1196 Questo romanzo è un`opera di fantasia. Qualsiasi

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1196 Questo romanzo è un`opera di fantasia. Qualsiasi
1196
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti storici, persone
o luoghi reali è usato in maniera fittizia. Altri nomi, personaggi, luoghi e
avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice, e qualunque analogia con
fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.
Titolo originale: Burying Water
Copyright © 2014 by Kathleen Tucker
First published by Atria Books, a division of Simon&Schuster, Inc.
All rights reserved, including the right to reproduce this book or portions thereof in
any form whatsoever
Traduzione dall'inglese di Federica Gianotti Tabarin
Prima edizione ebook: febbraio 2016
© 2016 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-9170-9
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
K.A. Tucker
99 giorni
Newton Compton editori
A Lia e Sadie
E la verità riaffiorò.
Come l’acqua, dalla terra.
Prologo
Jesse
Ora
Non può essere vero… Non può essere vero… Non può essere vero…
Le parole girano a vuoto nella mia testa come le ruote della mia Barracuda spinta
a tutta velocità la cui parte posteriore slitta e pattina sul brecciolino e sul ghiaccio.
È difficile controllare quest’auto anche quando le condizioni sono ottimali,
costruita com’è con il motore sul davanti e dotata di una potenza eccezionale. Mi
schianterò contro uno di questi dannati alberi se non vado più piano.
Spingo col piede sull’acceleratore.
Non posso rallentare adesso.
Almeno finché non saprò che Boone si è sbagliato riguardo a ciò che afferma di
aver origliato. Il suo russo è, nella migliore delle ipotesi, mediocre. Darei qualsiasi
cosa perché si sbagli su questo.
Mi si contrae lo stomaco mentre l’auto sbanda a un’altra curva, la forma conica
del Black Butte che si staglia come un’ombra mostruosa davanti a me nella luce
che precede l’alba. Le tracce di pneumatici coperte dalla neve, illuminate dai miei
fari potrebbero anche non essere quelle giuste, ma sono larghe come quelle della
Hummer di Viktor e, si può esser certi, sono le uniche lungo questa vecchia strada
sterrata deserta nel bosco. Nessuno ci viene a gennaio.
La fila di alberi che indica la fine della strada mi viene incontro prima di quanto
mi aspettassi. Schiaccio il freno, e faccio slittare di traverso l’auto verso il vecchio
totem. Scivola ancora quando spengo il rombo del motore, spalanco la portiera, e
salto fuori, e procedo a tentoni con la mia torcia. Per tre volte schiaccio con forza
l’interruttore con dita tremanti prima che la luce resti accesa.
Comincio a ispezionare il terreno. Il caos di segni lasciati da passi e da pneumatici
mi dice che qualcuno ha fatto inversione a U. Le impronte mi dicono che è scesa
più di una persona. E quando vedo il mozzicone di sigaretta consumata a metà con
quello strano alfabeto sul filtro, so che Boone non si era sbagliato.
«Alex!». Riecheggia la mia voce una volta… due… prima che l’immensa landa
desolata risucchi il mio urlo disperato. Puntando la torcia in modo convulso, le
nocche delle dita bianche per quanto la stringo forte, ispeziono la zona finché non
individuo le impronte che conducono fuori dal vecchio sentiero dentro al bosco.
Dita gelide si avviluppano attorno al mio cuore.
Lanciandomi di nuovo verso l’auto, agguanto sul sedile posteriore la coperta di
lana a quadri rossi e blu che lei ama così tanto. Mucchietti di neve ghiacciata si
infilano nei bordi laterali delle mie scarpe da ginnastica mentre seguo le tracce
oltre la fila degli alberi e mi inoltro nel campo gelato davanti a me, lo scorrere del
mio sangue negli orecchi è l’unico suono che percepisco.
L’unico segno di vita.
La paura allo stato puro mi anestetizza i sensi, l’inverno della costa nordoccidentale del Pacifico mi intorpidisce il corpo, ma mi sforzo di procedere perché
se…
Il fascio di luce punta una forma immobile che giace a faccia in giù nella neve.
Riconoscerei quel cappotto rosa e quei suoi capelli biondo platino ovunque; il
vestito blu coi lustrini che lei odia così tanto sembra un mucchio di zaffiri su una
tela bianca.
Mi si gela il cuore.
«Alex». Non è che un sussurro. Non sono in grado di fare di più, i polmoni non
me lo permettono. Corro, e incespico nei trenta centimetri di neve finché non cado
in ginocchio e procedo strisciando per avvicinarmi. Non sono più di tre metri di
distanza eppure sembrano chilometri.
Non si può fraintendere lo spruzzo rosso scuro che punteggia la neve attorno alla
sua testa. Né il fatto che la maggior parte dei suoi capelli adesso sono scuri e
arruffati. Né che le sue calze argentate sono strappate e macchiate di rosso, e che si
è formata una pozza di sangue laddove il vestito le copre appena le cosce.
Un’infinità di impronte sul terreno attorno a lei. Lui deve essere rimasto qui per un
po’.
So che ci sono regole da seguire, cose da fare per essere sicuri che non le provochi
ulteriori danni. Ma non ci bado perché l’agitazione che mi ha preso allo stomaco
mi dice che probabilmente non posso farle più male di quello che lui le ha già fatto.
Le prendo delicatamente la testa nell’incavo della mano mentre faccio scivolare
l’altra sotto la sua spalla. La rigiro.
Una doccia ghiacciata che mi fa restare senza fiato.
Non ho mai visto nessuno con un aspetto simile.
Sollevo il suo corpo inanimato tra le braccia, cullando quel viso un tempo così
bello che ho visto sotto ogni luce – dalla collera all’estasi e con tutte le sfumature
nel mezzo – e che invece adesso è irriconoscibile. Posandole sulla gola due dita
ricoperte di sangue, aspetto. Niente.
Una leggera pressione sul suo polso esanime. Niente.
Forse un battito c’è, ma è nascosto, mascherato dalle mie stesse pulsazioni.
Poi ancora, per il suo aspetto, è probabile che non sia così.
Uno… due… tre… fiocchi di neve soffici, tranquilli iniziano a svolazzare giù
dall’alto, dal cielo invisibile. Si compatteranno rapidamente e copriranno i segni
sul terreno, il sangue. Le prove. La coltre di madre natura stessa per nascondere la
sgradevole imperfezione nel suo giardino.
«Mi dispiace così tanto». Non cerco di trattenere le calde lacrime che mi scorrono
sulle guance e poi finiscono sulle sue labbra straziate – labbra alle quali ho rubato
un’infinità di baci, un tempo in cui ero troppo stupido per rendermi conto di quanto
veramente fosse pericoloso. È colpa mia. Lei mi aveva messo in guardia. Se solo
avessi ascoltato, se le fossi rimasto alla larga, se non le avessi detto come mi
sentivo…
… se non mi fossi così follemente innamorato di lei.
Mi piego per rubarle un bacio perfino in questo momento, il sapore metallico del
suo sangue che si mescola a quello salato delle mie lacrime. «Mi dispiace così
dannatamente. Non avrei dovuto neanche guardare dalla tua parte», mi scappa
detto tra i singhiozzi, mentre le metto addosso la coperta nella quale amava
avvolgersi.
Le sfugge un respiro quasi impercettibile. Più che altro una leggera brezza sulla
mia bocca.
Mi si congelano i polmoni, incollo gli occhi su di lei, ho paura di sperare.
«Alex?». È possibile?
Un attimo dopo, le sfugge un secondo respiro – un suono profondo, come un
rantolo.
Non è morta.
Non ancora, comunque.
Capitolo 1
Alex
Nel frattempo
Il fuoco.
Quell’odore mi evoca qualcosa.
Non riesco a vedere, perché i miei occhi sono sigillati per non far penetrare la luce
malvagia che brilla nel suo sguardo.
Non riesco a udire, perché i miei orecchi si chiudono alle sue orrende promesse.
Non riesco a sentire, perché il mio corpo è andato in frantumi già da molto tempo.
Ma, mentre sono distesa nella fredda immobilità della notte, in attesa della pace
definitiva, quell’effluvio confortante di corteccia e ramoscelli e foglie secche che
bruciano mi ricopre.
Mi sussurra che tutto andrà bene.
E io ho un disperato desiderio di credergli.
Bip…
«…frattura alla base del cranio…».
Bip…
«…polmone collassato…».
Bip…
«…milza spappolata…».
Bip…
«…congelamento…».
Bip…
Bip…
«Vivrà?».
Bip…
«Onestamente non capisco come abbia resistito così a lungo».
Bip…
«Per il momento dobbiamo tenere la cosa nascosta».
«Gabe, ti sei appena presentato sulla soglia del mio ospedale con una ragazza
mezza morta. Come dovrei riuscire a fare una cosa del genere?»
«Fallo e basta. Chiamami se si risveglia. Che nessuno le faccia domande al di
fuori di me. Nessuno, Meredith».
«Non provare ancora a parlare», qualcuno – una donna – mi avverte gentilmente.
Non riesco a vederla. Non riesco a vedere nulla; le mie palpebre aperte sono mere
fessure, sufficienti a far entrare una luce sfocata e un turbinio di attività attorno a
me – polpastrelli delicati, bisbigli a bassa voce, fruscio di carte.
E poi quel bip cadenzato mi canta una serenata e mi riporta nell’oblio.
Capitolo 2
Jane Doe
Ora
Non so come sono arrivata qui.
Non so dove sia qui.
Sento dolore.
Chi è questa donna che mi sta addosso?
«Per cortesia, chiama subito la dottoressa Alwood», ordina a qualcuno nascosto.
Voltandosi per guardarmi di nuovo, le ci vuole un bel po’ prima che mi faccia un
sorriso smagliante. Per quanto sia intontita, non è possibile non notare la
compassione che c’è in quel sorriso. Un profondo sospiro le solleva il petto e poi
sposta l’attenzione sulle sacche contenenti un liquido chiaro appese a un supporto
accanto a me. «Sono contenta di vederti finalmente con gli occhi aperti», mormora.
«Sono davvero di un bel color ruggine». L’orlo della sua uniforme lilla sfiora il
gesso che ho attorno alla mano.
Il mio gesso.
Faccio un inventario della stanza – le pareti beige pallido, le sedie rigide, la tenda
blu pastello. I macchinari. Alla fine ci arrivo.
Sono in un ospedale.
«Come…». Mi blocco nel fare la domanda dal momento che quella prima parola
mi graffia la gola.
«Sei stata intubata per aiutarti a respirare. La raucedine se ne andrà presto, te lo
assicuro».
Ho avuto bisogno di un aiuto per respirare?
«Sei sotto massicce dosi di morfina, quindi al momento potresti sentirti un po’
disorientata. È normale. Ecco». Una mano fredda mi scivola sotto il collo mentre
mi sprimaccia il cuscino.
«Dove sono?», gracchio, notando solo ora le fasciature che mi dividono in due la
faccia all’altezza del naso.
«Sei al St Charles a Bend, Oregon, con i migliori dottori che abbiamo. A quanto
sembra ce la farai». Di nuovo, un altro sorriso. Un altro sguardo comprensivo. È
una ragazza carina, i capelli lunghi, castano chiaro tirati indietro in una coda di
cavallo, gli occhi di un incantevole verde intenso.
Non così incantevole da distrarmi dalle sue parole. Ce la farò a far cosa
esattamente?
Continua a blaterare riguardo all’ospedale, alla cittadina, al clima invernale
insolitamente pungente. Faccio fatica a starle dietro, troppo impegnata a vedermela
con la mia memoria, a cercare di rispondere alla litania di domande che mi
vorticano in testa. Però, non arriva niente. Ho il vuoto totale.
Come ha detto lei, deve essere la morfina.
Un cigolio mi spinge a guardare all’altro angolo della stanza, dove è appena
entrata una donna alta, allampanata con un camice bianco a coprire una gonna a
fiori. A grandi passi, velocemente, gira attorno al mio letto, portandosi dietro la
tenda mentre si avvicina. «Salve».
Deduco che sia la dottoressa che l’infermiera ha fatto chiamare. Osservo mentre
tira fuori una molletta dalla tasca e appunta indietro una ciocca sciolta di capelli
tinti color albicocca. Con un suono secco estrae un paio di guanti in lattice, e poi
tira fuori una piccola torcia dalla tasca. «Come ti senti?»
«Non ne sono ancora sicura». Ho la voce roca, ma almeno la si riesce a percepire.
«È il mio medico? La dottoressa…». Leggo il nome sulla targhetta apposta sul
camice. «Alwood?».
Occhi verdi cerchiati di scuro scrutano a lungo i miei. «Sì, ti ho operata io. Sono
la dottoressa Meredith Alwood». Strizzo gli occhi a causa del fascio di luce della
sua torcia, prima nell’occhio sinistro e poi in quello destro. «Hai qualche dolore?»
«Non lo so. Sono… indolenzita. E confusa». La mia lingua si imbatte in qualcosa
di ruvido contro il labbro inferiore e istintivamente ce la faccio scorrere sopra,
avvertendo un pezzo di filo. È nel momento in cui comincio a giocarci che mi
accorgo anche dell’ampio vuoto nel lato destro della mia bocca. Mi mancano
parecchi denti.
«Bene. Sono contenta. Non della parte in cui dici di essere confusa». La
dottoressa Alwood sorride a labbra strette. «Ma saresti molto più che indolenzita se
gli antidolorifici non stessero facendo il loro dovere».
Mi brucia la gola. Mando giù parecchie volte, cercando di alleviare la secchezza.
«Cosa è successo? Come sono arrivata qui?». Qualcuno saprà qualcosa. Giusto?
La dottoressa Alwood apre la bocca ma è esitante. «Amber, devi finire il giro
delle visite, vero?».
L’infermiera, che è stata occupata a sostituire le diverse sacche sul supporto per la
flebo, si blocca e guarda la dottoressa per un lungo attimo, le sopracciglia,
delicatamente disegnate, aggrottate. Noto che hanno lo stesso colore verde degli
occhi. In effetti, hanno la stessa identica forma degli occhi a mandorla e il naso
dritto.
Oppure, forse ho solo le allucinazioni, grazie ai medicinali.
Dita gentili esplorano qualcosa di nascosto sul mio cuoio capelluto e poi, con lo
scatto della porta che si chiude, la dottoressa chiede: «Che ne dici se iniziamo con
le domande più semplici? Puoi darmi cortesemente il tuo nome?».
Apro la bocca per rispondere. È una domanda così semplice. Tutti abbiamo un
nome. Io ho un nome. Eppure… «Non… non lo so», balbetto. Come faccio a non
sapere qual è il mio nome? Sono certa che sia lo stesso nome che ho da tutta la
vita.
La mia vita.
Cosa ricordo della mia vita? Non dovrebbe esserne rimasto registrato qualcosa?
Mi invade un’ondata di panico e il bip dell’ecg rivela che il mio battito è
aumentato. Perché sembra che non riesca a ricordare neppure un frammento della
mia vita?
Né un volto, né un nome, né un animale di quand’ero bambina.
Niente.
La dottoressa Alwood smette di fare quello che sta facendo e mi guarda negli
occhi. «Sei stata ferita in modo serio alla testa. Cerca solo di rilassarti». Le sue
parole giungono lente e controllate. «Ti dirò quello che so. Forse questo ti
stimolerà la memoria. Va bene? Prima fai solo qualche bel respiro». Aggiunge
veloce: «Non troppo profondo».
Eseguo come mi è stato detto, osservando il mio petto che si alza e si abbassa
dietro al camice a quadri blu e bianco che indosso, e faccio una smorfia per la fitta
di dolore a destra ogni volta che inspiro. Alla fine, quel bip incessante inizia a
rallentare.
Mi concentro di nuovo su di lei. In attesa.
«Sei stata ritrovata nel parcheggio di un edificio abbandonato nove giorni fa»,
inizia la dottoressa Alwood.
Sono qui da nove giorni?
«Sei stata portata al pronto soccorso con l’ambulanza, con un trauma esteso a tutto
il corpo, che ti ha messo in pericolo di vita. Le tue ferite erano compatibili con
un’aggressione. Avevi parecchie fratture – alle costole, alla gamba sinistra, al
braccio destro, al cranio. Il polmone sinistro ha collassato. È stato necessario
operarti per un ematoma, la milza spappolata, lacerazioni a…». La sua voce calma
diventa piano piano incomprensibile mentre recita una lunga lista di crudeltà che
non possono avere in cima il mio nome. «Ti ci vorrà del tempo per riprenderti da
tutte queste ferite. Senti una qualche oppressione al petto adesso, quando inspiri?».
Inghiotto il nodo che sempre più mi serra la gola, non sono certa di come
rispondere. Di sicuro faccio fatica a respirare, ma penso che abbia più a che fare
con il panico che con qualsiasi altra cosa.
«No», ribatto alla fine. «Penso di star bene».
«Bene». Rimuove delicatamente strisce di garza dal mio viso – alcune sul setto
nasale e un’altra striscia che corre lungo la parte destra del viso, dalla tempia e giù
fino al mento. Vedendo il lieve cenno di approvazione, deduco che è contenta di
qualunque cosa ci sia sotto. «E come passa l’aria attraverso il naso? Lo senti
chiuso?».
Provo ad allargare le narici. «Un po’».
Smette di controllarmi per scarabocchiare qualcosa in una cartella clinica sul
tavolino accanto al letto. «Sei stata molto fortunata che il dottor Gonzalez fosse a
Bend per una gita sulla neve. È uno dei più importanti chirurghi plastici del paese e
un mio carissimo amico. Quando ti ho vista entrare, l’ho chiamato
immediatamente. Ci ha offerto le sue competenze, gratuitamente».
Una parte di me sa che dovrei essere preoccupata per il fatto che ho avuto bisogno
di un chirurgo plastico per il mio viso, e tuttavia sono più preoccupata dal fatto che
non riesco nemmeno a immaginare quale sia l’aspetto di quel viso.
«Ho tolto i punti due giorni fa per fare in modo che si riduca il segno delle
cicatrici. Forse potresti aver bisogno di un intervento meno impegnativo al naso,
dipende da come guarirà. Non lo sapremo finché non passerà il gonfiore».
Rimettendo la cartella sul tavolino, chiede: «Ti ricordi qualcosa di ciò che ti è
successo?»
«No». Niente.
La mascella contratta abbinata alla ruga sulla fronte mi fa immaginare che sta per
darmi qualche altra brutta notizia. «Mi dispiace dirti che abbiamo trovato prove di
violenza carnale».
Sento che il sangue defluisce dal mio viso e il bip regolare ha una nuova
impennata quando il cuore inizia a battermi forte in petto. «Non… Non capisco».
Dice che sono stata… violentata? Qualcuno mi ha toccata in quel modo? Mi invade
il desiderio di rannicchiarmi, di avvolgermi il corpo con le braccia, e stringere con
forza le gambe, ma sono troppo indolenzita per farlo. Com’è possibile che non mi
ricordi di essere stata violentata?
«Ho bisogno di esaminare le altre ferite che hai». La dottoressa Alwood aspetta
che le faccia un cenno di assenso riluttante e poi tira giù il lenzuolo di flanella e mi
solleva il camice ospedaliero. Per un momento sono distratta dal gesso attorno alla
gamba mentre lei toglie delicatamente le fasciature attorno alle costole e sulla parte
sinistra della pancia.
«Hanno un bell’aspetto. Adesso, rilassati soltanto, farò in fretta», promette,
spostandomi la gamba libera verso il bordo del letto. Mi distraggo per allontanare
il disagio che provo guardando il soffitto piastrellato mentre lei delicatamente mi
esamina. «Hai avuto bisogno di alcuni punti interni, ma tutto si dovrebbe
rimarginare al meglio con il passare del tempo. Stiamo ancora facendo alcuni
esami del sangue, ma abbiamo escluso la maggior parte delle malattie
sessualmente trasmissibili. Ti abbiamo anche eseguito un test dello stupro».
Chiudo gli occhi mentre dall’angolo di un occhio mi scivola una lacrima, il cui
sale brucia sulla mia pelle sensibile. Perché mi è successo questo? Chi può aver
fatto una cosa del genere?
Stuprata… Esami per le malattie sessualmente trasmissibili… «A proposito…
voglio dire, potrei essere incinta?». La domanda mi esce spontanea.
Fedele a quanto promesso, la dottoressa Alwood mi risistema velocemente il
camice e mi copre. Sfilandosi i guanti, li getta nel cestino della spazzatura e poi si
siede sul bordo del letto. «Possiamo escludere con certezza che lo fossi per la
violenza». Si ferma. «Perché eri già incinta quando sei stata portata».
Sospiro mentre mi dà un’altra notizia che è come un cazzotto nello stomaco. Poso
lo sguardo sul mio ventre piatto. Ho un bambino là dentro?
«Eri di circa dieci settimane».
Ero. Passato.
«Non hai nessun ricordo di questo?». La dottoressa Alwood aggrotta le
sopracciglia quando mi guarda da vicino.
Mi sfugge un debole “no” e non posso far altro che sentire che non mi crede.
«Bene, date le tue numerose ferite, non c’è affatto da meravigliarsi che tu abbia
avuto un aborto spontaneo. Sei già fortunata a esser viva». Esita prima di
aggiungere: «Non penso che chiunque ti abbia fatto tutto questo avesse intenzione
che restassi viva».
Uno strano freddo mi penetra nelle membra mentre osservo il corpo malconcio
che ho davanti, disteso su questo letto. Sono lucida solo da cinque minuti – me lo
dice la lancetta lunga dell’orologio sulla mia testa – e in così breve tempo, questa
dottoressa mi ha informata che sono stata picchiata, stuprata… e abbandonata
credendo che fossi morta.
E ho perso un bambino che nemmeno ricordo di aver aspettato, o concepito.
Non so chi fosse il padre.
Non so neppure chi sono io.
«Ho intenzione di farti fare un’altra tac e una risonanza magnetica», sento il peso
del suo sguardo su di me. «Sei sicura che non c’è nessuno o niente che ti ricordi?
Un marito? Oppure un ragazzo? O un fratello, una sorella? Un genitore? Forse una
città dove sei cresciuta? L’ospedale sarebbe felice di rintracciare la tua famiglia».
La sua sfilza di domande fa solo impennare il mio ritmo cardiaco e quel fastidioso
ecg accelera di nuovo. Non posso rispondere nemmeno a una. C’è qualcuno a cui
manco in questo momento? Mi stanno cercando? Sono di Bend, Oregon, o vivo da
qualche altra parte?
La dottoressa Alwood è seduta tranquilla, in attesa, mentre fisso una piccola
macchia gialla sul soffitto. È un danno fatto dall’acqua. Come faccio a rendermi
conto di questa cosa e a non conoscere il mio nome?
«Neppure un minimo particolare?», incalza, l’insistenza nella sua voce gentile e
supplichevole.
«No». Non c’è niente.
Non ricordo assolutamente niente.
Capitolo 3
Jesse
Allora
Ci sono tante cose che non mi piacciono di Portland.
La pioggia in cima a tutte.
Cancello. Guidare nella pioggia in cima a tutte. Di solito è una noiosa pioggerella
continua, ma una volta ogni tanto si aprono i cieli e rovesciano un acquazzone
abbondante. La vecchia Toyota di merda che ho comperato per cinquecento dollari
non sopporta bene questo clima, il motore scoppietta e si spegne improvvisamente
come se stesse affogando. Non so quante volte ho cercato di risolvere il problema.
Settembre è stato un mese carico di pioggia. Sembra che anche ottobre voglia
gareggiare per vincere il record, perché diluvia pure stasera. È solo questione di
tempo prima che l’auto mi abbandoni, proprio qui nel bel mezzo di questa strada
deserta. Allora sarò proprio come il povero idiota sul ciglio della strada più avanti,
con le quattro frecce azionate.
Anche se ho già deciso di proseguire, quando mi rendo conto che è una bmw Z8,
il piede si stacca lentamente dall’acceleratore. Non ne ho mai vista una dal vivo
prima. Forse perché non ce ne sono che qualche migliaio in tutto il paese e ognuna
costa un mucchio di soldi. È una rarità ed è dannatamente stupenda.
E ha un pneumatico a terra.
«No». È una bella sfiga cambiare una ruota quando piove. Quel ricco bastardo può
aspettare che l’assistenza stradale venga a salvarlo. Sono convinto della mia idea
finché i fari non colgono lunghi capelli biondi al posto di guida. Percorsi quasi
sette metri subentra la mia coscienza e non posso far a meno di frenare. «Merda»,
borbotto, accostandomi al ciglio della strada e facendo lentamente retromarcia.
Nessuno scende, ma se è sola, probabilmente sarà diffidente. Lamentandomi a
voce alta, esco nella pioggia, tirandomi sulla testa il cappuccio della mia felpa
grigia. Corro verso il finestrino sul lato del passeggero. Venendo su con uno
sceriffo per padre, impari a non stare mai sulla strada, anche se non ci sono auto in
vista. La gente viene investita di continuo.
Busso al vetro.
E aspetto.
«Dài…», borbotto, a testa bassa, la pioggia che mi batte sulla schiena come
venisse dal rubinetto dell’acqua fredda del bagno. Non ci sono più di quattro gradi
qua fuori. Altri cinque secondi e la lascio qui.
Alla fine si apre una fessura nel finestrino, appena sufficiente perché possa
sbirciare dentro. È sola in auto. È buio, ma sono abbastanza sicuro di vedere delle
lacrime. Di certo vedo del trucco nero sbavato. E i suoi occhi… Luccicano
impauriti. Non la biasimo. Guida un’auto molto costosa ed è seduta da sola per
strada dopo le undici di sera. E adesso c’è un tizio con una felpa addosso fuori dal
finestrino. Di conseguenza regolo il mio tono di voce. «Hai bisogno di aiuto?».
La sento deglutire con difficoltà prima che mi risponda: «Veramente, sì». Sembra
giovane, ma è difficile a dirsi con certe donne.
«Hai chiamato l’assistenza stradale?».
Esita e poi scuote la testa.
Okay… di poche parole. Però ha un odore fantastico, come si sente dal profumo di
fiori che emana dalla sua auto. Fantastico e costoso. «La ruota di scorta è nel
bagagliaio?»
«Io… penso di sì?».
Sospiro. Sembra che effettivamente mi ritroverò a cambiare un pneumatico sotto
la pioggia battente. «Okay. Apri il bagagliaio e vedrò cosa riesco a fare. Resta
dentro».
Giro attorno all’auto. Dietro una mezza dozzina di borse della spesa e sotto il
piano del bagagliaio, trovo nascosta la ruota di scorta. Ritorno di corsa alla mia
auto per tirar fuori il cric e la torcia – uso i miei attrezzi ogni volta che posso – mi
sistemo per terra sul retro della Z8, contento che esistano le strade isolate. Neppure
un veicolo è passato da quando mi sono fermato.
La bmw è sul cric e i dadi sono tolti quando si apre la portiera del guidatore. «Mi
ci vorranno altri due minuti per cambiarlo!». Grido, sfilando delicatamente il
cerchione. «Dovresti rimanere dentro».
La porta si chiude sbattendo – faccio una smorfia, non sbatti niente su un’auto del
genere! – e poi il picchiettio dei tacchi sull’asfalto mentre lei fa il giro per mettersi
accanto a me. Immediatamente la pioggia smette di battermi sulla schiena. «Va
meglio?», chiede con una voce vellutata.
Non ho bisogno di alzare lo sguardo per sapere che c’è un ombrello aperto sopra
di me. «Non sei di Portland, vero?», borbotto con un sorriso. Neanche io, in
pratica, ma ho imparato ad adattarmi nei quattro anni che ho vissuto qui. E questo
in parte significa sapere che nessuno a Portland si farebbe mai vedere con un
ombrello. Nemmeno la maggior parte delle donne, in verità. Preferiamo abbassare
la testa e bagnarci piuttosto che passare per femminucce. Svegli? No.
«No, non sono originaria di qui».
Tiro via il pneumatico e lo faccio rotolare di lato. È allora che i miei occhi
vengono catturati da un paio di gambe lunghe, nude, proprio accanto a me, con la
pelle d’oca per il freddo. Costringendomi ad abbassare di nuovo la testa buttando
fuori l’aria impercettibilmente, afferro il pezzo di ricambio.
«Grazie per esserti fermato. La maggior parte delle persone non lo avrebbe fatto».
La maggior parte delle persone, me compreso. «Dovresti davvero farti una
polizza di assistenza stradale».
«Ce ne ho una», ammette tristemente e poi, dopo un’esitazione momentanea,
aggiunge: «Mi si è scaricato il telefono e non riesco a trovare il caricatore
dell’auto».
Quindi, era completamente tagliata fuori dal mondo. Per quanto tutto questo sia
una seccatura, sono contento di essermi fermato. Ciò dovrebbe farmi sentire a
posto con la coscienza, visto che l’ho messa parecchio alla prova nel corso degli
anni. «La metà del tempo non riesco a trovare il caricatore del telefono. Di solito è
sotto il sedile. Alla fine sono andato e ho comperato un secondo cavo di
alimentazione che tengo nel vano portaoggetti».
Sento che sta sorridendo quando dice: «Dovrò ricordarmene».
«Sì, dovresti. Soprattutto in un’auto come questa». La ruota di scorta è
imbullonata al suo posto in un altro minuto.
«Sei molto veloce».
Accenno un sorriso mentre abbasso l’auto. «Cambio pneumatici da quando so
camminare». Be’, non esattamente, ma sembra così. Afferrando il pneumatico
sgonfio con un braccio, mi allontano di proposito dall’ombrello in modo che non la
sporchi mentre vado verso il bagagliaio. Per me è troppo tardi, ma ci sono abituato.
Sporco molti più vestiti di un ragazzo medio. «Devi andare lontano? Questi
pneumatici di scorta non sono fatti per fare molta strada».
«Circa quindici chilometri».
«Bene. Posso starti dietro finché non esci dall’autostrada, se questo ti fa star
meglio», mi offro, strofinando le mani bagnate, sporche, sui jeans. «Vado
comunque in quella direzione».
«È molto gentile da parte tua». Tuttavia, non accenna ad andarsene. Resta
semplicemente lì in piedi, il viso nascosto dal buio e dall’ombrello gigante.
Ed è allora che sento il singhiozzo soffocato.
Ah, merda. Non so cosa fare con una ragazza ricca che piange sul ciglio della
strada. O in generale, con le ragazze che piangono. Ne ho fatte piangere parecchie,
senza volere, e poi mi sono sentito uno schifo per questo. Ma oltre a dire “Mi
dispiace”, non so cos’altro dire o fare. Esito prima di chiedere: «È tutto a posto?
Voglio dire, hai qualcuno da poter chiamare? Puoi usare il mio telefono se vuoi. Lo
vado a prendere in auto».
«No, non ho nessuno».
Un silenzio lungo, persistente, resta sospeso su di noi.
«Allora…». Davvero voglio solo arrivare a casa e non perdermi The Late Show,
ma non mi sono infradiciato così tanto per lasciarla poi lì fuori per strada.
«Sei felice?». La sua domanda squarcia la quiete della notte, interrompendola con
poco tatto.
«Uh…». Cosa? Per l’agitazione mi sposto da un piede all’altro.
«Nella vita. Sei felice? O desideri mai di poter semplicemente ricominciare tutto
da capo?».
Al buio corrugo la fronte. «In questo momento desidererei che non mi stessi
congelando il sedere a causa della pioggia», ammetto. Che cavolo avrei dovuto
dire d’altro? Non ero preparato a domande profonde, sulle quali devi riflettere. Di
solito le evito, e Dio sa che gli amici scemi che frequento non se le pongono.
Questa pupa è fuori di testa?
Si fa più vicina, sollevando l’ombrello per ripararmi, realizzando una parte del
mio desiderio. «Voglio dire, se potessi semplicemente ricominciare tutto da capo…
liberarti delle decisioni sbagliate che hai preso… lo faresti?».
Ovviamente la giornata schifosa di questa donna è iniziata prima dello pneumatico
sgonfio. «Sembra che tu rimpianga qualcosa», dico alla fine. Non è esattamente
una risposta alla sua domanda ma, in tutta onestà, non so come risponderle.
«Sì. Penso di sì». Lo dice così a bassa voce, che la sento appena al di là della
pioggia che batte sull’asfalto e del rumore basso del suo motore che gira al
minimo. Sono colto di sorpresa quando dita fredde mi scorrono all’improvviso su
una guancia, il naso, una mascella – ricoperta della barba di qualche giorno –
finché non trovano la mia bocca, dove si posano in un modo stranamente intimo.
Mi sento come se mi stesse esaminando. Che cosa passa per la testa di questa
donna in questo preciso momento?
Sebbene non riesca a fermare il battito del mio cuore che aumenta senza sosta,
non muovo nemmeno un muscolo, più incuriosito che altro. Molto lentamente,
l’ombra davanti a me si avvicina sempre di più, finché la sua bocca sfiora la mia, e
il suo respiro trema.
E poi mi bacia.
All’inizio è un bacio titubante, le sue labbra posate sulle mie senza concedersi del
tutto, ma ugualmente il sangue mi scorre veloce nelle vene. Non posso dire di aver
mai baciato una donna senza averla vista prima in faccia. È allo stesso tempo
inquietante e liberatorio. Se assomiglia anche solo in parte alla sensazione che mi
danno le sue labbra, allora in questo momento sto baciando una supermodella.
Alla fine fa quello che davvero desiderava fare, le sue labbra leggermente aperte
che premono con delicatezza contro le mie, ognuno dei suoi respiri affannati è
come un eccitante incantesimo che mi entra in bocca insieme alla sua lingua. Non
mi interessa nemmeno più della pioggia o del freddo o di arrivare a casa, sono
troppo occupato a combattere il desiderio urgente di far scorrere le mie mani su di
lei. Ma non so perché cazzo stia facendo tutto questo e sono una persona sospettosa
per natura. Così, stringo i pugni e tengo le braccia lungo i fianchi nel frattempo che
la sua bocca stuzzica la mia e la sua mano afferra di lato il mio viso.
Proprio quando sono pronto a lasciar da parte la diffidenza e a stringerla contro di
me, all’improvviso si stacca, il suo ansimare breve, violento che non la lascia in
pace. Indietreggia, portando con sé la protezione dell’ombrello. La pioggia fredda
ha l’effetto quasi immediato di spegnere il calore che mi scorre dentro.
«Grazie».
Sorrido al buio. «Non ho fatto niente. Non ci devo perdere tanto tempo con gli
pneumatici».
«Non parlavo dello pneumatico». Anche lei sorride. Lo posso sentire dalla
delicatezza delle sue parole.
Con la bocca ancora aperta, vedo la sua sagoma girare attorno all’auto. In un
unico movimento sinuoso, chiude l’ombrello e scivola sul sedile del guidatore.
E sono lasciato lì in piedi, a chiedermi che accidenti è appena successo. Nemmeno
lei sa come sono fatto io. Potremmo passare l’una accanto all’altro sul marciapiede
e non saperlo mai.
Forse è proprio questo il punto.
Scuotendo la testa, mi precipito in auto, i vestiti zuppi e la mente davvero molto
confusa. Può anche essere dolce ma se va in giro a baciare uomini strani sul ciglio
della strada, non c’è da meravigliarsi che abbia rimpianti. Spero che i rimpianti
siano la cosa peggiore con la quale debba mai fare i conti.
Fedele a quello che le ho detto, la seguo per una decina di chilometri, tasto con le
dita le mie labbra mentre mi ricordo la sensazione delle sue contro di loro, finché
lei non segnala di svoltare verso una delle zone più ricche di Portland. Una buona
parte di me vuole uscire dalla strada e seguirla per il resto del tragitto. Solo perché
così saprei chi è.
Ho la mano sulla freccia. Ma all’ultimo minuto, la ritiro e continuo ad andare
dritto. I rimpianti tendono ad aumentare quando ti leghi al genere sbagliato di
persona. L’ho imparato a mie spese.
Spero che trovi ciò che sta cercando.
Capitolo 4
Jane Doe
Ora
«Te l’ho già detto; non sta mentendo. Non ricorda niente! Chiunque guardi negli
occhi di quella povera ragazza se ne può rendere conto!».
Il tono duro della dottoressa Alwood mi strappa da un sonno leggero. È in piedi
accanto al mio letto, piazzata davanti a un uomo dalla carnagione olivastra e coi
capelli mossi castano ramati – brizzolati sulle tempie – e un’espressione severa,
con addosso la sciatteria del giorno prima.
«Devo fare il mio lavoro, Meredith», dice quell’uomo, i suoi occhi scuri che si
spostano per cogliermi mentre lo guardo. Con un cenno nella mia direzione, si
schiarisce la gola.
La dottoressa Alwood si volta e l’espressione accigliata svanisce, sostituita da un
sorriso gentile. Oggi indossa una camicetta celeste nascosta sotto il camice bianco.
Non è molto adatta alla sua carnagione chiara, ma nonostante tutto è carina. «Mi
dispiace che ti sia svegliata», dice, la sua voce ritornata calma come di
consuetudine. Un giubbotto salvagente per me in questi ultimi giorni, mentre ero
immersa in questo incubo continuo. «Lo sceriffo vorrebbe parlare con te». Con un
gesto verso quell’uomo, lo presenta. «Lui è lo sceriffo Welles, della contea di
Deschutes».
L’uomo mi sorride in modo brusco prima di abbassare la testa in avanti e strizzare
gli occhi. Come se dovesse riordinare le idee; come se guardarmi in faccia per più
di quel breve momento sia difficile. Forse lo è. In base a quello che mi ha detto il
piccolo corteo di infermiere che sono entrate e uscite dalla mia stanza, il gonfiore è
diminuito e i lividi viola scuro si sono attenuati. Si possono vedere nuovamente i
miei zigomi alti, qualunque cosa questo significhi. Non mi sono ancora neppure
vista allo specchio e nessuno sembra volersi affrettare a portamene uno vicino al
letto, nemmeno per vedere se questo possa scatenarmi qualche ricordo. Continuano
a dirmi che dovremmo aspettare “qualche altro giorno”.
«Desidera farti qualche domanda». Gli lancia un’occhiata. «Giusto, Gabe?».
Aggrotta le sue folte sopracciglia quando alza lo sguardo per incrociare di nuovo
il mio. Che occhi penetranti – neppure una singola pagliuzza d’oro o marrone a
interrompere quel colore quasi nero. Mi attraggono e allo stesso tempo mi fanno
trattenere il respiro. Deve essere bravo a fare gli interrogatori. «Va bene».
Gabe Welles. Ovviamente, lo sceriffo conosce il suo nome. Tutti conoscono il loro
nome. Da queste parti sono io l’unica che non ha la più pallida idea del suo. «Non
so di quale aiuto possa essere», dico, la voce molto più armoniosa di quando ho
ripreso conoscenza la prima volta… gli occhi corrono all’orologio per calcolare…
quarantadue ore fa. Non ho recuperato che quella.
Non ho ancora idea di chi io sia e di sicuro non ricordo di essere stata stuprata e
ammazzata di botte. Immagino che la maggior parte delle vittime come me farebbe
qualunque cosa, prenderebbe qualsiasi pillola o pozione magica, per dimenticare
un’esperienza così traumatica. Ma io ho trascorso ogni attimo in cui ero cosciente a
lottare con i recessi della mia mente, sperando di trovare un filo a cui aggrapparmi,
da tirare, qualcosa che svelasse il mistero.
Niente. Non ricordo niente.
«Sembra che tu stia meglio rispetto all’ultima volta che ti ho vista», dice lo
sceriffo Welles con voce stentorea e roca, che attira l’attenzione.
«Gabe – voglio dire, lo sceriffo Welles – è stato lui che ti ha trovata», spiega la
dottoressa Alwood.
Arrossisco. «In che condizioni ero? Cioè…?». Ero insanguinata, nuda quando ha
avuto il mio spettacolo davanti agli occhi? Voglio proprio saperlo? Dovrebbe
essere l’ultimo dei miei problemi, e nonostante ciò a quel pensiero mi si contrae lo
stomaco.
«Ne ho viste molte nei trentacinque anni che sono nella polizia, ma… tu stavi
proprio messa male». Si ferma per schiarirsi la gola. «La dottoressa Alwood mi ha
già informato che non ricordi nulla. Ho qualcosa che penso potrebbe essere
d’aiuto». Da una borsa di tela, tira fuori un involucro di plastica chiaro
contrassegnato come “prove”, seguito dal numero identificativo del caso, e lo tiene
sollevato. Mi mostra una stoffa color blu elettrico con lustrini. «Indossavi questo
vestito quando ti ho trovata».
Dove sarei potuta andare con quello indosso? A un matrimonio? In discoteca?
Vedendo quelle macchie rossastre e gli strappi, non lo indosserò mai più. Lo
sceriffo e la dottoressa mi guardano intensamente quando ammetto: «Non lo
riconosco».
Lo butta di nuovo nella borsa di tela e tira fuori un altro sacchetto di plastica per le
prove, questo con un cappotto rosa chiaro, senza ombra di dubbio insanguinato.
«Indossavi questo sul vestito».
Davvero? «Non mi è familiare», rispondo con sincerità. L’andamento regolare
dell’ecg aumenta di nuovo. Ho notato che fa così ogni volta che la dottoressa
Alwood inizia a farmi domande, quando cresce l’agitazione.
Tira fuori un terzo sacchetto, con un’unica scarpa elegante argentata. Ha un tacco
così alto che nessuna persona sana di mente sceglierebbe di indossarla. «Proprio
come Cenerentola», mormoro senza entusiasmo, aggiungendo: «Non so nemmeno
come potevo camminarci».
Senza parlare, solleva un sacchettino con dentro una collana. Perfino sotto la
pallida luce al neon, le pietre brillano come stelle. «Abbiamo esaminato i diamanti.
Chiunque li abbia comprati non ha problemi di soldi», dice lo sceriffo Welles.
«Non so chi potrebbe essere», gli rispondo onestamente. Sono io quella persona?
Io sono ricca? O è ricca la persona che me l’ha data? Chi potrebbe avermela data?
Il padre del bambino che ho perso, forse? Dov’è adesso? Istintivamente mi guardo
le mani. Le punte delle dita che spuntano dall’estremità del gesso, quel che si può
ancora vedere dello smalto rosso nonostante le mie unghie siano brutalmente
spezzate. Metà dell’unghia del mignolo è stata strappata via. Se guardo molto
attentamente, penso di poter notare una riga più chiara sul dito medio della mano
destra. «Portavo un anello?»
«Perché lo chiedi? Ricordi che portavi un anello?». La sua voce è salita di
un’ottava, quasi una ninnananna. Come se sperasse di convincermi a dargli una
risposta.
Aggrotto le sopracciglia. «No. Solo… Se ero incinta, significa che sono sposata?».
Ho percorso una navata vestita di bianco e ho giurato amore eterno a qualcuno?
Sono davvero abbastanza grande da essere sposata?
«Questo è l’unico gioiello che ti abbiamo trovato addosso», conferma lo sceriffo
Welles.
«Potrebbe essermi stato rubato l’anello?»
«Non posso dirlo con sicurezza, ma l’esperienza mi insegna che, se questa fosse
stata un’aggressione a scopo di furto, non avrebbero lasciato la collana».
Niente furto.
Se non è stato quello, allora perché?
Perché?
Perché qualcuno mi ha voluto fare una cosa simile?
La dottoressa Alwood e lo sceriffo Welles si siedono e aspettano mentre mille
domande mi inondano la testa e lacrime di paura e frustrazione mi bruciano gli
occhi. Deduco che stiano aspettando che mi arrivi un’illuminazione grazie a un
paio di sacchetti di plastica riempiti di vestiti insanguinati e di gioielli. Sembra che
non capiscano, però. La mia memoria – la mia vita – non è semplicemente
crivellata di buchi. È stata risucchiata in un buco nero, che non si è lasciato dietro
altro che questo involucro malconcio, la mia testa che lavora febbrilmente ma non
è in grado di andare da nessuna parte.
Alla fine, non riesco più a trattenermi. Sbotto: «Non sto mentendo! Non ricordo
chi sono!».
Lo sceriffo accenna un sospiro mentre infila di nuovo il gioiello nel sacchetto, nel
frattempo il suo sguardo incrocia quello della dottoressa Alwood, uno scambio
indecifrabile tra loro.
«Okay, Jay…». Si interrompe.
«Va bene; mi può chiamare così», mormoro mentre tiro su col naso. Ho origliato
le infermerie che parecchie volte si riferiscono a me come “jd” e, quando alla fine
ho fatto domande alla dottoressa Alwood a proposito di quello, ha ammesso con
una smorfia che sta per “Jane Doe”. Perché è questa che sono adesso.
Jane Doe.
A quanto pare non si usa solo per le persone con la targhetta appesa all’alluce.
Si interrompe, fissandomi con uno sguardo severo. «Vorrei aver avuto più cose da
dirti su quanto è accaduto, ma non ne ho. Crediamo che sei stata scaricata nel posto
in cui ti abbiamo trovata. Non ti so dire dove sei stata aggredita. Abbiamo
perlustrato la zona per trovare indizi, ma non è emerso nulla. Non abbiamo
nemmeno soddisfacenti tracce di pneumatici su cui lavorare; la recente nevicata le
ha coperte. Al momento non si è fatto vivo alcun testimone e nessuno ha presentato
una denuncia di scomparsa che possa ricondurre a te. I miei uomini stanno
passando al setaccio il database».
Sospira. «Il test dello stupro non ha dato risultati. Non c’erano corrispondenze con
il dna. La dottoressa Alwood è stata in grado di fare un test del dna sul feto che hai
perso. Di nuovo, i risultati non trovano alcuna corrispondenza nel database».
Deduco che questo significhi che il padre non era un criminale. Almeno questo.
«Quindi… tutto qui?».
Serra le mascelle e poi mi riserva solo un brusco cenno del capo.
Distolgo lo sguardo da entrambi e lo rivolgo alla finestra che ho davanti, dietro
alla quale il riquadro di cielo dipinto è di un luminoso blu che inganna. Il piccolo
televisore attaccato al muro è ancora acceso – mi sono addormentata guardandolo
– e trasmette un notiziario. Un nastro segnaletico giallo circonda una stazione di
rifornimento. Le didascalie scorrono sul rullo in basso, chiedendo testimoni.
E mi colpisce un’idea. «La mia storia è andata al telegiornale?»
«No». Lo sceriffo Welles scuote la testa energicamente. «Ho tenuto la storia
lontano dai media». Aggiunge in un sussurro: «Dio sa quanto l’avrebbero voluta».
«Ma forse sarebbe arrivata… alla mia famiglia?». La famiglia che ancora non ha
presentato la denuncia di scomparsa?
«Sì, forse. Forse sarebbe arrivata anche alla persona che ti ha aggredita. Vuoi che
lui sappia che sei sopravvissuta?».
Mi assale un’ondata di freddo mentre la dottoressa Alwood scatta: «Gabe!».
Corruga le labbra ma tira dritto. «I giornalisti presenteranno la storia in modo
sensazionale. Vorranno le tue foto. Vorranno pubblicare dettagli sull’aggressione.
Tu vuoi che tutto questo vada al telegiornale?»
«No». I miei occhi guizzano verso la porta mentre mi si scatena il panico. «Non
pensa che sia venuto a cercarmi, vero?». Forse lo ha già fatto. Forse il mio
aggressore è già stato qui, a guardarmi mentre dormivo. Rabbrividisco per il freddo
gelido che mi corre in tutto il corpo a quel pensiero.
«Penso che lui immagini che tu sia morta e che i tuoi resti siano stati portati via da
un puma o dai lupi prima di essere ritrovati», mi garantisce, e le sue parole sono di
un qualche conforto per me. «Quella vecchia conceria probabilmente non ha
ricevuto neppure un visitatore in più di un anno».
«Allora, come ha fatto a trovarmi?»
«Pura fortuna», risponde senza battere ciglio. «Ho un agente che staziona fuori
dalla porta per precauzione. Ti proteggeremo. Se ti ricordi qualcosa, anche se
piccola, per cortesia fallo sapere immediatamente alla dottoressa Alwood o a me».
Per il modo in cui nomina se stesso e la dottoressa – lento e preciso – ho la chiara
impressione che vorrebbe sostituire “o” con “solo”.
Dopo un mio cenno d’assenso titubante, si dirige verso la porta.
«Torno subito», dice la dottoressa Alwood. La vedo seguire lo sceriffo Welles e
fermarsi fuori dalla porta. Grazie alla finestra, riesco a vederli che si scambiano
due parole, le labbra che si muovono rapide, le fronti corrugate. Nessuno dei due
sembra contento. Ed è allora che lo sceriffo Welles si piega in avanti per baciare
velocemente la dottoressa Alwood sulla guancia prima di scomparire alla vista.
All’improvviso hanno un senso il lapsus di “Gabe” e il tono brusco che non ti
aspetteresti che una dottoressa usi con lo sceriffo.
«Siete sposati voi due?», chiedo nel momento in cui la dottoressa Alwood rientra
dalla porta, mentre abbasso lo sguardo per vedere che le sue dita sono prive di
gioielli.
«Da ventinove anni. Alcuni giorni è facile essere sposati con lo sceriffo della città,
e…», dice e poi riprende la mia cartella dal tavolino che ho accanto e la appende di
nuovo in fondo al letto, un angolo della bocca leggermente sollevato ammiccando
un sorriso, «altri giorni, non così tanto».
Penso all’eccentrica collana che indossavo, e all’anello che non indossavo.
«Immagino che non fossi sposata con il padre del mio bambino». Sono stata
contenta quando ho scoperto di essere incinta? Era contento il padre? Almeno lo
sapeva?
È stato lui a farmi questo?
La dottoressa Alwood sospira mentre inizia a schiacciare vari pulsanti
sull’apparecchio che controlla il battito cardiaco. Si affievoliscono le luci. «Il tuo
cuore è forte. Non abbiamo più bisogno di questo». Con mani fredde, stacca i vari
elettrodi dal mio torace, le braccia, e le cosce, mentre spiega: «Non è raro vedere
pazienti colpiti da amnesia dopo un danno cerebrale. È più spesso anterograda
piuttosto che retrograda, ma…». Deve vedere la mia espressione confusa perché
subito chiarisce: «È più probabile avere difficoltà con la memoria a breve termine
piuttosto che con la memoria a lungo termine. E, quando è retrograda, i vuoti di
memoria sono spesso sporadici, o isolati a specifici avvenimenti. È estremamente
raro vedere una totale assenza di memoria come la tua, ancor di più una che dura
così a lungo. I risultati dei tuoi esami mostrano una normale attività cerebrale e
nessun danno permanente».
Quando aggrotto la fronte sento che mi tira la cicatrice fresca che ho al lato del
viso. Se non è un danno cerebrale, allora… «Cosa significa?»
«Penso che possa essere un problema psicologico».
«Cosa significa questo?». La dottoressa sta dicendo che sono pazza?
«Significa che tutto quello che è successo è stato così traumatico che ti ha fatto
desiderare di dimenticare tutto della tua vita». I suoi occhi scorrono sul mio corpo.
«Da quello che ho visto, lo posso capire. Ma guardando il lato positivo, è molto
probabile che supererai tutto questo. I danni cerebrali di solito hanno effetti che
durano a lungo».
«Quindi mi sta dicendo che presto ricorderò qualcosa?». Trattengo il respiro,
aspettando che mi prometta che starò di nuovo bene.
«Forse». Esita. «Sfortunatamente, non rientra nelle mie conoscenze. Tuttavia, ho
fatto il tuo nome a un’eccellente psicologa. Speriamo che possa darci qualche
risposta».
«E se non ci riuscirà? E se non ricordassi più niente?». E se semplicemente…
esistessi al presente?
«Incontriamo la dottoressa Weimer prima di preoccuparci eccessivamente», dice,
allungandosi per posare la mano sul gesso della mia gamba. Considerando che il
suo rapporto con me finora è stato sempre cordiale ma estremamente professionale,
questo appare tanto strano quanto gradito. La dottoressa Alwood forse al momento
è l’unica persona della quale mi fidi.
Ecco perché probabilmente mi sfugge quella domanda in un sussurro. «Ho fatto
qualcosa per meritarmi tutto questo?». È una domanda retorica. Non può
rispondermi, non più di quanto possa dirmi chi mi ha aggredita, chi mi ha stuprata,
chi mi ha lasciata vicino a un edificio abbandonato pensando che fossi morta. Ma
gliela faccio ugualmente.
Scuote la testa. «Non posso credere che ci sia qualcosa che tu abbia fatto per
meritarti tutto questo, Jane».
Jane. Non mi piace questo nome. Per niente. Comunque, non è colpa della
dottoressa Alwood. Come altro potrebbero chiamarmi?
«Grazie». Sembro così indifesa, così fragile. Così… insignificante. Lo sono?
«Qualcuno deve sentire la mia mancanza. Anche solo una persona, vero?». Non
posso essere completamente sola al mondo, giusto?
Un sorriso triste stravolge il viso della dottoressa Alwood. «Sì, Jane. Sono
abbastanza sicura che c’è qualcuno che sente moltissimo la tua mancanza».
Capitolo 5
Jesse
Allora
«Dimmi ancora una volta perché sono qui stasera?».
A parte condividere l’appartamento e lavorare insieme, faccio di tutto per non
passare il tempo con Boone, per la mia salute mentale e per poter continuare la
nostra coabitazione. Siamo troppo diversi. Quasi tutti i giorni mi prendo cura del
suo bulldog, Licks, al suo posto, e quel dannato cane mi ha mangiato due paia di
scarpe.
Quelle poche volte che siamo usciti insieme nel corso degli anni, è stato con amici
del college, per andare nei pub di zona e a quel bizzarro club. Ma The Cellar non è
nemmeno un club. È un “lounge bar”, nei sotterranei di un palazzo di uffici in
centro a Portland, pieno di gente pretenziosa in abiti eleganti e completi alla moda
con in mano un bicchiere di Martini, mentre specchi dalle cornici scintillanti e
tende nere “vedo non vedo” sono appesi dove non ci sono finestre. In sottofondo
batte musica trance con un ritmo più lento, il genere di musica che i ragazzi punk
ascoltano durante i rave dopo che si sono fatti di Ecstasy. Assolutamente fuori
luogo qui, e nonostante ciò nessun altro si è aggiornato e ha cambiato emittente.
Boone appoggia la schiena al divanetto, lo sguardo spazia sulla folla. «Te l’ho già
detto. Perché l’ha chiesto Rust».
Rust, conosciuto anche come lo zio Rust di Boone, conosciuto anche come il
proprietario del Garage di Rust, dove noi lavoriamo come meccanici. E il Garage
di Rust è conosciuto nei dintorni di Portland come il posto dove puoi portare l’auto
se hai problemi, non vuoi pagare i prezzi gonfiati del concessionario, e non vuoi
essere fregato da un qualche meccanico dilettante. Non è affatto economico, ma lo
zio Rust fa uno sconto del dieci per cento sui prezzi di listino del concessionario e
ha personale altamente qualificato in sede.
Eccetto Boone.
Boone ha trascorso i primi due mesi dopo la scuola da meccanico ad affiancare gli
altri e a passar loro gli attrezzi. Se ne lagna di nascosto ma si morde la lingua
quando sta in officina, sapendo che non ha nulla di cui lamentarsi. Ogni altro
ragazzo che lavora lì ha dovuto lavorare almeno dieci anni facendo esperienza
altrove e ha dovuto fare salti mortali prima di essere preso in considerazione.
Boone ha un lavoro solo grazie al nepotismo. Anch’io, tecnicamente, dal momento
che mi ha portato lì Boone. Almeno quello che mi manca in anni di esperienza, lo
compenso abbondantemente con il talento.
«Sarebbe potuto venire semplicemente al negozio», borbotto, cercando di
allentare il colletto della camicia grigia elegante di Boone che lui mi ha fatto
indossare, insieme all’unico paio di pantaloni neri eleganti che possiedo, che ho
messo esattamente due volte – ai funerali di entrambi i miei nonni. Di sicuro mi
sarei fatto notare con la mia maglietta sbiadita e i jeans che indossavo prima.
Cavolo, i buttafuori non mi avrebbero permesso nemmeno di entrare. Ne sarei stato
contento.
Non sono un tipo da lounge bar, ecco tutto.
Una cameriera con lunghi capelli nero corvino e dalla pelle abbronzata si avvicina
al nostro tavolo, un vassoio rotondo con calici e bicchieri da vino vuoti in mano.
Cinque minuti in questo posto hanno dimostrato che tutte quelle che servono sono
ragazze magre, fiche da paura, e piene di sé. Questa qui non fa eccezione. Mi
piacerebbe vedere come vengono assunte.
«Salve Luke, come mai da queste parti stasera?». Allunga la mano libera per
aggiustarsi una ciocca di capelli che le si arriccia alla base del collo.
Lui abbandona il braccio sullo schienale del divanetto, con un fare rilassato. È
nella sua natura fare il cascamorto con le donne. Non lo capisco. Immagino che
forse i suoi occhi azzurri mascherino il fatto che può essere un bastardo. Quello,
oppure lo notano ma semplicemente se ne fregano. «Solo un salto con un amico.
Come vanno le cose?».
La ragazza gira intorno lo sguardo sui clienti mentre dice: «Oh, lo sai». Batte col
dito sul suo orologio. «Nuovo?».
Boone ruota il polso perché tutti possano veder meglio il Rolex che suo zio gli ha
appena regalato, un sorriso orgoglioso sulla faccia. «L’ho preso solo lo scorso fine
settimana». Con un gesto verso di me, dice: «Lui è il mio amico Jesse. Jesse, lei è
Priscilla».
Riesco a staccare lo sguardo dalle tette finte di Priscilla e a spostarlo sul suo viso
un attimo prima che occhi blu come il mare, con un pesante trucco nero, mi
abbaglino. Mi fa un tiepido sorriso con quelle labbra truccate di un rosa acceso.
«Piacere di conoscerti, Jesse». Tutto suona falso.
Sono sorpreso di averle fatto tirar fuori così tante parole. Devono essere i vestiti.
Se domani mi vedesse per strada, dubito che mi degnerebbe di uno sguardo. Non è
che abbia mai avuto problemi a farmi notare dalle ragazze. Lo ammetto,
ultimamente tendono a essere del genere da una botta e via. Quelle “di classe” sono
troppo cresciute per aver bisogno di ribellarsi ai genitori e quelle intelligenti
chiaramente non sono a loro agio standomi vicino. E ragazze come questa? Non è
il tipo da essere soddisfatta di uno che vive sotto il cofano e torna a casa col grasso
sotto le unghie.
E non ho intenzione di cambiare.
«Il solito, Luke?».
«Sì, portane due». Fa un cenno col mento verso di me. «E paga lui».
Vedo che sculetta mentre torna al bar su quei tacchi a spillo alti dieci centimetri.
Anche se posso non essere interessato, so apprezzare un corpo sodo quando ne
vedo uno.
«Le donne qui sono adorabili, eh?», dice Boone.
«Non sono donne. Sono cacciatrici di dote. Una razza totalmente diversa». C’è
stato un tempo in cui ci piaceva lo stesso tipo – le ragazze del college di zona.
Quelle che vedi andare a lezione alle nove del mattino con i pantaloni del pigiama
e una coda di cavallo scompigliata; quelle che indossano magliette strette e
pantaloncini jeans tagliati corti e sono ubriache perse dopo aver bevuto insieme a
te birra versata con l’imbuto dentro a un tubo, prima di farfugliare quanto sei sexy
e trascinarti nella loro camera al college. Ma a partire dall’anno scorso, Boone ha
iniziato a frequentarne molte di più con lo zio e i suoi gusti si sono fatti più
raffinati. Adesso preferisce il genere di ragazza che scivola fuori dal letto per
aggiustarsi il trucco prima di svegliarti con un pompino mattutino.
Mi fa un’alzata di spalle come a dire “Sì, lo so”. «Scommetto che riusciresti a
fartene una per una notte, adesso che non sei vestito come un meccanico».
«Io sono un meccanico. E anche tu, Luke». Mi sforzo di dirlo con una faccia
normale. Non sopporta che qualcuno, eccetto una donna, lo chiami per nome. E
detesta essere chiamato meccanico. In verità, non ne ha esattamente l’aspetto.
Ancora rido ogni volta che penso al primo giorno di lezione. In un mare di berretti
da baseball e abbigliamento sportivo della Columbia, Luke Boone spiccava come
una Porsche nuova di zecca da uno sfasciacarrozze, camminando lentamente con
indosso pantaloni stirati e camicia elegante, le maniche arrotolate tanto quanto
bastava per mettere adeguatamente in mostra l’orologio d’oro. Quello non era
nemmeno il look da primo giorno di scuola. Quello è il modo in cui si veste
sempre. La sola occasione in cui sembra che io e lui galleggiamo nella stessa acqua
è quando indossiamo le tute da lavoro blu scuro.
Scuoto la testa per la millesima volta. Come è stato possibile che un ragazzo
elegante, di famiglia benestante, mondano, con buone relazioni sia finito a dividere
l’appartamento con me, uno che è stato interrogato per tentato omicidio? Ci sono
davvero solo due ragioni che mi vengono in mente: tutti e due viviamo per le auto
e a nessuno dei due frega un cazzo degli altri, incluso dell’altro.
Boone ama guardare le auto, conoscere le auto, parlare di auto. Più che sicuro ama
guidarle, e correrci. Ma è più interessato a seguire le orme di suo zio nell’azienda
piuttosto che sporcarsi davvero le mani. In realtà è stato Rust a fargli fare il corso
da meccanico durato due anni dopo aver conseguito la laurea quadriennale. Vuole
che il futuro direttore della sua officina e di qualsiasi altra cosa abbia in serbo per
Boone – forse un lavoro dirigenziale nella società di vendita d’auto che possiede –
conosca come si fa il lavoro partendo dalla gavetta. Anche se Bonne non era tra i
più bravi del nostro corso per meccanici al college – io sì – ha una predisposizione
naturale verso la gente e una spiccata capacità di osservazione. Probabilmente avrà
successo in un ufficio.
Ricevo un dito medio alzato come risposta prima che Boone rivolga l’attenzione
alla folla, sembrando in tutto e per tutto un uomo dell’alta società, con soldi e di
classe, e non il ragazzo che riempie i pensili della nostra cucina di barattoli di cibi
in scatola Chef Boyardee e si accanisce contro il videoregistratore quando fa un
casino e non registra un episodio di American Idol. Quello che ha di sicuro è uno
zio ricco laureato che gli lancia qua e là cose piacevoli – contanti, buoni acquisto
in negozi di lusso, l’orologio che ha al polso, i gemelli che gli chiudono i polsini.
Quando Boone non si alza dal letto per venire al negozio, sembra che stia andando
su un set fotografico, e indossa vestiti che io metterei in occasione di un
matrimonio, e si pettina i capelli col gel – sistemandosi i ricci ribelli in modo tale
che le ragazze non possono far altro che iniziare a giocarci.
I capelli del giovane rimorchiano le donne.
«Sul serio ti piace questo posto?», chiedo.
«A Rust qui piace e a me piace uscire con lui, quindi… sì».
Priscilla torna con due bicchieri da whisky pieni di un liquido incolore. Ci è
voluto poco. Da ciò intuisco che questi non sono cocktail complicati. Posa la mano
sulla mia spalla, mi dà una leggera stretta in tono confidenziale prima che
un’unghia affilata mi solletichi dietro l’orecchio. «Volevi segnare e saldare tutto
alla fine?». Ovviamente, adesso che sa che sono io a pagare, sfodera al massimo il
suo fascino.
«Sì, e puoi portarci un altro giro quando hai un attimo, tesoro», risponde Boone
prima che possa farlo io, ammiccando un sorriso. «Salute!», fa tintinnare il mio
bicchiere e butta giù il suo drink.
Faccio come lui, stringendo i denti a causa del liquore forte che brucia
leggermente. Mi scende in gola senza darmi troppo fastidio, però, e quindi deduco
che non sia una vodka da quattro soldi, di quelle scadenti che servono in certi bar.
Eppure, avrei preferito una birra.
«Come fai a permetterti di andare in posti come questo?». Sollevo il bicchiere. «A
bere questo». Boone guadagna quanto me e non è chissà quanto. Certo, quello che
spendiamo per vivere è poco, con l’affitto nella zona sud orientale di Portland, ma
vivere come Boone non è economico. Non voglio neppure pensare al conto che
questo stronzo mi farà appioppare stasera.
Boone risponde alzando una spalla. «Prendo uno, due drink al massimo. Paga
sempre Rust il conto finale. Sono il suo nipote preferito».
«Non sei il suo unico nipote?».
Mi risponde un altro dito medio alzato.
Tre vodka dopo, sento un formicolio alle braccia e alle gambe. Boone dà un colpo
sul tavolo e esce dal divanetto. «Andiamo. Non dire nulla di stupido su questi
ragazzi, va bene?».
Alzo gli occhi su di lui mentre lasciamo il posto dove eravamo a sedere e,
attraverso la folla che aumenta, ci dirigiamo verso il retro del club. Più procediamo
e più la folla si dirada, finché non arriviamo a una parte con cinque nicchie e una
zona riservata. Molto da vip. Boone si ferma all’ultimo divanetto ampio, rotondo,
in pelle, con lampadari di cristallo fumé che scendono dall’alto e pesanti tende nere
ai lati per aumentare la sensazione di voler stare appartati. Vi si trovano seduti
quattro uomini.
«Eccolo!». Rust scivola dal fondo del divanetto per mettere un braccio attorno alla
spalla di Boone. «Pensavo che non saresti venuto stasera». Ho incontrato
quell’uomo alto, biondo, esattamente due volte prima, per due minuti l’una. Sono
suoi i soldi dietro all’officina ma lascia la concreta gestione di quest’ultima al suo
direttore, Steve Miller, un uomo che pesa poco meno di centoquindici chili, con
una lunga barba trasandata e straordinarie capacità comunicative.
Boone fa un cenno con la testa verso dove siamo venuti. «Mi sono trattenuto un
po’ sul davanti con Jesse».
Gli occhi di Rust, di un azzurro intenso, si posano su di me – lo stesso azzurro di
suo nipote. Allunga un braccio per stringermi la mano con forza, l’orologio d’oro
che cattura un luccichio dall’alto. «Jesse, come vanno le cose in officina?»
«Al momento, bene».
Indica le due sedie vuote accostate fuori dal divanetto. «Vi unite a noi?». Prende
la bottiglia di vodka – l’etichetta è in una qualche lingua straniera scritta con uno
strano alfabeto – che si trova al centro del tavolo. Devo dire di non aver mai visto
un’intera bottiglia di superalcolico sul tavolo di un bar prima d’ora, ma immagino
che sia così che si fa tra i ricchi.
Tutti questi tizi odorano di soldi.
Mentre prendiamo posto e Rust versa da bere, do un’occhiata agli altri tre che
stanno seduti attorno al tavolo. Due stanno parlando al cellulare a voce bassa. Il
terzo, un tipo biondo, slanciato, dai lineamenti spigolosi, tutto vestito di nero,
immagino che sia vicino ai quaranta, guarda intensamente il bicchiere che ha
davanti mentre rigira quella che sembra essere una fede nuziale che porta
all’anulare.
Adesso so perché a Boone piace frequentare questi tipi. Ama l’odore dei soldi.
«Da quello che mi dice Miller, mio nipote non è uno che spara cazzate. Miller non
ha mai visto qualcuno lavorare così velocemente prima». Rust spinge il mio
bicchiere – riempito quasi fino all’orlo – verso di me. «E ho sentito che presto
potresti riuscire a mettere nuovamente in moto la mia Corvette? Nessuno è stato in
grado di far andare quel bidone».
Non riesco a soffocare un sorriso d’orgoglio. Mi sono gingillato con i motori da
quando ho avuto la mia prima chiave inglese e una bicicletta da due soldi all’età di
nove anni. Ero solito star seduto sul banco da lavoro nel garage a osservare mio
padre che lavorava sulla sua Mustang del ’67. L’auto che io ho finito di aggiustare
prima che lui la vendesse. Per lui era solo un passatempo. Per me, una vocazione. I
ragazzi nel laboratorio del liceo erano soliti chiamarmi quello che sussurra ai
motori perché riesco ad aggiustare qualsiasi cosa; non importa quanto sia
complicata o distrutta.
In ogni caso, cerco di non comportarmi da stronzo a questo proposito, quindi
liquido la cosa con un’alzata di spalle. «Mi piacciono le auto d’epoca».
«Me lo diceva Luke. Stai cercando di prendere una…».
«Una Barracuda del ’69. Nera». Nessuna esitazione su questa domanda. È quello
che voglio da quando avevo sette anni e vidi una corsa su Main Street di ritorno a
casa da un fine settimana passato al rodeo, la sua vernice nera fiammante dopo
essere stata lavata. È per questo che sto risparmiando. È la ragione per la quale
adesso guido una merda. Un altro anno e sarà mia.
«Uh. Che bella». Rust annuisce lentamente, sembra colpito. Alza il bicchiere per
fare un brindisi e poi fa un cenno all’uomo in nero dall’altra parte del tavolo.
«Bene, il mio socio in affari qui presente, Viktor, potrebbe avere del lavoro extra
per te».
Mi volto e trovo occhi di ghiaccio che già mi fissano dal lato opposto del tavolo,
in un viso duro che non sembra abituato a sorridere. Poco ma sicuro, adesso non
sta sorridendo.
«Sì…». Questo tizio, Viktor, tira fuori dal taschino della camicia un accendino e
una sola sigaretta e si appresta ad accenderla. «Forse prima potresti parlarmi di te.
Rust non ha detto molto». Parla con un accento, ma non riesco a capire di dove sia.
Comunque, non sembra molto cordiale. Non deve essere americano. Questo
dovrebbe spiegare perché pensi che sia normale fumare in un luogo pubblico. Per
questo oppure perché è talmente sfacciato che se ne frega.
Alzo le spalle. E a quel punto sento la voce di mio padre in testa, che mi ordina di
smetterla di alzare le spalle. “ I criminali e i deficienti rispondono alzando le
spalle”. «Non c’è molto da dire. Tutto quello che conta è che amo lavorare sui
motori». Non c’è molto di più che Rust potrebbe dire a questo tizio perché non c’è
molto che il nipote sa di me. Nonostante io e Boone viviamo insieme e siamo
andati a scuola insieme, stiamo al di fuori della vita privata reciproca. Lui è troppo
egocentrico per fare domande e io sono troppo riservato per parlarne. Sa che vengo
da un paese del centro ma non sa che sono di una cittadina a nord-ovest di Bend,
che si chiama Sisters. Sa che i miei genitori vivono ancora là e ha ascoltato
sufficienti litigate al telefono per sapere che il nostro rapporto è burrascoso, ma
non ha minimamente idea che mio papà è lo sceriffo e mia mamma uno stimato
chirurgo. Sa che ho una sorella gemella di nome Amber che è infermiera, ma di
sicuro non gliela presenterò mai.
Lancio un’occhiata a Boone, senza essere sicuro di cos’altro questo Viktor si
aspetti che io riveli. Invece Boone è stranamente tranquillo, gli occhi vivaci e
curiosi mentre guarda quell’uomo. Con timore reverenziale. Forse memorizzando
il suo modo di fare. Se Boone inizia a fumare nel nostro appartamento, lo uccido.
Quando rivolgo nuovamente l’attenzione su Viktor, vedo che non mi sta più
fissando, ma è concentrato su un punto dietro di me. Dà una tirata, e pronuncia due
parole intrise di rabbia: «In ritardo».
Fine dell'estratto Kindle.
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