finchè Fiume non sia nostra, finchè la Dalmazia non sia nostra”. Si trattava della stessa bandiera che il Vate portò a Fiume e a Zara e che sul Timavo avvolse il corpo 16 di Randaccio, imprimendo per sempre sul tessuto le tracce del suo sangue. Il simbolismo dei combattenti dalmati, le divise, le bandiere, cominciarono ad attrarre irrimediabilmente anche i legionari di stanza a Fiume, ma non si trattava solo di attrazione estetica, era proprio lo stile di vita di quei legionari dalle fiamme azzurre a far breccia nei loro cuori. I dalmati usavano anche un particolare fregio, una croce sovrastata da un Leone di San Marco e con il motto “ Nu con ti, ti con nu”. Questo motto era usato dai dalmati, insieme al rispolverato grido di battaglia romano “ Eja eja alalà”. E cosi, vista la magnetica attrazione che questo stile di vita aveva su tutti i legionari, il giorno dell‟Epifania del 1920 in Vate diede l‟autorizzazione a tutti i volontari di portare le fiamme azzurre. In attesa degli eventi, tutto serviva a dimostrare la volontà di resistere dei Legionari e della popolazione, un esempio è la sfilata militare del battaglione Rismondo e della Legione del Carnaro in onore dell‟onomastico del Comandante. Piccoli grandi manifestazioni di forza rivolte agli slavi e ai “potenti” a Parigi e a Roma. Il Sabato Santo del 1920, in Vate dedicò delle affettuose parole ai volontari del battaglione Rismondo. Il 7 aprile aveva mandato un messaggio a Giovanni Lubin, patriota di Traù e al termine diceva: “… Bisogna credere nel miracolo. Si salva chi crede nel miracolo. Dite ai nostri fratelli che io credo, e che non muterò mai. La bestia non può prevalere. Non prevarrà. Abbiate pronte le armi. Se non avete armi, acuminate i sassi. E non mi aspetterete invano. Gabriele D‟Annunzio”. Questo messaggio inviato a Lubin fa bene intendere le intenzioni del Vate: ad esempio quel “ … La bestia non può prevalere…”, o “… Se non avete armi, acuminate i sassi…” sono espliciti riferimenti alla rivoluzione che intendeva far scoppiare in Dalmazia, allo scopo di disintegrare sul nascere “l‟abominevole” Jugoslavia e creare una Dalmazia indipendente sotto tutela italiana. Il piano che D‟Annunzio stava ideando era incentrato sulla destabilizzazione dell‟area balcanica, in particolare l‟organizzazione di una serie di moti in Dalmazia tra il 21 ottobre e il 3 novembre. A questo scopo era necessario stringere alleanze e rapporti con altri Paesi dell‟area, in modo che la rivolta anti-serba si allargasse talmente da rendere inutile il tentativo di domarla. Il Vate, il 12 maggio 1920, strinse un accordo segreto con il Presidente del Consiglio del Montenegro Jovan S. Plamenatz, senza coinvolgere né Giurati né HostVenturi (nonostante questi stessero già svolgendo altre trattative con esponenti di altre nazioni balcaniche); il Comandante si impegnava a fornire armi e viveri ai montenegrini, che in cambio si sarebbero sollevati contro i serbi. Ma a Fiume mancava tutto e quel poco che arrivava era spesso il bottino delle azioni degli “Uscocchi” o i beni che la Croce Rossa riusciva a far filtrare. Di conseguenza fu impossibile mantenere i piani prefissati. Ma la situazione in Dalmazia era critica già da tempo; in particolare la peggiore sorte toccò ai dalmati italiani che vivevano in quelle località che si trovavano fuori dai confini del Patto di Londra. Gli italiani di Spalato e Traù in primis. In quest‟ultima località, il 23 settembre 1919, il conte Nino Fanfogna tentò una copia dell‟Impresa fiumana; con l‟aiuto di militari italiani “ribelli” comandati dal tenente Emanuele TorriMariani aveva occupato la sua città per annetterla al Regno d‟Italia. Traù infatti si trovava a pochi 17 chilometri dal limite della Dalmazia promessaci dagli alleati e per il momento presidiata dalle nostre truppe regolari. La situazione si risolse senza spargimenti di sangue grazie all‟intervento dell‟onnipresente ammiraglio (e governatore della Dalmazia occupata dall‟Italia) Millo. Nonostante questo, finita la rivolta, cominciò la terribile vendetta dei croati contro gli italiani di Traù, che non ebbero più pace. Simili e ancor peggiori violenze si avevano a Spalato; la città dalmata era stata occupata dagli jugoslavi, ma nonostante il Fascio Nazionale Italiano abbia esortato con un manifesto il 3 novembre 1918 la popolazione italiana di rispettare gli slavi e gli eventuali comitati e consigli che avrebbero governato la città in attesa di un‟augurata annessione all‟Italia, i croati pensarono bene di giocare al gatto e al topo. Tutto cominciò con l‟esposizione dei tricolori italiani alle finestre, quando, dopo la vittoria dell‟Intesa, nel porto arrivarono due navi francesi. Le autorità slave e i cittadini croati cominciarono a strappare quelle bandiere, ad entrare nelle abitazioni di chi le aveva esposte, a danneggiare negozi, aggredire gli italiani. Da quel momento i nostri connazionali non ebbero più pace e ogni occasione fu buona per i croati per manifestare il loro violento odio verso i concittadini di etnia italiana. Il copione era sempre lo stesso, si entrava nelle abitazioni, si bruciavano tricolori, si marciava verso i punti di ritrovo italiani e si devastavano i negozi. Dopo quel primo atto di violenza l‟Italia mandò la nave esploratore Riboty, che per ordine dell‟ammiraglio Millo, doveva aiutare gli italiani e proteggerli dalle violenze, raccogliere informazioni sulla situazione in Dalmazia centrale e distribuire gratuitamente viveri a tutti gli abitanti, ad evidente scopo propagandistico. Il console Marcello Roddolo, in servizio sulla Riboty, cosi commentò la tesa situazione che si respirava a Spalato: “Le nostre truppe che occupano mano mano i confini dell'armistizio e perciò si avvicinano a Spalato fanno credere agli Jugoslavi prossima una nostra occupazione di quella terra, alla quale occupazione quasi certamente i reparti serbi si opporrebbero con le armi ”. Turbati dall‟incerto destino della propria città, nel marzo 1919 gli italiani di Spalato scrissero ai “Quattro Grandi” per rivendicare la propria italianità: “Le nostre anime oppresse da nuovo sconforto, erompono verso di Voi in un impeto solo che nella voce ha lo schianto di tutti i nostri morti e l‟ angoscia di tutti i viventi, in una sola parola di invocazione, di incitamento e di speranza; che la nostra città fedele fra tutte, per le sue tradizioni romane e italiche veda finalmente spuntare sul mare nostro l‟aurora della sua redenzione, e compiendo i nostri voti più ardenti riallacci la sua alle gloriose fortune d‟ Italia ”. L‟Italia manteneva prima il Riboty e poi la RN Puglia nel porto della città come fosse un “piede” italiano sulla Dalmazia che svolgeva attività filo-italiane; ma bisogna chiedersi che senso aveva tutto questo se poi il Governo italiano non rivendicava Spalato, né l‟aveva fatto in passato, né tantomeno lo fece in futuro. Chiudiamo per il momento la parentesi spalatina, salvo riaprirla a breve parlando della tragedia della RN Puglia (mandata a dare il cambio alla Riboty) e torniamo ai mesi che precedettero la firma del Trattato di Rapallo. In Italia crescevano i consensi all‟Impresa di Fiume, ma il governo italiano non cessava di agire contro gli 18 stessi interessi della Patria. Infatti il 24 maggio a Roma, la Guardia Regia sparò sulla folla inerme che manifestava in favore dell‟annessione di Fiume e della Dalmazia. Ci furono morti e feriti. Da Fiume D‟Annunzio accusò il governo italiano riguardo le responsabilità dell‟accaduto, ma allo stesso tempo intuì che oramai c‟era da prepararsi al peggio. L‟11 luglio a Spalato, dopo il sequestro di una bandiera jugoslava da parte di un marinaio italiano, ci fu una violenta manifestazione anti italiana che vide gli slavi accalcarsi al porto davanti alla RN Puglia e aggredire due ufficiali italiani. Dopo terribili attimi di tensione ci fu uno scontro a fuoco tra marinai italiani e gendarmi jugoslavi che causò la morte del comandante Tommaso Gulli della RN Puglia e del motorista Aldo Rossi, oltre che di un manifestante slavo. Gulli, alla guida di un MAS si stava avvicinando alla folla sul molo per calmare gli animi dei manifestanti, ma invece pagò con la vita quel suo gesto pacificatore: una granata venne lanciata dal molo e per il motorista Aldo Rossi fu l‟inizio del calvario; il comandante Gulli fu invece colpito da una pallottola di fucile e anche per lui ebbe inizio una terribile agonia. Entrambi morirono nella notte all‟ospedale di Spalato. Prima di morire il comandante Gulli dettò questo breve testamento spirituale: “ Tanti abbracci ai miei. Il mio pensiero è con loro. Se muoio, muoio tranquillo perché i miei figli saranno bene educati da mia moglie. Se muoio, mando un saluto agli ufficiali e a tutti della Puglia. Io non ho assolutamente provocato nessuno, anzi sono andato io stesso per impedire provocazioni. Se vi sono dei morti non li ho sulla coscienza”. Da Roma intervenne il ministro degli Esteri Carlo Sforza che intimò alla Jugoslavia le seguenti richieste: scuse ufficiali da parte del governo locale di Spalato; nota di rammarico da parte del governo serbo; indennità per le famiglie dei caduti; punizione esemplare per i carnefici. Di queste richieste solo una venne rispettata e cioè solo quella riguardante la nota di rammarico da parte del governo serbo. Per gli irredentisti italiani e i legionari fiumani, la mancata risposta italiana a questa tragedia, era la conferma che l‟arrendevole governo italiano non aveva ormai interesse a rivendicare la Dalmazia, né Fiume, né tantomeno a punire i responsabili dell‟uccisione di due servitori del Regno. Tutti gli irredentisti italiani e i legionari rimasero molto turbati. Sicuramente, questa e tutte le altre vergognose mancanze del Governo italiano, sono legate strettamente alle trattative che il Governo stesso aveva intrapreso con Belgrado per definire i nuovi confini, usando anche le azioni del Vate come arma ricattatoria. Giolitti (che era succeduto a Nitti) considerava la Dalmazia una questione secondaria che andava chiusa rapidamente, anche a costo di sacrificare praticamente tutto quello che ci spettava di diritto. Ma questa posizione fu la fine per tutti i piani del Comandante atti alla disintegrazione della Jugoslavia, perché, dal momento che l‟Italia trattava con “l‟abominio”, il risultato sarebbe stato che la Federazione dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni ne sarebbe uscita rinforzata, anche se magari avesse trattato da una posizione inferiore. Per riuscire a prendersi Fiume e la Dalmazia era invece necessaria la destabilizzazione dei Balcani e un successivo intervento 19 italiano… ma questo probabilmente non interessava a Roma e da Fiume non era possibile riuscire da soli in una simile operazione. Il 12 novembre 1920 l‟Italia firmò il Trattato di Rapallo: solo Zara, l‟isola di Lagosta, l‟isola di Cazza e l‟arcipelago di Pelagosa vennero annesse all‟Italia. Il Trattato di Londra sottoscritto il 26 aprile 1915 era stato tradito. Gli inglesi, gli americani e soprattutto i francesi potevano esultare, l‟Italia era stata giocata. Se Fiume diveniva stato libero e Zara veniva salvata era solo e unicamente grazie all‟opera del Vate, dei Legionari e dei tanti soldati del Regio Esercito, della Marina e anche dell‟Aeronautica, ufficiali compresi, che “disertarono” il vile Governo italiano in favore di chi davvero lottava per gli interessi della Patria. CONTINUA … 20 INDEFICIENTER (PARTE X) di Domenico Verta L‟Italia e la Iugoslavia firmarono nella notte del 12 novembre del „20 il Trattato di Rapallo “fra il plauso contenuto dell‟opinione pubblica italiana, una profonda tristezza della Venezia Giulia e l‟incontenibile disperazione dei dannunziani” come ricordava lo storico e giornalista Antonio Spinosa. Il plauso contenuto dell‟opinione pubblica del Bel Paese era dovuto sicuramente alla cronicizzazione della questione fiumana: nonostante la stragrande maggioranza degli italiani e quasi tutti i reduci preferissero l‟annessione, una soluzione di compromesso veniva auspicata da più parti. La delegazione iugoslava che partecipò ai lavori era composta dal Presidente del Consiglio Milenko Vesnic, dal Ministro degli Esteri Ante Trumbic e dal Ministro delle Finanze Stoianovic mentre quella italiana era formata dal Ministro degli Esteri Carlo Sforza, dal Ministro della Guerra Ivanoe Bonomi e dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che intervenne tuttavia solo alla chiusura dei negoziati. Il trattato fissava sulle Alpi Giulie i confini tra i due Stati seguendo grossomodo la linea prevista dal Patto di Londra: il Monte Nevoso venne assegnato all‟ Italia ma Longatico e la sua conca, già occupate dal Regio Esercito sul finire della Grande Guerra, vennero date alla Iugoslavia. Ci venne riconosciuto il possesso delle isole di Cherso, Lussino e Lussinpiccolo prospicienti la costa istriana ma la Dalmazia fu annessa a SHS salvo Zara, il suo immediato 21 entroterra e le isole di Cazza, Lagosta nonché l‟arcipelago di Pelagosa che invece rimasero italiane. Fiume venne proclamata Stato indipendente la cui continuità con l‟ Italia era garantita da una sottile striscia costiera che si estendeva da Volosca a Cantrida; il lembo di territorio che univa Fiume al resto d‟Italia era situato a sud di Castua e ricorda vagamente la stretta litoranea che ora unisce Trieste al rimanente territorio della Regione Friuli - Venezia Giulia. I nostri esperti militari definirono questa linea di confine sicura dal punto di vista strategico. L‟ Italia insomma poté praticamente annettere i territori al di qua delle Alpi Giulie già compresi nel vecchio Litorale Adriatico, tutta l‟Istria, le isole di Cherso, Lussino, Lussinpiccolo e altre minori nel golfo del Carnaro, Zara e dintorni, Cazza, Lagosta e l‟arcipelago di Pelagosa nell‟Adriatico. Giolitti però dovette rinunziare alla Dalmazia salvo Zara appunto e riconoscere Fiume, di concerto con il Governo iugoslavo, come Stato libero. Italia e Iugoslavia si impegnavano a rispettare in perpetuo questi accordi anche se un documento segreto stabiliva che dopo un certo tempo Porto Baross ed il Delta, croati dal punto di vista antropico in quanto gli italiani risiedevano nella città propriamente detta, sarebbero passati alla Iugoslavia poiché essa lamentava la mancanza di un porto efficiente. Come si può intuire, Rapallo provocò l‟ “ira funesta” del Comandante e dei suoi Legionari. Guido Keller, per impedire che Palamidone – Giolitti concludesse gli accordi con gli invisi “ciucoslavi” come li definiva talvolta sprezzantemente il Vate, si era recato alcuni giorni prima nell‟ Urbe col suo aeroplano. Non poté però dissuadere i nostri governanti dal firmare il Trattato poiché, imbattutosi in una tempesta, dovette atterrare nella campagna romana in modo fortunoso. Raggiunta una stazione ferroviaria, l‟asso di Fiume mostrò le sue credenziali di inviato straordinario della Reggenza ad un ferroviere e lo convinse a fermare un direttissimo per Roma. Giunto nella capitale, Keller non trovò nessuno che fosse disposto ad ascoltarlo mentre s‟ era già diffusa la notizia dell‟ avvenuta firma del Trattato. Allora giurò vendetta e prontamente raggiunse la contrada dove aveva lasciato l‟aereo. L‟aviatore si levò nuovamente in volo ed in poco tempo comparve nei cieli di Roma. Qui, come un eroe di Marinetti, scagliò dal suo apparecchio un orinale su Montecitorio in spregio al “vile mercato” che la classe politica aveva fatto sino ad allora. Al manico del pitale “antidiplomatico” era legato un mazzo di rape e di carote con uno striscione di stoffa rossa recante la scritta: “Ala, azione nello splendore” (il motto araldico di Keller) dona al Parlamento e al Governo, che si regge con la menzogna e la paura, la tangibilità organica del loro valore”. In seguito, volteggiando a bassa quota tra la curiosità dei romani, lasciò cadere sul Vaticano una rosa bianca con un breve messaggio: “Ala, azione nello splendore, a Frate Francesco”; ripetè lo stesso gesto sul Quirinale ma stavolta le rose erano sette e tutte rosse. Il messaggio diceva: “Ala, azione nello splendore, alla Regina e al popolo d‟ Italia”. Il Comandante reagì con veemenza al Trattato che Giolitti aveva appena firmato con gli iugoslavi. Affermò di non riconoscere Rapallo e che, in rappresaglia al “tradimento dei cialtroni”, i suoi Legionari avrebbero subito occupato Veglia ed Arbe, due isole del golfo del Carnaro: la prima era a maggioranza italiana mentre la seconda presentava una piccola comunità di nostri connazionali. D‟ Annunzio ordinò inoltre l‟occupazione di alcune località della Dalmazia 22 in quanto ne aveva sempre difeso l‟italianità ( “O nostra Dalmazia, stretta come un orlo di toga ma orlo di toga romana ?” ) mentre Giolitti non ne voleva sapere ( “Non voglio avere troppi slavi in Italia !” ). All‟indomani di Rapallo, dunque, i Legionari occuparono le due isole nonostante queste fossero state assegnate alla Iugoslavia dal Trattato. I dannunziani non incontrarono alcuna resistenza poiché né la popolazione né le truppe regolari italiane che presidiavano le isole dalla fine della guerra si opposero loro. Contemporaneamente altri Legionari varcarono il confine e conquistarono subito il monte Luban. Le occupazioni furono decise unicamente dal Vate mentre i Rettori vi si opposero tranne Host – Venturi. Non si sa di preciso cosa pensasse d‟Annunzio in quei giorni: certo è, però, che Rapallo costituì un duro colpo per il Vate e per la Reggenza. Al Poeta ed ai suoi Legionari non rimanevano che due alternative: o accettare il Trattato, riconoscendo lo Stato libero e sgomberando Fiume oppure resistere ad ogni costo. Scelsero la seconda alternativa. Sicuramente il Comandante avversava lo Stato libero non soltanto perché questa soluzione escludeva l‟obiettivo dell‟Impresa ergo l‟annessione di Fiume all‟ Italia ma anche perché lo Stato libero gli sembrava un effimero artificio voluto da Roma per liquidare la questione senza troppi grattacapi. Temeva che, una volta partito con le sue truppe, Fiume sarebbe stata occupata dai serbocroato sloveni per le spicce od in modo indiretto, magari rispolverando la formula del corpus separatum. Ma gli iugoslavi non erano i magiari e in ogni caso Fiume non sarebbe stata unita inveleniva all‟Italia. Lo l‟atteggiamento rinunziatario di Giolitti preoccupato, more solito, più per le questioni parlamentari che per la questione della Città di Vita. D‟ Annunzio non era un pantofolaio e si difese attaccando ossia mostrando a tutti, compreso a sé stesso, che i Legionari non erano stati mummificati dal vento di Rapallo. In quest‟ottica per me vanno viste le conquiste del Luban, di Veglia e di Arbe, oltre che dal logico intento irredentista. Alcuni sostenevano che il Vate intendesse conquistare tutta la Dalmazia, altri che volesse attaccare SHS per sventare le mire croate su Fiume. Un 23 attacco fiumano alla Iugoslavia avrebbe avuto degli esiti imprevedibili. Allora il Governatore di Zara, l‟Ammiraglio Enrico Millo, si incontrò con d‟Annunzio presso l‟isola di Arbe. L‟Ammiraglio consigliò al Vate prudenza e moderazione, pur simpatizzando per i Legionari. D‟Annunzio a volte parve comprendere le ragioni di Millo, in altri momenti rispose con tono bellicoso. L‟incontro tuttavia non mutò la situazione. Il Re Vittorio Emanuele III seppe del colloquio e se ne preoccupò richiamando l‟Ammiraglio al suo giuramento di soldato. Millo però rispose al Sovrano di aver incontrato il Poeta per dissuaderlo dall‟intraprendere azioni in Dalmazia. CONTINUA… 24 IN RICORDO DI FILIPPO CORRIDONI di Emanuele Piloni Il mese di Ottobre è sempre denso di ricorrenze e commemorazioni. Un mese che nella storia ha rappresentato punti di svolta, eventi fondamentali, fatti memorabili. Impossibile dimenticare El Alamein, la sconfitta più gloriosa, eguagliata forse solo dalla ritirata in terra di Russia, dove è bene ricordarlo, i nostri Alpini della Julia non vennero mai sconfitti. Ottobre è il mese in cui avvenne la più grossa disfatta del nostro esercito nella Prima Guerra Mondiale, a Caporetto nel 1917. Una sconfitta tale da divenire proverbiale ed entrare nel linguaggio popolare italiano. Una parola che evoca ancora oggi un senso di sconfitta, sbandamento e smarrimento come pochi. Un fuoco, quello austriaco, che brucerà l‟intero nordest italiano conquistato fino ad allora dal Regio Esercito, ma dalle cui ceneri risorgerà una generazione, quella dei ragazzi del 1899, che solo un anno più tardi (sempre in Ottobre) redimerà i propri padri a Vittorio Veneto, riportando nel sacro ventre materno il Trentino, l‟Alto Adige e la Venezia Giulia. E‟ innegabile che queste siano ricorrenze tanto importanti quanto dimenticate ora. Così come tale è il personaggio il cui nome è presente nel titolo di questo articolo: Filippo Corridoni. Corridoni nasce il 19 Agosto del 1887 a Pausula, in provincia di Macerata, a pochi chilometri di distanza da dove scrivo ora. Mente brillante, studia all‟Istituto superiore industriale di Fermo grazie ad una borsa di studio. Si avvicina alle teorie di Mazzini e Pisacane, e matura le fondamenta del suo pensiero, che sarà guida per molti. Gli viene offerto lavoro come disegnatore tecnico all‟industria metallurgica di Milano “Miani e Silvestri”, si trasferisce dunque nel capoluogo lombardo, e da qui inizierà quell‟epopea che lo vedrà protagonista in un susseguirsi di successi sindacali, arresti, provvedimenti penali, esili, fino all‟ultima battaglia. Corridoni è instancabile, scrive articoli su molti giornali, ne fonda altri, è segretario della sezione giovanile del Partito Socialista Italiano, e per la sua attività viene bersagliato da provvedimenti disciplinari, ai quali tenterà di sottrarsi con fughe a Nizza e in Svizzera. Rientrerà grazie alle amnistie, frequenti in quegli anni, e una volta sfiderà apertamente la polizia italiana valicando il confine e partecipando agli scioperi di Parma, scrivendo addirittura su “L‟Internazionale”, giornale facente riferimento alla Camera del Lavoro sindacalista rivoluzionaria. Diventa anche direttore della Camera del Lavoro di San Felice sul Panaro nel 1909, e in questi anni inizia a 25 maturare la sua mentalità più vera, che si rifarà al sindacalismo rivoluzionario, al quale tenterà di avvicinare anche gli ambienti più riformisti del proletariato italiano. Il prevalere dell‟ala riformista però, lo taglierà fuori dal movimento sindacale. Ma Filippo insiste, si schiera apertamente contro il conflitto coloniale in Libia del 1911, si sposta verso posizioni più concilianti e razionali riguardo la “lotta di classe”, idea che inizia a ritenere fallimentare nella sua concezione originaria, e diventa in breve tempo uno tra i massimi esponenti del sindacalismo rivoluzionario. I suoi scritti di quegli anni riflettono chiaramente il suo orientamento, le sue idee, gli sviluppi del suo pensiero, alcuni punti del quale sono clamorosamente, ma forse non dovrebbe stupire, attuali ancora oggi, e forse addirittura ancora troppo moderni. La svolta decisiva avviene con la fondazione dell‟Unione Sindacale Italiana, nella quale confluiranno molti esponenti di spicco fuoriusciti dal partito socialista, disgustati (o cacciati) a causa dell‟atteggiamento riformista tenuto dal partito, insieme alla tacita collaborazione con la borghesia capitalista e reazionaria. Mussolini, i fratelli De Ambris, Di Vittorio sono solo alcuni dei nomi di chi sosterrà l‟USI, una cui costola, l‟Unione Sindacale Milanese (USM) autonoma ma collegata all‟USI, sarà diretta dallo stesso Corridoni, che riuscirà in breve tempo a raccogliere in esso un numero elevatissimo di gassisti, operai metallurgici, tappezzieri e decoratori con i quali organizzerà un grande sciopero. Filippo entra ed esce dalla prigione più volte, trova l‟USM indebolita a causa della sua assenza, ha uno scambio di vedute piuttosto forte con Mussolini nonostante a causa l‟appoggio di alcuni sempre dissensi, dato da quest‟ultimo e ben accolto dal primo; gli eventi precipitano, in Europa tira aria di guerra, si arriva alla “settimana rossa” di Ancona del giugno 1914, e in quegli stessi giorni, durante un comizio milanese dove Corridoni parla a 100.000 operai, la polizia fronteggia la massa lavoratrice per impedirle di raggiungere il Duomo. Dagli scontri che ne scaturiscono non escono immuni né Mussolini (che aveva partecipato al comizio ed 26 era nel frattempo tornato di nuovo in sintonia con Corridoni), che viene ferito, nè lo stesso Filippo che verrà nuovamente arrestato. Mentre è in carcere riflette e scrive molto. Le sue posizioni, notoriamente antimilitariste e contro la guerra, mutano, alla luce di una maggiore presa di coscienza dell‟opportunità che la guerra può rappresentare. Gli eventi bellici possono essere l‟occasione per sbaragliare definitivamente gli ultimi baluardi della reazione, l‟impero germanico e l‟impero austro-ungarico, ed in tal modo sbaraccare dai luoghi di potere anche la borghesia capitalistica italiana, strappando il proletariato dalla condizione servile in cui ancora versa. Da qui gli eventi si susseguiranno con una velocità impressionante. Mussolini fonda il Popolo d‟Italia nel novembre del 1914, nascono i fasci d‟azione rivoluzionaria nel quale confluiranno tutti gli esponenti dell‟ala interventista provenienti da sinistra, Corridoni riesce a raggiungere un accordo per evitare uno sciopero dei gassisti milanesi che avrebbe intralciato la campagna interventista, e finisce nuovamente in carcere (nella sua breve vita fu colpito da circa 30 provvedimenti detentivi). In prigione scrive “Sindacalismo e Repubblica”, forse il suo più grande lavoro, nel quale esprime in maniera definitiva le linee guida del nuovo Stato che sarebbe dovuto nascere dalla guerra, una Repubblica democratica a partecipazione attiva, antipartitica socialista, e dall‟orientamento dove avrebbe giocato il economico sindacalismo un ruolo rivoluzionario chiave. Insieme a Mussolini, con il quale ora è in sintonia su tutta la linea, si adopera per la campagna interventista, e durante le “radiose giornate di Maggio” del 1915, tengono un comizio nell‟Arena Civica di Milano di fronte a migliaia di persone. Un evento che rappresenterà forse la svolta decisiva per l‟intervento, e dal quale è tratta la foto più famosa di Corridoni (sopra a destra). Allo scoppio della guerra, Filippo si arruola come volontario, e dopo ripetute richieste viene inviato in prima linea, sul Carso. Si offre volontario per numerose missioni pericolose, è sempre avanti a tutti, e non manca di mantenere una fitta corrispondenza con i suoi vecchi amici e con la sua 27 famiglia. Numerose le missive inviate ad Alceste de Ambris, alla mamma, alle sorelle, al padre, e anche allo stesso Mussolini, al quale invierà alcune righe significative qualche settimana prima del fatidico Ottobre 1915: “Carissimo, fra pochi istanti partiamo per la linea del fuoco. Viva l'Italia! In te bacio tutti i fratelli delle battaglie di ieri sperando nell'avvenire”. Altresì profetiche risulteranno le sue parole, con le quali si apprestava ad arruolarsi come volontario in quella che doveva essere, per lui e molti altri, una guerra rivoluzionaria: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”. Filippo Corridoni, giovane pensatore, sindacalista rivoluzionario, giornalista, instancabile lavoratore, paladino dei lavoratori e infine soldato, farà parte degli eroi italiani che il 23 Ottobre 1915, daranno l‟assalto all‟importante e munita postazione austriaca della Trincea delle Frasche (foto), vicino San Martino del Carso (GO). Corridoni, con la fronte verso il nemico, come lui stesso aveva profetizzato, troverà la morte eroica da lui quasi inseguita, e pensata come un sacrificio supremo verso la realizzazione di quella giustizia sociale da lui sempre perseguita e difesa, durante le operazioni per la conquista della trincea. Il suo corpo non verrà mai ritrovato, un fatto che contribuirà ad alimentare il mito corridoniano, la leggenda del soldato-eroe. Verrà decorato con la medaglia d‟argento al valor militare, convertita poi in medaglia d‟oro nel 1925 da Mussolini stesso. I suoi concittadini ribattezzeranno Pausula, suo paese natale, in Corridonia, nome ancora attuale. Nel 1933 verrà inaugurata la nuova piazza di Corridonia, in puro stile razionalista, tipico dell‟epoca, al centro della quale si erge ancora oggi l‟enorme monumento dedicato a Filippo, e sul quale sono incise le sue parole preannuncianti l‟eroica morte in combattimento. Ottobre è un mese denso di ricorrenze, come detto all‟inizio. Alcuni eventi rimarranno nella storia a prescindere da riletture e interpretazioni. La figura di Filippo Corridoni deve essere tra queste. E se con queste poche righe ho forse avuto l‟arrogante pretesa di volerlo ricordare rendendo un minimo di giustizia alla sua figura, mi auguro veramente di aver instillato in chi leggerà, il desiderio di approfondire la conoscenza della storia di Corridoni, ma prima ancora del suo pensiero, e di come si è sviluppato nel corso degli anni, fino a giungere al suo culmine con la scelta interventista e il sacrificio supremo in nome 28 della Patria e della giustizia sociale. L‟aura leggendaria che circonda Corridoni è meritata, ma forse strappa il suo personaggio dal contesto nel quale egli stesso si era collocato, e oscura le sue battaglie, le sue idee, i suoi scritti. Il mito militare dell‟eroica morte in battaglia è forte, ma spero vivamente che possa essere solo un viatico verso una maggiore conoscenza di un personaggio che ci ha lasciato molto. Un “molto” purtroppo irrealizzato e di profonda ispirazione per tutti quelli che sono entrati in contatto con le sue idee. Non bisogna “ghettizzarlo” a soldato morto eroe per la Patria, ma va prima di tutto analizzato ciò che c‟è stato prima, ciò che ha reso Filippo il “grande Corridoni”, la cui scelta militare del 1915 rappresenta solo il compimento del suo percorso intellettuale. “Soldato volontario e patriota instancabile, col braccio e la parola tutto se stesso diede alla Patria con entusiasmo indomabile. Fervente interventista per la grande guerra, anelante alla vittoria, seppe diffondere la sua tenace fede fra tutti i compagni, sempre di esempio per coraggio e valore. In testa alla propria compagnia, al canto di inni patriottici, muoveva fra i primi e con sereno ardimento all‟attacco di difficilissima posizione e tra i primi l‟occupava. Ritto, con suprema audacia sulla conquistata trincea, al grido di “Vittoria! Viva l'Italia!” incitava i compagni che lo seguivano a raggiungere la meta, finché cadeva fulminato da piombo nemico.” Trincea delle Frasche (Carso), 23 ottobre 1915. 29 di Domenico Verta 30 di Sebastiano Parisi 31 32 33 Cosa è “La Voce Irredentista”? “É una voce nel vero senso della parola. Flebile, ma viva. Cerca di risvegliare nei lettori quel sentimento di italianità che si è visto solo in parte quest‟anno con i festeggiamenti dell‟Unità d‟Italia, portando a conoscenza fatti, luoghi, personaggi sconosciuti di cui la storiografia non si occupa più, ma legati indissolubilmente all‟Italia e alla sua storia.” “Un piccolo tentativo per cercare di logorare il velo di silenzi che c‟è su Terre Italiane nelle quali gli italiani sono stranieri.” “È gioia di esprimersi e parlare di queste terre italiane, di tanta sofferenza ma anche di tante cose belle. La Voce cerca di essere un aiuto, una voce (appunto) per chi per troppo tempo non ne ha avuta…” “Un giornale per far capire, attraverso articoli scritti, che non c‟entrano le correnti politiche, ma è solo un modo per aprire gli occhi a molte persone e far capire come l‟Italia non ha avuto governi con i dovuti attributi sotto, i quali hanno permesso agli invasori di derubare il nostro paese da queste belle terre.” “Un giornale apolitico e leggero che tratta argomenti inerenti alle terre irredente. Visto che a nessun grande quotidiano nazionale importa di queste regioni.” “L‟unico giornale da leggere: lì c‟è la verità su di noi, sulla nostra Nazione”. “La Voce Irredentista è la traduzione dei sogni calpestati, degli ideali derisi, degli italiani fieri di esserlo, delle sentinelle italiane, è il fuoco che arde sotto la cenere di un‟Italia mai sconfitta e dove l‟unico obiettivo è la difesa della nostra lingua e cultura.” “Serve per andare avanti culturalmente, socialmente e anche politicamente,; finire di litigare tra di noi e credere veramente in un ideale comune, così come vi credeva l‟Italia romana, che dominò il mondo conosciuto. Serve a far capire la verità su terre da sempre italiche e latine, contro la storiografia antinazionale rossa e seCESSIsta che ha sempre parlato male della nostra nazione; insomma, serve a far sì che non vi siano più divisioni ma solo unione, cosicché un giorno si tenterà di far tornare le terre perdute alla nostra patria. Se il popolo sarà d‟accordo, sarà tutto più facile.” “La Voce Irredentista è un mensile che vuole fugare la coltre d‟oblio che da oltre 60 anni attanaglia le terre irredente. La Voce Irredentista, spero di non essere retorico, è la Voce della Coscienza Patriottica Italiana, che pone all‟attenzione del pubblico questioni fondamentali della nostra Nazione, purtroppo volutamente tralasciate…in primis dai potenti.” “La Voce Irredentista” non è protetta da © Ad ogni modo, sarebbe di buon gusto: 1- non reclamare la proprietà della Voce; essa è frutto dell‟impegno e della passione dei ragazzi del Movimento Irredentista Italiano; 2- citare gli autori, qualora si voglia riportare nel proprio sito/giornale/pagina Facebook/ecc un intero numero o parti dello s tesso; o in caso, lasciare un di Lucrezia Sordelli commento al di sotto dei post di pubblicazione, ringraziando e spiegando di aver preso la Voce per diffonderla; 3- gli autori sono persone qualunque unite da un unico interesse; chiunque può diventare autore della Voce (basta contattarci), nessuno dovrebbe copiare e incollare spacciandosi per il vero autore di un articolo. 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