Natale di sangue - Istituto per la storia della Resistenza

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Natale di sangue - Istituto per la storia della Resistenza
Natale di sangue
Mi agitavo per raccogliere le idee, le incertezze, ed i patemi miei ma anche di una moltitudine di
compaesani che in quei giorni vagavano per Borgosesia senza sapere che via prendere e cosa serbava il
futuro. Del resto un giovane ex parrucchiere, ex gagà, ex arbitro di calcio, un po’ ciarliere e un po’ discolo,
non doveva certo rappresentare un grande interesse per i rivoluzionari che si accingevano ad un lungo
periodo di clandestinità. In un esercito regolare si entra con le formalità dell’arruolamento. Partigiani si
diventa a volte invece un po’ per volta. Si stringono amicizie, si comincia ad esporsi e ad un certo punto ci si
trova sulla barricata. Sta di fatto che in uno di quei giorni, mentre mi trovavo fuori del mio negozio, mi si
avvicinò uno sconosciuto piuttosto giovane e vestito abbastanza bene. Incominciò lui il discorso: «Ciao. So
chi sei. Mi hanno parlato di te. Sto cercando di contattare persone fidate per parlare di questo momento
così difficile. Sarà bene che ci vediamo. Sii cauto e sta attento con chi parli». E se ne andò. Era Eraldo
Gastone divenuto poi noto con il nome di battaglia di Ciro, un ex ufficiale d’aviazione che a Novara aveva
lasciato il suo reparto e che era finito a Borgosesia con un automezzo carico di materiale militare.
Il 29 ottobre comparve nel mio negozio Ferdinando Zampieri. Aveva con sé un grosso sacco e
tranquillamente mi disse che si trattava di armi che dovevo custodire fino alla sera. Avevo saputo che
Moscatelli era stato arrestato e condotto alla caserma dei carabinieri. Ora apprendevo che si stava
predisponendo l’attacco alla caserma e la liberazione di Moscatelli. Accettai e da quel momento,
definitivamente compromettendomi, entrai così a far parte della resistenza armata.
Sistemai le armi nel retro della bottega e attesi mentre calava su Borgosesia un’atmosfera di tensione che
faceva presagire eventi drammatici. Zampieri ricomparve nel pomeriggio; entrò nel mio negozio e si fece
dare le armi mentre alcuni suoi compagni attendevano fuori. Poche ore dopo Moscatelli venne liberato ed
incominciò in Valsesia la guerriglia armata. Molti si erano già dati alla macchia. Io invece rimasi a casa,
accudendo al mio negozio e limitandomi a rimanere a contatto con gli altri amici tra i quali ricordo
soprattutto Bruno Lorenzetti, Enrico Casazza e Ferdinando Zampieri.
In quei giorni, com’è noto, si formò al Monte Briasco la prima formazione di Moscatelli. Io non feci parte di
quel primo gruppo. Nonostante tutto la vita continuava a Borgosesia abbastanza tranquillamente ma destò
grande scalpore la sparatoria di Varallo del 2 dicembre del 1943 nella quale si seppe che un fascista aveva
perso la vita. Continuavo in quei giorni ad aiutare i miei compagni di Pianezza ed altri sbandati, cercando di
mantenerli in contatto tra di loro. Cominciammo a vedere per Borgosesia qualche gruppo di partigiani
armati e saltuariamente vedevo anche passare Cino Moscatelli e qualche volta anche Ciro. Si giunse così
alla terribile alba del 21 dicembre del 1943. Alle sei del mattino il 63o battaglione “Tagliamento” della
Guardia Nazionale Repubblicana piombò su Borgosesia sbarrando tutte le strade di accesso e occupando la
città. Non sono mai stato un mattiniero ma quel giorno mi ero alzato prima per essere in negozio alle otto
dato che il periodo natalizio portava molto lavoro. Fu la mia fortuna; alle 8.30 già bussavano a casa mia i
militi della Tagliamento; erano tre o quattro soldati che chiesero di me a mia madre: «Abbiamo bisogno di
suo figlio...». Mia madre, senza comprendere la gravità del momento, disse che ero appena uscito per
andare a lavorare. Gli altri se ne andarono e mi cercarono poco dopo in negozio. Anche qui il mio lavorante
rispose che non mi aveva ancora visto. Nel frattempo ero arrivato sulla piazza che trovai deserta. Non vi era
nessuno. I fascisti erano per lo più raccolti in municipio ed io, senza nulla ancora sapere o avere visto, ero
passato spensieratamente davanti a loro che mi cercavano. In quel momento giravano inoltre per il paese
diverse pattuglie che stavano procedendo ai primi arresti. Nuovamente ebbi la fortuna di non imbattermi in
nessuna di esse. Sulla piazza mi venne incontro Cesare Leoni, cognato di Moscatelli, il quale mi disse che
Borgosesia era stata occupata dai fascisti. Sapeva che avevano cercato Cino e si era precipitato fuori di casa
appena in tempo dal momento che poco dopo anche i suoi familiari avevano ricevuto la sgradevole visita.
Era pallido e sconvolto e non sapeva cosa fare. Mi venne l’idea di portarlo a casa dell’amico Armando Petri,
lì vicino nel cortile del Caffè Bretagna.
Sistematolo ritornai nella strada; quivi altri amici, di cui non ricordo l’identità ma ai quali credo di dovere
proprio molto, mi avvertirono che anch’io ero ricercato, che già i militi erano stati a casa mia, e che gli stessi
avevano fermato alcuni dei passanti chiedendo se avevano visto: «il Burghin ... uno piccolo con un pastrano
e un cappello di pelliccia marrone». Ritornai immediatamente sui miei passi e mi rifugiai in casa Petri
insieme a Cesare Leoni.
Debbo fare a questo punto una considerazione. Era costume locale indossare per Natale l’abito più
elegante e nuovo. Giorni prima, cedendo alla mia debolezza di apparire un po’ eccentrico, mi ero fatto
confezionare un pastrano di pelliccia marrone e relativo copricapo dello stesso pelo.
Sempre per eccentricità avevo deciso di inaugurarlo non il giorno di Natale ma una decina di giorni prima.
Da ciò deduco che ai militi della Tagliamento (in possesso di questo particolare del mio vestiario) la
spifferata sul mio conto doveva essere fresca di non più di dieci giorni. Certamente qualcuno che mi voleva
bene mi stava spiando da diverso tempo. Come detto in quella tragica mattina mi rifugiai in casa dell’amico
Armando Petri. Oggi ricordando quelle drammatiche ore il pensiero che nel mio paese vivessero delatori ai
quali dovevo le mie disgrazie è sollevato dalla dimostrazione di solidarietà e di coraggio che ebbi da altri
amici. In quel momento non si era compreso ancora quanto fosse grave la situazione; ci fu purtroppo ben
chiara il giorno seguente. Comunque non potrò dimenticare mai il fatto che Armando Petri e sua moglie
non abbiano esitato ad accogliere in casa dei ricercati esponendosi così a gravissimi pericoli. Armando e la
moglie uscivano ogni tanto e rientrando portavano qualche notizia. Io e Cesare eravamo fortemente
inquieti tant’è che debbo dire che i militi della Tagliamento io non li ho mai visti, dato che per la paura non
osai nemmeno in quelle ore dare uno sguardo in strada dalle finestre. Apprendemmo dai Petri che diverse
persone erano state fermate e portate in municipio, che i fascisti erano violenti, che Borgosesia era piena di
armati, che per le strade non si vedeva più nessuno, che ad Agnona era morto Angelo Bertone in uno
scontro con i fascisti e che anche un milite era morto, che tutti avevano paura. Mi dissero anche che i militi
avevano detto a mia madre che avevo tre ore di tempo per presentarmi dopo di che avrebbero incendiato il
negozio. Intanto avevano perquisito la casa in cerca di documenti danneggiando l’alloggio e buttando tutto
sottosopra. Il terrore aumentava di ora in ora. Temendo che i fascisti venissero a cercarci anche dai Petri
avevamo, io e Cesare Leoni, adocchiato dietro la casa una via di eventuale possibile salvezza. Si sarebbe
trattato di portarsi su di un balcone e di là saltare sul terrazzo della vicina casa Veglia e poi calarsi nella
strada sottostante. Fortunatamente non successe nulla e di quelli che abitavano in quel caseggiato e che
pur sapevano della nostra presenza nessuno parlò. Anzi ricordo che il fiorista Belloni ci offerse in caso di
pericolo di nasconderci nella sua cantina sotto fiori e piante. Riuscimmo a mangiare qualcosa ma
trascorremmo la notte insonne con le orecchie tese ad ogni rumore. Da lontano giungevano rumori e spari.
Spuntò un’alba gelida. Armando uscì per tempo e rientrò subito dicendo che la situazione era gravissima.
Pareva che fossero stati arrestati anche Giuseppe Osella e Silvio Loss. Correva voce che in municipio
durante la notte si fossero svolti violenti interrogatori. Seppi anche che i fascisti avevano distrutto il mio
negozio. Poco prima erano stati nei due negozi vicini (quello degli Invernizzi di granaglie e quello
dell’arrotino Zandotti) chiedendo se potevano aprire il mio negozio passando dal cortile. Avuto risposta
negativa avevano sparato sulle serrature delle saracinesche e, penetrati nella bottega, avevano spaccato
tutto e poi dato fuoco.
Rimanemmo fermi e attoniti. Ogni tanto si sentivano colpi di arma da fuoco. Verso le undici del mattino
Armando uscì ancora e rientrò subito sconvolto. Disse che dieci persone erano state fucilate poco prima,
esattamente alle 10.15 contro un muro della chiesa di S. Antonio sulla piazza principale di Borgosesia. L’ora
che seguì fu una delle più lunghe delle mia vita. Era il vero terrore. Infine, dovevano ormai essere circa le
dodici, uscì la moglie di Armando. Ritornò subito dopo avvisandoci che la Tagliamento stava per lasciare
Borgosesia. Solo poco dopo fummo certi che non vi erano più fascisti a Borgosesia. Lasciammo i Petri
abbracciandoli e ringraziandoli. Cesare Leoni corse verso la sua casa e io corsi verso la mia sita in via Monte
Rosa poco prima di Cicciola; ero fortemente preoccupato per mia madre. Ricordo che non ebbi il coraggio
di passare sul luogo del massacro. Da lontano, correndo, diedi una rapida occhiata da quella parte. Vi erano
forse solo poche persone su quel tragico posto. Ancora meno sulle strade. Non volli nemmeno guardare il
mio negozio. Attraversai la piazza di corsa. Il freddo era pungente e il cielo nuvoloso. Aria di neve.
Borgosesia dava l’impressione di una città bastonata a morte. Sulle strade si vedeva lontano qualcuno che
correva a casa tenendosi lungo i muri. Tutte le finestre delle case erano chiuse. Silenzio. Corsi anch’io
voltandomi istintivamente ogni tanto indietro. Arrivando a casa trovai la madre e le sorelle piangenti. Mi
incitarono a fuggire da qualche parte temendo che da un momento all’altro potesse ritornare la
Tagliamento. Seppi poi che qualche partigiano tra cui l’australiano Frank erano già scesi a Borgosesia
rimanendo impressionati per quello che vedevano. Effettivamente non vi era tempo da perdere. Cambiai gli
abiti, presi la mia rivoltella, calzai scarponi da montagna, presi un po’ di viveri in un sacco, abbracciai
mamma e sorelle e mi diressi verso Varallo.
I miei familiari mi avevano consigliato di portarmi in Val Grande, a Failungo, presso una lontana parente. Mi
trovai a camminare da solo sulla strada per Varallo. Procedevo sulla strada deserta, voltandomi indietro
ogni tanto per inquietudine e d’altro canto nella speranza di trovare qualche mezzo di fortuna che mi
potesse trasportare. Fui fortunato: appena fuori Borgosesia riuscii a fermare un furgone. Potei salire e con
esso arrivai sino a Varallo. Ivi scesi e continuai nel cammino verso la valle. Giunsi così nei pressi della
Balangera prima di Vocca; il punto più pericoloso. Si sapeva infatti che vi era un posto di blocco tedesco.
Scorsi infatti da lontano due uomini in divisa. Piegai verso il fiume lasciando la strada e, anche favorito
dall’imbrunire, riuscii camminando lungo il greto a superare quell’abitato. Poco oltre ritornai sulla strada.
Passò un piccolo furgoncino. Lo fermai; al conducente chiesi un passaggio fino a Failungo, dicendo che ero
fuggito da Borgosesia a seguito di quanto era avvenuto. Si trattava di un valligiano di Campertogno che
molto gentilmente mi portò a destinazione.
Arrivai a casa della parente a Failungo. Le chiesi ospitalità e raccontai quanto avvenuto in mattinata a
Borgosesia e di cui ella aveva sentito solo qualche voce. La descrizione di quei fatti non ebbe per me una
piacevole conseguenza. La parente mi diede del cibo, che divorai avidamente essendo affamato, mi disse
che poteva ospitarmi per la notte, ma che all’indomani avrei dovuto cercare un’altra sistemazione perché
temeva di correre troppi pericoli. Mi consigliò di andare a Piode ove abitavano altri comuni parenti.
Mi alzai al mattino e ripresi la marcia verso l’alta valle. Sulle strade incontravo tranquilli montanari. Era
l’antivigilia di Natale, il ciclo era sereno, pochissima neve sulla strada e poca sui monti. Arrivai a Piode verso
le dieci del mattino. Fui accolto fraternamente da quei lontani parenti in una casa sita nel centro del piccolo
paese. Per me era incominciata la vita alla macchia.