MENTE E CORPO: CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI SULLA

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MENTE E CORPO: CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI SULLA
Tesi scritta per il conseguimento del grado di Cintura Nera IV° Dan
MENTE E CORPO:
CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI SULLA
PSICOLOGIA MARZIALE
(il karate: per ognuno di noi uno strumento di crescita non solo delle qualità
fisiche, ma anche di quelle psicologiche)
Autori, relatori e candidati:
m° D. GIRELLI
m° M. MALANDRINO
m° P. NAPOLITANO
1
INDICE

PREFAZIONE
Pag. 5

INTRODUZIONE
Pag. 7

CAPITOLO 1°:
Pag. 8
SPORT-KARATE-ARTI MARZIALI: gli studi scientifici sui benefici della pratica

 Dal Karate uno sviluppo armonico.
Pag. 9
 Breve storia delle Arti Marziali.
Pag. 11
 Due classi di Arti Marziali.
Pag. 12
 Relazione su alcuni studi eseguiti in merito
ai benefici psicosociali ottenuti
con la pratica delle Arti Marziali.
Pag. 14
 Effetti a breve termine.
Pag. 16
 Effetti a lungo termine.
Pag. 16
 Mente e corpo.
Pag. 19
CAPITOLO 2°:
Pag. 21
LA PSICHE MARZIALE
 Arti Marziali e Psicosomatica.
Pag. 23
 La Bioenergetica.
Pag. 26
 Psicofisiologia: l’interazione corpo-mente.
Pag. 30
 La risposta emozionale.
Pag. 32
 Alcune delle emozioni che si vivono sotto stress:
assertività, aggressività, rabbia, collera, paura.
Pag. 34
2

CAPITOLO 3°:
Pag. 38
PSICOSOMATICA DELLE ARTI MARZIALI
 La Postura
Pag. 39
Forza di gravità.
Pag. 40
Muscoli agonisti e antagonisti.
Pag. 40
Distretti corporei.
Pag. 40
 La postura e la Psicosomatica nel Karate
Pag. 46
 Il Kamae: la Guardia Libera.
Pag. 47
 La respirazione.
Pag. 50
 Il movimento energetico.
Pag. 51
 Agire in equilibrio.
Pag. 52
 Il tempo.
Pag. 54
 La distanza.
Pag. 55
 …Durante l’allenamento
Pag. 57
La gestione dello stress
Pag. 58
La gestione del tempo
Pag. 59
La gestione del colpo ricevuto
Pag. 59
La memoria del corpo
Pag. 60
 Il Karate come Fitness e Difesa personale
La difesa personale
Pag. 62
Pag. 63
La psicologia del confronto:
gli allenamenti sulla neve, nell’acqua
fredda, sotto il sole, gli stages notturni
Pag. 65
La stima di se stessi
Pag. 70
La determinazione
Pag. 70
La paura
Pag. 71
3

 I bambini e il Karate
Pag. 73
 La funzione psicologica della “lotta”
Pag. 75
 Il Karate educativo: LE REGOLE
Pag. 76
CAPITOLO 4°:
Pag. 78
LA TRADIZIONE

 La formazione in Oriente e Occidente
Pag. 81
 Il fine della nostra analisi
Pag. 83
CONCLUSIONI E RINGRAZIAMENTI
Pag. 85
4
PREFAZIONE
Perché una tesi redatta a “6 mani”?
Perché questi tre atleti, durante la loro personale e infinita strada di ricerca verso
l’esecuzione della “tecnica perfetta”, hanno deciso di sferrare 3 attacchi contemporanei
sullo stesso bersaglio, col fine di analizzarne poi l’effetto finale.
Non si tratta quindi di un lavoro diviso in tre parti, ma di tre differenti lavori riuniti sotto un
unico obiettivo, in cui vengono analizzate le analogie per trarre una unica conclusione.
Abbiamo iniziato la stesura partendo dalla raccolta e analisi di alcuni studi che
evidenziando i benefici della pratica di Arti Marziali confermassero da un punto di vista
scientifico e “occidentale” ciò che noi praticanti abbiamo sempre saputo. Sono state
paragonate varie tipologie di arti marziali e i benefici psicosociali ottenuti mediante tali
pratiche.
Questa parte è stata realizzata dal m° PASQUALE NAPOLITANO (dall’inizio a pag. 29),
che da questi studi ci ha traghettato fino al concetto di “Unione fra arti marziali e
Psicosomatica”.
A questo punto il m° DAVIDE GIRELLI (da pag. 30 a pag. 56) ha proseguito affrontando i
temi della Psicofisiologia (il punto di unione fra mente e corpo), l’analisi di alcune delle
emozioni che si provano durante la pratica del Karate e come si ripercuotono sulla
“espressione fisica”, ovvero la Postura, e una breve analisi della posizione di guardia, il
Kamae.
5
Successivamente il m° MARCO MALANDRINO (da pag. 57 a pag. 77) ha “plasmato” su
un allenamento i concetti di “gestione dello stress”, del tempo, del colpo ricevuto, del
fitness, della difesa personale. E addentrandosi nella Psicologia del Confronto sono
affiorate inaspettate analogie fra le tipologie di stages ai quali abbiamo da sempre
partecipato (sulla neve a Livigno, nell’acqua fredda del mare o dei fiumi, i mitici primi
notturni) e…
Abbiamo redatto insieme l’ ultimo capitolo dal titolo “La Tradizione”, in cui abbiamo
raccolto l’essenza di questo nostro lavoro.
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INTRODUZIONE
Pretendere di trasformare l’affannosa ricerca della verità in dogma è la sfortunata costante
della evoluzione del sapere umano. L’unica certezza è che “tutto è cammino” è in ciò
risiede la virtù o il difetto del nostro impegno.
Parlare di psicologia nel mondo del Karate è solo l’ennesima delle occasioni per offrire
nuovi elementi alla pratica e conoscenza di questa arte marziale che da 30 anni ci
affascina, ed ha ritagliato nel nostro cuore un posto privilegiato: sono oramai trascorsi i
“desideri
e
sogni”
dell’adolescenza,
gli
“interessi”
del
passato,
le
“pazzie
e
sperimentazioni” della gioventù, le “vecchie” fidanzate, alcuni di noi hanno cambiato anche
mogli e case, “assaggiato” altri sport, ma il Karate c’è ancora…sempre pronto a stimolare
la nostra personale ricerca.
Ma tutto questo non va frainteso con la volontà di investirci del ruolo di psicologi: superata
la “boa” dei 40 anni e dopo varie tesi da noi redatte riguardanti la anatomia, la
biomeccanica, la cinetica del corpo umano durante l’esecuzione di tecniche di Karate, sino
a sconfinare nella trattazione degli eventi medici e traumatologici che possono affliggere
noi praticanti, ci siamo sentiti ora in dovere di affrontare anche l’aspetto mentale. E, per
l’ennesima volta, la concatenazione è comunque terminata sulla “fisicità” dell’individuo, il
luogo dove la mente traccia le linee del vissuto e non può evitare di renderle visibili.
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CAPITOLO 1°
SPORT-KARATE-ARTI MARZIALI:
GLI STUDI SCIENTIFICI SUI BENEFICI DELLA PRATICA
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Il karate, che per propria natura fonde corpo e mente, ha in questi due campi virtù
terapeutiche.
E' ormai risaputo che, rispettando determinate condizioni, l’attività fisica induca un
miglioramento dello stato di salute; e migliorare il proprio stato di salute sembra essere
un’ambizione comune a molti. Ciò che invece merita di essere approfondito è che a una
pratica sportiva sono connessi determinati benefici psicologici, secondo l’attività fisica
praticata.
L’effetto terapeutico del karate sullo psichismo sembra evidente: lo sport è fondamentale
per un armonico sviluppo della personalità; è strumento di educazione, di socializzazione,
di equilibrio e di terapia; è fondamentale nello sviluppo.
DAL KARATE UNO SVILUPPO ARMONICO
Il karate è quindi per tutti.
Esso può essere definito in base ad almeno quattro elementi psicologicamente importanti:
movimento, gioco (attività ludica), norma (regole da seguire), agonismo (confronto).
In base a questi elementi potrebbe risultare un elemento fondante, determinante se
non addirittura decisivo per un normale e armonico sviluppo psichico del bambino e
dell’adulto; ecco allora che è il non praticarlo che può contribuire a determinare alcune
patologie psichiche, tanto più in una società che già di per sé contiene elementi alienanti.
Si potrà quindi avere un armonico sviluppo delle tre grandi determinanti della psicologia
umana, che, secondo Ossicini, potrebbero essere definiti come: unità psicofisica, unità
conscio-inconscio e unità relazionale.
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Nell’attività fisica non c’è solo il vivere la propria aggressività, c’è anche l’istinto dell’eros,
l’amore, la sessualità. “La dinamica di gruppo è l’esperienza attraverso la quale l’individuo
esprime delle cariche libidiche, di relazione istintuale e d’amore che vanno al di là
dell’individuo, dell’egocentrismo, della pura esperienza relazionale, e che determinano una
dinamica di rapporti più profonda. Lo sport può esercitare un’enorme influenza, perché c’è
uno scarico di tensioni verso ideali, una capacità di esprimere e di scaricare una tensione
d’amore, un rapporto d’amore profondo che è un bisogno decisivo nello sviluppo
psicologico umano”.
Il
karate
può
dunque
definirsi
psicoterapico-simile,
perché
favorisce
l’emancipazione dell’Io, la sua naturale espressione, e un sano ridimensionamento
della realtà.
In alcuni gruppi di terapia con soggetti nevrotici, si è visto che il praticare uno sport
consentiva risultati positivi come un minore bisogno di psicofarmaci o lo sviluppo di un
maggiore autocontrollo.
“ Conosci il nemico e conosci te stesso: in centinaia di battaglie non sarai mai in
pericolo” Sun Tzu L’arte della guerra
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BREVE STORIA DELLE ARTI MARZIALI
Le arti marziali (ARTI DELLA LOTTA-GUERRA) traggono la loro origine dalla necessità
dell’uomo di imparare a difendersi. Le prime testimonianze di tali forme di lotta e di
autodifesa giungono da antiche statuette babilonesi risalenti al 3000-2000 a.C. Occorre
poi seguire la storia dei popoli, le loro evoluzioni, i loro commerci e spostamenti per
arrivare a trovarne tracce più evidenti in India e in Cina intorno al 1000 a.C. Nell’antica
Grecia esistevano tornei di Pancrazio (una forma di gara di lotta, perciò codificata da
regole), mentre a Roma i Gladiatori erano esperti lottatori sia a mani nude che nell’utilizzo
di varie armi. Le condizioni della storia favorirono il nascere e il progredire di queste arti
facendo sì che si fondessero movimenti corporei con tradizioni religiose e mediche. Si
hanno notizie più certe su di esse solo da quando ebbe origine la trasmissione scritta degli
esercizi delle varie discipline, cioè tra il V secolo a.C. e il III secolo d.C.
Esiste una leggenda che fissa quasi la data ufficiale della comparsa delle arti marziali: si
narra che un monaco buddista indiano di nome Bodhidharma, nel 520 d.C., giunse in Cina
nel famoso tempio di Shaolin; e lì si fermò per diffondervi la dottrina del Buddha.
Bodhidharma insegnava metodi e pratiche utili a raggiungere una buona forma fisica e
permettere ai monaci di difendersi in caso di assalti al tempio e, contemporaneamente,
miranti a raggiungere un’unione armonica tra lo spirito e il corpo; i suoi principi
discendevano dal più antico yoga indiano. A parte i dubbi storici sull’attendibilità di tale
leggenda, è sicuro che pratiche mentali come la meditazione e fisiche come gli esercizi
marziali erano aspetti complementari del buddismo: l’arte marziale veniva così considerata
come un sentiero che, in virtù dell’unione tra corpo e mente, poteva condurre alla
perfezione spirituale. Le tecniche apprese erano poi di enorme aiuto ai monaci buddisti per
difendersi dai predoni durante i loro viaggi.
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Sempre grazie alla storia, lo sviluppo di queste arti proseguì verso Est. Stili nuovi e
tecniche nuove sì svilupparono e si diffusero in tutto l’Oriente sotto l’influsso di componenti
ambientali, filosofiche e religiose. Sistemi completi di arti marziali giunsero in tutto l’Est e il
Sud-Est asiatico; ognuna di queste correnti arricchiva la concezione stessa di arte
marziale, aggiungendo ad essa qualcosa di proprio e originale.
Bodhidharma, il fondatore dello Zen, è spesso citato anche per avere detto: “Sebbene la
via del Buddha sia predicata per l’anima, corpo e anima sono inseparabili”.
Questo è soltanto uno tra i numerosissimi esempi per dimostrare che, diversamente da
quanto risulta dalla nostra cultura, facendola risalire, in genere, alla separazione tra corpo
e mente operata da Cartesio, la psicosomatica ha radici molto più antiche.
DUE CLASSI DI ARTI MARZIALI
Così come sono giunte a noi oggi, le arti marziali possono essere suddivise in due grandi
classi: le arti marziali morbide e le arti marziali dure, così evolutesi per fini e scopi diversi.
La scuola dura si avvale di colpi diretti e precisi, con lo scopo, si potrebbe dire, di opporre
forza alla forza dell’avversario. Arti marziali dure sono, per esempio, il Karate, il Kung-fu,
la Thai-boxe, il Full-contact.
La scuola morbida si caratterizza invece per movimenti ampi, circolari, lenti e, appunto,
morbidi, senza rigidità muscolare: lo scopo è principalmente dirigere la forza
dell’avversario contro l’avversario stesso. Arti marziali morbide sono, per esempio, il Tai
chi chuan, il Judo, l’Aikido.
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A ben guardare però molto spesso la suddivisione tra arti dure e morbide non è così
marcata
Un’arte marziale è una delle poche attività che può essere praticata lungo l’intero
arco della vita. Non è necessario avere uno scopo da raggiungere, basta
semplicemente vivere ciò che si sta facendo. L’arte marziale è un viaggio in cui
l’importante è arricchirsi lungo la strada; non tanto arrivare a destinazione, se una
destinazione finale esiste. L’importante è il processo, non il prodotto.
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RELAZIONE SU ALCUNI STUDI ESEGUITI
IN MERITO AI BENEFICI PSICOSOCIALI
OTTENUTI CON LA PRATICA DI ARTI MARZIALI
I paralleli tra la psicoterapia e le arti marziali sono diversi. Si può affermare che tutte le arti
marziali possono essere concepite come una sorta di psicoterapia. L’efficacia
dell’approccio fisico è attribuibile alle basi fisiche (fisiologiche) dell’esperienza. Piaget
mostrò che i bambini imparano primariamente attraverso vie visuali, tattili e cinestetiche,
che sono più tardi integrate in cognizioni più elevate; Stern sostenne che la modalità fisica
dell’esperienza è presente lungo tutta la vita, e la capacità di ciò che egli chiama
“percezione transmodale” indica che tale apprendimento fisico è automaticamente
trasportato alla sfera cognitiva ed emozionale.
Fuller ritiene che alcune arti marziali posseggano qualità che sostengono la salute
psicologica e promuovano cambiamenti personali in una direzione socialmente
desiderabile. Egli punta il dito sul fatto che i paralleli teorici tra la psicoterapia e le arti
marziali sono diversi. Parsons trova anche una certa similarità di vocazione tra lo
psicanalista e il praticante arti marziali; Nardi esamina i paralleli tra la rational emotive
therapy di Ellis e alcuni principi della pratica marziale (per esempio il concetto di mushin,
cioè uno stato in cui la mente non si fissa in particolar modo su qualcosa, ma rimane
aperta e disponibile verso tutte le cose e riflette come farebbe uno specchio). Come
Parsons, egli considera le capacità di uno psicoterapeuta e di un maestro di arti marziali
come essenzialmente complementari. Saposnek discute le similarità tra i principi
dell’aikido e le tecniche impiegate in terapia familiare strategica (per esempio una visione
circolare della causalità, l’uso del paradosso e altri). Gleser e Brown fanno notare che il
concetto di ju (morbido), cioè il cedere per usare la forza dell’avversario contro l’avversario
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stesso, è un concetto che è stato — inconsapevolmente applicato in terapia dinamica e
nelle psicoterapie strategiche di parecchi Autori fra cui: Erikson, Watzlawitck, Rogers,
Bandler e Grinder. Reinhard collega l’aikido al metodo Feldenkrais.
Secondo Seitz e collaboratori le arti marziali hanno molto da offrire alla
psicoterapia, particolarmente in termini di energia (Chi o Ki), per quanto riguarda il
corpo, la mente e le relazioni interpersonali. Un’efficace gestione dell’energia è una
dimensione importante nelle arti marziali, come nelle professioni riguardanti la
salute mentale. A ciò si potranno anche aggiungere i concetti di distanza, tempi e
posizione.
Weiser e collaboratori propongono le arti marziali come utili, appunto, per la salute
mentale oltre che per quella fisica. Rappresenterebbero dunque una legittima forma di
terapia sia per le nevrosi sia per alcune malattie mentali croniche, già di per se stesse, ma
soprattutto in aggiunta alla psicoterapia verbale: esse sono tanto più utili in sostegno alla
psicoterapia verbale in soggetti che hanno difficoltà di relazione con una modalità verbale,
come pazienti psicosomatici. Come dimostrato da Kutz e collaboratori riguardo alla
pratica della meditazione, le arti marziali evidenziano problemi che, osservati, possono
essere trattati in psicoterapia: si rivelano per esempio in maniera chiara le difficoltà di
relazione i sentimenti di paura e la regolazione delle distanze interpersonali.
La pratica degli esercizi delle arti marziali può direttamente migliorare la salute
mentale: favorisce l’integrazione corpo-mente, il rilassamento, l’attenzione, la
comunicazione, l’autoaccettazione; insomma, come una psicoterapia conclusa con
successo, una pratica adeguata delle arti marziali innalza i sentimenti di armonia, di
controllo e il proprio senso di autostima.
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Come nella terapia verbale, il processo può essere doloroso e frustrante, ma favorire
un’occasione di crescita, in particolare per i soggetti nevrotici, per coloro i quali soffrono di
sentimenti di inadeguatezza, un basso senso di autostima, ansia e depressione.
Stuart e Sacco le vedono, inserite in un adeguato setting terapeutico, come uno
straordinario aiuto, una forma di Ego-building Psychotherapy. Tali attività sarebbero anche
sfruttate nel campo sociale, per esempio nel trattamento di adolescenti violenti.
EFFETTI A BREVE TERMINE
Riguardo gli effetti a breve termine delle arti marziali esistono ancora pochi studi.
In uno di questi, una singola sessione di jogging o di sollevamento pesi portava a una
riduzione della tensione, dell’ansia e della depressione nei soggetti subito dopo l’esercizio.
Una singola sessione di karate invece non portava a cambiamenti. Sembrerebbe perciò
necessario un minimo di attività perché avvengano certi cambiamenti. Al contrario una
singola seduta di tai chi chuan aiuterebbe a ridurre i livelli di stress subito dopo
un’esperienza stressante.
EFFETTI A LUNGO TERMINE
Esiste invece una vasta letteratura sugli effetti a lungo termine della pratica. Varie arti
marziali sono state studiate. In generale, si evidenzierebbe una relazione inversa tra
cinture nere o tempo di pratica e ansia ostilità e nevroticismo. Ci sarebbe una correlazione
positiva tra cinture nere (o periodo di pratica) e selfconfidence, fiducia in se stessi e
autostima.
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Il principio del cedere, naturalmente, non è sempre raccomandabile, sia nel judo sia in
psicoterapia. Per esempio, quando potrebbe nuocere al paziente, oppure quando manca
da parte di questi la volontà o la motivazione, Il principio del Ju è applicabile con maggior
successo con pazienti “oppositori”, riuscendo invece difficile con soggetti passivi.
Una serie di studi longitudinali mostra che la pratica delle arti marziali favorisce un
decremento dell’ostilità, rabbia e la sensazione di vulnerabilità agli attacchi. La pratica
favorisce anche un incremento dell’autoconfidenza, autostima e self-control. Va però fatto
notare, come fa anche la Madden come non sia corretto studiare gli aspetti psicologici di
chi pratica le arti marziali in generale. Tali aspetti, infatti, varierebbero sensibilmente tra i
praticanti dei diversi stili e delle diverse arti, proprio per i concetti e le filosofie che ne
stanno alla base.
Un karateka, quindi, sarebbe molto diverso da un judoka.
In uno studio di Foster studenti di karate mostravano un decremento dell’ansia di tratto,
mentre quelli di aikido non facevano altrettanto. Anche se tale studio presentava alcuni
problemi metodologici, evidenzia comunque l’aspetto che certe arti marziali possano
portare a cambiamenti più o meno rapidamente di altre.
Da quando si è ritenuto che le arti marziali possano offrire benefici psicologici, un grande
numero di persone ha guardato a esse come a un aiuto per trattare disordini psicologici.
Guthrie ha trovato, per esempio, che donne guarite da abusi psicosessuali, disordini
alimentari, abusi di sostanze e crescita in famiglie disfunzionali riportavano che il karate
era stato loro di aiuto per la guarigione. In un altro studio Weiser e collaboratori
mostrarono che la pratica del karate Shotokan aveva aiutato un paziente a raggiungere
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più velocemente risultati in terapia verbale. Parecchi gruppi sono stati usati per lo studio
delle arti marziali come trattamento psicologico.
Il Judo, per esempio, risulterebbe essere utile a soggetti disabili, ma potrebbe anche
favorire l’evoluzione di una psicoterapia, in particolar modo in soggetti regrediti e pazienti
psicotici violenti difficilmente raggiungibili con una terapia verbale.
Anche ilTai Chi Chuan viene usato con successo in soggetti con disabilità fisiche.
L’Aikido negli adolescenti con problemi comportamentali fornirebbe maggiori incrementi
nell’autostima rispetto al trattamento tradizionale, e altri studi rivelano che le arti marziali
possono ridurre problemi comporta-mentali nei bambini. L’aikido è stato anche usato come
strategia d’intervento in studenti con gravi disturbi emozionali.
Uno degli studi più citati in letteratura è quello condotto da Trulson: veniva così
evidenziato che adolescenti identificati come delinquenti che avevano seguito per sei mesi
un corso di taekwondo tradizionale (con tecniche di meditazione, brevi letture sul
Taekwondo e apprendimento delle tecniche fisiche) mostravano un decremento
dell’aggressività e dell’ansia e un incremento dell’autostima. Contrariamente, in un altro
gruppo che aveva seguito un corso di taekwondo moderno (solo tecniche fisiche), i ragazzi
mostrarono un’aumentata tendenza alla delinquenza e un aumento dell’aggressività.
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MENTE E CORPO
Il karate non può essere definito precisamente con il termine di sport quale noi lo
intendiamo oggi: questo perché diverso nella concezione e negli scopi; hanno una
tradizione e una componente filosofica e formativa che va infatti ben oltre la pura parte
agonistica. Esso è nato per motivazioni ed esigenze precise, e anche il suo corso storico
ha un suo significato. Per sua stessa definizione, lo scopo è il perfezionamento del
carattere
(imparare
a
svuotare
la
mente
per
poi
riempirla
col
“nuovo”).
Si può subito notare una differenza fondamentale: gli sport occidentali tendono a
enfatizzare la competizione, mentre le arti marziali orientali hanno posto più l’accento
sull’autoconoscenza. Hanno quindi alla base una filosofia inerente al loro stesso modo di
vivere, che enfatizza tra l’altro l’osservazione rispetto all’azione, l’integrazione tra corpo e
mente, e ha una forte componente meditativa. Ed è perciò che anche gli aspetti non-fisici
delle arti marziali hanno un’influenza a lungo termine sui cambiamenti psicosociali dei
partecipanti. Le ricerche che comparano le arti marziali con altre attività fisiche
suggeriscono in genere che le prime producono cambiamenti psicosociali migliori sia in
qualità sia in quantità rispetto a quelli prodotti da molte altre attività. Il tai chi chuan, per
esempio, è ritenuto la pratica marziale per eccellenza per ridurre l’incidenza dello stress.
Rispetto ad altre attività fisiche, riduce l’incidenza di incubi notturni e conduce a maggiori
decrementi nella rabbia e disturbi d’umore. Vi sono casi in cui i risultati forniti da una
terapia marziale sembrerebbero essere migliori di quelli offerti da una psicoterapia. Questo
probabilmente perché le arti marziali consentono, per loro propria definizione, un
soddisfacente lavoro sia sul corpo sia sulla mente. Non si sa però esattamente quali
aspetti influiscano maggiormente sui vantaggi psicologici offerti dalla pratica: potrebbe
essere più l’aspetto fisico, o la filosofia che soggiace a ognuna di esse, o ancora
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l’influenza dovuta al maestro (molto più di un semplice allenatore); o, ancor più probabile,
la combinazione di tutti questi fattori messi insieme.
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CAPITOLO 2°
LA PSICHE MARZIALE
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La formazione marziale, così come è praticata in molti paesi occidentali negli ultimi anni,
ha privilegiato l’allenamento delle qualità fisiche del praticante, trascurando quello delle
doti mentali. Così facendo è come se la si praticasse a metà. Abbiamo visto come il
Karate sia nato dalla fusione di tecniche di combattimento autoctone dell’isola di Okinawa
nel tempo unite insieme ad elementi di arti marziali provenienti dal “continente asiatico”,
nate con la specifica funzione di formare l’individuo in un percorso di crescita continuo, in
cui il corpo e la mente scoprono sempre nuove forme di integrazione, migliorando così la
qualità espressiva dell’individuo nella realtà.
Sotto questa ottica si può reinterpretare l’apprendimento e l’esecuzione di ogni movimento
o tecnica non più come semplice azione del corpo scevro da qualunque implicazione
psichica, ma riconsegnando ad ogni “azione motoria” il valore di “espressione
corporea” del suo specifico vissuto emotivo. Stimolando alla ricerca di una armonia
sempre maggiore tra corpo e mente in ogni azione la pratica marziale diventa una strada
sicura ed efficace per promuovere e curare la salute psicofisica del praticante.
Sviluppando un uomo sui due binari paralleli della mente e del corpo,
considereremo l’uomo una “unità psicosomatica”.
AZIONE MOTORIA = ESPRESSIONE CORPOREA
(del proprio e specifico “vissuto emotivo”)
UOMO = UNITA’ PSICOSOMATICA
(due binari paralleli: mente e corpo)
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LE ARTI MARZIALI E LA PSICOSOMATICA
Ecco le motivazioni che ci hanno spinto ad approfondire lo studio di alcuni concetti di
psicologia e psicosomatica:
1. Perché tutte le arti marziali hanno una comune radice psicosomatica, elemento
determinante di differenziazione tra l’arte marziale e lo sport;
2. Perché i principi chiave su cui si basano le arti marziali coincidono con quelli
utilizzati dalla teoria e dalla clinica psicosomatica per analizzare e migliorare la vita
dell’uomo:
 Postura
 Respiro
 Movimento energetico
 Tempo
 Distanza
3. Perché l’arte marziale nasce come esperienza di crescita e formazione per
l’individuo, concetto che per noi insegnanti ci dà la consapevolezza che il nostro
compito non si limita allo sterile insegnamento delle tecniche, ma che si sta
“lavorando con materiale umano”;
4. Perché tutte le arti marziali hanno in comune la qualità del movimento, come sintesi
espressiva di un “fare” fisico e un “sentire” emotivo. Qualunque colpo, portato senza
la componente emotiva, non acquista lo stesso valore dello stesso colpo portato
con la carica emotiva ad esso correlata.
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5. La conoscenza della diversa psicologia dell’allenamento quando esso privilegi la
competizione sportiva, migliorando la gestione delle dinamiche emotive di un atleta
prima, durante e dopo la gara;
6. Quando prevale l’aspetto tradizionale e culturale piuttosto che quello competitivo, ci
sono vantaggi nella combinazione con gli elementi psicologici della “difesa
personale”.
L’ottica psicosomatica traduce l’essenza di un uomo nel punto di confluenza fra mente e
corpo e la sua impostazione terapeutica, riscoperta nel mondo occidentale solamente
negli ultimi anni, ha aperto le porte alle “tecniche corporee di rilassamento”, col fine di
promuovere nel’’organismo occasioni di ricarica energetica e rilassamento dalle tensioni
psicofisiche. Per fare ciò si deve essere in grado di ridurre l’attività neurovegetativa
simpatica (sistema deputato ad organizzare l’attività dell’organismo in stato di allerta) e
promuovere una maggiore attivazione del sistema parasimpatico, attivo nelle condizioni di
recupero energetico. Quest’ultima condizione promuove a sua volta l’acquisizione di un
vissuto di calma interiore, di tranquillità e di assenza di ansia, conservando lo stato di
vigilanza. Poter controllare attivamente e autonomamente questi stati di coscienza, sapere
quando attivarne uno o l’altro, non è forse quello che si deve ottenere con la “calma
solidità” del corpo in Kamae prima di “sfondare la fortezza” con tutto il corpo e tutta la
mente nella esecuzione della prima tecnica di Bassai Dai?
Tecniche di rilassamento, nel nostro occidente, fino al secolo scorso le ritrovavamo
inserite solo in contesti religiosi, col fine di raggiungere una maggiore unione con Dio,
attraverso la ripetizione monotona di parole che consentano la liberazione della mente da
poensieri che non siano rivolti a Dio. Nella religione cristiana la preghiera è una tecnica di
astrazione dai fattori sensoriali e di attività fisica per ottenere uno stato di coscienza più
atto alla confluenza con Dio, arricchito con esercizi respiratori scanditi dalla ripetizione di
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frasi apposite, come riportato dagli scritti di un monaco del Monastero del monte Athos in
Grecia, vissuto nel secolo XIV.
Concludiamo pertanto che nella cultura occidentale la diffusione di tali pratiche era limitata
strettamente ai ferventi praticanti religiosi, mentre nel mondo orientale le esperienze
meditative sono state sempre ampiamente diffuse come mezzo per conseguire uno stato
di unione corpo-mente-universo tramite la disciplina del corpo mediante esercizio fisico, il
controllo della respirazione, la quiete dei sensi e la concentrazione.
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LA BIOENERGETICA
L’Analisi Bioenergetica è una branca della psicoterapia elaborata per superare la scissione
mente-corpo per una visione unitaria in cui la psiche e il corpo (soma) diventano le due
facce di una stessa medaglia: i disagi di un uomo sono sempre una doppia espressione,
mentale-verbale e corporea, dove la definizione di carattere, inciso in ogni individuo dalle
esperienze della vita, modella la qualità espressiva sia della nostra psiche che del nostro
corpo. Questo processo psicofisico, nel tempo, lentamente e costantemente, definisce le
nostre specifiche qualità e difficoltà caratteriali, modellandone le abitudini di espressione
emotiva attraverso la modulazione dei movimenti del corpo. L’analisi bioenergetica entra
qui in gioco con esercizi corporei specifici mettendo la persona in condizione di stress per
far emergere il “vissuto emotivo” intrappolato nel movimento corporeo: vivere l’ansia di un
Kumite, la prestazione di una gara, lo svolgersi di un esame non è forse l’avere ricreato
una condizione di stress in cui facciamo affiorare la stessa cosa, cioè il vero “io”?
Ma cosa sono i processi energetici? Sono la produzione di energia attraverso la
respirazione e il metabolismo e la scarica di energia attraverso il movimento. Il
livello di energia e la modalità con la quale essa viene utilizzata sono gli elementi
identificativi del modo in cui ciascun individuo risponde alle diverse situazioni della
vita e vi si adatta, agendo più o meno funzionalmente.
Tanto più è libero di scorrere il fiume di energia che possediamo tanto più potremo tradurlo
liberamente in movimento ed espressione di noi stessi (l’esempio contrario è la paura
incontrollata:
se essa ci blocca, i muscoli si contraggono, il movimento è impedito o
comunque rigido e quella sarà la espressione fisica di quel particolare stato d’animo).
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Nel karate impariamo ad aumentare il nostro potenziale energetico “quando siamo
scarichi”, ma anche a scaricarci sfogando i nostri istinti.
Quello che sta accadendo nella mente riflette ciò che sta accadendo nel corpo e
viceversa.
L’interazione corpo-mente agisce principalmente su livelli superficiali della personalità, nel
conscio. Ad un livello più profondo, nell’inconscio, le funzioni della mente e del corpo sono
influenzate da fattori energetici: infatti è difficile che una persona depressa produca
pensieri ottimisti, questo perché il suo livello di produzione e di investimento energetico è
ridotto. Questo livello energetico può essere aumentato con respirazioni più profonde e il
movimento inizia ad emergere: i processi energetici sono in relazione con lo stato di
vitalità del corpo e viceversa: quanto più un corpo è irrigidito o in tensione cronica, tanto
più sarà scarico energeticamente.
Le tensioni muscolari che permangono dopo gli eventi stressanti della nostra vita,
cronicizzandosi determinano le caratteristiche del nostro atteggiamento corporeo
limitandone la motricità, l’autoespressione e il livello energetico.
Ogni muscolo mantenuto in uno stato di contrazione cronica ha la funzione di bloccare un
movimento, espressione questa dell’emozione che non possiamo concederci di sentire
oppure del fatto che non è gradito dagli altri ciò che noi manifestiamo.
L’esempio è quello di un bambino bloccato dall’educazione dei genitori a non urlare in
nessuna occasione, a non alzare mai la voce e a non avere mai occasione di esprimersi
liberamente: da adulto scoprirà che sin da piccolo ha dovuto bloccare l’espressione di se
stesso, immobilizzando i muscoli deputati a farlo.
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La bambina cresciuta secondo i principi convenzionali della femminilità non può
arrabbiarsi esprimendo fisicamente la propria rabbia, e da grande avrà difficoltà a sferrare
un pugno se necessario, o all’opposto potrà un giorno “scoppiare” e far uscire tutto ciò che
ha trattenuto nel corso degli anni in maniera totalmente incontrollata, per se stessa e chi le
sta intorno.
L’emozione trattenuta rimane impressa nella contrazione muscolare cronica, della quale, a
lungo andare, è inibita la percezione (non ci si rende più conto di avere quel distretto
corporeo in stato di contrazione).
Gli esempi seguenti sono esplicativi delle affermazioni sopra riportate:
Una patologia psicosomatica abbastanza frequente nelle adolescenti è il “dorso curvo
giovanile” che colpisce le ragazzine: la crescita rapida di un seno prosperoso, se
accompagnata ad un senso di vergogna per tali “nuove forme”, accompagnata al reale
peso fisico di “due nuovi airbag anteriori” porta ad una atteggiamento di “ipercifosi” della
colonna vertebrale (visibile come un gobba sulla schiena) e ad anteposizione delle spalle,
tipico atteggiamento di chi si vergogna e tende a chiudersi in se stesso. Il disagio
psicologico non fa null’altro che creare un anormale stato di contrazione e difesa
involontario. Tale alterazione della postura corporea può essere corretto con determinati
esercizi di Fisioterapia in cui sono presenti momenti di “presa di coscienza” di questa
postura patologica che si impadronisce del corpo in maniera inconscia.
L’atteggiamento contrario è quello della giovane con seni piccoli che, per sentirsi più
“dotata”, inarca la schiena in un atteggiamento di “iperlordosi”
e spalle tirate molto
indietro, con scapole che tendono a toccarsi.
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Lunga è la lista delle patologie definite ad “origine (eziologia) psicosomatica”, malattie
dunque che originano per disagi psicologici ma che si manifestano nel corpo: gastriti,
colon irritabile…
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PSICOFISIOLOGIA: LA MAGICA INTERAZIONE TRA CORPO E MENTE
Si studiano le varie modalità di reazione di un individuo in diverse situazioni.
Tali eventi, qualunque caratteristica essi abbiano, gradevole, sgradevole, ansiogena o
altro, qualora impongano un cambiamento o un nuovo adattamento dell’individuo alla
situazione, sono catalogabili come eventi stressanti: STRESSOR è qualunque eventostimolo che richiede una reazione adeguata e soddisfacente della persona e un
conseguente ritorno alla condizione psicofisica di partenza.
Tutto ciò nel Karate si traduce nei vari stress a cui ogni praticante è sottoposto, legati alla
prestazione tecnica e al confronto con l’avversario (anche quando si tratta di noi stessi).
Ognuna di queste occasioni di stress, nella realtà del Karate è funzionale e appositamente
studiata per allenare il praticante ad una gestione della propria risposta psicofisica nelle
occasioni di confronto, affinchè sia sempre più efficace e funzionale.
La ricerca scientifica ha dimostrato negli ultimi anni che in presenza di un eventostimolo, l’organismo attiva una risposta definita ERGOTROPICA, mediante l’aumento
dell’attività neurovegetativa simpatica che consiste in una serie di variazioni di alcuni
parametri fisici:
 Aumento della frequenza cardiaca e respiratoria
 Aumento della pressione arteriosa
 Aumento della secrezione delle ghiandole sudoripare
 Aumento del tono muscolare scheletrico e dilatazione delle pupille
 Inibizione delle attività motorie
 Desincronizzazione dell’ ElettroEncefaloGramma
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Questa reazione coadiuvata dall’aumento di produzione degli ormoni dello stress viene
definita da Cannon come “REAZIONE D’ALLARME”.
Se questa reazione trova il suo giusto epilogo, ossia una adeguata rezione psicofisica
dell’individuo alla situazione con cui deve confrontarsi, tutto questo sistema può poi
recuperare lo stato di partenza di quiete e rigenerarsi grazie alla “RISPOSTA
TROFOTROPICA”:
 Riduzione della frequenza cardiaca e respiratoria
 Riduzione della pressione arteriosa
 Riduzione della secrezione delle ghiandole sudoripare
 Riduzione del tono muscolare scheletrico
 Aumento delle attività motorie
 Sincronizzazione dell’ ElettroEncefaloGramma
Qualora ciò non accadesse, la persona rimane vittima di uno stato di stand-by ergotropico
che non trova risoluzione e procura a lungo andare una sorta di cronicizzazione e
deperimento patologico degli organi coinvolti in tale risposta che non trova risoluzione.
La Psicofisiologia indaga sul come si realizza, in ogni momento della vita, la misteriosa
integrazione corpo-mente. Quando è stata applicata alla pratica del Karate ha permesso di
chiarire come si attuava la sapiente integrazione alla base della realizzazione di ogni
“tecnica vincente”.
Tralasciamo ora volutamente la descrizione anatomo-funzionale delle strutture cerebrali
connesse con tutto ciò (cervello, cervelletto, ipotalamo, ormoni e neurotrasmettitori,
adrenalina, endorfine…). Ricordiamo solo che nella pratica del Karate, soprattutto nelle
occasioni di confronto, l’ipotalamo consente all’atleta di focalizzare i fattori fisici e psichici
implicati nelle diverse occasioni del confronto. Questa prima analisi di informazioni
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specifiche e variabili per ogni persona secondo le situazioni, permette all’ipotalamo di
organizzare la risposta alla situazione di stress, integrando i fattori psichici con quelli fisici.
Il Sistema Nervoso Vegetativo lavora a stretto contatto con l’ipotalamo perché veicola le
informazioni ricevute da quest’ultimo verso la periferia dell’organismo, col fine di
organizzare la “risposta comportamentale”, attivando in relazione alla tipologia della
risposta richiesta il Sistema Nervoso Simpatico o Parasimpatico, mettendo in atto la
capacità di relazione psicosomatica, evidenziando la propria specifica sensibilità ai fattori
stressogeni (ognuno di noi reagisce ad uno stressor in maniera personale ed unica).
LA RISPOSTA EMOZIONALE
L’emozione è la risposta integrata della mente e del corpo in relazione ad uno stimolo
stressante specifico, che concretizza nel fisico il vissuto emotivo di una persona:
attraverso il corpo viene vissuta una emozione tramite il movimento.
Questa complessa e affascinante operazione tra corpo e mente determina però una
alterazione dei parametri psicofisiologici e una modificazione della condizione di equilibrio
dell’organismo (che in condizioni normali tende a mantenere uno stato di quiete). La
repentina alterazione che si verifica in condizione di stress, è necessaria e funzionale per
allertarci di un pericolo imminente e attivare la risposta più efficace. La risposta
dell’individuo condiziona il recupero del seguente stato di equilibrio quiete-alterazionequiete. Se è realizzato armoniosamente è un processo sano e naturale; quando invece si
blocca in uno dei suoi passaggi, si crea una condizione di anomalia psicofisica.
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L’evoluzione di questo processo può dunque risolversi in diverse soluzioni:
 Se la persona è libera di agire con azioni soddisfacenti e funzionali, per se stesso e
per la situazione in cui si trova, si ristabilisce automaticamente una condizione di
equilibrio.
 Se la persona è incapace di esprimersi liberamente spesso sostituisce la risposta a
lui più funzionale con un’altra risposta legata però ad altri vissuti emotivi. Ad
esempio chi non riesce ad esprimere “sanamente” rabbia o paura, trattiene queste
sensazioni nel suo corpo e nella mente sotto forma di rabbia inespressa che si
concretizza in una contrazione dei muscoli deputati all’azione di rabbia ma con uno
stato emotivo insoddisfatto. Questo blocco espressivo può essere mal sopportabile
dall’organismo, che sposterà quella tensione inespressa verso altri vissuti
emozionali meglio tollerabili, come la tristezza.
 In altri casi la risposta bloccata può cronicizzarsi, rimanendo per così dire incastrata
nella contrazione cronica dei muscoli deputati ad agire l’azione prevista. Col tempo
la contrazione-contrattura muscolare, all’inizio avvertita e dolorosa, permane ma
non viene più percepita. Si è stabilizzata nel corpo senza che ce ne sia
consapevolezza o percezione creando squilibri posturali: l’emozione trattenuta non
è scomparsa ma è solo congelata e rimane latente nel corpo e nella mente della
persona, determinando una condizione di anomalia.
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ALCUNE DELLE EMOZIONI CHE SI VIVONO SOTTO STRESS:
ASSERTIVITA’
E’ la capacità di esprimersi con modalità chiara e diretta, utilizzando nel modo più
adeguato la propria carica energetica. Possiamo lanciare un pugno o dire “ti amo” con
assertività, usando ovviamente le nostre energie con modalità diverse. Ma in entrambi i
casi è necessario che nel momento espressivo siano sempre coinvolti tutti gli elementi
necessari alla comunicazione verbale e non-verbale.
Questo è alla fine ciò che si deve dimostrare durante l’esecuzione di Kihon o Kata:
eseguire le tecniche con assertività.
AGGRESSIVITA’
Letteralmente significa “andare verso”.
È un moto espressivo diretto verso un altro individuo, mentre nella assertività non è
necessaria la presenza dell’altro.È una dote importante per gli sport in generale, ma
nelle arti marziali è fondamentale, a volte trattenuta e poco diretta, altre volte esagerata
e senza confini, quindi meno efficace.
È l’opposto della regressione , che significa retrocedere. In psicologia è l’opposto della
passività, che denota un atteggiamento immobile o di attesa. Possiamo andare verso
un’altra persona per amore o per rabbia. Entrambe le azioni sono “aggressive” ma
entrambe positive e soprattutto funzionali per la persona che le vive.
AGGRESSIVITA’ NON E’ RABBIA E NON E’ DISTRUTTIVITA’, ANZI, E’
SOPRATTUTTO SPIRITO DI INIZIATIVA, ENERGIA, VIVACITA’.
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RABBIA
Il corpo riflette la storia delle persone attraverso la perdita dell’armonia, nelle scissioni
che separano i principali segmenti corporei, la testa dal tronco o il bacino dal torace.
Queste scissioni scalfiscono l’integrità che non può essere restaurata solo piangendo:
L’EMOZIONE RESTAURATRICE O PROTETTIVA E’ LA RABBIA. Molte persone
hanno una considerevole quantità di rabbia repressa, o perché non ci si è potuto
esprimere da bambini o perché si è sofferto.
La rabbia fa parte della funzione più ampia dell’aggressività, è una emozione
importante nella vita di tutti, dato che serve a conservare e proteggere l’integrità fisica
e psicologica dell’organismo. SENZA RABBIA SI E’ INDIFESI CONTRO GLI ASSALTI
A CUI LA VITA CI ESPONE.
Il movimento energetico opposto alla rabbia è la paura.
La rabbia è un sentimento molto potente che spaventa le persone, spesso timorose di
“perdere il controllo” di seè e della realtà esterna in un ECCESSO DI RABBIA: la prima
cosa da fare è imparare a “centrarsi su se stessi” attraverso il proprio corpo e
mantenere la consapevolezza della realtà (mantenendo “i piedi per terra” cioè non
perdere il controllo della situazione). Tramite le gambe è possibile ridurre la carica di
eccitazione in eccesso nel corpo scaricandola verso terra.
La pratica del Karate ci permette di acquisire la capacità di mantenerci ben radicati alle
proprie gambe per spingerci in avanti, supportati dalla costante presenza di se stessi e
nella realtà in cui ci si trova. L’esperienza di confronto-scontro nel Karate è una
occasione molto formativa per conoscere se stessi in maniera più approfondita,
evidenziando le modalità di comportamento utilizzate nei momenti di stress, in
particolare se dovuti al confronto-scontro con un’altra persona.
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Una situazione controllata come quella della palestra, se ben gestita diventa la palestra
ottimale dove allenarsi ad utilizzare al meglio le proprie potenzialità e superare i propri
limiti. E il primo ostacolo è superare la resistenza a riconoscere i propri limiti, così da
poterci aprire all’apprendimento di nuove modalità di azione.
L’allenamento al Kumite, oltre ad agevolare lo sblocco dell’espressione della rabbia,
consente di evitare le ESPRESSIONI IRRAZIONALI DI RABBIA: LA COLLERA.
COLLERA
È una azione distruttiva, senza più controllo consapevole della persona e utilizzata
verso una meta inadeguata. È quella “forte rabbia in corpo” espressa in maniera
isterica e convulsa, che utilizza molte energie e fa perdere di vista noi stessi e la realtà
che ci circonda. Attraverso l’allenamento al Kumite si dovrebbe imparare a canalizzare
la rabbia nelle regole del combattimento.
PAURA
È l’emozione spesso negata e disapprovata di una persona che si trova di fronte ad
una situazione percepita come pericolosa. Ha la funzione di sistema d’allarme,
informando di un pericolo immediato o che potrebbe verificarsi da un momento all’altro.
La comparsa di quest’emozione accelera le reazioni psicologiche
e modifica i
parametri fisici al fine di preparare l’idividuo a reagire di fronte al pericolo.
Le reazioni allo stimolo della paura possono essere di attacco o di fuga, ma può
capitare che inaspettate difficoltà nel gestire la paura creino una sorta di paralisi fisica
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e psichica definite PANICO. Quest’ultimo è l’evidente difficoltà nel gestire la paura,
molto pericoloso perché immobilizza la persona in piena condizione di pericolo.
Col Karate non andremo a costruire solo un bagaglio di tecniche e una certa quantità
di muscoli, ma piuttosto un essere umano che, dotato di un’ampia conoscenza di colpi
“vincenti”, ha la personalità adeguata per utilizzarli nel momento necessario e nella
maniera più funzionale per se stesso. Questa persona sarà quindi ricca tanto di
tecniche quanto di forza dell’ Io che gli consenta di gestire le proprie risorse
psicofisiche anche (e soprattutto) nei momenti di stress.
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CAPITOLO 3°
PSICOSOMATICA DELLE ARTI MARZIALI
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LA POSTURA
È lo schema organizzative delle parti del corpo nello spazio, la soluzione finale che trova il
nostro corpo per mantenere una posizione, stare in piedi, muoversi. L’organizzazione
dell’equilibrio posturale è una operazione complessa, che si realizza nella combinazione
armonica di più fattori diversi tra loro, che esplicano la loro azione in campi differenti e con
metodi differenti, ma lavorando tutti in sincronia per realizzare l’equilibrio posturale. È
condizionata da esigenze collegate ai vincoli biomeccanici del corpo umano.
FORZA DI GRAVITA’
Il nostro corpo è sottoposto giornalmente a numerosi e svariati stress, parola che solo a
sentirla fa pensare al modo in cui evitarli. Molte delle situazioni stressanti in cui ci
imbattiamo giornalmente, forse potrebbero essere eliminate, ma l’unica condizione di
stress alla quale è impossibile sottrarsi, è il confronto sempre presente con la forza di
gravità. Essa ci spinge costantenemte verso il basso, impedendoci così di galleggiare
nell’aria come abbiamo visto fare agli astronauti nello spazio. Questa spinta ci impone una
attivazione continua di tutti gli elementi che determinano l’equilibrio posturale.
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MUSCOLI AGONISTI ED ANTAGONISTI
E’ bene ricordare che per stare in piedi e muoverci nello spazio, è necessaria l’attivazione
di diversi gruppi muscolari che agiscono in sinergia per realizzare ogni nostra azione. Per
realizzare qualunque movimento, dunque, è necessario:
a) mettere in funzione i muscoli deputati ad eseguire il movimento (muscoli agonisti)
b) disinnescare i muscoli deputati ad eseguire il movimento opposto a quello che si
vuole realizzare (muscoli antagonisti).
Quando entrambi i gruppi muscolari, antagonista ed agonista, agiscono scorrevolmente,
contraendosi e decontraendosi nei tempi e nei modi adeguati, il movimento si realizza
armonico e pieno di sana energia. Quando, invece, uno dei due gruppi muscolari perde la
sua elasticità e rimane contratto anche quando dovrebbe rilassarsi, l’armonia del
movimento si frantuma, l’azione diventa poco scorrevole e deprivata di energia. La perdita
di elasticità di un determinato distretto corporeo determina inoltre una condizione di
squilibrio dell’intero assetto posturale.
DISTRETTI CORPOREI
Il nostro corpo è composto come un puzzle, dove ogni tassello è collocato in una
posizione funzionale all’intero sistema. L’alloggiamento adeguato e l’allineamento di ogni
tassello con il resto del puzzle produrrà la soluzione finale.
La stessa cosa avviene nel nostro corpo: ogni distretto corporeo deve essere ben
allineato con il resto del corpo e posseder l’elasticità necessaria per adeguarsi ai
movimenti degli altri distretti. Quando un distretto rimane bloccato in una posizione e non
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mantiene un buon allineamento con il resto del corpo, crea una condizione di disequilibrio
posturale.
Vogliamo intendere per distretto corporeo l’insieme dei gruppi muscolari, delle articolazioni
e degli organi che, in contatto funzionale tra loro, sono tutti co-protagonisti nella
realizzazione di ogni azione agita da quel distretto corporeo.
DISTRETTO OCULARE
E’ uno dei primi strumenti che utilizziamo, appena nati, per relazionarci e comunicare con
l’ambiente circostante, e in particolare è lo strumento più istintivo con il quale stabilire un
contatto con chi o cosa ci stiamo relazionando.
Il distretto oculare, oltre alla sua funzione comunicativa, è protagonista della realizzazione
fisica di molte emozioni vissute mentalmente, ad esempio rabbia o amore, condizioni
emotive queste ultime che sono vissute appieno solo quando anche gli occhi partecipano
attivamente all’espressione dell’emozione.
Tutti conosciamo il detto popolare “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”, dal quale si
evince come attraverso lo sguardo, spesso inconsapevolmente, comunichiamo il nostro
stato emotivo, sotto la soglia di consapevolezza (ci si trova a comunicare le proprie
emozioni anche in occasioni in cui si sarebbe preferito tenerle nascoste).
È altrettanto vero che, grazie a questa forte espressività emotiva degli occhi, anche solo
con lo sguardo possiamo comunicare agli altri forti stati emotivi in modo chiaro e incisivo:
ira, amore, apprezzamento, disapprovazione.
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L’arte marziale, essendo una pratica motoria che trova la sua massima espressione
quando ogni azione si realizza nella piena integrazione del corpo con la mente, prevede,
nell’esecuzione di ogni tecnica, che il movimento del corpo sia accompagnato dall’azione
degli occhi. Essi, infatti, forti della loro espressività emotiva, conferiranno ad ogni azione
l’energia che la renderà vincente.
Nella pratica marziale si dovrà imparare dunque ad usare gli occhi in armonia con il
movimento di tutto il corpo; guardare l’avversario piuttosto che tenere gli occhi bassi,
osservare velocemente ogni micro-movimento dell’avversario col fine di prevenirne le
azioni, dimostrare di “vivere l’esecuzione di un kata o un kihon”.
DISTRETTO ORALE
Comprende la muscolatura del mento, della gola, della bocca e della parte superiore dlela
nuca.
Nel karate questo distretto partecipa ella esecuzione di ogni azione attraverso la
emissione del respiro e del suono vocale, ma anche all’ingresso di aria nei polmoni
quando lo sforzo è molto intenso e non è più sufficiente far entrare aria solo dal naso.
La libera espressione del distretto orale, durante la esecuzione di una tecnica, ci consente
di alimentare energeticamente il movimento mediante la respirazione e partecipando alla
espressione corporea del vissuto emotivo implicito nella tecnica.
In particolare il distretto orale è coinvolto in prima linea in tutte le azioni che implicano un
grosso sforzo muscolare e una forte scossa emotiva, come quando si incassa un colpo o
si è in stato di pre-attivazione, pronti a lanciarsi nell’azione. In questi casi il distretto orale
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attiva fortemente la tensione muscolare della mascella, tensione che si libera poi nella
potenza di ogni movimento.
Il protrarsi cronico di uno stato di tensione del distretto orale può dare origine a numerose
patologie dell’apparato dentario, cefalee, patologie cervicali.
DISTRETTO CERVICALE
Il distretto cervicale è considerato la “zona di passaggio e di censura” delle emozioni tra il
corpo e la testa. In particolare questa zona è deputata a gestire l’espressione di emozioni
come rabbia o pianto.
Nella pratica del karate, fungendo da ponte tra il capo e il torace, quando la zona cervicale
non è libera nel movimento si crea una condizione di disarmonia tra la azione del torace e
quella del capo, inficiando la qualità tecnica dell’ esecuzione e alterando l’ intero assetto
posturale. Uno Tzuki eseguito col capo inclinato da un lato o un calcio sferrato oscillando
continuamente il capo avanti e indietro sono tipici esempi di questi atteggiamenti parassiti.
DISTRETTO TORACICO
Comprende i muscoli intercostali, pettorali, la zona delle spalle e delle scapole. Nela
karate la fluidità di questa parte è fondamentale per la buona riuscita di tutte le tecniche di
braccio.
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È protagonista di azioni ad alto contenuto emotivo come “l’allontanare” o “il trattenere”,
spesso bloccato e vittima di tensioni muscolari. È facile notare in alcuni individui un torace
sempre bloccato in atteggiamento inspiratorio o espiratorio, determinando una anomalia
posturale delle spalle che rimangono così sollevate e ricurve su se stesse.
DISTRETTO DIAFRAMMATICO
È considerato, come la zona cervicale, un punto di passaggio tra la zona superiore del
torace e quella sottostante del bacino.
Il diaframma, muscolo deputato alla respirazione, è il veicolo fondamentale dei nostri
vissuti emotivi, spesso parzialmente bloccato nelle sue funzioni o perlomeno non
adeguatamente utilizzato.
DISTRETTO ADDOMINALE
Interessa anteriormente la zona della muscolatura addominale e posteriormente le ultime
parti della muscolatura vertebrale, spesso dolente per eccesso di tensione muscolare.
L’energia generata dalla rotazione del bacino, se non viene trasmessa al torace dagli
addominali (con la loro giusta contrazione e decontrazione), rimarrà una semplice
“sculettata” o farà apparire l’esecutore come un “monoblocco”.
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DISTRETTO PELVICO
Comprende tutti i muscoli pelvici, adduttori delle cosce e sfintere. Una eccessiva tensione
di questa parte crea squilibri posturali sposizionando il bacino, determinando in genere
“insensibilità” percettiva di questa zona.
Classico esempio di questa condizione è la cosiddetta “coda fra le gambe” (gambe ad X):
si ha un difficile appoggio dei piedi sul terreno e un disequilibrio posturale molto evidente
che renderà più complessa la esecuzione di tutte le tecniche eseguite con gli arti inferiori,
e secondariamente quelle degli arti superiori.
DITRETTO PODALICO
I piedi sono la parte del corpo che ci consente di prendere contatto con il suolo e generare
la reazione di spinta.
I piedi sono la nostra base di appoggio nella realtà: infatti “quando abbiamo la testa fra le
nuvole”…”non abbiamo i piedi per terra”!
Il modo in cui si presentano i nostri piedi è spesso segno significativo del modo in
cui ci adattiamo alla realtà.
Principali tipologie di piede:
PIEDE PIATTO: ha il contatto con il suolo a ventosa, inibisce il movimento o il
dinamismo, ha un contatto precario col terreno.
PIEDE AD ARTIGLIO: crea anch’esso un appoggio precario, instabile, ma cerca di
tenersi saldo al suolo con tutte le sue forze (spesso è un compenso del piede piatto).
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PIEDE A MAGLIO: forte compressione del tallone sul terreno, imponendosi
esageratamente.
PIEDE NORMALE: presenta un appoggio equilibrato sui punti chiave della pianta, ha
un movimento scorrevole sul terreno e una buona armonia con la caviglia.
La modalità di contatto del piede con il suolo durante il movimento è indicativo del modo
con il quale l’individuo usa il proprio corpo e gestisce la relazione con la realtà:
CONTATTO TROPPO RADICATO: crea una contrazione della muscolatura che rende il
movimento poco agile. Il contatto col suolo è talmente forte che quasi ci si sprofonda,
molto stabile, ma imprigionante perché poi non ci si riesce a liberare.
CONTATTO SALTELLANTE: quando solo la punta del piede tocca il terreno.
CONTATTO A FORBICE aperta o chiusa.
CONTATTO CON APPOGGIO SBILANCIATO interno o esterno.
LA POSTURA E LA PSICOSOMATICA NEL KARATE
A cosa serve la postura? ESSA E’ IL MODO IN CUI CI PRESENTIAMO, è il nostro
biglietto da visita, la prima cosa che mostriamo agli altri di noi. Osservando il corpo del
nostro avversario cerchiamo di intuirne la forza e la debolezza, il suo aspetto vitale o
spento, la sua condizione emotiva o il suo stato di salute, e quanto tutto ciò possa essere
vero o stia fingendo per spiazzarci.
Nel karate la sensibilità alla postura, il lavoro di conoscenza, correzione e gestione della
postura sono parti fondamentali della crescita del praticante.
Ogni sport da combattimento (pugilato, scherma, lotta, judo etc.) ha posture che lo
caratterizzano e il Karate non costituisce eccezione.
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IL KAMAE – LA GUARDIA LIBERA
Lo studio della posizione di guardia libera è un passaggio fondamentale per arrivare a
“sentire” la propria posizione di guardia, di KAMAE: a parte le piccole variazioni personali
impartite da carattere, struttura fisica e grado di esperienza individuale.
La postura del karateka è sostanzialmente neutra, vale a dire non condizionata da
esigenze particolari, come, per esempio, nel pugilato, che non usa gli arti inferiori e le
proiezioni. Infatti, dovendo usare gambe, braccia ed essere in grado di poter proiettare
l’avversario, il karateka deve mantenere un assetto che consenta tutte le opzioni e che
non riveli all’avversario alcuna informazione utile alla comprensione delle sue valenze o
preferenze.
La postura ottimale è costituita da una arto in posizione avanzata e l’altro in posizione
arretrata, i piedi collocati come su un binario della larghezza delle anche, ben orientati in
avanti, il bacino e il tronco angolati di circa 45° rispetto al piano sagittale. Il piede
posteriore va posizionato correttamente con una extrarotazione massima di 30° circa
rispetto all’asse del combattimento, per poter imprimenre alla massa corporea efficaci
accelerazioni e consentire complete rotazioni del bacino, che risulterebbero impossibili da
realizzare se il piede fosse eccessivamente extra ruotato. In tale circostanza le catene
cinetiche non potrebbero essere espresse in modo ottimale e presenterebbero potenza
ridotta.
La guardia è una protezione organizzata a difesa dei bersagli (zone vulnerabili) per mezzo
degli arti superiori, al fine di rendere preliminarmente difficile il successo degli attacchi
dell’avversario e, nel contempo, rendere fulminei gli attacchi o contrattacchi eseguiti con le
braccia.
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Partendo da questa soluzione che chiameremo GUARDIA STATICA o NEUTRA potremo
ottenere una variante DINAMICA.
Posizione di guardia STATICA
1)
2)
3)
4)
5)
scarico del peso verso il terreno
adeguato appoggio sui piedi
semiflessione delle articolazioni delle caviglie e delle ginocchia
gestione della attività respiratoria
spinta del respiro verso il basso, con particolare attenzione al distretto del
bacino (HARA), zona di produzione e scarico dell’energia.
Posizione di guardia DINAMICA
AVANZATA:
questa posizione si discosta da quella statica sia dal punto di vista posturale sia da quello
psicofisiologico. Prevede infatti il sollevamento del tallone di uno dei due piedi e il suo
spostamento leggermente indietro, con lo scarico del peso sul piede anteriore.
Questa “condizione fisica” è in grado di evocare uno stato psicologico di iperattivazione
con muscolatura necessaria all’azione in tensione, cuore che pompa con forza, respiro
veloce e superficiale, sistemi percettivi tesi a captare ogni informazione necessaria
proveniente dall’esterno, controllo delle informazioni provenienti dall’interno del nostro
corpo, affinchè lo stato di iperattivazione non diventi stato d’ansia, sistema simpatico
pronto, in attesa del via all’azione!
Il peso del corpo è già caricato sull’arto avanzato, l’idea è quella di “andare avanti”, di
volere attaccare per primi.
48
ARRETRATA:
questa posizione si differenzia dalla precedente poiché il peso del corpo è
prevalentemente scaricato sul piede posteriore piuttosto che su quello anteriore. Questa
piccola differenza genera una momentanea riduzione della attività simpatica, attivazione
del sistema parasimpatico deputato al recupero delle energie, il cuore rallenta i battiti, i
muscoli perdono un po’ di tensione, il respiro si fa meno veloce e più profondo. È la tipica
posizione dell’ “incontrista”, di colui che aspetta l’iniziativa dell’avversario e che agisce di
rimessa.
Esiste una stretta correlazione fra posizione di guardia e caratteristiche della personalità di
chi la esegue: il corpo è la chiave per comprendere ciò che comunemente chiamiamo
carattere. Esso è il tratto fondamentale della personalità che ci distingue l’uno dall’altro sia
in termini fisici che psichici, ma in realtà non è altro che il modo specifico di ogni individuo
di agire e/o reagire alle vicende della vita.
Nel karate si impara ad abbassare il centro di gravità e sentirci più vicino a terra: il risultato
immediato sarà un maggior senso di sicurezza. Infatti quando siamo troppo carichi o
eccitati, o addirittura in ansia abbiamo la sensazione di sollevarci da terra, oppure che ci
manchi il terreno sotto i piedi.
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LA RESPIRAZIONE
È l’attività necessaria alla nostra sopravvivenza di cui spesso abbiamo scarsa
consapevolezza o magari non utilizziamo nella sua interezza. Infatti il respiro non è solo
scambio di ossigeno ed anidride carbonica, ma anche l’utilizzo di una considerevole
quantità di muscoli che spesso rimangono inutilizzati o bloccati da tensioni croniche che
impediscono una attività respiratoria adeguata.
Imparare a respirare correttamente nel Karate significa saper utilizzare il corpo durante il
respiro, non solo i polmoni ma anche la schiena, le spalle, le braccia durante movimenti di
apertura o chiusura, saperne rallentare il ritmo e la profondità a seconda dell’uso che se
ne vuole fare, renderlo più o meno percettibile all’avversario: tutto ciò richiede un lavoro di
sincronizzazione di numerosi distretti corporei.
La respirazione è infine anche in relazione con la voce: per emettere un suono bisogna
“spostare l’aria” attraverso il laringe: ecco come il Kime, spostando e “spremendo” aria
proprio verso l’alto genera il Kihai.
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IL MOVIMENTO ENERGETICO
È determinato dalla coordinazione armonica di tutti gli elementi fin qui esaminati:
 confronto con la forza di gravità
 sincronizzazione dei muscoli agonisti ed antagonisti
 allineamento dei distretti corporei
 appoggio sui piedi
 attivazione del respiro e della voce
La combinazione “Respiro -attività muscolare- Cinetica” determina una potente produzione
energetica che non si verifica se uno solo di questi fattori non è ben integrato nell’azione.
Il movimento energetico che si produce deve trovare delle vie di uscita e di espressione
scaricandosi attraverso tutte le vie di uscita che il corpo offre:
 occhi
 bocca
 arti superiori
 bacino
 arti inferiori
Durante la fase di attivazione il nostro organismo si organizza per affrontare la situazione
di stress: quest’ultimo può essere favorevole e stimolante o negativo e pericoloso.
Durante la fase di stress il nostro corpo produce endorfine destinate a diminuire la
tensione prodotta. Se il flusso di endorfine è costante e adeguato allo stress generato,
questo risulta stimolante!
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Ma quando la condizione di stress diventa superiore alle nostre capacità di adattamento e
lo sforzo richiesto al nostro corpo è superiore alle nostre forze, la produzione di endorfine
si blocca.
Quindi per ottenere una condizione di stress positivo, che consenta la produzione di
endorfine, è necessario che il nostro organismo sia sottoposto ad uno sforzo che induca
un certo livello di tensione, ma che questo non sia superiore ai propri limiti. E lo scopo
dell’allenamento è proprio quello di spostare sempre più verso l’alto l’asticella del limite.
Non esiste tecnica che non preveda la partecipazione di tutte le parti del corpo: solo
lavorando in armonia danno massima espressione ad ogni colpo. Operando in questo
modo, le tecniche utilizzate acquistano la massima potenza, ottenuta col minor sforzo
possibile.
Ad esempio un calcio non è mai portato solo con l’uso di una gamba, ma necessita
sempre di una condizione di equilibrio del corpo intero. Oppure una tecnica di braccia
necessita sempre dell’appoggio sulle gambe.
Il Karate ci permette di esercitarci e prendere dimestichezza con l’espressione combinata
corpo-mente in un’azione unica, all’interno di un contesto controllato come una palestra è
un’esperienza di crescita verso una maggiore consapevolezza di se stessi.
AGIRE IN EQUILIBRIO
 L’equilibrio del corpo si ottiene studiando il coordinamento posturale nell’esecuzione
di ogni tecnica. Ogni movimento , a prescindere dalla sua ampiezza, deve
coinvolgere il corpo nella sua totalità. Quando ciò non avviene il praticante si sente
scoordinato, con la sensazione di “avere poco equilibrio”.
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 L’equilibrio della mente si acquisisce adeguando l’espressione del proprio agire al
momento, al contesto e alla persona che abbiamo davanti. È inutile sparare con un
cannone su una formica.
 Allenandosi in palestra a lavorare con equilibrio di corpo e mente si migliora il
coordinamento corporeo, necessario per sentirsi sicuri di sé e avere una buona
padronanza di se stessi nelle occasioni di confronto.
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IL TEMPO
È la scelta del tempo di esecuzione di una tecnica. Dopo avere acquisito il gesto atletico
della tecnica, è necessario comprendere come e quando utilizzarla.
Esiste un ritmo nella esecuzione, che possiamo notare durante un Kihon, un Kumite
o un Kata (in quest’ultimo, addirittura, non esiste un solo tempo di esecuzione, ci
sono movimenti lenti, altri addirittura statici e altri ancora dinamici).
Lo studio del tempo consente di comprendere quanto sia più funzionale aspettare,
studiare l’avversario e inserire il colpo utile solo nel momento più adatto.
Dal punto di vista psicosomatico, il concetto di “tempo” ispira 3 fasi di allenamento:

allenamento alla capacità di concentrazione su se stessi e gestione dello
stress,

allenamento ad ascoltare e intercettare le azioni dell’avversario,

di fronte all’azione dell’avversario imparare ad agire piuttosto che reagire,
interrompendo così l’azione dell’altro.
La mente deve acquisire abitudine e capacità di “agire attivamente e con modi funzionali”
all’azione dell’altro, piuttosto che subire l’attacco altrui.
Il corpo, grazie a un esercizio costante e ripetuto nel tempo, deve memorizzare
l’esecuzione delle tecniche affinchè siano utilizzate in modo istintivo e immediato, evitando
il tempo di pianificazione razionale.
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LA DISTANZA
Per distanza si intende lo spazio all’interno del quale ci si muove, e le diverse posizioni
che si assumono nella relazione con un’altra persona.
Distanza Pubblica:
è la più ampia, c’è solo contatto visivo.
Distanza Lunga (o zona sociale):
ci può essere contatto fisico. È lo spazio dei calci e tecniche di braccia in attacco,
spostamenti di difesa. A questa distanza è ancora possibile studiare la tattica da utilizzare
e sorprendere l’avversario.
Distanza Media (o zona personale):
è lo spazio che si decide di attraversare in una azione di attacco, assumendo un
atteggiamento di “sfondamento”. Effetto Bulldozer di un attacco. È la zona che ci circonda
se stendiamo le braccia.
Distanza intima (o corta distanza):
è la distanza del “corpo a corpo”, in genere vissuta come generatrice di senso di
soffocamento e ansia se non si è allenati a tal confronto. È lo spazio che ci circonda e che
può raggiungere un nostro braccio piegato tenendo però il gomito flesso. È uno spazio
complesso perché può essere vissuto con imbarazzo, fastidio o pericolosità se ad
attraversarlo è una persona non gradita.
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L’ultima zona di confine strategica fra noi e il resto del mondo è la pelle, l’involucro della
nostra persona, barriera attiva e reattiva a quanto avviene sia dentro che fuori di noi.
Psicologia della distanza ravvicinata:
in primo luogo si deve irrompere nella guardia dell’avversario, con modalità decisa e
irrefrenabile, insinuandosi nel primo varco possibile, con scelta di tempo e punto in cui
inserire il proprio attacco, cogliendo un vuoto psicologico o fisico. Per ottenere tale
precisione e destrezza si devono fare i conti con le proprie capacità di gestione dello
spazio circostante, ma anche la capacità di aggredire “l’avversario”, sfondando i nostri
muri protettivi che usiamo per tenere a distanza il resto del mondo. Questo non è
assolutamente un processo psicologico scontato.
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…DURANTE L’ALLENAMENTO
Nell’esecuzione di tecniche di Kihon o Kata (colpi comunque a vuoto) è fondamentale
sostenere la componente emotiva necessaria all’espressione assertiva (postura, mimica,
respirazione e l’intero mivimento energetico secondo le descrizioni fatte precedentemente.
Se il praticante durante l’esecuzione sembra “ansioso”, poco centrato su se stesso e con
l’enegia che ovviamente ristagna sulla parte superiore del corpo, è utile suggerire di
abbassere il baricentro, appoggiarsi di più sui piedi (grounding) e gestire la respirazione.
Se invece il praticante porta tecniche con fare isterico poco determinato potrebbe essere
utile farlo concentrare sul movimento energetico della tecnica e sul punto finale di scarica
energetico (Kime) di ogni tecnica.
Durante esecuzione di tecniche in coppia è fondamentale invece il livello di aggressività
col quale un compagno le applica sull’altro: se tali tecniche sono eseguite con una
aggressività trattenuta e poco efficace, l’osservazione delle parti del corpo deputate
all’espressione potrebbe mostrare che la muscolatura antagonista è quella che trattiene il
movimento. Nel caso contrario, quando cioè viene espressa una aggressività esagerata,
imparare a convogliare e canalizzare quest’energia con modalità più adatte e profucue,
ottimo è il lavoro sul ritmo o tempo del combattimento. E su questo gli “orientali” possono
sicuramente insegnarci molto: a fronte di kumite frenetici e compulsivi, gli orientali
gestiscono cadenze ritmiche di quiete e repentine azioni micidiali. I momenti di quiete, in
realtà, sono densi di attività strategica e occasioni per centrarsi su se stessi e sul proprio
avversario: si scarica il peso al suolo adeguatamente, ci si radica sui propri piedi, con la
respirazione si accumula energia e si gestiscono al meglio gli stati d’ansia. Poi,
improvvisamente, individuato un varco nell’avversario la quiete si trasforma in un attacco
preciso e determinato, ogni volta come fosse l’ultimo.
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LA GESTIONE DELLO STRESS
È ormai noto che la reazione psicosomatica attivata dall’organismo in una situazione di
stress in realtà è un incentivo positivo (stress positivo) che stimola la nostra reazione, e
diventa dannosa solo quando perdura nel tempo o la nostra reazione non è adeguata alla
situazione o ancora rimaniamo impantanati in un blocco psicofisico (stress negativo). La
condizione di stress negativo può essere determinata tanto da cause esterne
incontrollabili, quanto da cause dovute alla qualità della nostra reazione (se invece di
essere risolutive ci procurano frustrazioni e blocchi comportamentali a causa dei tratti
nevrotici del nostro carattere. Per tratti nevrotici si intendono le nostre paure,ansie, i
conflitti che emergono in alcuni casi della vita, facendoci sentire frustrati e insoddisfatti.
Durante la pratica del Karate, lo stress fisico agisce
 accelerando l’attività aerobica=sensazione di soffocamento, mancanza d’aria
 spostamento dell’energia verso l’alto=ansia
 non adeguato appoggio sui piedi=sensazione di scarso equilibrio
l’allenamento consente pian piano di imparare a gestire tale stress, recuperando un
adeguato appoggio sui piedi, ridistribuendo il movimento energetico in tutto il corpo,
imparando a gestire il proprio ritmo respiratorio.
Lo stress psicologico si manifesta con
 incapacità di reazione o blocco motorio (Kiho mentale)
 inadeguatezza a ricevere colpi (mancata reazione muscolare, si indietreggia e si
scappa solamente dall’avversario)
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 difficoltà nel colpire l’avversario=irrigidimento dei distretti deputati all’azione
Imparare a gestire lo stress provocato durante l’allenamento è importante perché ci
confronta con l’esperienza, frequente nella vita, di essere colpiti (verbalmente o
fisicamente) e colpire l’altro. In altre parole si impara a fare i conti con la paura
dell’aggressione e la propria inesperienza nell’aggredire.
LA GESTIONE DEL TEMPO
Lo studio dei tempi d’azione e di reazione in combinazione con la scelta tattica della
tecnica da eseguire:
 gestione del ritmo: imparare a usare il ritmo del confronto a proprio favore e
coordinare l’azione degli automatismi acquisiti con le azioni dell’altro. Imparare ad
anticipare l’azione dell’altro individuandone la tattica scelta.
 sostituzione della reazione con l’azione
 adeguata utilizzazione delle proprie risorse.
LA GESTIONE DEL COLPO RICEVUTO
La modalità sia fisica che psicologica con cui incassiamo un colpo condiziona la qualità
della nostra reazione.
 Dal punto di vista fisico bisogna imparare ad incassare non rimanendo vittime del
dolore, cercando il più possibile di riemnere compatti e radicati in se stessi, così da
proseguire una reazione.
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 Dal punto di vista psicologico bisogna imparare a gestire il cedimento emotivo e
imparare nuove modalità di reazione.
Incassare i colpi nella vita è assolutamente comune a tutti gli esseri umani, ma imparare a
non rimanerne vittima, mantenersi compatti e non lasciarsi sfondare dai colpi della vita,
così da poter recuperare le energie necessarie alla reazione, è assolutamente più utile e
soddisfacente.
LA MEMORIA DEL CORPO
In situazione di stress il tempo per pensare e agire razionalmente spesso non c’è; le azioni
devono essere istintive, o meglio, quelle che sono state memorizzate come “abituali”. Se
queste azioni divengono inadeguate e vanno sostituite, dobbiamo incidere lentamente sul
nostro psicosoma la nuova reazione.
 Memoria fisica
o Spontaneità nell’esecuzione della tecnica:
Il corpo, a lungo andare, memorizza un gran numero di tecniche che, se
liberi dalle tensioni corporee dei distretti deputati ad agirli, possono
esprimere con modalità spontanee e istintive quindi più potenti ed efficaci. La
memoria del corpo inoltre consente l’asutomatismo dell’azione eliminando il
tempo di latenza generalmente utilizzato dal pensiero razionale.
 Memoria psichica
o Prontezza dell’azione
o Sostituzione dei comportamenti inadeguati
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La memoria del corpo consente nel tempo di sostituire vecchi stereotipi
comportamentali divenuti magari limitati, lasciando il posto a nuovi modelli d’azione
e di comportamento più soddisfacenti.
ESEMPIO: il karateka può scoprire con piacere la propria possibilità di azione nel
confronto con l’altro, utilizzando la propria forza ed energia che non sapeva di
possedere.
La scelta dei tempi di azione e reazione in combinazione con la scelta tattica della tecnica
da eseguire.
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IL KARATE COME FITNESS E DIFESA PERSONALE
La preparazione atletica che supporta la pratica del Karate prevede lavori per il
potenziamento muscolare, la coordinazione motoria, la scioltezza delle articolazioni e lòa
resistenza aerobica. La completezza di un allenamento di questo tipo consente una
RIDEFINIZIONE CINESTESICA E TONICO-MUSCOLARE dell’intero corpo. Tale
rinnovamento procura nel praticante benefici evidenti non solo dal punto di vista estetico,
ma soprattutto dal punto di vista della percezione corporea di se stesso. A sua volta, la
percezione di un corpo “rinnovato” e tonificato, più coordinato nel movimento e rilassato
nelle articolazioni, migliora la sicurezza in se stessi e “il piacere di stare nel proprio corpo”.
Il movimento armonico del corpo nello spazio è alla base, base nella pratica del Karate è
la conseguenza di forze prodotte dalla muscolatura.
Questo movimento, nell’esecuzione di una tecnica, deve essere mantenuto e potenziato
da una forza muscolare adeguata, adattata perciò alla qualità di movimento richiesto
(lento, veloce, forte, potente, deciso o “in crescendo”).
Poi la forza muscolare dovrà essere finalizzata al conseguimento dei seguenti tre obiettivi:
 Ottimizzare lo spostamento del corpo il più velocemente possibile;
 Ottenere la massima precisione nell’esecuzione della tecnica;
 Trasmettere la forza fisica alla parte del corpo utilizzata come arma.
Torniamo ora allo stress, parola molto alla moda, tanto che ormai sono innumerevoli le
soluzioni proposte dalla medicina tradizionale, da quella alternativa e da altre ancora, per
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sconfiggere quest’insidia alla nostra salute. Alcune delle soluzioni più diffuse forniscono
solo rimedi sintomatici, ovviamente con effetti limitati nel tempo. Altre, invece, propongono
l’adozione di tecniche di rilassamento da utilizzare “come pillola” nelle condizioni di stress.
Dopo anni di pratica marziale, la nostra personale (e assolutamente umile) idea è che lo
stress, più che combatterlo, è necessario imparare a gestirlo; quando ciò non è possibile,
è importante prima riuscire a far scaricare al corpo l’attivazione procurata dallo stress, poi
trovare ciò che può farci tornare alla calma rilassandoci: nulla di meglio di una lezione di
Karate, che dal punto di vista energetico, assolve alle tre funzioni:

Destressamento

Ricarica energetica

Ritorno alla calma
Un processo completo quindi, attraverso il quale si può scaricare la tensione accumulata e
ricaricarci attraverso lavori sulla postura e il respiro, alleviando tanto la mente quanto il
corpo.
LA DIFESA PERSONALE
Sono numerose le persone che si avvicinano alla pratica del Karate per acquisire
“tecniche micidiali”, da riutilizzare in occasioni di pericolo, in cui è messa a repentaglio
l’incolumità personale o dei propri cari.
In realtà l’ambito di applicazione del Karate nel contesto della protezione personale si
limita essenzialmente a situazioni di prevenzione e di gestione dello stress da confronto.
Infatti, in casi in cui la minaccia superi i limiti di una aggressione a mani nude e ci si trovi
pertanto nella condizione di minaccia a “mano armata” o effettuata da più persone, l’uso
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della forza da parte dell’aggredito non sempre si rivela l’opzione migliore. Nelle occasioni
di difesa personale, infatti, oltre ad un preparazione tecnica efficace ciò che fa veramente
la differenza è la capacità del singolo individuo di gestire lo stato di eccezionale stress
emotivo che caratterizza le occasioni in cui è messa in discuzzione la nostra incolumità.
Proviamo a chiederci cosa accade in un momento di così alta tensione.
Si riesce ad utilizzare al meglio le risorse umane o, nei primi momenti, quelli decisivi per la
risoluzione del conflitto cruento, si rimane interdetti e storditi dalla paura o addirittura non
ci si riesce a muovere affatto?
La paura e paralisi fisico-psichica sono fattori comuni a tutti gli esseri umani, che siano
impavidi combattenti o normali “cittadini” di Milano. Tutti abbiamo paura davanti a un
confronto quando lo riconosciamo pericoloso per la nostra incolumità (pertanto lo stesso
vale per l’aggressore, qualora si sentisse spiazzato o minacciato a seguito di una nostra
reazione improvvisa). In un confronto del genere, ciò che fa la differenza tra un individuo e
l’altro non sono le caratteristiche fisiche e la preparazione tecnica dei contendenti, ma la
capacità psicofisica di ognuno di loro a gestire una condizione di forte stress da confronto.
Di questa inevitabile e imprescindibile interazione fra corpo e mente, che si realizza ogni
volta ci troviamo in una condizione di conflitto, sia essa solo di carattere psicologico, o
fisica, in palestra come nella vita di tutti i giorni, dobbiamo esserne ben consapevoli.
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LA PSICOLOGIA DEL CONFRONTO
È un settore della psicologia che analizza le diverse modalità con cui le persone
reagiscono nelle occasioni di confronto, sia esso fisico o psichico.
L’applicazione di essa nel Karate è finalizzata a migliorare la capacità di gestire le proprie
difficoltà comportamentali e ampliarne le qualità.
PRIMO STEP: LA CHIAREZZA
Ancora una volta la differenza tra colui che studia Karate-do, approfondendone pertanto la
dimensione psichica e chi impara solo una sequenza di tecniche, sta nella volontà di
ognuno di conoscersi e mettersi in discussione confrontandosi con i momenti salienti della
vita.
Esiste per molti una forte resistenza a contattare la propria parte emotiva, al punto di
considerare accettabile il riconoscere una propria deficienza di carattere fisico-tecnico, ma
inaccettabile il riconoscere le proprie difficoltà psichiche.
SECONDO STEP: “EFFETTO FREDDO”
Fare il bagno in un fiume con acqua freddissima fa paralizzare le gambe, si perde la
sensibilità in breve tempo e le stesse sensazioni inondano tutto il corpo. Il respiro diventa
sottile, cambia l’espressione del viso.
Quando il corpo umano è soggetto a un improvviso abbassamento della temperatura
accade una inevitabile sequenza di reazioni fisiche: il sangue si ritira al centro del corpo
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(vasocostrizione periferica), si perde la sensibilità degli arti, il tempo di reazione è
rallentato, la coordinazione è compromessa e la capacità di pensare è offuscata.
In una azione di combattimento reale, il nostro psicosoma (l’integrazione fra corpo e
mente) può sperimentare una condizione stressante pari a quella di un fiunme ghiacciato:
la destrezza e la pripria capacità di movimento cede il passo ad una coordinazione motoria
grossolana, il respiro diventa sottile e superficiale, mentre il tempo di reazione si dilata.
Per simulare questo stato di stress non è necessario niente di più di una doccia ghiacciata!
In seguito a ciò, si immagina che l’acqua fredda defluisca dal proprio corpo. Lo stato di
shock è passato e si recuperano tutte le funzioni necessarie alle proprie azioni.
Dopo tale esperienza non si è certo imparato a gestire i sintomi da stress da confronto, ma
sicuramente si diventa più consapevoli di cosa ci accade “dentro” quando siamo in una
situazione ad alta tensione.
Questo è uno dei primi passaggi per approfondire la psicologia del confronto: acquisire
consapevolezza di quali reazioni psicosomatiche ognuno di noi utilizza nel combattimento.
Alcuni Gruppi delle Forze Speciali delle forze Armate brasiliane prevedono l’immersione
degli allievi nell’oceano ghiacciato e il loro allenamento a reagire in tale situazione. I
risultati di questo addestramento hanno evidenziato negli allievi un aumento della
determinazione e della capacità di gestione delle proprie riserve energetiche.
E quante volte il nostro maestro Palandri ci ha fatto correre a piedi nudi nella neve durante
gli stage invernali a Livigno. Avevamo 12-15 anni e nessuno di noi si è mai ammalato,
anzi, dopo eravamo esaltatissimi, carichi di una strana energia (che all’epoca non
potevamo comprendere) che ci esaltava per tutto il seguente allenamento.
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Oppure durante gli stage al mare, inverno o primavera che si trattasse, caldo o freddo che
facesse, i maestri Palandri e Julitta mai ci facevano mancare una parte di allenamento
direttamente in acqua…mai una polmonite ma sempre tecniche ancora più cariche di
energia!
Ma se ti fermi a sentire il freddo e non vai oltre, è la fine, ti paralizzi.
TERZO STEP: “LA FATICA”
È un altro fattore determinante nella pratica del Karate. Secondo l’ottica della psicologia
del confronto, quando ci si sente molto stanchi, anche l’azione più semplice sembra
complessa da realizzare. Durante il combattimento la stanchezza sopraggiunge molto
velocemente, determinando uno stato psicofisico che in alcuni casi può diventare difficile
da gestire. I sintomi della fatica, infatti, sono ulteriormente ampliati quando si acutizza su
un atleta già provato dalla violenza dei sintomi dello stress da combattimento.
La fatica fisica, soprattutto in una cultura dove è un fenomento quasi definitivamente
debellato, psicologicamente ed emotivamente, è vissuta da molti come condizione
negativa, nociva e quindi da evitare (in alcune persone è addirittura insopportabile). In
effetti, ricerche scientifiche hanno dimostrato che sootoponendo un individuo ai massimi
livelli di stanchezza che un corpo può tollerare (deprivazione del sonno), si determinano
una serie di effetti nocivi non solo sul fisico, ma anche allucinazioni e disturbi d’ordine
mentale.
È anche vero che, avendo eliminato dalla nostra vita quotidiana ogni forma di fatica fisica,
ci ritroviamo spesso incapaci di tollerare il disagio provocato dalle inevitabili frustrazioni
quotidiane e dalla resistenza necessaria per conseguire una qualsiasi meta.
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L’addestramento psicofisico, finalizzato a tollerare i disagi della fatica e rimanere funzionali
in momenti di grande stress, è considerato un elemento determinante sia nella formazione
militare, sia in quella marziale.
L’addestramento dei Corpi Speciali israeliani prevede una deprivazione del sonno
procurata con sveglie frequenti nel corso di una stessa notte, riducendo il tempo di riposo
dei loro allievi a tre ore per notte.
E ancora una volta i nostri maestri Palandri e Julitta sono così “avanti” che pur non
essendo militari in corpo a un esercito, ci fanno partecipare da più di dieci anni ai mitici
“stage notturni”: ci si chiude in palestra per un giorno e ci si allena anche di notte, ogni due
ore di sonno si viene svegliati non tramite bacetti sulle guance ma con piatti e campanacci
“da mucca” agitati vicino alle orecchie, e in pochi secondi ci si deve vestire e inquadrare
per ripartire con l’allenamento: avere buona coordinazione e prontezza di riflessi in queste
situazioni limite è quasi impossibile, ma è proprio in quelle circostanze che ci si impara a
conoscere ancor più in profondità per superare anche questo limite, e trovare l’energia
necessaria da qualche altra parte dentro di noi!
Forti incrementi di fatica possono rompere le barriere psichiche difensive e scatenare
inaspettate reazioni emotive. Solo alla fine si comprende l’importanza di avere imparato a
non sprofondare e annichilirsi di fronte ai propri limiti, ma a porsi sempre una meta e
perseguirla utilizzando a pieno tutte le proprie risorse psicofisiche.
Solo così facendo si possono affrontare fino alla fine tutte le difficoltà di un confronto
cruento.
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QUARTO STEP: “FAR FUNZIONARE LA TESTA”
Distrazioni, confusione e stimoli provenienti dall’esterno contribuiscono ad ampliare la
gamma di interferenze presenti in una situazione di conflitto.
La quiete e il “silenzio misctico” di un dojo dove due karateka si confrontano è ben lontano
dalla realtà di un confronto violento che può accadere nella vita di tutti i giorni o negli
eventi agonistici di una gara di Karate. Forti rumori improvvisi e un alto livello di disturbo
acustico aumentano notevolmente lo stato di eccitazione psicofisica e i sintomi di stress.
Quando l’individuo, distratto dai rumori esterni, perde il controllo del proprio stato di
eccitazione, perde anche il contatto consapevole e il controllo tanto della propria realtà
interna quanto di quella esterna.
Per gestire adeguatamente il proprio stato di eccitazione, recenti studi sulla psicologia del
confronto hanno evidenziato la necessità di allenare l’atleta seguendo una serie di
passaggi fondamentali per ottenere una capacità di attenzione e controllo di se stessi e
della realtà esterna. Uno di questi esercizi consiste nell’invitare alcuni atleti ad eseguire
kumite e, durante lo svolgimento, senza preavviso vengono separate le coppie
interrompendo il lavoro e separando le coppie in due gruppi. L’interruzione e la
separazione improvvisa è finalizzata a verificare quanto, durante il combattimento, ogni
atleta fosse presente con chiara consapevolezza a se stesso e alle azioni del proprio
avversario. Per verificare ciò si chiede chiede a ogni praticante di descrivere fisicamente il
proprio avversario: frequentemente è stato notato che chi durante il combattimento era
“travolto” dalla propria eccitazione, non era capace di vedere con chiarezza né se stesso
né chi gli stava di fronte. Attraverso tale verifica si può constatare quanto durante il
confronto si possa rimanere soffocati dalle proprie reazioni e come ciò ci renda poco
attenti all’avversario.
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LA STIMA DI SE STESSI
Qualunque si al’occasione di scontro in cui ci troviamo, la prima cosa con cui dobbiamo
confrontarci è l’immagine che abbiamo di noi stessi: ci sentiamo perdenti e inadeguati
oppure ci sentiamo vincenti, capaci di andare verso l’alto e affermare noi stessi?
La stima che abbiamo di noi stessi e l’allenamento che abbiamo, nel confrontarci con un
avversario in situazioni di stress, sono elementi di carattere psicologico determinanti,
perché la componente emotiva ci fornisce la “GRINTA NECESSARIA”, ma il linguaggio del
nostro corpo renderà esplicita all’avversario la nostra condizione sia essa perdente o
vincente. In questi casi di “alta tensione” è impossibile fingere, assumendo un
atteggiamento da leoni pur sentendosi una pecora, poiché tale gioco durerà ben poco e
sarà scoperto appena la situazione di stress aumenterà.
L’allenamento di un atteggiamento comportamentale adeguato in sintonia con la tecnica,
ossia, quando si può verificare la diversità di “soddisfazione psicofisica” tra un colpo
portato solo con il corpo e uno portato con la mente e il corpo in sincronia, porta ad
accumulare nel corpo una “memoria positiva”, relativa alla stima di sé, creando una
maggiore consapevolezza e benevolenza delle proprie qualità, quindi una spinta
propulsiva a superare i propri limiti.
LA DETERMINAZIONE
Possiamo studiare tecniche invincibili per anni, ma sarà sempre la nostra determinazione
psichica a condizionare la nostra risposta allo stress.
Imparare a riconoscere e poi utilizzare al meglio le proprie condizioni psicofisiche
favorevoli a mantenere la propria integrità.
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L’esempio per capire queste parole è il seguente: immaginiamo di “ascoltarci” quando si
accorgiamo che qualcuno sta molestando i nostri figli e ci scagliamo contro l’aggressore
per proteggere i piccoli; poi consideriamo sesiamo in grado di ricreare le stesse condizioni
psicofisiche quando si deve salvaguardare se stessi. Soprattutto nelle donne, non può
essere che evidente una profonda differenza di reazione tra la spinta istintiva utilizzata per
salvare la prole e l’inibizione e l’incapacità di salvare se stessi.
Il primo movimento di difesa deve venire dall’interno di noi stessi e trovare nel corpo una
adeguata risposta muscolare che consenta l’espressione di una azione soddisfacente.
Per ottenere ciò è necessario che ci sia armonia di espressione tra stato fisico e mentale,
perché se uno dei due è bloccato da tensioni muscolari o inibizioni psicologiche…
LA PAURA
La paura è una risposta naturale e funzionale ad una situazione che viene percepita come
pericolosa.
Quando abbiamo paura il nostro cervello attiva un piano di reazione che si snoda dal
combattimento alla fuga. L’acutizzarsi di tale reazione promuove l’aunemto di produzione
di adrenalina, condizione di forte eccitazione da sfr4uttare interamente in positivo,
imparando a prendere decisioni funzionali nei momenti di massima tensione.
Quando invece l’aumento dello stato di eccitazione raggiunge livelli massimali e
incontrollabili, rimaniamo bloccati e impietriti dalla paura, incapaci di alcuna azione utile
per se stessi.
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Il respiro è bloccato in gola, l’energia è interamente relegata nelle zone alte del corpo
lasciando la periferia svuotata da qualunque capacità reattiva (le cosiddette ”gambe
molli”). In questo stato psicofisico si perde interamente il radicamento in se stessi e nella
realtà, non si è capaci di valutare adeguatamente l’avversario, e tanto meno di utilizzare le
prioprie risorse.
L’allenamento psicologico, mediato da lavori sul corpo, per gestire e riequilibrare questi
stati di ternsione, ci consente di imparare a gestire attraverso il nostro corpo i nostri stati
emotivi.
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I BAMBINI E IL KARATE
Sin dai primi anni di scolarizzazione fra bambini si scatenano zuffe o piccoli combattimenti,
che possiamo decifrare come manifestazioni spontanee della volontà di appropriarsi di un
oggetto o di un territorio e di imporre il proprio punto di vista. Questi comportamenti sono
molto spesso il solo modo (certamente arcaico) che il bambino riesce a trovare per
risolvere i propri conflitti.
Spesso tali manifestazioni sono contrastate dai genitori o dagli educatori in genere,
provocando così nel bambino un’inibizione nelle sue spontanee, anche se ancora
maldestre, capacità di confrontarsi con gli altri, di affermare le proprie idee e di trovare il
proprio modo per risolvere i problemi.
Sarebbe allora opportuno riconsiderare tali manifestazioni spontanee e decifrarle come
risultato di molteplici reazioni che si manifestano nel bambino e valutabili come un suo
modo di comunicare ed esprimersi. Senza dimenticare che la coscienza del pericolo che
l’atto di violenza comporta per se stessi ha un fine implicito di regolare i rapporti tra
individui. Infatti per proteggersi ognuno dovrà trovare (e in fretta) risposte alle aggressioni
cui è fatto oggetto. Siano esse la fuga, la violenza, oppure negoziati e compromessi,
queste risposte dovranno comunque rivelarsi funzionali, per evitare di trovarsi in maggiori
difficoltà.
Ma si cresce e si diventa adulti “civilizzati” se la valutazione del “pericolo” procede di pari
passo alla valutazione della pericolosità della propria violenza e si comprende che ad un
proprio gesto violento ne conseguirà un altro parimenti violento dell’avversario; questo nel
piccolo consentirà di scoprire che ci sono dei limiti e come tali vanno rispettati.
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Questa forma di regolamentazione spontanea nei rapporti aggressivi tra bambini, sarà
tanti più efficace quanto più si affinerà la percezione delle conseguenze della violenza
stessa e del pericolo che essa può comportare per se stessi e per l’altro.
BLOCCHI DELL’AGGRESSIVITA’
 Paura di farsi male
 Paura di uscire dai propri confini
 Paura di invadere i confini dell’altro
 Blocco culturale delle donne
Ma come molti altri comportamenti l’aggessività è acquisita e sviluppata per emulazione: il
comportamento violento di bande di adolescenti offre modelli da imitare per i più giovani.
La motivazione di questi ragazzi è il forte bisogno di trovare una propria identità attraverso
l’appartenenza ad un gruppo, così accettano di adeguarsi a comportamenti che in realtà
non hanno regole costruttive e funzionali per l’individuo stesso, mancano di
riconoscimento e rispetto dell’altro.
Se questi stessi adolescenti piuttosto che disperdere la propria spinta aggressiva in
comportamenti distruttivi, fossero stati addestrati a lotta e karate, imparando da queste il
RISPETTO DELLE REGOLE, LA RICERCA DI UN COMPORTAMENTO CREATIVO PER
SE STESSI E RISPETTOSO PER L’AVVERSARIO E LA RELATIVITA’ DEL VALORE
DELLA SCONFITTA AL PARI DI QUELLO DELLA VITTORIA, forse non sarebbero
divenuti così fragili e facilmente condizionabili.
Nei bambini è naturale la voglia di aggredire: essi imparano che alcune forme di
prepotenza permettono loro di controllare risorse come i giocattoli o l’attenzione dei
genitori.
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L’aggressività infatti è ben diversa dalla distruttività, perché è soprattutto spirito di
iniziativa, energia, vivacità.
Prendiamo come punto di partenza il termine “energia” per spiegare il modello
comportamentale dell’atleta che vive la propria aggressività come spirito interiore e che
lotta con se stesso per migliorare i propri limiti, traendone soddisfazioni personali in alcuni
casi così intense da dar senso alla vita. Il Karate, in questa dimensione di conquista, di
lento apprendimento, diventa espressione di emozioni profonde e intime.
LA FUNZIONE PSICOLOGICA DELLA “LOTTA”
Quante volte da bambini abbiamo detto “Facciamo la lotta!”: nel bambino non è utilizzata
solo come comportamento aggressivo, ma anche come azione ludica, di ricerca del
piacere attraverso l’uso delle braccia, delle mani e poi di tutto il corpo, imparando al tempo
stesso i due passaggi fondamentali dell’attaccare e difendersi.
Facendo “la lotta” il bambino scopre come usare il proprio corpo, dalle gambe che
forniscono l’equilibrio, alle braccia che afferrano e respingono, in integrazione con i propri
vissuti emotivi che vanno dalla sicurezza in se stessi alla capacità di sopportare la
“pressione” dell’avversario.
Eccolo il senso della lotta:
1. Combattere significa in primo luogo “agire”, non casualmente, ma adattandosi alle
condizioni sempre diverse del confronto (come accade nella vita di tutti i giorni sia
fisico che verbale);
2. Lottare significa anche imparare a sentire, riconoscere e riutilizzare in modo
funzionale per se stessi tutte quelle sensazioni fisiche e mentali che caratterizzano
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“la paura”. L’attivazione delle nostre risorse nei casi di paura ci consente di
scegliere fra tre soluzioni di comportamento:
a. La fuga
b. Agire e lottare
c. Bloccarsi e rimanere immobilizzati.
3. Lottare vuol dire anche osare il “corpo a corpo”. Nella nostra società basata sulla
comunicazione verbale e audiovisiva siamo sempre più portati ad eliminare i
contatti fisici.
4. Lottare dunque comporta un costante e produttivo “confronto con se stessi”, con le
proprie capacità fisiche e mentali acquisite. Un lavoro di verifica delle proprie qualità
non può che ampliare la stima in se stessi, pur mantenendo un costante
radicamento con la realtà. Infatti il confronto con l’altro non consente facili
fantasticherie di prodezze e capacità poiché la realtà è subito toccata con mano: IO
SONO SEMPLICEMENTE QUELLO CHE SONO.
IL KARATE EDUCATIVO: LE REGOLE
Per molto tempo è stato visto come attività pericolosa, una esaltazione della violenza che
non può certo insegnare o essere propedeutica alla vita sociale.
Invece attraverso lo studio del Karate impariamo ad esprimerci in maniera chiara e diretta,
a dare il giusto valore al “proprio gesto aggressivo” e ad agire in modo appropriato rispetto
alle situazioni che ci circondano.
Ma i parametri fondamentali per una “sopravvivenza civile” sono LE REGOLE, da scoprire,
conoscere ed adeguarcisi.
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1. Le regole organizzano il confronto, consentendo di soddisfare il
proprio bisogno di azione;
2. Le regole organizzano l’attività fissando limiti di tempo, spazio e
comportamento, consentendo l’uso dell’aggressività in condizioni
accettabili da tutti;
3. Le regole impongono il controllo su se stessi, addestrando alla
padronanza delle proprie azioni e delle emozioni;
4. Le regole, infine, ci consentono di incontrare l’altro, imparando a
riconoscerlo come avversario-compagno: il saluto che precede il
confronto sottolinea il riconoscimento dell’avversario in quanto
individuo da rispettare).
.
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CAPITOLO 4°
LA TRADIZIONE
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Il popolo del Karate, in Occidente, è ormai vasto e variegato. Le motivazioni che spingono
le persone alla pratica marziale sono diverse: quando è legata alla ricerca delle qualità
della tradizione marziale vengono privilegiati e ricercati soprattutto l’aspetto filosofico,
culturale e spirituale.
La qualità implicita del Karate, a differenza dello sport, sta nel fatto che non è solo un
allenamento del corpo ma contemporaneamente un allenamento della mente, finalizzato
non necessariamente ad una meta competitiva, ma piuttosto allo svolgimento di un
percorso di formazione e crescita dell’ individuo. Le arti marziali inquadrate secondo quest’
ottica, come percorso di formazione e crescita psicofisica, acquistano la valenza di un vero
e proprio microsistema culturale ben delineato, e protetto da quanto avviene fuori delle
mura dell’ ambiente di pratica.
Per alcuni praticanti, il sistema marziale prescelto, le sue regole, le persone che lo
frequentano, diventano un vero e proprio sistema di vita entro il quale si sentono accolti e
contenuti.
La pratica marziale, centrata sul sistema tradizionale, crea dunque un sistema ben protetto
e sicuro, all’ interno del quale i praticanti possono dedicarsi sia alla formazione fisica che a
quella culturale e psicologica, trovando nella palestra che li acoglie una culla familiare
entro la quale potersi sentire sicuri e soddisfatti.
Questo sistema di formazione marziale, ovviamente, offre ai praticanti numerosi vantaggi
e benefici, ma è necessario puntualizzare una ulteriore caratteristica che va valutata con
molta attenzione: spesso all’ interno di tali contesti alcuni praticanti trovano il luogo adatto
dove soddisfare, più o meno consapevolmente, il loro umano e insoddisfatto bisogno di
sentirsi integrati in un sistema ben definito. Tale bisogno di integrazione, nella società
attuale, per alcuni di noi viene meno, a causa di un sistema culturale saturo di valori legati
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alla produttività e forse un po’ scarno di valori connessi alla convivenza umana.
Trovandosi improvvisamente sprovvisti di supporti emotivi come una solida famiglia o un
sistema di amici o di coppia che siano soddisfacenti, trovano la soluzione a tale problema
reinvestendo la propria spontanea necessità di sentirsi parte integrante di un gruppo,
facendo della famiglia marziale la propria famiglia.
Tutto ciò, ovviamente, è funzionale per l’ individuo solo se attuato con le debite misure.
Il marzialista che infatti grazie alla pratica marziale trae giovamento nel sentirsi parte di un
gruppo specifico di persone, legate tra loro da un fine comune, che interagiscono secondo
regole e parametri ben precisi di comportamento, saranno realmente e in modo sano
beneficiari di tale sistema, finchè si mantiene una visione chiara che il “Sistema marziale”
non ha valore assoluto, ma va reinserito nel sistema culturale in cui si trova.
Le arti marziali solitamente sono identificate dal grande pubblico con una “serie di colpi più
o meno micidiali”. Nella realtà della pratica, per rendere ogni tecnica realmente efficace e
potente, è necessario preparare il fisico con uno specifico allenamento finalizzato agli
sport da combattimento.
La preparazione atletica che supporta la pratica marziale, prevede lavori per il
potenziamento muscolare, la coordinazione motoria, la scioltezza delle articolazioni e la
resistenza aerobica. La completezza di un allenamento di questo tipo, sapientemente
dosato su basi scientifiche, consente una RIDEFINIZIONE CINESTESICA E TONICOMUSCOLARE dell’ intero corpo. Tale rinnovamento della struttura corporea procura nell’
atleta dei benefici evidenti non solo dal punto di vista estetico, ma soprattutto dal punto di
vista della percezione corporea di se stesso. La qualità della percezione del proprio corpo,
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rinnovato e tonificato muscolarmente, coordinato nel movimento e rilassato nelle
articolazioni, migliora la sicurezza in se stessi e il piacere di stare nel proprio corpo.
LA FORMAZIONE IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
Il Karate è oramai diventato un fenomeno ad ampia diffusione, oggetto di studio oltre che
per le sue qualità intrinseche, anche per la particolare trasformazione che ha subito nei
suoi principi di base, nel passaggio tra Oriente ed Occidente.
IN ORIENTE:
 il maestro sceglieva l’alunno tra persone che riteneva all’altezza,
 il maestro era riconosciuto come tale non solo per la conoscenza della tecnica, ma
anche per il suo valore come persona e capacità di formatore,
 il maestro insegnava la tecnica solo in parte, secondo il metodo del “non insegnare”
e della “continua ripetizione fino alla nausea”, lasciando all’allievo il compito si
sviluppare l’astuzia, la curiosità e la sensibilità che gli consentano di impadronirsi
della tecnica,
 la formazione prevedeva un processo di apprendimento senza limiti di tempo e
dedizione totale,
 la formazione marziale non si limitava alla acquisizione della tecnica, ma
comprendeva la formazione religiosa, storica e culturale dell’individuo,
 non esistevano metodi di classificazione gerarchica, cinture o gradi. Era importante
il processo di formazione in se stesso e non la sua classificazione,
 non esistevano “gare, regolamenti o arbitri”, creati successivamente e col solo
scopo di “sdoganare” il karate al di fuori di Okinawa e renderlo appetibile al resto
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del mondo, ma esistevano le sfide fra Clan, le lotte per mantenere o riconquistare il
rispetto e l’onore, la difesa della propria vita durante le aggressioni,
 l’elite giapponese difficilmente pratica oggi arti marziali, preferendo attività quali
golf, baseball, football, tennis.
IN OCCIDENTE:
 l’allievo sceglie la palestra, spesso sotto casa per comodità, piuttosto che un
maestro per le sue qualità,
 un insegnante si definisce tale o per i gradi e diplomi conseguiti, o per le sue qualità
di combattente,
 spesso vengono insegnate tecniche più in termini di informazione che di
formazione,
 il tempo a disposizione per la formazione è breve, con “effetto fast-food”,
 l’allievo paga per acquistare un prodotto, e ovviamente vuole una “ricevuta
materializzata” in cintura o grado,
 l’apprendimento marziale a volte si limita all’apprendimento di tecniche e kata
secondo i principi del “collezionismo”: più kata e tecniche conosco più sono bravo,
 cinture, gradi e gare sono fondamentali: questo è il sistema formulato dalle nostre
esigenze consumistiche e di mercato occidentale. Si paga per imparare una
tecnica, si vuole un certificato che lo attesti. Il sistema spirituale e filosofico, o il
processo di formazione, molto più complesso della parte fisica ed esteriore che il
karate può offrire, passa in secondo piano,
 l’arte marziale è diventata di moda. È praticata da professionisti e manager in
carriera, è nato il “manager guerriero che cammina sui carboni ardenti”.
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Le differenze fin qui evidenziate sono reali e apparentemente potrebbero sembrare la
solita esaltazione del modo di fare orientale, col fascino dell’esotico e la denigrazione di
ciò che accade qui in occidente.
Ma il fine di questa nostra analisi è diverso:
1. Vorremmo riconoscere alla metodologia orientale di formazione nelle arti
marziali le sue peculiarità, non necessariamente perfette ma sicuramente consone
alla loro cultura, PER SFRUTTARNE SOLO I PRINCIPI BASE CHE FORNISCONO
I FONDAMENTI DELL’ARTE MARZIALE.
2. Vorremmo rivalutare e utilizzare le scoperte del mondo occidentale, come i
recenti studi sulle dinamiche di apprendimento, sulla formazione degli insegnanti, la
psicologia, la biomeccanica dell’apparato locomotore, per offrire alle arti marziali la
possibilità di riacquistare la dignità che meritano ma in un contesto e soprattutto in
una civiltà diverse da quella in cui sono nate.
3. Oriente o occidente grazie alla lungimirante visione dei nostri maestri Palandri e
Julitta finalmente si avvicinano, grazie al loro non essersi ancora stancati di
scoprire, ricercare e mettersi “in discussione”, rivolgendosi direttamente alle radici
giapponesi per quanto riguarda la Tradizione, approfondendo qui in occidente la
parte più scientifica. Ci hanno cresciuto mostrandoci nel corso degli anni i punti di
integrazione tra tradizione di una arte marziale giapponese e metodologia di
crescita e insegnamento aggiornata secondo le scienze occidentali: ci stanno
tramandando un alternativo “olismo” del karate, che ci stimola ad ulteriori studi e
approfondimenti personali.
4. Qualsiasi sistema di insegnamento e pratica, ha come punti imprescindibili per la
struttura marziale i concetti di “rispetto”, “disciplina” ed “etichetta”. Il potere
straordinario del karate e di un sapiente insegnante sono quelli di trasformare il
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rispetto per la disciplina in una espressione gradevole della lezione stessa, piuttosto
che ridurre la disciplina ad una sterile esecuzione di un regime militare. La
disciplina ha il potere di farci sentire velocemente inseriti ed integrati in un sistema,
ma contemporaneamente responsabili del ruolo acquisito.
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CONCLUSIONI E RINGRAZIAMENTI
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Nella vita di tutti i giorni, questo significa che…
Il praticante di Arti Marziali è “sulla via della crescita” e della consapevolezza di se stesso,
del valore della sua vita e di quella degli altri.
Attraverso le Arti Marziali, l’individuo non soltanto sviluppa la capacità di combattere ma
anche e soprattutto quella di comprendere che la vera questione non è l’ostacolo ad
essere più forte dell’individuo ma quest’ultimo a dover trovare il coraggio di sconfiggere la
sua stessa paura, di far defluire la sua rabbia e le sue frustrazioni in modo armonico, per
arrivare a conquistare uno stato di beatitudine interiore.
Le Arti Marziali sono state diffuse per offrire all’uomo sicurezza e fiducia in se stesso, per
fargli riconoscere le manifestazioni della propria paura, rabbia e frustrazioni.
Saper riconoscere le “qualità dell’avversario” è alla base della capacità di confrontarsi.
La volontà di confrontarsi è già volontà di vincere.
Rivolgiamo uno speciale ringraziamento ai maestri che nel corso degli anni ci hanno
“cresciuto” come Karateka, mentre “avvolgiamo” col nostro più caloroso abbraccio i
Maestri che nel corso degli anni, oltre alla tecnica, ci hanno dato supporto e contribuito alla
nostra personale crescita, non solo come atleti, ma come uomini: credendo in noi,
sopportando le nostre “particolari personalità”, altre volte “raddrizzandoci ben bene”
contribuendo non poco a farci diventare adulti.
Un “grazie” anche alle nostre mogli e/o compagne, che insieme ai nostri figli sopportano
da una vita le nostre ore di assenza per la “giusta causa del Karate”!
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NASCIAMO PURI E PERFETTI:
POI PASSIAMO LA PRIMA PARTE DELLA NOSTRA VITA A RIEMPIRCI DI DIFETTI
E LA SECONDA A TENTARE DI CORREGGERLI.
L’essenza del vero Karate-do passa attraverso la ricerca della “purezza dello spirito e del
cuore”, una strada senza fine per riportarci all’inizio, alla purezza di quando eravamo
piccoli: lo scrittore GIOVANNI PASCOLI affermava che “dentro ogni uomo c’è e resterà
sempre una parte di bambino puro, vero, istintivo e privo di cattiveria (il cosiddetto
“FANCIULLINO”):
CON
UNA
SCORCIATOIA
NOI
LO
ABBIAMO
RITROVATO,
FUNZIONA ED IN NOI E’ PARTICOLARMENTE EVIDENTE!
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