Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia

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Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia Eugenio Orso In copertina: Rissa in Galleria, 1910 Umberto Boccioni Indice Sezione prima Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia Premessa pag. 1 Le sette piaghe d’Italia pag. 4 I cattivi pag.. 9 I buoni pag. 23 L’anomalia nell’anomalia italiana pag. 40 Stupidità sociale indotta e situazione italiana pag. 48 Dopo lo smottamento elettorale del 15 e 16 maggio 2011 pag. 57 Sezione seconda La crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno Premessa pag. 72 LʹOrda Verde pag. 74 6 aprile 2010 Prospettive rivoluzionarie e situazione bloccata pag. 82 15 aprile 2010 I
Cʹera una volta la Fiat … in Italia pag. 88 22 aprile 2010 Mattatoio globalista pag. 91 7 maggio 2010 Mele marce e casi isolati pag. 95 21 maggio 2010 Pomigliano: militarizzazione bismarkiana del lavoro industriale regolare pag. 106 18 giugno 2010 Marchionne, alias la globalizzazione senza veli pag. 110 28 luglio 2010 Lo stato dell’arte del disastro italiano pag. 113 2 settembre 2010 Profumo, puzza di bruciato e spartizione delle banche pag. 121 22 settembre 2010 La vera opposizione in Italia pag. 125 5 ottobre 2010 Verso Roma pag. 131 20 ottobre 2010 Società e Movimento pag. 136 25 ottobre 2010 Forza Alluvione! pag. 143 10 novembre 2010 II
Roma 14 dicembre 2010: insurrezione? pag. 147 15 dicembre 2010 Marchionne qui in Italia è in buona compagnia pag. 150 27 dicembre 2010 Per colpire Berlusconi bisogna colpire la Lega pag. 153 26 gennaio 2011 Non esistono profughi economici pag. 156 7 aprile 2011 Una Confindustria di assassini e stragisti pag. 162 9 maggio 2011 Goodnight Silvio, Silvio goodnight pag. 165 30 maggio 2011
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Sezione prima Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia Eugenio Orso
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Premessa Il saggio che qui si presenta è stato scritto dal dicembre del 2010 al maggio del 2011 ed ha alimentato il blog Pauperclass [http://pauperclass.myblog.it], nel quale è stato pubblicato in parti che corrispondono stanzialmente ai cinque capitoli in cui si articola. Con questo elaborato, lo scrivente ha tentato una prima, per quanto insufficiente descrizione della realtà sociale e politica dell’Italia di oggi, anzitutto per quanto riguarda la strutturazione della società in dipendenza della frantumazione del quadro sociale imposta dal capitalismo contemporaneo, un quadro che tenderà a ricomporsi definitivamente, in futuro, nelle classi antagoniste del Nuovo Capitalismo finanziarizzato che da tempo sono in gestazione: la classe globale e la classe povera del ventunesimo secolo. L’eclisse finale della vecchia borghesia proprietaria, in primo luogo come mondo culturale ed etico, la dissoluzione della classe operaia e l’attacco alle condizioni di vita dei ceti medi interessano da oltre due decenni l’occidente e l’Italia, rappresentando la miglior prova che il capitalismo può continuare ad esistere, dopo rilevanti trasformazioni che riguardano il suo stesso basamento strutturale, senza la borghesia e senza il proletariato. La realtà sociale e politica italiana, neanche a dirlo, è particolarmente deprimente e non induce a prevedere niente di buono, come abbiamo modo di constatare quotidianamente, stretti fra gli scandali di una politica degenere che è ridotta a fare da “cinghia di trasmissione” alle politiche neoliberiste e l’impoverimento generale della popolazione che sembra non avere una fine. Tuttavia esiste sempre una speranza, una probabilità, per quanto piccola, che la situazione si evolva in conseguenza delle future e prevedibili lotte, come reazione estrema a queste trasformazioni, pur attraverso mille difficoltà e sofferenze verso il nuovo e verso il meglio. L’uso delle espressioni “buoni” e “cattivi” è frutto dell’esercizio di un po’ di ironia, com’è ovvio, ma i cattivi, in tale caso, identificano un nemico secondario nella dimensione locale, da combattere sul terreno sociale e politico all’interno di questo paese – dimorando altrove il Nemico Principale, rappresentato dal Nuovo Capitalismo finanziarizzato e dai suoi agenti storici appartenenti alla classe globale – mentre i buoni corrispondono a quei gruppi sociali non necessariamente e interamente tali, ma potenzialmente antagonisti, e quindi trasformativi dell’ordine vigente, che si paleseranno durante lo scontro. Buoni e cattivi, quindi, esclusivamente in relazione alle loro future potenzialità antagoniste e trasformative dell’ordine costituito, che potranno manifestarsi dopo essere rimaste a lungo inespresse. 1
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Dopo il capitolo introduttivo intitolato “Le sette piaghe d’Italia”, in cui si pongono brevemente in rilievo i principali problemi del paese alla fine del 2010, si inizia con i cattivi e non con i buoni, poiché, come si specificherà meglio in seguito, i cattivi sono di più facile ed immediata individuazione rispetto ai gruppi amici, quelli definiti un po’ ironicamente e un po’ enfaticamente i buoni. L’uso dell’espressione generica di “gruppi sociali”, e non di quelle più specifiche di matrice sociologica quali classi e ceti, è intenzionale ed è giustificato dal fatto che oggi viviamo nell’interregno fra il vecchio ed il nuovo ordine, un interregno in cui le vecchie classi sociali – borghesia, ceti medi figli del welfare e classe operaia, salariata e proletaria – stanno rapidamente scomparendo e la nuova classe povera subalterna, postproletaria e postborghese, è ancora in via di formazione. Il quarto ed il quinto capitolo sono dedicati, in larga misura, al dilagare del fenomeno dell’”idiotismo socialmente organizzato” nel paese, fenomeno che non è esclusivamente italiano, ma che a livello locale ha assunto le inquietanti ed invasive forme del berlusconismo, del leghismo ed in misura minore dell’idiota acculturato “di sinistra”. L’ultimo capitolo riguarda il delicato passaggio elettorale rappresentato dalle amministrative del maggio 2011 e le trasformazioni di medio e lungo periodo, in atto nella società italiana, che queste elezioni fin dal primo turno hanno rivelato. E’ necessario tener conto, infine, che i tre capitoli iniziali della prima sezione del presente libro sono stati scritti prima del 14 di dicembre 2010 [fatidica data della fiducia o della sfiducia parlamentare al quarto esecutivo Berlusconi, in quel periodo già traballante] e che certe previsioni ivi contenute, riguardanti gli assetti politici nazionali, gli equilibri della politica sistemica ed il governo del paese, potrebbero non essersi in seguito verificate. La necessità di scrivere un intero libro sullo sviluppo futuro della situazione politica e sociale in Italia, senza alcuna velleità di natura profetica, nasce dalla considerazione che in questo “strano” paese la storia sembra restia a rimettersi in movimento, nonostante gli sconvolgimenti sociali, economici e finanziari che l’avvio del nuovo secolo ha riservato al mondo intero. «Contro il tradimento e la pusillanimità del governo c’è un solo rimedio: la rivoluzione.» Così scrisse Friedrich Engels nel lontano 1849, in relazione all’Italia [La guerra in Italia e Ungheria], ed oggi l’Italia è più che mai lontana da una simile soluzione, anche se il “tradimento” e la “pusillanimità” dei governi che si sono alternati in questo ultimo decennio sono più che evidenti, com’è evidente la loro acquiescenza nei confronti dei centri di potere esterni della classe globale, che attraverso gli sconvolgimenti economico‐finanziari, la cosiddetta shock economy e la conseguente appropriazione delle risorse collettive consolidano ed estendono la loro presa sul mondo. 2
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Se il Nuovo Capitalismo ultraliberista ha necessità di continui disastri per imporsi, come sostiene Naomi Klein, e quindi provoca artificialmente attraverso improvvisi shock i cambiamenti economici, nella penisola si riscontra una passività sconcertante davanti alle grandi trasformazioni economiche e sociali in atto, fenomeno non riscontrabile con una simile ampiezza in altri paesi dell’Europa occidentale. Una passività, quella degli italiani, che rende la maggioranza ancor più “silenziosa” di quanto lo sia stata nel passato, una docilità simile a quella di inconsapevoli animali mandati al macello che non solo si accompagna all’accettazione supina di un progressivo degrado della vita politica e civile, ma in qualche modo lo favorisce e lo alimenta. Se questa passività di massa – così diffusa da pervadere gran parte del paese sconfinando nella più cupa rassegnazione – in prima battuta spinge ad affermare che non ci si potrà attendere l’onda dei grandi cambiamenti risolutori soprattutto nel breve e nel medio periodo, nonostante una situazione economico‐sociale in via di rapido deterioramento, è pur vero che esistono dei limiti fisici e psicologici all’esproprio delle ricchezze, alla compressione dei diritti, al peggioramento delle condizioni materiali di vita ed alla de‐emancipazione di fasce maggioritarie della popolazione, limiti il cui superamento innescherà automaticamente una reazione, che potrà non essere più frammentaria, episodica, inconsapevole, ma generalizzata e consapevole. Date le prospettive dell’economia nazionale, l’azione penalizzante del Libero Mercato Globale e degli Organi della Mondializzazione, l’incapacità manifesta degli esecutivi che si sono succeduti nell’ultimo decennio, questi limiti potranno essere raggiunti già nel medio periodo, ed a quel punto si potrà forse sperare nel brusco risveglio di quella parte della popolazione che non è ancora idiotizzata, o compromessa con i poteri politici ed economici locali, cioè nel generale risveglio dei “buoni”. Se ciò accadrà, la storia si rimetterà in movimento anche in Italia, e lo scontro sociale e politico, quello vero – non il suo simulacro che possiamo oggi osservare, non quello artefatto e mediatico del berlusconismo televisivo al quale si contrappone l’anti‐berlusconismo virtuale – farà la sua ricomparsa assumendo nuove forme. La ricomposizione di un mosaico sociale e politico frantumato, che potrà avvenire in aderenza alle logiche ed alle dinamiche del Nuovo Capitalismo cristallizzandosi in un ordine neofeudale, preannuncia tempi ancor più difficili degli attuali, ma potrà rendere ai subalterni la coscienza di sé e della propria forza trasformativa, che si può sintetizzare efficacemente con l’espressione “coscienza e solidarietà di classe”, resuscitando sulle piazze e in tutti gli spazi sociali una combattività che oggi sembra definitivamente perduta.
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Le sette piaghe d’Italia 7 dicembre 2010 1) Disoccupazione, sotto‐occupazione e precarietà diffusa indotte dalle nuove dinamiche capitalistiche, 2) bolla del debito pubblico che minaccia di esplodere e interessi sul debito in aumento, 3) battaglia di retroguardia per “difendere l’euro” e la minaccia di un nuovo patto di stabilità imposto dall’Europa monetaria e commerciale su sollecitazione della Germania, 4) bassa crescita del PIL dallo stesso punto di vista capitalistico, 5) imbarbarimento complessivo nella società aggravato dalla diffusione dell’illegalità, dell’evasione fiscale e dell’economia criminale, 6) crisi politica permanente nel ferale crepuscolo di Berlusconi, 7) pericolo di un integrale asservimento del paese, nel prossimo futuro, agli interessi della finanza anglo‐americana, rappresentano le sette principali piaghe che affliggono il paese, gravi al punto che possono far passare in secondo piano le rivelazioni scandalistico‐
destabilizzanti di Wikileaks ed i sospetti di tangenti ai governanti italiani per affari energetici. La prospettiva di medio periodo che l’Italia ha davanti è sicuramente negativa, con la possibilità che si trasformi in un incubo dissolutivo, in cui gruppi sociali e politici contrapposti, incattiviti dalla “coperta sempre più corta” delle risorse disponibili, si affronteranno in una lotta ai coltelli. Centrale, come sempre, è la questione del lavoro, dell’occupazione e del reddito da lavoro dipendente o parasubordinato, che riguarda la maggioranza della popolazione e che sembra non lasciare scampo alle nuove generazioni. O per meglio dire, sta diventando centrale la questione del non‐lavoro, del lavoro occasionale, intermittente, a termine, la cui espansione, assieme a quella della disoccupazione e dell’esclusione perpetua o di lungo periodo dai processi produttivi, ha caratterizzato questo primo decennio del ventunesimo secolo. La prima delle sette piaghe elencate, che in realtà si alimentano l’una con l’altra, a parere di chi scrive si rivelerà decisiva, perché esistono pur sempre dei limiti invalicabili, fisici e psicologici, all’espropriazione capitalistica e alla pressione esercitata sui subordinati. Se questo è il vulnus, se la questione sociale, del lavoro, del welfare, dell’equa ripartizione del prodotto è sempre centrale – ed è etica, prima ancora che economica – sembra logico che il potere, in tutte le sue diramazioni e sfaccettature, da quella politico‐sistemica a quella mediatico‐accademica, nasconda tale questione e operi sempre più spesso una “diversione”, spostando l’attenzione su questioni talora secondarie [il dibattito sui sistemi elettorali da adottare], talaltra addirittura inesistenti [come il pericolo dei Rom]. I “bombardamenti” di informazioni ai quali tutti sono soggetti ed i giudizi contraddittori servono in realtà ad operare questa diversione. 4
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Ha scritto il filosofo americano Noam Chomsky, come esito della sua riflessione sulle strategie di manipolazione di massa, che un elemento fondamentale del controllo sociale consiste, appunto, nel distogliere l’attenzione dai veri problemi, quelli rilevanti per la maggioranza, e dai cambiamenti imposti dal potere elitistico a suo esclusivo vantaggio, utilizzando il “diluvio informativo” per la distrazione continua e la diffusione di informazioni insignificanti. Lo possiamo notare ogni giorno, perché queste tecniche di distrazione compendiate dalla disinformazione continua sono applicate per nascondere le grandi questioni sociali, rendendo illeggibile la realtà per molti milioni di persone. In ciò, non vi è sostanziale differenza fra l’agire del versante destro dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica, rispetto all’agire di quello sinistro, e per quanto riguarda nello specifico l’Italia, politica ufficiale, media e informazione, complici gli ambienti accademici e quasi tutti i sindacati, occultano sapientemente la questione sociale. Se gli studenti e i precari della scuola, dopo anni di rassegnato silenzio, insorgono improvvisamente in tutte le città italiane, occupando istituti e facoltà, bloccando il traffico, cercando di entrare nei palazzi del potere, scontrandosi con una polizia sempre più aggressiva e lontana dalla difesa della vera legalità, si diffonde ad arte la notizia che la riforma della scuola è ormai definitivamente passata in parlamento – cosa non vera – e che i dimostranti possono tornarsene a casa, perché ormai hanno perso la battaglia ed i massacratori della pubblica istruzione hanno trionfato. In tempi recenti, le uova lanciate da operai esasperati contro le sedi dei sindacati gialli CISL e UIL, e contro quelle di Confindustria, hanno fornito il pretesto non certo per informare sulla drammatica situazione del lavoro operaio e dipendente nella penisola, ma per poter accusare strumentalmente di “squadrismo”, colorato di rosso ma con tendenza al nero, i lavoratori a rischio di disoccupazione, spingendosi fino a paventare la ricomparsa di una nuova minaccia terroristica interna. Qualche sacchetto di uva della Conad [o di altro supermercato] è stato trasformato nell’immaginario di molti, dalla potenza manipolatrice dei media utilizzati come un’arma contro i subalterni, in potenziali bombe nelle stazioni ferroviarie o in raffiche di kalasnikov contro obbiettivi umani mirati. Al crepuscolo di Berlusconi, attaccato da più parti e non propriamente gradito all’amministrazione americana, come è messo bene in evidenza nei documenti di Wikileaks che lo riguardano, si sommano le faide politiche interne alla sua stessa maggioranza di governo, in via di progressivo sfacimento, ed un prolungato immobilismo nel governo del paese, se continuerà per molti mesi nel prevedibile persistere della crisi economica ed occupazionale, rischierà di accentuare il rischio di un’implosione sistemica complessiva. Intanto si cerca di far passare la riforma della scuola, in parlamento, e l’ugualmente perniciosa “riforma” del contratto nazionale di lavoro a livello sindacale, vincendo 5
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le forti resistenze Fiom all’interno della Cgil, passaggio fondamentale che nelle intenzioni flessibilizzanti di Confindustria e di larga parte dello spettro politico sistemico dovrebbe accompagnarsi alla demolizione dello Statuto dei Lavoratori. Se Berlusconi nonostante la sua strenua resistenza cadrà nel giro di un paio di mesi, o addirittura entro la fine del 2010, un governo istituzionale o un nuovo governo uscito da elezioni che già si profilano con un esito incerto, porterà comunque avanti le politiche contro il lavoro, contro la scuola, contro la socialità, a tutto beneficio della finanza internazionale privatizzatrice, che vuole soddisfare anche in Italia i suoi inesauribili appetiti. Che sia Montezemolo, oppure Casini, o Bersani, o Fini a sostituire Berlusconi, le criminose politiche economico‐finanziarie antisociali rivolte contro gli interessi della maggioranza della popolazione, e perciò contro gli interessi del paese, non solo non cambieranno, ma si approfondiranno, perché l’obbiettivo sarà sempre quello di rivalersi sui redditi da lavoro dipendente, sulle pensioni e sugli “sprechi” dello stato sociale. Nel frattempo, permane immutata l’incognita del debito pubblico [destinato ad approssimare e forse a superare i duemila miliardi di euro], e quella del peso degli interessi sul debito, fattori che possono scatenare la speculazione internazionale sempre in agguato, nonostante gli elogi rivolti a Tremonti per la sua azione di contenimento del debito. Lo spread con il bund tedesco tenderà a lievitare, rendendo sempre più difficile e oneroso piazzare i titoli del debito pubblico. Sono ipotizzabili fin d’ora la centralizzazione delle politiche economico‐sociali degli stati “per difendere l’euro”, con una nuova e più stretta camicia di forza imposta alle economie europee più deboli, attraverso uno stringente patto di stabilità che è in cantiere, ed un presumibile aumento della spesa per interessi in un paese in bilico come l’Italia. Sotto la vaga espressione di “Mercati ed Investitori”, infatti, si nascondono gli animal spirits dei globalisti necrofori, i quali attendono come avvoltoi che cadano una ad una le tessere meno solide del mosaico europeo, e meglio se si tratterà di un boccone grosso, ben più grande e succulento della piccola Grecia. Far fuori Berlusconi, il PdL e [soprattutto] la Lega sono, in sé, cose buone e giuste, ma quello che ci attende, nel dopo, non è una liberazione da celebrare, come credono il Popolo Viola ed i supporters dell’Italia dei Valori, bensì il colpo di mannaia definitivo. Il successore di Berlusconi, con buona probabilità, sarà un “Quisling” della classe globale americana ed opererà totalmente, sul piano interno come su quello della politica estera, per tutelarne gli interessi a scapito di quelli dell’intero paese. Da quel di Soci, in Russia, il clownesco nottambulo ultrasettantenne di Arcore sembra ancora una volta blandire i “pettegolezzi” diplomatici che lo riguardano 6
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direttamente, resi pubblici dal sito Wikileaks, in quanto si tratterebbe del chiacchiericcio di funzionari dell’amministrazione americana da lui definti di secondo piano. Secondo quanto dichiara pubblicamente Berlusconi, i giudizi fastidiosi dati sulla sua persona non devono essere enfatizzati e, soprattutto, non bisogna credere che il premier‐nottambulo, oltre alle continue “feste selvagge” con droga e minorenni, sia rimasto invischiato in una sorta di tangentopoli internazionale, per quanto riguarda gli accordi energetici con la Russia, con la promessa a Berlusconi di una lauta percentuale, a detta di Ronald Spogli [ambasciatore americano a Roma che riporta la “soffiata” dell’ambasciatore georgiano in Italia], per i gasdotti realizzati da Gazprom in collaborazione con Eni. I funzionari americani “di secondo piano” che avrebbero sparlato di lui, come ad esempio l’ambasciatore USA in Italia Ronald Spogli imbeccato da un altro ambasciatore, avrebbero ricavato certe informazioni dalla solita stampa che denigra il cavaliere, quella di sinistra che lo tiene costantemente sotto tiro, e che sembra effettivamente dettare la linea politica alla debole opposizione liberaldemocratica rappresentata Pd [si veda, in proposito, La Repubblica e il suo gruppo editoriale]. Se negli accordi energetici di lungo periodo l’Eni ha mostrato di avere un grande potere, anche sul piano politico, queste complesse trame si sono sviluppate con continuità durante il periodo dell’esecutivo di Romano Prodi [dal maggio del 2006 al maggio del 2008], quando Berlusconi non era al governo. Va anche precisato, inoltre, che nonostante l’attivazione di partnership internazionali contrarie agli interessi strategici americani, nonostante l’intesa fra Eni e Gazprom e gli accordi del 2008 con la Libia, i benefici occupazionali millantati per i lavoratori dipendenti e i pensionati, per la maggioranza della popolazione perseguitata dallo spettro della precarietà, dai costi della vita insostenibili in rapporto ai redditi – ivi compresi i costi dell’energia per il riscaldamento domestico e quelli della benzina alla pompa, puntualmente non si sono visti ed il processo di impoverimento e de‐emancipazione è continuato senza inversioni di tendenza. Ciò che ha contato più di ogni altra cosa sono le imposizioni globaliste in materia economica, finanziaria e commerciale, filtrate attraverso il FMI, la BCE e la UE, nel loro ruolo di esecutori delle politiche globaliste da imporre agli stati. Nellʹattesa del disarcionamento definitivo del cavaliere, che in questi ultimi mesi è sembrato più difficile del previsto nonostante la secessione finiana, dalla recente presentazione del 44esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese [2010] apprendiamo, grazie al sociologo Giuseppe De Rita, che leaderismo e carisma non seducono più le masse, e che gli italiani sono stanchi della personalizzazione della politica, con circa il 71% degli stessi che comincia ad accorgersi della gravità della situazione economica e non ritiene che sia il caso di ampliare i poteri del capo del governo. 7
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Alla caduta di Berlusconi, che resiste caparbiamente nei palazzi pubblici e privati temendo di finire, una volta uscito da lì, fra le grinfie di una magistratura autoreferenziale e vendicativa, e di vedere il suo impero privato fatto allegramente a pezzettini, non farà certo seguito l’estinzione immediata del cosiddetto berlusconismo, poiché questa cancrena politica, culturale e sociale – che non è una forma nuova di populismo antagonista, né tanto meno una resistenza alla globalizzazione, ma soltanto un esito spregevole della liberaldemocrazia italiana combinato con la stupidità sociale organizzata – continuerà nella sua azione nefasta e con essa proseguirà per qualche tempo la deleteria azione leghista nel nord della penisola. 8
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I cattivi 9 dicembre 2010 Dopo la prevedibile uscita di scena di Berlusconi, i guasti provocati nella società italiana dal berlusconismo e dal regionalismo tribalistico leghista continueranno, seppure presumibilmente in misura decrescente nel tempo, e quei gruppi sociali che effettivamente hanno sostenuto per oltre un quindicennio Berlusconi e/o Bossi, saranno disposti a sostenere chiunque in futuro, pur di poter mantenere indefinitamente il loro status e i loro ingiusti privilegi, concessigli oltre il limite della legalità dalla politica sistemica. Una prima individuazione dei “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, oggetto del presente elaborato assieme alla necessaria individuazione dei “buoni”, ci riporta proprio a questi gruppi, storici sostenitori del berlusconismo e del leghismo, che per numerosi ipocriti ed alcuni imbecilli rappresenterebbero i veri e i soli “ceti produttivi” e l’unica speranza futura della nazione. Il discorso anticapitalista della corretta individuazione di nemici, avversari e amici, nella dimensione politica ed in quella sociale, bene impostato dal filosofo Costanzo Preve sul piano teorico in alcuni dei suoi saggi più recenti ed in alcune conferenze, può essere compendiato, per quanto riguarda nello specifico la questione sociale italiana, dalla breve analisi che seguirà. Per una corretta definizione dei gruppi che storicamente hanno supportato il tribalismo leghista e il “dispotismo dolce” berlusconiano – i quali stanno presumibilmente giungendo al capolinea – sarebbe troppo superficiale, e quindi sarebbe un errore, credere che nel primo caso avessero agito in primo luogo pulsioni di natura comunitaria, desiderio di indipendenza o autonomia, e legittime resistenze alle imposizioni del capitalismo globale finanziarizzato, o che si sia trattato semplicemente di una ricerca di rappresentanza politica da parte di elettorati resi “orfani” da Tangentopoli‐Mani pulite, che per lunghi anni hanno fatto riferimento ai vecchi partiti di massa, strutturati sul territorio, come furono la DC e il PSI. Commercianti, impresari, patrimonializzati che devono la loro fortuna alle eredità di famiglia, professionisti ambiziosi e piccoli rentiers, benestanti vari ed altri simili soggetti hanno sostanzialmente accettato – unicamente per perseguire i loro personali interessi economici, senza che in ciò vi sia alcuna traccia di idealità e di riferimenti più alti e collettivi – un mercimonio elettoralistico, fondato sullo scambio del consenso con la praticabilità effettiva dell’evasione fiscale e contributiva, la concreta rinuncia alla lotta all’evasione ed un’ampia impunità di fatto concessa agli evasori. Quanto precede compendiato, naturalmente, dal rifiuto berlusconiano “di mettere le mani in tasca agli italiani” – ma soltanto nelle tasche di certi italiani, bene inteso – 9
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che guarda caso ha portato in prima battuta all’abolizione dell’imposta di successione e donazione [18 ottobre 2001] ed ha risparmiato fiscalmente le rendite finanziarie, grandi e piccole, a scapito dei redditi da lavoro, che avrebbero dovuto assumersi l’onere crescente, senza alcuna contropartita, della pressione fiscale. E’ bene precisare che il consenso elettorale ottenuto dal berlusconismo e dal leghismo in questi anni difficili, di crisi complessiva della società italiana e di peggioramento delle condizioni di vita per gran parte della popolazione, ha valicato i confini di questi specifici gruppi, fino a carpire il voto di molti disoccupati, operai, casalinghe, impiegati, pensionati, del nord, nel caso della Lega, ed in tutta la penisola per quanto riguarda i cartelli elettori che fanno direttamente riferimento al nostro sgraziato “Tycoon di provincia”, ma la sostanza del discorso non cambia, perché la base essenziale del consenso, quella irrinunciabile, quella intorno alla quale è stata costruita la fortuna di tutto il cento‐destra nell’agone della politica sistemica, si identifica con i predetti gruppi sociali e con la tutela dei loro particolari interessi. Nel caso di Berlusconi e del suo cartello elettorale primigenio, Forza Italia, è soprattutto una distorsiva, istupidente e continua azione mediatica – iniziata negli anni ottanta [dal Drive In di Antonio Ricci su Italia 1, partito nel 1983, in poi], ben prima della sua improvvisa intrusione nella politica – che ha consentito al suddetto di estorcere a piene mani i consensi elettorali di soggetti deboli, culturalmente e non di rado socialmente, sommandoli ai voti del suo “zoccolo duro”. Nel caso della Lega Nord, i consensi sono stati gonfiati fin dall’inizio da una generica protesta, nel settentrione del paese, rivolta integralmente contro la politica di sistema e le sue dinamiche, nonché, più di recente, dall’incolpevole voto operaio che non sa più a quale santo votarsi. Un giorno, ricordando il fenomeno del berlusconismo indissolubilmente legato a questo tetro periodo della storia d’Italia, apparirà chiaro che dietro il cosiddetto scudo fiscale concesso alla grande speculazione ed alla criminalità organizzata, e dietro la stessa “licenza d’evadere” concessa ai piccoli impresari e ai furbi, si nasconde una precisa scelta di natura sociale e politica e nel contempo la necessità imprescindibile di conservare lo “zoccolo duro” del consenso elettorale. E’ per tale motivo – tenuto conto che in questa sede parliamo in prevalenza della “piccola evasione fiscale” – che le dimensioni del fenomeno in Italia hanno raggiunto livelli intollerabili, anche per un sistema liberaldemocratico che massacra i lavoratori coccolando i bottegai, gli impresari ed i furbi, esprimendo come inevitabile conseguenza volumi d’evasione non facilmente quantificabili, i quali oscillano fra i cento ed i duecento miliardi di euro l’anno, IVA compresa o esclusa ed in dipendenza della fonte consultata. Tale mercimonio, determinante negli ultimi due decenni assieme all’avanzare della globalizzazione per gli equilibri politici e gli squilibri sociali prodottisi in questo 10
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paese, è profondamente segnato dall’illegalità, ed anzi, è a sua volta all’origine di illegalità, di ingiustizia dal punto di vista sociale – e quindi sul piano etico, rappresentando uno dei principali fattori che alimentano il degrado complessivo del paese. Considerando questo aspetto, si riesce a cogliere un po’ meglio la vera sostanza del cosiddetto berlusconismo ed anche quella del leghismo bossiano. L’illegalità nasce, in prima battuta, dalla mancata applicazione e dal mancato rispetto della legislazione fiscale italiana, che pur esiste ed è in vigore, ed è un’illegalità voluta, tollerata e promossa, nel concreto, dalla politica berlusconiana e leghista, con lo scopo precipuo della difesa dei loro principali “bacini elettorali” e di consenso nella società, senza i quali non vi sarebbero né la proliferazione delle leggi ad personam, a difesa del Cavaliere, né l’incombente minaccia del federalismo fiscale leghista. Questo aspetto deleterio e per qualche verso decisivo nella vicenda italiana – non assolutamente corretto da una penosa sinistra sistemica, totalmente asservita ai potentati finanziari e militari anglo‐americani, nei periodi in cui è stata al governo – ha comportato minori risorse pubbliche da destinare alla scuola, alla sanità, all’assistenza dei malati e dei soggetti deboli, a quelle stesse infrastrutture che avrebbero dovuto favorire, in un’ottica squisitamente capitalistica, una ripartenza economica che non si è mai verificata. Ecco perché, banalmente, porgendo un unico esempio qualificante, in questo paese si è condotta una campagna di criminalizzazione rivolta contro i “falsi invalidi”, intendendo in realtà colpire – in nome di quella stessa giustizia che l’evasione fiscale ammessa quotidianamente viola – tutte le pensioni di invalidità, indiscriminatamente, nel tentativo di lasciare senza mezzi di sostentamento, peraltro già da tempo insufficienti in relazione al crescente costo della vita e dei servizi di assistenza, proprio gli invalidi veri, in paese in cui vivono oltre quattro milioni di disabili. Del resto, come si sbandiera ad arte per far passare in secondo piano i tagli alla socialità, questo è il paese del volontariato diffuso, che fortunatamente con la sua azione caritatevole allevia le sofferenze dei più deboli e supplisce a quei vuoti assistenziali, sempre più ampi, lasciati da uno stato sociale storicamente in ritirata. Non solo, ma diventa una scelta obbligata, in tali frangenti, massacrare fiscalmente i redditi di lavoro dipendente, dopo averli abbondantemente ridotti con l’applicazione dei contratti precari e a termine, con l’invenzione dei parasubordinati [i falsi lavoratori autonomi] e con i contratti nazionali truffa della cui parte economica beneficia la sola Confindustria, scaricando su questi redditi la parte maggiore della spesa pubblica. Infine, la questione dell’evasione fiscale e contributiva si sovrappone a quella del lavoro nero, del sommerso, dell’economia informale, con il lavoratore in nero che è 11
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costretto ad accettare condizioni di massima flessibilità, senza versamenti contributivi, senza il diritto alle ferie, alla malattia ed agli assegni familiari, semplicemente per poter lavorare e avere un reddito, o che in qualche caso accetta tali condizioni di buon grado, onde sfuggire all’allucinante pressione fiscale esercitata sui redditi da lavoro dipendente. A riprova dell’importanza della questione dell’evasione fiscale in Italia, che si interseca con quella della crescente ingiustizia sociale, è bene scomodare il professor Domenico Losurdo, filosofo marxista noto in tutta Europa, il quale di recente ha dichiarato che fra i due grandi problemi che hanno accompagnato la storia repubblicana nella penisola, accanto alla persistente sperequazione fra il nord e il sud, vi è quello dell’ingiustizia sociale che trova la sua manifestazione più clamorosa nell’evasione fiscale. Con riferimento all’evasione fiscale che tende ad assumere dimensioni intollerabili, in una recente intervista Losurdo ha dichiarato, senza perifrasi, quanto segue: E’ appena il caso di dire che questo flagello non è stato contenuto in alcun modo, anzi, semmai è diventato più scandaloso, più esplicito. C’è stato persino l’incoraggiamento del Presidente del Consiglio: egli ne ha parlato come di qualcosa che può essere tollerato nel caso in cui il singolo individuo, cioè il ricco capitalista, ritenga di essere stato troppo colpito dalla pressione fiscale. [Intervista a L’Ernesto Online di Domenico Losurdo a cura di Sara Milazzo, 24/11/2010, La controrivoluzione di fase e lʹesigenza sociale e politica della ricostruzione del Partito Comunista, http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19905] Per quanto riguarda il clownesco premier festaiolo di Arcore, che altri non è se non il Presidente del Consiglio chiamato in causa da Domenico Losurdo, tutti dovrebbero ricordare le sue passate dichiarazioni, in relazione ad una possibile riforma del sistema di imposizione fiscale sui redditi personali che fortunatamente non si è mai concretizzata. Un’imposta sui redditi personali strutturata su due, o peggio su una sola aliquota uguale per tutti, come era nelle intenzioni di Berlusconi quando ha esternato, pur essendo tecnicamente possibile rappresenta una palese ingiustizia che colpisce i redditi bassi, poiché, riflettendo sul caso di una sola aliquota pari ad un terzo dell’imponibile e soprassedendo sul mantenimento di unʹinsufficiente no tax area, diecimila euro su trentamila non pesano di certo nell’affrontare le spese della vita quotidiana come trentamila su trecentomila, ed ancor meno come trecentomila su tre milioni. La correzione dovuta ai carichi familiari, anche se rilevante, non può cambiare la sostanza del discorso. Del resto, se l’unica aliquota rappresenterebbe un’iniquità troppo scoperta, il progetto di riforma dell’imposizione sui redditi a due aliquote, del 23% e del 33%, 12
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risale all’ormai lontano 1994, ma è chiaro che quanto più si riduce il numero delle aliquote, e di conseguenza degli scaglioni di reddito, tanto più ci si allontana dall’equità fiscale. Questa “semplificazione” del sistema impositivo, agognata dal conducador mediatico italiota, è strettamente correlata alla volontà di rappresentare certi gruppi sociali, nella logica prima ricordata del voto di scambio, e di mantenersi al potere fidando sul loro appoggio, contrapponendosi muro contro muro al resto della società italiana. Non una parola, naturalmente – al di là di vaghe dichiarazioni di principio e di generiche condanne del fenomeno – sulla necessità e sull’urgenza dell’effettivo potenziamento del settore degli accertamenti fiscali, e quindi, sull’effettiva praticabilità di una capillare lotta all’evasione. Berlusconi e i caporioni leghisti sanno bene che impegni concreti in tal senso comprometterebbero la fiducia dello “zoccolo duro” elettorale, poiché la base delle loro fortune è rappresentata proprio dall’inquità fiscale e dall’illegalità espressa da un’evasione diffusa, che si concede a certi gruppi e a certe categorie a scapito di tutti gli altri. Strano che il personaggio in questione non sia andato oltre, fino a proporre un’imposta sui redditi regressiva, con aliquote decrescenti all’aumentare del reddito imponibile, che rappresenta eticamente e socialmente il punto massimo dell’iniquità. Certo è che chi non paga attualmente le imposte, perché appartiene ad una di quelle categorie che beneficiano della “tolleranza” politica nei confronti dell’evasione, elettoralmente interessata e nel pieno disprezzo della legislazione vigente, continuerà in futuro a non pagarle se gli sarà assicurata una relativa impunità, sia nel caso in cui le aliquote per scaglione scenderanno tutte di uno o due punti percentuali, ed anche se si imporrà il sistema ancor più iniquo a due sole aliquote. Per quanto riguarda Bossi – furente e volgare, a ruota libera davanti al suo popolume, del quale per l’occasione “parla la lingua”, ma sicuramente lucido e finalizzato ad ottenere precisi effetti politici ed elettorali in certe sue dichiarazioni pubbliche – nel tempo il suddetto non ha perso occasione per ricordarci pelosamente che il nord “paga le tasse”, insinuando che le pagherebbe anche per tutti gli altri. Peccato che il nord, così come lo intende Bossi, è rappresentato esclusivamente dal grottesco, feroce e per fortuna minoritario popolume leghista, e questo richiamo frequente alle “tasse” che il nord pagherebbe per intero, fino all’ultimo euro, rivela la volontà di nascondere la vera sostanza del legame fra Bossi e il suo elettorato, quella più concreta e tangibile, cioè lo scambio “voti contro la possibilità dell’evasione”. 13
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In quest’ottica va visto lo stesso federalismo fiscale – minaccia incombente per buona parte delle regioni italiane, comprese alcune regioni settentrionali che entrerebbero in serie ambasce –, il quale federalismo, nell’attuale versione leghista, si accompagna all’illusione, diffusa ad arte fra il popolume bossiano, che “i soldi resteranno a nord”, cioè nelle sue tasche. I “soldi che restano nelle nostre tasche” rappresentano un’illusione pericolosa, che i fatti puntualmente s’incaricheranno di smentire, e costituiscono, oggi, l’unica e la sola giustificazione del federalismo leghista capace di catturare il consenso dei cosiddetti ceti produttivi padani. E pensare che nel 1993 l’ideologo leghista Gianfranco Miglio, a quel tempo eletto come indipendente nelle liste della Lega Nord ed oggi quasi del tutto dimenticato, metteva in guardia contro i “falsi federalisti”, descrivendo un progetto federale [che comunque lo scrivente non condivide, è bene precisare subito] ben più ambizioso, complesso ed articolato di ciò che Bossi chiama federalismo, il quale prevedeva un governo direttoriale [e non certo presidenziale o con l’estensione del potere del capo del governo] per garantire a tutte le repubbliche diritto di voto su materie importanti per l’intera federazione, la conseguente ricostruzione dello stato fin dalle sue fondamenta, sulla base di una rinnovata legalità, e infine un’ampia autonomia impositiva concessa ai municipi ed alle repubbliche federate … Anche Miglio parlava, dal suo particolare punto di vista, di federalismo fiscale come passo decisivo della “rivoluzione”, senza il quale non ci potrebbe essere vero e compiuto federalismo, ma il fatto è che oggi il federalismo leghista sembra ridursi esclusivamente a questo – visto che le burocrazie politiche padane sono ormai del tutto interne al sistema di potere vigente – e rischia di provocare l’accentuarsi degli squilibri fra le regioni, rappresentando per l’intero paese una potente ed ulteriore spinta dissolutiva. Inoltre, un rovesciamento del sistema fiscale come quello auspicato a suo tempo da Gianfranco Miglio, che dovrebbe andare dal basso verso l’alto ampliando l’autonomia impositiva di municipi e regioni e riequilibrando la ricchezza sul territorio [Lega Nord, 17 dicembre 1993], oggi non può che rappresentare un concreto rischio di duplicazioni e una via per aumentare la pressione fiscale [anzitutto sui redditi di lavoro dipendente], poiché avverrebbe in una situazione di conti pubblici in bilico con sempre minori coperture per la spesa, dovuta all’azione congiunta della crisi in atto e dell’evasione diffusa che diminuiscono progressivamente i redditi imponibili. L’altro aspetto negativo rilevante da ricordare, è che ciò non può che avvenire nel quadro di uno stato la cui autonomia monetaria, finanziaria ed economica e la cui sovranità politica complessiva sono state abbondantemente ridotte dall’azione degli organi della mondializzazione [UE, UEM, BCE, FMI], imbrigliate attraverso 14
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accordi‐capestro come i “patti di stabilità” europei, significativamente diminuite dal mancato controllo della moneta, oggi saldamente in mani private globaliste. Il sogno ereditato da Miglio per una nuova costituzione federale di ampio respiro sembra essersi, dunque, definitivamente infranto, e ciò è accaduto, avendo attenzione per le sole ragioni endogene del disastro italiano, per la stessa natura del consenso leghista e di quello berlusconiano, entrambi fondati sulla pratica del voto di scambio e sull’illegalità diffusa, nonché sulla tutela dell’interesse particolare di gruppi minoritari nella società italiana. Può essere sufficiente richiamare, a riprova di quanto lo scrivente sostiene in questa sede, le stesse parole di Gianfranco Miglio, pronunciate nel 1993: Cercheranno per l’ennesima volta di ingannare gli italiani, e noi, con dei modelli di Costituzione federale fasulli, in cui i poteri saranno di nuovo nelle mani del potere centrale. [Lega Nord, 17 dicembre 1993] Una costituzione per i prossimi trent’anni, che fra l’altro è il titolo di un noto libro in cui Miglio spiega la sua visione, ancora non c’è in questo paese, e resta in vigore la vecchia costituzione repubblicana, peraltro disattesa sia dalla destra di Berlusconi sia dalla sinistra di sistema. Il federalismo bossiano avallato da un Berlusconi sempre più debole e sempre più bisognoso dell’apporto dei voti leghisti in parlamento, rientra proprio nei modelli fasulli temuti da Gianfranco Miglio, poiché è la risultante di un compromesso fra le brame berlusconiane centraliste, e la necessità del premier di mantenersi a qualsiasi costo al potere onde evitare i processi, e le esigenze bossiane di ammansire il suo popolume dandogli in pasto qualcosa, ad esempio uno pseudofederalismo che si limita ad aspetti della fiscalità. Sullo sfondo, permane immutata la sostanza del voto di scambio “evasione fiscale contro il consenso elettorale” che sostiene sia Berlusconi sia Bossi. Da parte sua, Berlusconi promette periodicamente riforme, costituzionali, liberali, liberiste, ma è impossibile fondare sul voto di scambio e sull’illegalità diffusa una nuova legalità e nuove istituzioni degne di rispetto. Il fondamento illegale ed anti‐etico del berlusconismo e del leghismo bossiano dovrebbe risultare chiaro come il sole alla generalità delle persone, ma così ancora non è, purtroppo, perché ipocrisia, disinformazione e distrazione mediatica, imbecillità artificialmente diffusa impediscono di vedere i veri pilastri sui quali si regge il potere berlusconiano‐leghista. Niente a che vedere, tutto questo, con la “falsa coscienza necessaria degli agenti storici”, la quale spingerebbe gli stessi bottegai, gli impresari, gli evasori fiscali, i patrimonializzati e speculatori vari ad appoggiare in buona fede il duo di governo, quali pretesi “ceti produttivi” che in tal modo si difendono, difendono i loro interessi e di riflesso difendono l’intero paese dall’egemonia definitiva della finanza americano‐globalista – come qualche squinternato o qualche filo‐berluscones 15
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mascherato potrebbe sostenere [a questo proposito, oltre a Libero, Il Giornale e La Padania, vedi il blog Conflitti e Strategie come esempio di idiozia estremizzata], e perciò si riservi questa impegnativa espressione, che presuppone sempre la buona fede degli agenti, a ben altre situazioni storiche, politiche e sociali. Del resto, ricordando ancora una volta le parole dello scomparso professor Gianfranco Miglio, apprendiamo che In molti credono che questo sia il momento del demiurgo. Cioè del personaggio che arriva con poteri speciali, si impone e salva tutti. E’ un’idea profondamente antidemocratica, oltre che criminalmente stupida. [Gianfranco Miglio, Attenti al demiurgo!, Panorama, 16 aprile 1994]. Il demiurgo in questione, stigmatizzato come un pericolo immanente dal professor Miglio, non è altri che Silvio Berlusconi, quello stesso Berlusconi che oggi la Lega bossiana puntella instancabile cercando di assicurargli la maggioranza, onde evitare la sua prematura uscita di scena e il conseguente allontanamento della burocrazia politica leghista dal governo di Roma. E’ chiaro che uno come Gianfranco Miglio, il miglior intellettuale, se non l’unico, che la Lega ha avuto dalla sua parte fin dal debutto nella politica nazionale, non avrebbe visto di buon occhio le pretese berlusconiane, avanzate in questi ultimi anni di governo e di ampio consenso, di estendere i poteri e le prerogative del capo dell’esecutivo, in una folle centralizzazione personalistica. L’epoca di Berlusconi sembra però essere giunta alla fine, come ci rivelano molti segnali, a partire da quegli stessi sondaggi che hanno orientato il demiurgo “de noantri” e nel contempo influenzato il consenso a suo vantaggio, ed anche il 44esimo Rapporto Censis avverte che il lungo ciclo iniziato negli anni ottanta – quello del decisionismo e della voglia di governabilità che ha suscitato l’illusione antipolitica, ed ha portato alla verticalizzazione ed alla distruttiva “politica del fare” – è ormai arrivato al capolinea, dopo l’apogeo toccato nel primo decennio di questo secolo. Se Berlusconi ha “spopolato” nei primi anni del nuovo millennio, il ruolo della sinistra politica sistemica, da quella liberalsocialista a quella ridicolmente chiamata radicale, o ancor più ironicamente massimalista, in questo decennio è sembrato non a torto secondario, privo di una vera sostanza programmatica alternativa, e quindi decisamente minore. In questi anni la sinistra è andata a rimorchio, e quando ha avuto responsabilità di governo, non solo non ha cercato di invertire la tendenza – combattendo ad esempio l’evasione, quanto meno la “piccola” evasione che non può rifugiarsi negli intangibili paradisi fiscali, rivalendosi di conseguenza sui gruppi sociali che la esprimono – ma, al contrario, ha dato il suo contributo al massacro dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, dei giovani, della socialità in generale. Il secondo governo di Romano Prodi si è spinto fino allo “scippo” delle tredicesime, che ha alimentato l’indimenticabile “tesoretto” di Visco e Padoa‐Schioppa lasciato 16
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in eredità a Berlusconi, Bossi e Tremonti [un extragettito definito virtuoso e stimato in circa 10,7 miliardi di euro], secondo i suddetti “sinistri” frutto tangibile di una lotta serrata e capillare all’evasione. Questa sinistra, totalmente priva di programmi politici e di idealità, ma non priva di rapaci burocrazie, se mai tornerà ad assumere responsabilità di governo, non si sognerà neppure di rispondere con un deciso “niet” alle richieste dei dominanti americani, anche se queste dovessero comportare lo smantellamento definitivo degli ultimi grandi gruppi industriali italiani [Eni, Finmeccanica, Fincantieri], non salverà ciò che rimane dello stato sociale e della scuola pubblica, non combatterà l’evasione fiscale e contributiva, a partire dalla “grande evasione” che è consustanziale a questo capitalismo, e non si sognerà di contrastare concretamente ed efficacemente l’economia criminale propriamente detta, il lavoro nero ed il sommerso avanzanti. Si tratta, insomma, di una sinistra mercenaria, lontanissima dai bisogni reali e dalle istanze concrete dei subalterni, che non avrà alcuna difficoltà a continuare sulla strada della flessibilizzazione del lavoro dipendente, supportando quella lotta di classe a senso unico che in occidente è portata avanti dai globalisti, e nel contempo ad imporre privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto vantaggio del grande capitale finanziario. Per quanto riguarda i gruppi sociali definiti dallo scrivente, senza mezze misure o ipocrisie di sorta, i “cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, rileviamo che da qualche mese è stata costituita la R.ETE. Imprese Italia – in rappresentanza di oltre due milioni di piccole entità con circa quattordici milioni di addetti, fra botteghe, piccole imprese, laboratori artigianali e simil, la quale nel suo breve manifesto costitutivo sostiene che Il futuro del Paese è inscindibilmente legato alle piccole e medie imprese ed all’impresa diffusa, chiave di volta della sua competitività, struttura portante dell’economia reale e dei processi di sviluppo territoriale, luogo di integrazione e costruzione delle appartenenze. [Il Manifesto delle Imprese del Territorio] In queste parole è contenuta parte significativa del dramma della società italiana e dei suoi assetti produttivi, perché dovrebbe essere ormai chiaro che la frantumazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole entità esposte a tutte le intemperie e non di rado inefficienti, che sopravvivono grazie ai contratti di precarietà, al nero, alla compressione del costo del lavoro e all’evasione diffusa, in alcun modo può e potrà costituire un punto di forza, all’interno delle stesse logiche capitalistico‐globaliste. Questa associazione mercantile‐industriale‐artigianale dei piccoli e dei medio‐
piccoli, cioè dei più poveri fra i ricchi anche loro a rischio di ri‐plebeizzazione negli anni venturi, è nata dal “Patto del Capranica” [stipulato nel maggio del 2010 in un cinema di Roma] che ha unito varie entità quali la Confcommercio che fu di Sergio Billè, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani, CNA. 17
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Con la costituzione della R.ETE., si è voluto dare rappresentanza unitaria, in chiave lobbistica nella realtà sociale ed economica italiana, alla piccola intermediazione commerciale ed alle medio‐piccole, piccole o piccolissime imprese. Mentre la piccola intermediazione commerciale è caratterizzata sostanzialmente da un pletora di botteghe che da decenni appesantiscono la rete distributiva nazionale, facendo lievitare i costi dei prodotti al dettaglio e quindi contribuendo alla temuta “riduzione dei consumi”, le medio‐piccole, piccole e piccolissime imprese sono proliferate grazie da una serie di fenomeni economico‐sociali pregressi, in buona parte negativi, quali, ad esempio, la frantumazione del tessuto produttivo nazionale e la progressiva scomparsa grazie a privatizzazioni e svendite della grande industria, o la difficoltà di accesso a posti di lavoro stabili e decentemente retribuiti sia nel settore pubblico sia in quello privato. Questi gruppi, come appare nei loro documenti, sostengono che Il federalismo fiscale può arginare il dilagare della spesa pubblica: il passaggio dalla spesa storica a quella standard per le funzioni essenziali delle Regioni e ai fabbisogni standard per il finanziamento delle funzioni fondamentali degli enti locali dovrebbe garantire il contenimento della spesa coniugata ad un miglioramento nella qualità della spesa. [Ripensare alla crescita del paese: strategie e scelte di medio termine] Non li sfiora minimamente il dubbio che sulla questione della spesa pubblica, la quale trova sempre minor copertura nelle entrate fiscali, pesi come un macigno – quale importante ma non unico fattore, bene inteso – la questione dell’evasione grande e piccola, questa ultima espressa da una parte non trascurabile dei loro affiliati. Né considerano il piccolo particolare che una parte rilevante delle entrate delle regioni e degli altri enti locali territoriali deriva dai trasferimenti di risorse dal centro, e non dall’imposizione fiscale locale. O meglio, chiedono per loro stessi nuove agevolazioni fiscali, con la solita scusa, trita e ritrita, dell’estensione della base occupazionale, ed invocano un fisco meno oneroso, ma soltanto per le loro attività e per chi vuole diventare, in pieno accordo con la propaganda neoliberista flessibilizzante, “imprenditore di se stesso”, naturalmente se dispone dei mezzi privati per poterlo fare. Perfettamente nel solco della politica berlusconiana, i suddetti richiedono: la prosecuzione della detassazione della componente “di risultato” del salario, cioè quella più aleatoria e variabile, che riguarda essenzialmente straordinari e premi di produzione e che risulta vantaggiosa in primo luogo per i datori di lavoro, la riforma dei contratti di lavoro nel senso voluto dal governo, da Confindustria e dalla Cisl, ed un rafforzamento degli Enti bilaterali, per scongiurare il riapparire di una più che giustificabile conflittualità, di matrice antagonistica, negli attuali rapporti di produzione. 18
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Leggendo con la dovuta attenzione i testi disponibili in rete, la R.ETE. Imprese Italia – che parla esclusivamente per i “titolari”, è bene ricordarlo, e non certo per i molti milioni di dipendenti che in tali aziende lavorano – mostra di aderire pienamente alle politiche berlusconiano‐leghiste, a partire dal federalismo fiscale, e tutto questo non può certo essere privo di un chiaro significato politico e sociale. Credere che sia possibile una saldatura fra costoro, da un lato, il lavoro operaio e quello dipendente in generale, dall’altro lato, fra costoro e quella parte del vecchio ceto medio che esprime, in qualità di dipendenti pubblici o privati, il lavoro intellettuale, fra costoro e i giovani in cerca di un’occupazione stabile e dignitosamente retribuita, fra costoro ed i precari della scuola e delle università, costituisce, per come la pensa lo scrivente, un esercizio di pura fantasia, o un modo subdolo per cercare di neutralizzare la sacrosanta protesta sociale che potrà montare, nei prossimi due o tre anni, anche in questo paese, imbrigliandola attraverso alleanze controproducenti e innaturali. Nel novero dei “cattivi” rientrano a pieno titolo le burocrazie politiche dei partiti sistemici, svuotati di rappresentanza effettiva, ridotti ai minimi termini come numero di militanti attivi, portatori di programmi‐fotocopia od anche di nessun programma politico definito [vedi in proposito il caso penoso del Pd], ma comunque dotati di costose strutture e di numerosi quadri “voraci”, che operano esclusivamente allo scopo di assicurarsi privilegi, lauti redditi personali e comode scorciatoie per la carriera. Il peso dei predetti tende a diventare particolarmente intollerabile, in periodi di crisi, poiché si tratta di quasi cinquecentomila individui, consigli circoscrizionali, “consulenze” e portaborse compresi. Gli “occupati in politica” li possiamo ormai considerare come un gruppo sociale a sé stante, non soltanto per il peso numerico che hanno nella società. Da tempo possiamo constatare la loro manifesta subalternità al mondo degli affari, la mancanza totale di idealità ben testimoniata da programmi politici “replicanti”, fotocopia o addirittura dall’assenza degli stessi [come se rappresentassero una protesi inutile], nonché la concordanza di interessi concreti e la corruttibilità che generalmente li caratterizza, da intendersi come propensione a scambiare qualsiasi cosa sia nella loro disponibilità [appalti e risorse pubbliche, pacchetti di voti, eccetera] in cambio di vantaggi personali ed immeritati benefit. Al di là delle apparenti differenze di schieramento, la cosiddetta classe politica costituisce perciò un gruppo sociale compatto nel difendere i propri interessi, integralmente parassitario e scopertamente nocivo. La prova che la politica minore dell’epoca si è trasformata in una “professione”, particolarmente lucrosa per chi riesce a raggiungere certi livelli, si è avuta innumerevoli volte in questi anni, ed infatti, molti parlamentari dell’opposizione sistemica sperano che Berlusconi riesca ad ottenere nuovamente la fiducia, in 19
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questo mese di dicembre del 2010, piuttosto di arrivare allo scioglimento delle camere e a nuove elezioni politiche, essenzialmente perché fanno parte di quegli oltre trecento membri del parlamento che non hanno ancora “maturato la pensione”. Rilevante è anche il peso degli affiliati alla grande criminalità organizzata, che spesso si intreccia con la politica sistemica a tutti i livelli, quelli locali e quello nazionale, il che non significa considerare nel novero soltanto la manovalanza camorrista nei quartieri di Napoli, i gruppi di fuoco della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, ma anche i colletti bianchi, i professionisti di supporto, gli “impiegati” e simili figure sempre più essenziali, diffuse a sud come a nord della penisola. L’Italia intera è attraversata da un gran numero di “zone grigie”, in cui l’illegalità si leva come una nebbia che rischia di avvolgere l’intero paese. Queste “zone grigie” non di rado si sovrappongono, e così è, infatti, per quanto riguarda l’evasione e l’elusione fiscale, il lavoro nero e l’economia informale, il lavoro schiavo, la politica minore che si lascia corrompere da impresari e malavitosi, e purtroppo ciò risulta particolarmente vero per l’economia formalmente e penalmente definibile criminale, al punto che oggi si afferma che la capitale “finanziaria” della grande malavita organizzata è diventata quella Milano in cui si concentrano i “danè” e gli affari, e non è più la Palermo dei tradizionali “mammasantissima”. Se il nord è territorio d’affari per la criminalità organizzata, è comunque nel sud che questa riesce ad espandersi, nella crisi generale della società italiana, estendendo progressivamente il controllo effettivo del territorio, quale stato nello stato, come risulta dal 44esimo Rapporto del Censis: La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta almeno un indicatore di criminalità organizzata, coinvolgendo l’83,1% della popolazione), segue la Puglia (con il 43% dei Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%). E’ persino evidente che l’espansione dello “stato di mafia” a sud, con importanti diramazioni affaristiche nel nord, è reso possibile dalla connessione sempre più stretta fra la criminalità organizzata e la politica sistemica, di maggioranza [Lega Nord compresa] e di minoranza. La sorte degli addetti alle attività extralegali e legali della malavita organizzata, dai professioni di supporto ai gruppi di fuoco della camorra, è legata alle fortune e all’espansione dello “stato di mafia”, nelle sue complesse relazioni con la politica locale e l’economia capitalistica legale, e perciò non potranno che difendere con ogni mezzo questo stato di cose. Con oltre cento e quaranta mila iscritti in rappresentanza di imprese di ogni dimensione, ma in particolare di quella grande e media industria che è minoritaria 20
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in un tessuto produttivo frantumato in una miriade di piccole entità, Confindustria fa indubbiamente parte dei “cattivi” che animeranno il futuro scontro sociale in Italia. Si può agevolmente notare che se da un lato questa organizzazione è interessata a spingere fino alle estreme conseguenze la manovra precarizzante e flessibilizzante nei confronti del lavoro dipendente, iniziata negli anni ottanta, proseguita negli ultimi due decenni e mai più arrestatasi, dichiarando pubblicamente di farlo in nome della “competitività”, dell’”efficienza”, della “produttività” – in una, in nome della Legge del Mercato, dall’altro chiede continuamente iniezioni di soldi pubblici, in via diretta o indiretta, fino a spingere per la svendita del patrimonio dello stato e degli enti locali, risorse che una politica compiacente non ha avuto e non avrà difficoltà a sottrarre al welfare ed alla socialità nel suo complesso. Confindustria, in poche parole, esprime la tendenza liberal‐capitalistica consolidata a socializzare le perdite private ed a privatizzare le risorse collettive, agitando l’improbabile carota della creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato, e il bastone minaccioso dei licenziamenti e della disoccupazione. Oltre all’incapacità manageriale e all’”arretratezza” che caratterizzano molta parte dell’industria privata italiana grande e piccola, diversa da quel “capitalismo della borghesia” tedesco che resiste meglio alla crisi, dietro questa tendenza si nasconde neppure troppo bene la vera sostanza del Libero Mercato autocratico, fondato su espropri, razionamenti e ricatti socialmente intollerabili. Un altro gruppo di “cattivi” è ben rappresentato dai quadri dei sindacati gialli – CISL, UIL, UGL e altri minori – che hanno svenduto i diritti dei lavoratori e il loro stesso futuro, attraverso specifici accordi volti a demolire progressivamente sia la parte economica sia quella dei diritti nei rinnovi dei contratti nazionali di categoria. Anzi, questi pseudo‐sindacati riconvertitisi rapidamente in centrali al servizio del Nuovo Capitalismo, partecipano attivamente all’attacco complessivo al lavoro, in qualità di truppe ascare, rendendosi immediatamente disponibili a supportare operazioni come quella orchestrata dalla Fiat a Pomigliano, oppure per la “riforma” del Contratto Collettivo Nazionale di categoria, ultimo baluardo dei lavoratori assieme allo Statuto dei Lavoratori del 1970, che con tutta evidenza si vogliono togliere rapidamente di mezzo. Non è questa la sede per approfondire in termini tecnici, contrattuali e normativi il discorso della de‐emancipazione del lavoro in Italia, iniziata simbolicamente con la marcia dei quarantamila quadri e impiegati della Fiat a Torino nel 1980, pur trattandosi di un discorso di sostanziale importanza per la riproducibilità sistemica complessiva, ma è importante almeno accennarlo. Deroghe sempre più ampie al Ccnl nellʹattesa di sostituirlo con un “contratto leggero” a tutele ridotte, attivazione degli Enti bilaterali, inerzia davanti all’approvazione in parlamento dell’arbitrato, accettazione del piano Marchionne 21
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per Pomigliano d’Arco, costituiscono il prezzo che un certo sindacalismo ha accettato di pagare – o meglio, ha deciso di far pagare a tutti i lavoratori – per il mantenimento dei suoi centri di potere e dei suoi privilegi. Questo ultimo gruppo di “cattivi” – degnamente simboleggiato dalla figura di Raffaele Bonanni al vertice della Cisl, che è il pesce più grosso nello stagno putrescente del sindacalismo giallo – è particolarmente odioso, perché disposto a vendere anche la pelle dei propri stessi iscritti, che sono pur sempre lavoratori dipendenti minacciati quanto gli altri dalla de‐emancipazione e dalla disoccupazione, in cambio del mantenimento di un potere ormai del tutto autoreferenziale, e personale ai vari livelli della gerarchia. In coda, è opportuno far riferimento a quei settori della magistratura che si sono costituiti, de facto e non de iure, in potere politico autonomo, con la pretesa di condizionare i governi – Prodi o Berlusconi non importa – per mantenere il proprio status di privilegio e “orientare” la politica nel senso voluto, mentre i processi, per la gente comune che in questo sistema non conta, si accumulano come montagne di pratiche inevase, poiché non garantiscono rapide carriere, lustro mediatico e non rientrano nella logica perversa della lotta fra poteri dello stato. Non si vuole qui affermare che i processi innescati contro Berlusconi non nascono dai reati che il Cavaliere ha commesso, e continua a commettere invocando per sé stesso e i suoi sodali impunità ed intangibilità, ma sta di fatto che la giustizia civile e penale, in generale, da anni subisce un degrado che non accenna ad arrestarsi. Così, all’inizio del 2009 i procedimenti civili pendenti erano cinque milioni e quattrocentomila, ed i procedimenti penali “non evasi” oltre tre milioni e duecentomila. Questa incuria, della quale dovrebbe rispondere in primo luogo la magistratura, oltre a causare danni e sofferenze crescenti alla popolazione, alimenta l’abuso, la prevaricazione, la violenza “macro e microcriminale” e contribuisce a diffondere l’illegalità, nella fondata speranza che la pena potrà non arrivare mai, se i tempi medi sono lievitati negli anni a quasi mille giorni per il primo grado del processo e ad oltre mille e cinquecento per il giudizio di appello. Gli attacchi al lavoro, l’evasione concessa, la giustizia inceppata, il garantismo castale, l’economia criminale tollerata, gli appalti truccati, i costi e le vistose inefficienze della politica liberaldemocratica non sono che altrettanti sintomi dell’estinzione dell’etica, il miglior humus per la diffusione dell’illegalità, e le principali ragioni endogene del futuro conflitto sociale nella penisola. 22
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2 giugno 2010
I buoni 13 dicembre 2010 Nell’individuazione degli amici e dei nemici sul piano sociale e politico, in questa sede provocatoriamente definiti “buoni” e “cattivi”, è necessario precisare che il Nemico Principale nella dimensione sociale è e rimane la Global class, in qualità di agente del capitalismo contemporaneo, ed in quella politica è rappresentato dalla cosiddetta liberaldemocrazia, che universalizza un suffragio impotente e impone l’istituto della rappresentanza. La longa manu dei globalisti è penetrata nel nostro paese fin dagli inizi degli anni novanta e nel prossimo futuro cercherà di “stringere il pugno”, per impossessarsi delle ultime risorse, compromettendo la sopravvivenza di quel che rimane della grande industria nazionale, ancora totalmente in mani pubbliche [in quelle del tesoro, per quanto riguarda la Fincantieri], o comunque ancora legata al settore pubblico con partecipazioni e “golden share” [Eni, Enel, Finmeccanica]. Altri pesanti effetti negativi si produrranno in conseguenza dell’attacco finale al sistema pensionistico e ai diritti dei lavoratori, che da qualche tempo è in cantiere e si svilupperà probabilmente dopo la caduta di Berlusconi o dopo la sua capitolazione compromissoria. Workfare di matrice anglosassone o forme simili e meno “costose” in sostituzione del welfare, “contratto leggero” a tutele ridotte in sostituzione del Ccnl, estensione dell’area della precarietà e pensioni ridotte all’osso, rappresenteranno altrettante minacce per la maggioranza della popolazione italiana, modificando completamente il quadro dei rapporti sociali e le prospettive future. Gli apparati ideologico‐mediatici ed accademici sono arrivati al punto di arruolare i demografi, come è accaduto con Antonio Golini, per giustificare futuri innalzamenti dell’età pensionabile, da collegare all’innalzamento progressivo della vita media ed alla sconfitta della cosiddetta morte precoce. Oppure si fa credere che il processo di deindustrializzazione innescato dalle delocalizzazioni, dal reengineering volto a ridurre gli occupati e dalle chiusure aziendali che hanno interessato l’Italia in questi ultimi dieci o quindici anni può essere fonte di competitività, e quindi un dato positivo, un’opportunità, sviluppando in sostituzione delle unità produttive decedute, delocalizzate o ridotte all’osso un terziario evoluto [ricerca, consulenza, servizi informatici] non certamente in grado di riassorbire la massa dei lavoratori espulsi dal manifatturiero, e non in grado di porre veramente rimedio alla “desertificazione” avanzante. Rilevanti effetti negativi discenderanno dalla compressione dell’occupazione nel settore pubblico, dagli enti locali all’amministrazione centrale, dalla scuola alla sanità, ben oltre le millantate esigenze di “efficientamento” dello stesso. 23
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2 giugno 2010
Dopo anni di propaganda incessante “contro le inefficienze” della pubblica amministrazione e di attacchi mirati contro il pubblico impiego – I Nullafacenti, dell’ex comunista Pietro Ichino riconvertitosi in supporter dei macellai sociali, ne rappresentano una significativa testimonianza – ai quali non si è peraltro accompagnata un’adeguata riforma dello stesso, ma soltanto qualche misura punitiva nei confronti di gruppi di dipendenti dell’amministrazione [pensiamo ai “tornelli” di Brunetta o al più importante blocco delle retribuzioni e del turn‐over], ridurre drasticamente i posti di lavoro nel settore pubblico potrà risultare più facile, suscitando minori opposizioni e resistenze in una compagine sociale prostrata dalla crisi, manipolata e flessibilizzata. La violenza verbale di Ichino nei confronti dei dipendenti pubblici, descritti come portatori di un’odiosa rendita parassitaria nella sua opera più tristemente famosa [I Nullafacenti] e nelle interviste, nasconde il fine di tagliare le retribuzioni e soprattutto l’occupazione nel settore pubblico, rilasciando risorse per l’”iniziativa privata” ed in definitiva per la speculazione finanziaria, nel solco dei diktat globalisti. Se si vuole che tutto funzioni come un’azienda – scuole ed ospedali compresi – tutto sarà sempre di più assoggettato alle regole stringenti ed alle espropriazioni del Libero Mercato, senza alcuna considerazione per gli aspetti sociali, per il diritto al lavoro e allo studio, per i diritti dei malati e per la stessa conservazione dei “beni pubblici puri”, i quali, per la loro stessa natura, sono estranei ai meccanismi di funzionamento del mercato. Business della sanità e business dell’istruzione, frontiere irrinunciabili dell’esproprio e lucrosi mercati da sfruttare, nella più perfetta aderenza alle logiche di questo capitalismo si sostituiranno sempre più velocemente alla scuola ed alla sanità pubbliche che hanno garantito dal dopoguerra ad oggi scolarizzazione di massa e la mutua per tutti, così come al diritto al lavoro, all’istruzione e all’accesso ai medicinali ed alle cure mediche si sostituirà la posizione imposta a ciascuno, nell’ordine sociale, dal Mercato, e per i più deboli ed esposti ci sarà pur sempre il conforto della carità privata, del volontariato diffuso e della religione. La riduzione ai minimi termini delle competenze e dell’azione dello stato, nonché della spesa pubblica nel suo complesso, sarà l’obbiettivo precipuo del prossimo governo nazionale – con o senza federalismo fiscale bossiano e “spesa standard” imposta alle regioni – poiché, come ha scritto il padre del peggior liberalismo contemporaneo, Milton Friedman, il ruolo del governo è quello di fare soltanto ciò che il Libero Mercato non può fare da sé, e L’esistenza di un governo, da questo punto di vista, è resa necessaria dal fatto che la libertà assoluta è impossibile. Per quanto seducente possa essere, sotto il profilo dottrinale, l’anarchia, essa, tuttavia, non è attuabile in un mondo di uomini imperfetti. [Efficienza economica e libertà, titolo originale Capitalism and Freedom, Vallecchi editore Firenze, 1967] 24
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Visto che il Mercato sembra in grado di fare ogni cosa, o almeno così si fa credere, esattamente come faceva il Friedman che osservava la società americana negli anni cinquanta e sessanta – sostenendo, all’epoca, che il Mercato Libero era perfettamente in grado di occuparsi del servizio postale e di rompere finalmente uno storico monopolio dello stato – il ruolo del governo e delle amministrazioni pubbliche in generale, all’interno dell’organizzazione statuale, non può che ridursi all’essenziale, fissando “le regole del gioco” [oggi peraltro fissate dagli organi della mondializzazione, con ricadute negative, attraverso gli stati e i singoli governi, sulle popolazioni] e assicurando, di conseguenza, il più agevole scorrimento dei capitali finanziari in ogni dove. I lineamenti anarchici di questo capitalismo senza ridistribuzione della ricchezza, con la pretesa della riduzione aziendalistica di ogni attività sociale, saranno evidenti anche nelle misure adottate dai futuri governi italiani, che faranno seguito al quarto esecutivo Berlusconi. Nel tentativo di evitare l’insorgere di un’autentica protesta sociale in tutta la penisola, certe misure estreme d’esproprio e di de‐emancipazione dei subalterni potranno essere più facilmente imposte da un governo compromissorio post‐
berlusconiano, con la partecipazione di futuristi, centristi, rutelliani, o scopertamente anti‐berlusconiano e di “centro‐sinistra”, da Bersani a Vendola. Alla bisogna potrebbe anche servire, pur se non rappresenta la soluzione migliore per gli interessi finanziario‐globalisti, un nuovo esecutivo Berlusconi – che sarebbe il quinto e l’ultimo – oppure il vecchio in carica con risicata maggioranza, in grado però di reggere fino alla fine della sedicesima legislatura. Si vedrà dopo la fatidica data del 14 di dicembre del 2010 e durante i due o tre mesi successivi. Un simile esecutivo non potrebbe che nascere da un compromesso segreto, che da un lato manterrebbe in carica l’attuale premier, interessato esclusivamente a non finire nel buco nero dei processi e dell’esproprio del suo impero privato, e dall’altro – autentico “patto leonino” imposto al conducador mediatico italiota, ormai indebolito dalle fronde interne, dagli scandali e dalla perdita di gradimento nei sondaggi – consentirebbe l’attivazione piena e l’accelerazione delle predette politiche economiche e sociali. Gli attacchi contro la socialità, il lavoro, la giustizia distributiva e l’etica, bene impostati dagli ultimi esecutivi berlusconiano‐leghisti, continueranno a spron battuto, estendendosi e approfondendosi dopo la caduta del “cavaliere festaiolo” o la sua capitolazione compromissoria, che gli consentirebbe di evitare i processi e di chiudere la legislatura alla bella età di settantasei anni, mantenendosi in sella fino al 2013. Al di là del risibile discorso relativo alle future maggioranze parlamentari liberaldemocratiche, che comunque sia non potranno che fare da schermo agli 25
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appetiti del capitalismo finanziario e veicolare le “sue” politiche, ciò che conterà sarà che continueranno, subendo un’ulteriore accelerazione, gli interventi di privatizzazione, e quindi i saccheggi del patrimonio pubblico a scopi privati, e la demolizione fin dalle fondamenta della socialità. Nel cupo contesto sociale, politico ed economico che si prospetta, sembra perciò ragionevole attendersi nuove e più estese tensioni, l’insorgere di rischi di conflitti insanabili fra gruppi contrapposti, quanto ad interessi e condizioni materiali di vita, e fra questi ed il governo nazionale che sarà in carica. La frantumazione dell’ordine sociale imposta da questo capitalismo, l’isolamento dei singoli destinati a diventare merce‐lavoro e unità di consumo, oppure degli esclusi perché inutili nella Creazione del Valore finanziaria, azionaria e borsistica, hanno la funzione di blandire, ed anzi di prevenire, le reazioni collettive all’esproprio e al nuovo sfruttamento integrale dell’uomo, e perciò seminano l’inimicizia fra i gruppi sociali e i singoli, attivando una competizione esasperata di cui può beneficiare soltanto, per riprodursi all’infinito, l’impersonale ed anonimo meccanismo capitalistico. Se l’individuazione dei nemici nel futuro scontro sociale risulta piuttosto agevole, a partire dal Nemico Principale contemporaneo, fino a giungere a quei gruppi sociali e politici interni nel precedente capitolo di questo saggio definiti “cattivi”, l’individuazione degli amici, qui definiti un po’ enfaticamente i “buoni”, non lo è altrettanto, poiché i veri amici si rivelano tali nel momento del bisogno, nel corso di un’emergenza o nello sviluppo di un processo rivoluzionario di liberazione costellato di lotte e di pericoli, e tuttavia si può ragionevolmente cercare, fin d’ora, di individuarli con sufficiente chiarezza. Il processo di liberazione umana è un percorso lungo ed incerto, un percorso storico inconcluso che non può iniziare se non con una rivoluzione, e svilupparsi nei secoli attraverso rivoluzioni successive, le quali rappresentano la condizione necessaria ma non sufficiente per consentire lo sviluppo futuro di tale processo, nel corso del quale, ed in particolare nei suoi momenti più critici e decisivi, si potranno riconoscere i veri “amici”. Il quadro generale è certamente fosco, e lo è anche in Italia, in cui ai fattori esogeni di crisi, che investono con i loro effetti negativi buona parte dell’occidente, si sommano fattori endogeni preoccupanti di un certo rilievo – quali l’inadeguatezza di una politica che oscilla fra corruzione endemica e totale incompetenza, la forza crescente della criminalità organizzata, gli squilibri sociali approfonditisi di recente e quelli territoriali ormai storici, le spinte separatiste e dissolutive – ma esiste pur sempre una speranza che si riattivi il processo rivoluzionario di liberazione, e questa speranza risiede nella stessa natura umana, poiché L’uomo è per natura un essere sociale e comunitario o, più precisamente, un ente naturale generico. E’ dunque impossibile manipolarlo al punto tale da ridurlo ad una sorta di individuo puro ed astratto, 26
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un semplice supporto del sistema dell’individualismo proprietario capitalistico. [Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente] Il dubbio che può sorgere in questa analisi – dubbio che lo scrivente purtroppo non è in grado di sciogliere completamente – è se i gruppi amici, potenzialmente anticapitalisti, mostreranno compattezza nell’affrontare il nemico e lineamenti solidaristico‐classisti, in una lotta finalizzata a riattivare processi emancipativi che da un paio di decenni a questa parte il nuovo capitalismo è riuscito ad interrompere, o se si tratterà, al contrario, di sporadiche battaglie di retroguardia delle vecchie classi morenti, le quali resisteranno all’avanzare del nuovo ordine prima di estinguersi completamente. O peggio ancora, non è facile prevedere se il futuro ci riserverà insurrezioni spontanee, scollegate le une dalle altre, suscitate da emergenze sanitarie, ecologiche e sociali, a macchia di leopardo sul territorio, e torbidi non più limitati alle esplosioni di rabbia delle sotto‐classi urbane, che si accenderanno improvvisamente e rapidamente si spegneranno, lasciandosi alle spalle macerie e caos. Fatti come quelli di Rosarno, le continue manifestazioni degli aquilani in conseguenza della mancata ricostruzione post‐terremoto, la rivolta nei quartieri periferici di Napoli e nel suo hinterland per l’endemica emergenza rifiuti, la guerriglia urbana esplosa nella capitale il 14 dicembre del 2010, potrebbero rappresentare un primo assaggio di scenari insurrezionali e di torbidi, diffusi in tutta la penisola con esiti finali dissolutivi, che potrà riservarci il prossimo futuro. In questo ultimo caso, che è il più insidioso ed anche il più “illeggibile” sia dal punto di vista politico sia da quello sociale, gli scenari tipicamente insurrezionali non potranno portare niente di buono, in particolare per i subalterni che saranno costretti a subire violenze e repressione, e che sconteranno una repentina caduta delle loro già difficili condizioni di vita. Osserviamo con estrema chiarezza, in quest’ultimo scorcio del 2010, la tendenza dei gruppi politici interni al sistema liberaldemocratico a fortificarsi in “zone rosse”, protette da polizie mercenarie e da cordoni sanitari, consumando fino alle estreme conseguenze quel “distacco dalla società” che si è approfondito nel corso dell’ultimo decennio, e che rappresenta ormai un’evidenza. Il futuro scontro sociale, in dipendenza della direzione che prenderà e che oggi non è ancora prevedibile, si aprirà a diversi esiti possibili, i quali si possono riassumere, in sintesi, come segue: 1) Esiti positivi, emancipativi e trasformativi, che delineano l’innesco di un processo rivoluzionario, con la riemersione definitiva del problema sociale e l’attivazione della lotta di classe, esiti ai quali lo scrivente non crede [purtroppo] che si possano assegnare grandi probabilità nel breve periodo, poiché la classe subalterna, nel nuovo ordine, è ancora in via di formazione e 27
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l’indispensabile elemento coscienziale non sembra ancora emergere con la dovuta chiarezza, come è apparso negli ultimi scioperi e nelle ultime manifestazioni dei lavoratori, nonché nella recente rivolta di studenti e precari della scuola contro la cosiddetta riforma Gelmini. 2) Esiti sostanzialmente negativi, in conseguenza di pure battaglie di retroguardia delle vecchie classi sociali morenti, lotte parcellizzate di natura prettamente sindacale e rivendicazionista, o ancor peggio di natura corporativa e “lobbistica” in opposizione reciproca [mors tua, vita mea], destinate a spegnersi in breve tempo senza lasciare troppe tracce nella società, oppure ad arrestarsi bruscamente davanti ad una più decisa repressione sistemica. Se così sarà, il potere vigente coglierà l’occasione per lanciare una nuova offensiva propagandistica flessibilizzante, e quindi per un suo ulteriore rafforzamento. L’incognita del separatismo regionalista, di matrice leghista ma con possibilità di diffusione anche nel sud della penisola, permarrebbe in tal caso immutata. 3) Esiti dissolutivi, che la repressione delle insurrezioni e dei torbidi potrà non riuscire a contenere, con il rischio del collasso delle istituzioni e la diffusione di violenze incontrollate. Ne trarrebbero qualche vantaggio, nel breve, in primo luogo lo”stato di mafia”, che potrebbe estendere significativamente il controllo del territorio a sud approfondendo un potere effettivo che è già evidente, e forse quelle stesse bande leghiste e separatiste del nord che esprimono parlamentari nazionali e ministri, le quali potrebbero spingersi fino a proclamare l’indipendenza di parti del territorio settentrionale. Affinché simili scenari si concretizzino, oltre alle forti spinte dissolutive endogene dovute ad un precipitare della situazione economica, sociale e politica interna, dovrebbero verificarsi eventi esogeni di una certa gravità, di natura finanziaria, valutaria, ecologica e/o militare. Tuttavia, è probabile che in simili circostanze interverrano d’autorità gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea, se necessario servendosi dello strumento NATO, per porre il paese sotto la loro diretta “tutela”. I primi due gruppi sociali amici e oggettivamente alleati, che dovrebbero porsi alla guida della protesta riattivando il motore della lotta di classe da troppo tempo ingrippato, sono costituiti dagli operai e dalla parte migliore dei cosiddetti ceti medi colpiti dalla crisi: Gli operai, che in Italia sono più di sei milioni, sono stati abbandonati a sé stessi da quasi tutti i sindacati [con l’eccezione lodevole della Fiom di Rinaldini, Landini e 28
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Cremaschi] e da tutti i partiti sistemici, compresa quella sinistra “radicale” che è stata espulsa dal parlamento nel 2008 I ceti medi in via di rapida ri‐plebeizzazione che esprimono il lavoro dipendente intellettuale, tecnico, specialistico, impiegatizio, sono esposti all’avanzante de‐
emancipazione e soggetti ai contratti di precarietà, alle espulsioni dal ciclo produttivo, alla flessibilizzazione di massa quanto gli operai, con i quali ormai condividono non pochi interessi e un destino comune. Questa ultima componente è stata fortemente penalizzata negli ultimi anni assieme al lavoro operaio qualificato – oltre che dai processi di globalizzazione economica che ne hanno seriamente compromesso i redditi e lo status – dalle politiche dei governi berlusconiano‐leghisti e da quelle del breve esecutivo prodiano. Si tratta dei gruppi sui quali si fa e si farà ricadere il peso maggiore della [presumibilmente] lunga crisi economica che ha investito l’economia reale dalla seconda metà del 2008, con l’onda d’urto dei cali di produzione, dell’aumento della disoccupazione e della contrazione dei consumi. La crisi si è riverberata su un’economia già stagnante, in un paese con i salari fra i più bassi dell’Europa occidentale, e non potrà non avere effetti di lungo periodo sul piano sociale, destabilizzandolo, perché gli ammortizzatori, abbondantemente usati a partire dalla cassa integrazione, non potranno “tamponare le falle” indefinitamente non essendo sostenibili nell’arco dei prossimi otto o dieci anni, né dalle imprese né tanto meno dai lavoratori [fra i quali molti cassaintegrati a zero ore], decine e decine di milioni di ore di CIG. Considerando operai, impiegati e ceti medi legati al lavoro dipendente, pubblico e privato, si riesce ad abbracciare la grande maggioranza della popolazione attiva in questo paese [circa i tre quarti della stessa], quella che nel bene e nel male veramente “regge la baracca”, consentendo la bella vita da sub‐dominanti a politici, impresari, speculatori, evasori fiscali e criminali, organizzati e non. Il fatto che questi gruppi, fondamentali per la produzione delle basi materiali della vita associata, non abbiano oggi dei veri rappresentanti politici – pur essendo chiamati, periodicamente, a partecipare al rito del voto liberaldemocratico per legittimare una falsa rappresentanza – e nei fatti non partecipano alle decisioni strategiche che li riguardano, che devono soltanto subire, avrebbe dovuto rendere in breve la situazione esplosiva, ma lunghi anni di manipolazione, di dominazione simbolica, di flessibilizzazione e precarizzazione, oltre a svalutare economicamente e culturalmente il loro lavoro, hanno contribuito a dividere questi gruppi, a disperderli per evitare adunate “sediziose” e quindi pericolose per il potere, fiaccandone la resistenza, ed almeno in apparenza, compromettendone la combattività. Ogni atto compiuto dai lavoratori dipendenti, anche se blando come il lancio di uova o di qualche sasso, che possa anche soltanto lontanamente ricordare la lotta di 29
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classe novecentesca, viene oggi preso a pretesto dai cialtroni del circo mediatico e dai vili intellettuali subalterni per colpevolizzare in modo disgustoso le vittime, fino ad arrivare alle accuse di squadrismo e di terrorismo. La lotta di classe deve perciò essere bandita anche dai ricordi, o selvaggiamente criminalizzata se riappare come uno spettro inquietante, perché la dominazione della Global class filtrata attraverso i poteri locali sub‐dominanti deve essere assoluta, ed il sistema liberaldemocratico deve fornire il necessario supporto agli interessi e alle strategie dei dominanti. Liberalizzazioni, privatizzazioni, delocalizzazioni e lavoro‐merce rispecchiano i suddetti interessi nella nostra società, e quindi non devono incontrare indebite resistenze. Colpendo il lavoro ed i lavoratori in questo modo, si vuole “fiaccare la resistenza” nella società, rendendola malleabile, controllabile e pienamente gestibile dall’alto, e perciò vi è una parte di verità in quanto è riportato nelle Considerazioni generali del 44esimo Rapporto Censis, in cui l’intera società italiana è descritta come “appiattita” con i riferimenti più alti soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa, ma quello che per il Censis è il declino della soggettività, prostrata da processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana, altro non è che l’esito del processo di flessibilizzazione di massa per la costruzione sociale dell’uomo precario. Il processo manipolatorio per la diffusione della precarietà ha colpito tutto il corpo sociale, ma in primo luogo ha interessato i lavoratori, essenzialmente per impedire che determinazione, coesione e solidarietà potessero rinvigorirne la protesta. Lo stesso Censis ci avverte, nel medesimo Rapporto, che nell’ultimo decennio [dal 1999 al 2009], il lavoro dipendente ha mostrato una forte crescita, superiore ai due milioni di unità, mentre il cosiddetto lavoro autonomo si è ridotto complessivamente di ben duecentomila unità, incidendo sul totale degli occupati per meno di un quarto, a dimostrazione che nei fatti lo slogan liberista “diventa imprenditore di te stesso” attrae sempre di meno [vista la “delusione” che ha comportato per molti il Libero Mercato primeggiante], ma anche perché, per poter iniziare un’attività imprenditoriale, è preferibile avere buoni mezzi alle spalle, “il culo ben coperto” ed essere adeguatamente patrimonializzati. In sostanza, la minor propensione di giovani e meno giovani a diventare imprenditori, professionisti e consulenti, od anche soltanto bottegai, può essere imputata alla necessità di possedere, per incamminarsi su questi percorsi, i mezzi patrimoniali e finanziari necessari, ed in effetti, in una società in cui la coperta delle risorse è sempre più corta e gli squilibri economici fra i gruppi sociali sempre più grandi, sono sempre di meno coloro che anelano a diventare “imprenditori di sé stessi”, e soprattutto, coloro che hanno concretamente le risorse per poterlo fare. 30
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L’alleanza fra operai e ceti medi riplebeizzati è fondamentale, a detta dello scrivente, affinché la lotta possa avere qualche speranza di successo, ma questa alleanza, e la comunanza di interessi che la renderà possibile, costituirà la migliore prova che l’ordine sociale non è più quello che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, che tutto è mutato, e che una nuova classe subalterna, la Pauper class, sta per affacciarsi all’orizzonte della storia. Non c’è più l’attrattiva ideologica e l’alternativa sistemica rappresentata dal comunismo sovietico novecentesco, della quale i più giovani hanno a malapena sentito parlare, ma soprattutto qui in Italia, grazie a Berlusconi, l’anticomunismo in assenza di comunismo ad uso propagandistico e idiotizzante [perché non sono comunisti né il SEL vendoliano né la cosiddetta Federazione della Sinistra e tanto meno il Pd] è ancora in vita e gode, purtroppo, di una discreta salute. Se le vecchie organizzazioni dei lavoratori si sono trasformate in agenzie di supporto del nuovo capitalismo ed i partiti di massa sono ormai definitivamente scomparsi, sostituiti da vergognosi ed effimeri cartelli elettorali privi di anima e di storia [PdL, Pd, UDC], oppure da congreghe di separatisti ed evasori fiscali che inventano nuove patrie [Lega Nord], i due gruppi sociali amici dovranno ricostruire integralmente le loro organizzazioni, senza cadere nella trappola liberaldemocratica della “novità”, del nuovo prodotto politico di rapido consumo, della formazione nuova di zecca che millanta di rappresentare i non rappresentati e che finge un’improbabile alternativa, per poi confluire in maggioranze di governo incaricate dagli interessi dominanti di massacrare il lavoro e la socialità. Un lavoro dipendente sempre più povero e compresso, privo di rappresentanza politica e di tutele sociali rientra perfettamente nei disegni dei dominanti, per un futuro interamente nelle loro mani, ed allora le retribuzioni devono essere sempre più strettamente legate al solo tempo di lavoro ed alla trappola della “produttività individuale”, che rappresenta una giustificazione di matrice economicistica per ridurle progressivamente. Si vuole, in buona sostanza, ridurre alla completa variabilità l’intero salario, precarizzandolo integralmente insieme al lavoratore. Per legare le retribuzioni, e quindi lo stesso costo del lavoro da comprimere all’infinito, al solo tempo di lavoro, la via dei contratti di precarietà e del lavoro a termine sembra la migliore, sicuramente la più vantaggiosa astraendo completamente da considerazioni etiche e dalle sofferenze imposte all’uomo, ed è per questo che dagli anni novanta ad oggi è nato un nuovo gruppo sociale, le cui file si sono gonfiate fino ad accogliere alcuni milioni di soggetti, non necessariamente tutti giovani o giovanissimi. Il gruppo dei precari e dei falsi lavoratori autonomi, cioè i parasubordinati, è da considerarsi un gruppo potenzialmente “amico”, e visto che il massimo della flessibilità del lavoro si realizza con il “nero”, la più piena e totale informalità che 31
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non prevede buste paga, contributi, versamenti d’imposta, ferie, permessi e maturazione della pensione, in questo gruppo possiamo comprendere anche molti lavoratori “in nero”. L’obbiettivo del nuovo capitalismo, attraverso la dominazione del Libero Mercato – sia dal punto di vista del razionamento delle risorse e dell’esclusione dai rapporti sociali di produzione sia da quello ideologico –, è di ridurre integralmente le società ad una mera rete di rapporti commerciali, fondata sullo scambio mercantile e ancor di più sulla Creazione del Valore, e di far nascere e morire precari gli uomini come inevitabile conseguenza. Se la precarietà c’è sempre stata nel corso della storia umana, ma ha riguardato una piccola minoranza, questo capitalismo l’ha approfondita ed estesa, al punto che tende a diventare una condizione esistenziale sempre più diffusa, anzi, la condizione esistenziale che caratterizza quest’epoca storica, potenzialmente estensibile a tutta l’umanità, e in ciò risiede l’esito, totalmente anti‐umano ed anti‐
etico, profondamente criminale, del capitalismo liberista contemporaneo. Perciò, criminali sono i pubblicisti e gli “ingegneri” della precarietà, pagati lautamente da questo sistema ed incensati anche dopo la morte, a partire da Marco Biagi. La leggenda che la precarietà è stata introdotta in Italia negli anni novanta [1997, la famigerata legge Treu] per favorire “l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro”, e che quindi avrebbe rappresentato una condizione di minorità temporanea, un male necessario ma passeggero per poter accedere al posto fisso, si è rivelata in breve tempo per quello che è, un’atroce menzogna diffusa ad arte dai media, dagli accademici [con la lodevole eccezione di Luciano Gallino, il più grande sociologo italiano vivente] e dai politici di sistema, tutti o quasi concordi nel supportare questa decisiva campagna contro i lavoratori, da sinistra a destra senza distinzioni. I lavoratori “usa e getta” subiscono più di tutti gli altri le asprezze dello spietato modello liberalcapitalistico finanziarizzato e transgenetico del terzo millennio, e per tale motivo potrebbero rappresentare un’autentica forza rivoluzionaria – incontenibile in quelle stesse dinamiche capitalistiche che l’hanno generata – nel futuro scontro sociale in Italia. Precari contrattualizzati, parasubordinati spacciati per lavoratori autonomi o “consulenti” e lavoratori in nero, oggi non coprono soltanto le esigenze di una produzione tradizionale, offrendo lavoro dequalificato, meramente esecutivo, a basso contenuto tecnologico e a bassa scolarità, ma offrono sempre più spesso un lavoro intellettuale, ad alto contenuto scientifico e tecnologico, in settori cosiddetti di nicchia o nella ricerca applicata. Ma la condizione economica ed esistenziale del professore universitario precario o del ricercatore a termine, che deve contarsi in tasca i soldi per il biglietto del treno quando deve partecipare ad un seminario o ad una conferenza in una città lontana, 32
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nella sostanza non è diversa da quella del lavoratore interinale impiegato da una falsa cooperativa nelle pulizie industriali, e la situazione economica del primo tenderà sempre di più ad approssimare quella del secondo. Se sarà possibile unire il lavoro operaio, orfano della classe storica antagonista novecentesca “operaia, salariata e proletaria”, i ceti medi riplebeizzati che esprimono il lavoro intellettuale ed impiegatizio stabilizzato ai precari, ai parasubordinati e a molti lavoratori “in nero”, si produrrà una forza sociale antagonista che difficilmente potrà essere arginata dall’applicazione dei sistemi repressivi e disciplinari del potere vigente, e questa dovrebbe rappresentare una mera evidenza per tutti, perché è proprio nella svalutazione e nella compressione capitalistica del lavoro, portate alle estreme conseguenze, che matureranno le future istanze rivoluzionare ed emancipatrici. La distanza fra gli stabilizzati ed i precari tenderà rapidamente a ridursi, poiché se operai, impiegati, tecnici non soffrono la precarietà occupazionale in quanto hanno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, molti fra loro non sfuggono alla precarietà nelle prestazioni, che rappresenta un grimaldello, nella persistenza dei vecchi contratti di lavoro, per scardinare progressivamente le tutele e i diritti. E’ ben vero che fino ad ora si è cercato, con un certo successo, di mettere i lavoratori stabili e quelli precari l’uno contro l’altro, in un divide et impera contemporaneo che tende a preservare le strutture di potere e i meccanismi riproduttivi capitalistici, ma è anche probabile [e chi scrive ne è sinceramente convinto] che esiste un limite fisico e psicologico all’esproprio di risorse e di diritti, alla compressione materiale del lavoro ed al peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei subordinati, valicato il quale ci si deve attendere una reazione generalizzata, che potrà portare all’unione di questi gruppi sociali, ad una loro stretta alleanza quali membri di un’unica, nuova classe sociale: la classe povera del terzo millennio. Il penultimo grande gruppo sociale iscrivibile fra i “buoni” è un gruppo di recente formazione, che lo scrivente ha deciso di autonomizzare in considerazione delle sue caratteristiche e delle sue specificità, anche se i soggetti che lo compongono esprimono il lavoro operaio, quello precario, il lavoro informale, o addirittura il lavoro schiavizzato in certe parti della penisola [Rosarno e la piana di Gioia Tauro, Puglia, provincia di Latina e Agro Pontino, eccetera], ed in misura minore esprimono il lavoro intellettuale e impiegatizio. Si tratta dei lavoratori immigrati, che in questo paese sono circa un milione e novecentomila – secondo i dati ufficiali, con la necessaria avvertenza che il sommerso e il lavoro schiavo sono difficili da quantificare – e per oltre i due terzi del totale provengono da paesi extracomunitari, in molti casi da regioni del pianeta profondamente diverse dalla nostra. 33
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A questi lavoratori, considerati indispensabili per mandare avanti le attività produttive ed i servizi nel paese più vecchio del mondo, quale è l’Italia insieme al Giappone, e richiesti dagli stessi industriali che da tempo hanno puntato sul lavoro a basso costo [se non “a sconto”], stanno imprimendo al paese una vera e propria svolta demografica [di suo, l’Italia sarebbe in una situazione di pesante calo delle nascite], e nel tempo sono usciti progressivamente dallo stereotipo che gli assegna quei lavori “che gli italiani non vogliono più fare”, perché sono presenti ormai in numerosi settori di attività, ed in una minoranza dei casi esprimono il lavoro qualificato, scientifico [ad esempio i medici] e creativo. Non si tratta esclusivamente delle badanti filippine o rumene che curano gli innumerevoli anziani non autosufficienti sparsi in tutto il paese, poiché gli apporti del lavoro immigrato interessano tutti i settori produttivi e sono diventati fondamentali per la produzione delle basi materiali della vita associata in Italia. Certo, in generale gli immigrati sono quelli che hanno sopportato e sopportano le peggiori condizioni lavorative ed i peggiori abusi da parte di impresari senza scrupoli, pur con delle differenze fra regione e regione [in Calabria ed anche in Veneto, ad esempio, la loro situazione è complessivamente peggiore di quella che vivono nel Friuli Venezia Giulia], e sono più colpiti degli italiani, in proporzione, dalla recente ondata di disoccupazione, per questi lavoratori superiore al dieci per cento nelle stesse stime ufficiali. Altra considerazione importante – lasciando perdere le diffamanti accuse di matrice leghistico‐bossiana che presentano gli immigrati come un gruppo interamente costituito da delinquenti abituali e rapinatori, indegne persino di essere considerate – è che non si tratta affatto di un gruppo omogeneo, dal punto di vista delle origini culturali, religiose, etniche, il quale sconta anch’esso il divide et impera capitalistico, nel senso che si utilizza per abbattere il costo del lavoro e per un ennesimo ricatto capitalistico [“o tu lavori a condizioni peggiori di prima o c’è sempre un immigrato disposto ad accettarle”], ponendolo artatamente in competizione con i lavoratori autoctoni. Tuttavia, pur essendo il lavoro immigrato, contrattualizzato o informale che sia, espressione di una miriade di etnie, di religioni e di culture diverse, in certi casi portatrici di contenziosi storici l’una nei confronti dell’altra [i serbi non amano gli albanesi, e viceversa, i mussulmani del Kashmir non amano gli indù, eccetera], pur trovandosi in competizione reciproca e soprattutto in competizione con gli autoctoni nell’universo del lavoro astratto capitalistico, questo stesso lavoro, la sua sostanza, la comune condizione di sfruttamento e de‐emacipazione che oggi si riafferma con prepotenza nei concreti rapporti di produzione, potranno costituire l’elemento unificante, il collante più duraturo, che vale ben di più di una generica e formale integrazione nel paese che li ospita. 34
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Infatti, una nuova coscienza di classe estesa ai lavoratori immigrati, è il più potente veicolo per l’integrazione e il cambiamento. L’ultimo gruppo potenzialmente amico, in questa breve panoramica che riguarda la strutturazione sociale in rapporto ai futuri, possibili conflitti nella società italiana, è rappresentato dai disoccupati, dagli inoccupati, da coloro che sono senza lavoro e resteranno in questa condizione per lungo tempo. Nell’iscrivere disoccupati, inoccupati ed in generale i senza lavoro fra i “buoni” è necessario adottare alcune cautele, avanzare qualche legittimo dubbio ed operare qualche distinguo, poiché in Italia dimora un esercito di giovani [dai 15 ai 34 anni] i quali non studiano, non hanno un posto di lavoro né lo cercano, un esercito di dimensioni superiori a quello dei lavoratori immigrati, forte di oltre due milioni e duecentomila unità, se dobbiamo credere alle analisi del Censis, del suo direttore Giuseppe Roma e del suo presidente, il noto sociologo Giuseppe De Rita. L’inerzia, l’assenza di stimoli, la stessa indifferenza per il proprio stesso futuro che questi giovani inoccupati in apparenza esprimono, si inserisce perfettamente nel discorso di Giuseppe De Rita sull’”appiattimento” generale della società italiana, ma, a ben vedere, è un riflesso dell’azione devastante sul piano sociale del Libero Mercato, inteso quale supremo sistema di razionamento e di esclusione, che condanna un numero sempre più grande di persone all’esclusione a vita dal lavoro e dai rapporti di produzione [vedi, a tale proposito, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo. C. Preve – E. Orso]. Ma il discorso sulla rinuncia generazionale al lavoro e allo studio non si esaurisce con il richiamo al funzionamento dei meccanismi di Mercato, e deve essere ulteriormente approfondito. Se qualche ipocrita ben retribuito e spacciato per grande sociologo [neppure serve fare il nome] tempo fa ha scritto sulla prima pagina del Corriere che questo inquietante fenomeno, parte del più ampio fenomeno della disoccupazione e dell’esclusione, è frutto della pigrizia, dell’indolenza dei singoli, della loro propensione a ricevere i soldi a casa senza lavorare [Soldi e successo senza fatica. Così il pigro si gode la vita, Il Corriere della sera, 7 settembre 2009], porgendo una spiegazione depistante che come spesso accade tende a colpevolizzare la vittima, dovrebbe esser chiaro che dietro questa scelta, maturata in giovane età, si nasconde quello che per molti ragazzi è un deciso rifiuto, in molti casi non consapevole, delle dinamiche capitalistiche nel loro complesso. E’ vero che questo rifiuto origina in primo luogo dal funzionamento del Mercato, e dalla sua sempre più frequente tendenza ad escludere, a scoraggiare, ad allontanare dal lavoro, piuttosto che ad includere creando il profilo del produttore‐
consumatore, come accadeva nella seconda metà del Novecento, ma non può essere certo tutto qui, ed ancor meno si tratta del vecchio “effetto del lavoratore 35
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scoraggiato” che smetteva di cercare lavoro, una volta constatata l’inutilità dei suoi sforzi, come accadeva in altre età del capitalismo. Il rifiuto profondo, che molti giovani scivolati nella condizione “Not Employed in Education and Training” esprimono, per qualche verso sostituisce l’esplicito ribellismo giovanile sessantottesco, e se gli studenti sessantottini volevano cambiare il mondo, gli attuali giovani inoccupati “per scelta” seguendo questa via – che forse è l’unica oggi praticabile se non si vuole lanciare le molotov contro i blindati o premere il grilletto di una P38 – mostrano di voler uscire dal mondo, simboleggiato dalla società capitalistica di mercato onninvasiva, e così predispongono l’”esodo”. Un “esodo” silenzioso che forse non li porterà da nessuna parte, se non interverranno eventi scioccanti che potranno rimettere la storia in movimento perturbando l’orizzonte della riproduzione capitalistica. Oggi, in luogo del vecchio profilo del produttore‐consumatore sembra prevalere il profilo del precarizzato‐escluso, ma questi giovani, senza attendere che li escluda una sentenza del Mercato, scelgono lʹauto‐esclusione e se ne vanno, sbattendo la porta dietro di sé. Ciò che è importante rilevare, è che una parte significativa delle nuove generazioni si ribella alle logiche ed alle dinamiche capitalistiche ultime, pur scegliendo la via della rinuncia, dell’esodo silenzioso ed in molti casi inconsapevolmente, senza disporre di un chiaro “alfabeto” politico e senza intraprendere azioni di lotta collettive di ampio respiro [come invece accadde nel Sessantotto, indipendentemente dagli esiti finali che ebbe quella stagione “rivoluzionaria”], e perciò segna la distanza generazionale dagli immaginari in buona parte consumistici, neoliberisti, mercatisti, del tutto interni al capitalismo, che hanno caratterizzato la generazione precedente una volta giunta alla maturità. I giovani “NEET” intendono forse, pur non consapevoli di questo, togliere l’acqua al pesce capitalistico, a poco a poco, per farlo morire boccheggiando? Oppure è soltanto una forma silenziosa di ribellismo giovanile, destinata a rientrare con la prossima generazione, che non avrà alcun esito politico e sociale determinante? Chi scrive non sa dare una chiara risposta a queste domande, purtroppo, ma per gli scopi che si prefigge il presente saggio, è sufficiente far rilevare che questo ultimo gruppo di “buoni” è molto composito, e pone non pochi problemi proprio per la sua “varietà”, poiché accanto ai cinquantenni disoccupati che hanno perso un posto di lavoro stabile e ne cercano senza esito un altro, vi sono giovani inoccupati per scelta “silenziosamente ribellistica” e parzialmente inconsapevole, oppure, in una minoranza dei casi, sfaccendati che tali sarebbero anche in un’altra epoca storica. D’altra parte, il concetto di disoccupazione è nato all’interno del mondo capitalistico, in cui è stato costituito e sempre mantenuto con funzioni ricattatorie 36
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[anche ai tempi del pieno impiego keynesiano, del welfare e dell’inclusione moderatamente emancipatrice] quel ”esercito industriale di riserva” che nel terzo millennio rischia di assumere dimensioni pletoriche, diventando più propriamente l’”esercito degli esclusi”, ma gli sfaccendati che talora non sfuggono alle rilevazioni statistiche sono sempre esistiti, come minoranza bizzarra e tollerata, fin dal mondo antico ed anche prima di esso. Eppure la pubblicistica liberale e liberista, al servizio del capitale a tempo pieno, ci racconta la storiella dello sfaccendato, del perdigiorno, del pigro, del “furbo” che attende il sussidio di disoccupazione e che preferisce dormire fino a tardi la mattina, o del giovane che vive comodamente in famiglia con i soldi del padre, per nascondere la vera origine del problema della disoccupazione e dell’esclusione, rigirando l’accusa che potrebbe essere mossa a questo capitalismo contro le sue vittime. In Italia si fa molto affidamento sulle “reti familiari e amicali”, storicamente molto sviluppate in tutta la penisola, per sostentare il più a lungo possibile disoccupati, inoccupati, e vari altri soggetti non concretamente attivi. In particolare, si tende sempre di più a scaricare questo problema assieme a tanti altri [anziani non autosufficienti, invalidi], a mano a mano che il welfare rifluisce, sulla famiglia, sulle reti di rapporti personali e sulla comunità. Peccato che queste reti siano state seriamente indebolite dalla crisi, dal giugno del 2008 ad oggi, e se la crisi continuerà per buona parte del prossimo decennio [com’è molto probabile, anzi, com’è praticamente certo] queste reti salvifiche rischieranno di collassare. Le pensioni del padre e della madre, anche loro ridotte all’osso, potranno non bastare per poter mangiare in tre come prima, dando sollievo al figlio inoccupato, ed è così che si registrano cali nei consumi e nella stessa spesa alimentare delle famiglie, con circa un quarto delle famiglie italiane che già da tempo è in forte difficoltà e deve rinunciare a prodotti e a servizi essenziali… altro che solide “reti familiari e amicali” di sostegno! I disoccupati di lungo periodo, in un paese in cui esiste l’ammortizzatore sociale della cassa integrazione per gli occupati con contratti “regolari”, ma non esiste un degno sussidio di disoccupazione o un’auspicabile salario di cittadinanza garantito a tutti, sono fra gli attivi quelli che vivono più di ogni altro l’esclusione capitalistica. I disoccupati sono prigionieri che il Nemico Principale utilizza come monito per piegare le resistenze dei subalterni, per scongiurare rivendicazioni di retribuzioni più alte e di nuovi diritti, e sempre più spesso per ridurre le retribuzioni e cancellare i diritti. Il Nemico utilizza disoccupazione ed esclusione come armi nella “sua” lotta di classe. 37
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Tralasciando gli sfaccendati per vocazione o coloro che sono dediti ad attività criminali e perciò risultano formalmente disoccupati, i molti milioni di lavoratori espulsi dal processo produttivo, di attivi inoccupati e di giovani “NEET” – l’esercito degli esclusi che ha sostituito il vecchio esercito industriale di riserva – potrebbero costituire un altro significativo gruppo nel futuro scontro sociale in Italia, non soltanto dal punto di vista numerico, e un alleato importante per gli operai, i ceti medi riplebeizzati, i precari, i parasubordinati, i lavoratori informali ed i lavoratori immigrati. Se pensiamo all’Italia come ad uno dei paesi più vecchi del mondo, nonostante l’apporto di “nuovo sangue” che hanno garantito fino ad ora gli immigrati, si pone con forza il problema della fascia più anziana della popolazione, che in buona misura è quello dei pensionati. I pensionati sono di estrazione operaia, impiegatizia, sono stati bottegai e artigiani, insegnanti, lavoratori nei servizi, professionisti, eccetera, e quindi provengono dai più diversi gruppi sociali. Ma la maggioranza assoluta dei pensionati non sfugge ai rigori della de‐
emancipazione e dell’impoverimento, pur nella temporanea certezza del reddito, trattandosi di un reddito che in molti casi è insufficiente già in partenza ed è destinato a perdere rapidamente “potere d’acquisto”. In particolare, coloro che possono contare soltanto su una pensione di anzianità o su quella, ridotta, “del superstite”, tendono a collocarsi inesorabilmente sotto la soglia della povertà. L’interesse concreto della maggioranza dei pensionati, perciò, coincide nell’essenziale con quello dei predetti gruppi sociali, e la lotta per la difesa delle pensioni non può che andare nella stessa direzione della lotta per la difesa dei redditi da lavoro e delle condizioni di vita degli operai, degli impiegati, degli addetti a lavori intellettuali. La questione degli anziani, così come la si vive oggi, non è però soltanto una questione di redditi insufficienti destinati a svalutarsi ulteriormente, ma anche [e soprattutto] un serio problema di ruolo nella società e di dignità personale. Per innumerevoli secoli è esistita una cultura popolare a trasmissione orale distinta dalla cultura dominante e da quella delle élite, che vedeva proprio negli anziani il tramite fra i tempi andati e i tempi nuovi, ma il capitalismo è riuscito a distruggere, per riprodursi più agevolmente, questa cultura preesistente a lui aliena se non d’ostacolo all’affermazione piena della società capitalistica, e in ciò risiede la diminuzione del ruolo sociale e della stessa dignità dei più vecchi. In conclusione di questo capitolo, passando dagli anziani ai giovani, una menzione particolare va riservata agli studenti, da quelli delle scuole medie superiori a quelli delle università, che hanno iniziato una lotta per il diritto allo studio e per la difesa della scuola pubblica contro l’orrenda riforma Gelmini, con la quale si vuole 38
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svendere il patrimonio delle istituzioni universitarie e scolastiche e tagliare drasticamente i costi dell’istruzione. Gli studenti più critici e consapevoli hanno mostrato di non accettare il dominio della logica aziendalistica ed economicista, e tanto meno quello delle imprese private, che penetrerebbero nella scuola pubblica non tanto per armonizzare i programmi di studio con le fatidiche esigenze “del mondo della produzione”, ma con secondi fini ed a scopo di lucro. Anche la scuola e l’università pubbliche potrebbero diventare, nell’ottica di questo capitalismo, un ottimo “spremiagrumi” per creare valore finanziario ad uso privato. La battaglia studentesca in Italia è appena cominciata, e non potrà che risultare cruciale quanto quella per la difesa del diritto ad un lavoro decentemente retribuito e dignitoso, o per l’accesso universale ai medicinali e per la difesa dell’acqua pubblica. Gli studenti non rappresentano certo uno specifico gruppo sociale, e quindi nel presente saggio sono stati un po’ trascurati, ma la loro lotta, vigliaccamente silenziata o stigmatizzata in chiave negativa da molti media sistemici e dalle numerose televisioni sotto il controllo governativo, ha in questo momento un grande significato simbolico, e perciò chi scrive spera che questa lotta non si arresti ma riprenda con un certo vigore, incontrando sempre maggiori adesioni nel mondo della scuola ed anche al di fuori di esso. E’ altresì auspicabile che la nuova protesta studentesca, appena agli inizi, non possa essere strumentalizzata da interessi esterni e da cartelli elettorali interni al solo scopo di far cadere Berlusconi, per sostituirlo con un nuovo, più presentabile e più affidabile “Quisling” al servizio della grande finanza globalista americana. Una domanda è bene porsi, prima di chiudere definitivamente: da quale parte staranno gli studenti che oggi occupano e manifestano quando inizierà il vero scontro politico e sociale in questo paese? La risposta è scontata. 39
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L’anomalia nell’anomalia italiana 12 febbraio 2011 Si discute da molto tempo sulla cosiddetta anomalia italiana, si dice che l’Italia è un paese “anomalo” prendendo come termine di paragone i paesi dell’Europa occidentale, oppure tutti i paesi che si definiscono capitalisticamente sviluppati. Questa anomalia investirebbe ogni aspetto, dalla vita politica all’economia, dall’etica alla socialità, dall’atteggiamento dei singoli verso la collettività ai rapporti di lavoro, e costituirebbe più un motivo di imbarazzo che di vanto, com’è ovvio. Di recente, la rivista online Overleft ha pubblicato un lungo editoriale dedicato proprio a questo fenomeno, dal titolo “Esiste l’anomalia italiana?” [http://rivista.overleft.it/index.php?option=com_content&view=article&id=79&Item
id=88] Si tratta dell’ennesimo dibattito sul tema, in cui il direttore della rivista, Franco Romanò, apre la discussione ricordandoci che non si tratta di questione recente ed inedita, ma che il problema dell’anomalia italiana è cosa vecchia, ed è stata posto fin dai tempi di Gobetti e di Gramsci, agli inizi del Novecento, per citare soltanto due fra le molte personalità che se ne sono occupate, in anni lontani dai nostri e da diverse angolazioni. L’ennesimo dibattito sulla spinosa e storica questione, del quale non ci si può occupare dettagliatamente in questa sede, non è che l’ultimo della serie, ma può offrire lo spunto per discutere di alcuni recenti [ed inquietanti] aspetti che ha assunto l’”anomalia italiana”, partendo dall’individuazione di un’”anomalia nell’anomalia” che oggi è pienamente osservabile e che si lega alla situazione politica nazionale. Prescindendo dalla vergogna di essere italiani, moderatamente diffusa nel paese, e dalla relativa indifferenza nei confronti dei simboli nazionali ad esclusione dalla nazionale di calcio, lʹItalia è il paese dellʹEuropa occidentale nella posizione di massima sudditanza nei confronti della UE, della BCE, del FMI e della classe globale, nonché quello più degradato, che mostra agli altri paesi dell’occidente europeo lʹimmagine desolante del loro futuro. Se la Fiom oggi si muove in scandalosa solitudine nella difesa di diritti elementari, minimi, già di per sé insufficienti e pur tuttavia messi in discussione giorno dopo giorno – come si afferma giustamente nel dibattito pubblicato in rete da Overleft, ciò dipende dallo stato in cui è ridotta la popolazione italiana, dopo un trentennio di corruzione diffusa, di scandali, di svendite ai globalisti delle grandi attività produttive nazionali, di flessibilizzazione/ precarizzazione del lavoro [e di tutta l’esperienza esistenziale dei singoli] e di azione socialmente e culturalmente idiotizzante, da parte di quella ʺindustria della menzogna televisivaʺ che non è esclusivamente berlusconiana. 40
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Per quanto riguarda la domanda sull’esistenza della presunta anomalia italiana, che costituisce il titolo del documento pubblicato dalla rivista online di Romanò, se con questa espressione – Anomalia Italiana – non si intende suscitare un articolato dibattito storico che parte dall’risorgimento o dall’Unità d’Italia, oppure dagli inizi dello scorso secolo, ma si intende la particolare condizione di diminuzione della sovranità nazionale e di sudditanza verso l’esterno che stiamo vivendo oggi, combinata con il degrado umano e culturale del paese, la risposta non può essere che positiva. Gli elementi principali della cosiddetta anomalia italiana sono quindi due, e presentano grossomodo lo stesso peso specifico, considerando però che il primo ha favorito la diffusione del secondo e lo stesso degrado della politica nazionale, così come possiamo agevolmente osservarlo in queste ultime settimane: 1) La perdita di sovranità politica e monetaria dello stato italiano e la conseguente mancanza di autonomia dei governi, soggetti alla dittatura UE/ BCE/ FMI, e quindi ai voleri dei dominanti globalisti occidentali, e la conseguente imposizione dei vincoli derivanti dall’adozione dell’euro, che non ha incontrato grandi resistenze. In Italia l’asservimento ai “poteri esterni” e l’accettazione conseguente di una sovranità limitata, soggetta a questi poteri ed alle dinamiche del Libero Mercato Globale, rappresentano da tempo altrettante evidenze, con un atteggiamento di sudditanza verso l’esterno che investe tutto lo spettro politico sistemico nazionale – da Berlusconi a Bersani e D’Alema – rivelandoci una sostanziale unità, in termini di politiche e di obbiettivi, dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica. In altri termini, ci si può scannare sulla legittimità del “bunga‐
bunga”o sull’opportunità delle orge in Arcore, con tanto di prostitute e ruffiani, ma non sull’intangibile Società di Mercato che non conosce confini – e non riconosce le autonomie statuali – e sul diritto degli Investitori e dei loro rappresentanti [vedi ad esempio Marchionne] di imporre condizioni capestro per continuare le produzioni in loco. 2) La flessibilizzazione e l’idiotizzazione di ampie fasce della popolazione della penisola, frutto di un processo iniziato da circa un trentennio e non ancora concluso, che ha visto l’estensione nella società del lavoro flessibile e precario ed il recente attacco al lavoro dipendente “regolare”, la diffusione incontrollata ma voluta di ogni sorta spazzatura mediatica, l’imposizione di “stili di vita” assurdi e debilitanti, la disinformazione sistematica, l’applicazione da parte dei media della tecnica di distrazione di Noam Chomsky per nascondere i gravi problemi politici e sociali, e via elencando. 41
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Quanto precede spiegherebbe bene, fra l’altro, il degrado della vita politica a tutti i livelli e la crescente acquiescenza di un’opinione pubblica che sembra anestetizzata ed insensibile davanti a questo fenomeno in continua espansione. Una prova dell’”anomalia italiana” ci è offerta dal fatto che il consenso a Berlusconi, e alla Lega che lo puntella a qualsiasi costo etico e sociale, non diminuisce significativamente, nonostante tutto quello che è accaduto e che sta ancora accadendo in questi giorni. Sembra che non ci siano chiare spiegazioni per il fatto che nessuno, in questo paese, reagisce con la dovuta forza davanti ad un’azione di governo che supporta la distruzione dei posti di lavoro e dei diritti dei lavoratori, davanti alle evidenti collusioni fra politica sistemica ed economia informalmente e formalmente [ossia penalmente] criminale, dinanzi all’evidenza di un individuo, che purtroppo ricopre la carica di presidente del consiglio, il quale si trastulla nelle continue orge “private”, circondato dal malaffare dei ruffiani [in qualche caso, ruffiani‐
giornalisti], impone le sue prostitute nei consigli regionali o le premia con incarichi ministeriali scaricandone il mantenimento sulla spesa pubblica, non rispetta le più elementari regole etiche di condotta ed utilizza a scopi personali i poteri del governo, da lui presieduto, per emanare leggi ad personam. Se non esistesse quella Procura di Milano che oggi lo indaga per concussione e prostituzione minorile, e Ilda Bocassini vivesse all’estero, ad esempio in Australia, a migliaia di chilometri da noi, ciò che ha fatto Berlusconi per il suo sollazzo e il suo potere personale [puntellato caparbiamente dalla Lega], e ciò che non ha fatto per un paese che sprofonda, non scomparirebbero di certo, ma resterebbero come prove evidenti della sostanza del suo miserabile “regime”. Per quanto molti giornalisti ed intellettuali di sistema non riescono a spiegare questa “anomalia nell’anomalia”, o non vogliono farlo perché la cosa susciterebbe molti imbarazzi, è chiaro che non si tratta di un fenomeno intelleggibile, ma bensì di un fenomeno assolutamente spiegabile, pur con le dovute cautele e almeno per quanto riguarda lo scrivente. Nel tentativo di spiegare questa ”anomalia nell’anomalia”, si può utilizzare una metafora astronomica per farsi meglio comprendere. Nel sistema solare esterno i pianeti non sono rocciosi come la terra, ma veri e propri giganti gassosi, secondo unʹespressione diffusa che nasce dalla letteratura di anticipazione scientifica e non dalla scienza vera e propria. Come tali, sono costituiti da un nucleo, che è essenziale per la loro formazione e quindi per la loro stessa esistenza, e da strati formati da gas, o da gas compressi allo stato liquido, che costituiscono la maggior parte della loro massa. La materia di cui sono fatti questi pianeti diventa più densa procedendo verso la parte interna, ma essendo i cosiddetti giganti gassosi ricchi di elementi leggeri, 42
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come l’idrogeno e l’elio, sono le basse temperature e la minore intensità del vento solare a trattenere questi elementi, impedendogli di disperdersi nello spazio. Così, il cosiddetto zoccolo duro del consenso berlusconiano ed anche di quello leghista – corrispondente al nucleo roccioso dei giganti gassosi intorno al quale gli stessi si sono formati – è costituito dalla vasta area dell’evasione fiscale e contributiva, e perciò tale consenso si sostanzia, fin dalle origini, nello scambio fondato sull’illegalità “evasione ampiamente tollerata [e dunque protetta] in cambio del voto”, con il voto degli evasori del nord conteso fra il cartello berlusconiano [prima FI, dopo PDL e domani chissà] e la Lega bossiana. E’ ovvio che la grande massa di voti ricevuti da Berlusconi e dalla Lega non è esaurita dai voti degli evasori, appartenenti a ben noti gruppi sociali relativamente numerosi ma pur sempre minoritari nella società italiana. Quella che ipocritamente è definita la “piccola” evasione fiscale rappresenta un cancro, anche se non l’unico, per l’Italia, poiché mettendo insieme le “piccole” cifre, sommandole a quelle espresse dalla grande evasione, si ottengono almeno 150 miliardi di euro l’anno, se non 200 miliardi ed oltre, con un trend storico che mostra la continua crescita degli ultimi anni, pur nella persistenza di un PIL stagnante e del declino produttivo. Ebbene, sono proprio gli appartenenti a questi gruppi – commercio, piccola e media industria, un certo artigianato e parte dei professionisti – che insieme ai patrimonializzati, ai piccoli redditieri ed ereditieri, agli speculatori di piccolo e medio calibro costituiscono la base elettorale più fedele e più consapevole per Berlusconi e per la Lega, in quanto sono mossi esclusivamente dalla volontà di difendere a qualsiasi costo le proprie fortune personali e i propri privilegi, a scapito della maggioranza della società italiana che è soggetta ad una fiscalità spietata. Come precisato, questi gruppi sociali possono offrire un consenso stabile al berlusconismo e al leghismo in diretta relazione con la necessità di difendere i loro interessi particolari, in conflitto con quelli della restante parte del paese – che deve subire un’elevata fiscalità senza alcun beneficio anche a causa dell’evasione fiscale concessa a queste minoranze – e senza che in ciò vi sia in loro alcuna traccia di idealità, nonostante i roboanti proclami propagandistici di Berlusconi, che ancor oggi osa ergesi ridicolmente a difensore “delle libertà” contro il comunismo, oppure la presunta difesa dei diritti dei “popoli del nord” contro i soprusi dello stato centralista millantata da Bossi. Per giustificare l’ingiustificabile, se facciamo un rapido tour in rete sapendo in partenza, però, dove andare a parare, in certi siti [mascherati da studi politico‐
strategici] possiamo leggere autentiche bestialità, in difesa di questo avvilente stato di cose. Ci sono soggetti in evidente malafade che spacciano i predetti gruppi per le autentiche e salvifiche “forze produttive nazionali” – ben sapendo, ad esempio, che 43
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la PMI è soltanto il risultato della frammentazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole unità, deboli e non di rado inefficienti, alimentata dalla scomparsa della grande industria e dell’intervento pubblico – ed osano tacciare apertamente la maggioranza della popolazione italiana, costretta a sopportare buona parte del peso economico, sociale e fiscale del declino in atto, di parassitismo, poiché legata per i tre quarti alla “spesa pubblica” e non piegata alle logiche del Mercato! Tralasciando questa penosa e miserabile pubblicistica in rete, che fa eco a Libero, al Giornale e alla Padania ed è volta a nascondere la vera sostanza del consenso berlusconiano‐leghista, ciò che conta è rilevare che da sole, le minoranze di evasori, di patrimonializzati, di redditieri e di piccoli speculatori [supposti “ceti produttivi”, in particolare del nord della penisola], non possono offrire a Berlusconi e alla Lega che la parte più stabile del voto, insufficiente, però, a garantire un ampio e decisivo successo elettorale, simile a quello del 2008. Il resto del consenso è espresso da ben altri gruppi, che è bene cercare di individuare per sommi capi ma con una certa precisione. Come nel caso dei pianeti gassosi, che devono una parte rilevante della massa ad elementi leggeri, così Berlusconi e i leghisti devono una parte significativa dei voti che incamerano a gruppi “esterni” al loro nucleo, o “zoccolo duro”, elettorale, orientato da ben precisi interessi economici. Per quanto riguarda Berlusconi, il voto degli idiotizzati, dei soggetti culturalmente deboli e degli incolti riveste fin dagli esordi una grande importanza, a tal punto che si può affermare che il successo di Silvio Berlusconi, quale ologramma mediatico dietro il quale si nascondono precisi interessi, è in parte significativa basato sull’ignoranza, sulla manipolazione e sull’arretramento culturale. Per questi individui, il consenso espresso si fonda su convinzioni fallaci, indotte attraverso la manipolazione ed approfittando della loro situazione di debolezza culturale, e quindi non si sostanzia in precisi interessi economici, che anzi, dovrebbe indurli a negare il voto a Berlusconi [ed ovviamente anche alla Lega]. Non a caso l’industria mediatica berlusconiana ha contribuito a produrre queste “soggettività deboli” e manipolate, essenziali per integrare con il loro consenso quello degli evasori, degli speculatori e dei furbi. La produzione di quelle che in questa sede sono state definite soggettività deboli – con un progressivo impoverimento culturale ed economico per il paese, nella contemporanea crescita degli squilibri sociali – è in corso da circa tre decenni, e quindi da prima dell’affermazione come forza politica parlamentare della Lega bossiana e della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Anche la Lega Nord ha beneficiato del voto ignorante ed idiota [definiamolo pure così], e si è spinta fino ad inventare una patria nordista, la “Padania”, diffondendo artatamente una forma grottesca di pseudo‐nazionalismo nel settentrione. 44
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Il panorama culturale e sociale che si è presentato ai tempi del passaggio dalla cosiddetta prima repubblica alla seconda, era gia profondamente diverso da quello che ha caratterizzato gli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento, ed i “bacini elettorali” del consenso ai quali hanno potuto attingere, fin dal loro esordio, Berlusconi e Bossi socialmente e qualitativamente non erano più esattamente quelli dei vecchi partiti di massa, dalla DC al PCI e dal PSI al MSI. Altre componenti elettorali, divise a nord fra berlusconiani e leghisti, sono rappresentate dalle partite IVA più marginali, maggiormente esposte alla crisi e all’impoverimento, quelle che ipocritamente si definiscono parasubordinate, cioè le partite IVA e le posizioni di coloro che non sono dei veri “professionisti”, dotati di una sostanziale autonomia nel definire i ritmi di lavoro ed i compensi – anche se in molti casi sono loro stessi a credere di esserlo, illudendosi di occupare ruoli sociali che nei fatti non occupano – ma semplici lavoratori dipendenti non stabilizzati e quindi svantaggiati, i quali dipendono da pochi committenti che gli impongono le condizioni e decidono, perciò, del loro futuro. Per quanto riguarda il successo ottenuto della Lega, ha pesato molto in questi ultimi venti anni un generico voto di protesta antipolitico, non troppo maturo e consapevole né ben definito socialmente, che non di rado l’ha beneficiata nel settentrione del paese, riassorbendo un po’ di astensionismo elettorale. Del voto antipolitico ha beneficiato ampiamente lo stesso Berlusconi, e questo è accaduto subito dopo il disastro di Mani pulite e la distruzione dei vecchi partiti. Berlusconi è stato, fra l’altro, molto abile nel giocare la carta propagandistica dell’anticomunismo in assenza di comunismo – paventando un pericolo rosso sempre in agguato ma ormai non più reale –, soprattutto all’inizio della sua parabola, quando erano ancora “caldi” i cadaveri dell’Unione Sovietica e del vecchio PCI. La conclamata “fine della lotta di classe”, in seguito alla vittoria del modello di capitalismo liberaldemocratico‐mercatista, ha liberato forze che in altre età capitalistiche avrebbero assunto connotati critici o apertamente antagonisti nei confronti del sistema. Se per Berlusconi hanno votato i disoccupati siciliani, nell’illusione diffusa dal piazzista di Arcore della risoluzione integrale dei problemi del paese, compreso lo storico divario nord‐sud che tuttora permane con la tendenza ad approfondirsi, e nell’inganno del milione di posti di lavoro creati letteralmente dal nulla [un po’ come fanno le banche con la moneta “contabile” …], nel settentrione gli operai hanno votato per la Lega bossiana in quanto orfani di rappresentanza politica e abbandonati da una sinistra debole, prona davanti al liberismo e disponibile alla sudditanza nei confronti dei grandi interessi globalistico‐finanziari esterni al paese. Infine, sia Berlusconi sia la Lega – e qui non si può non dare ragione ad una certa sinistra individualistica, liberista e parlamentare – hanno giocato molto sulla Paura, 45
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sotto vari aspetti, a partire da una generica paura del futuro suscitata dalla fine delle aspettative crescenti capitalistiche e dal declino economico italiano, fino ad arrivare alla “paura dell’altro”, dell’allos, dello straniero e del diverso, e la Paura ha avuto un peso maggiore, nei successi elettorali berlusconiano‐leghisti, di un generico richiamo alla “Libertà”, per quanto riguarda il berlusconismo, e della conclamata [ma pelosa] “difesa dei diritti dei popoli del nord”, per quanto attiene a Bossi e alla Lega. Appare chiaro che vi sono molti elementi comuni – tutti negativi – fra il berlusconismo ed il leghismo, i quali si possono riassumere come segue: 1) illegalità derivante da un consenso “primario” fondato sull’evasione fiscale, 2) idiotizzazione della popolazione e degrado culturale come veicoli per il successo elettorale, 3) misconoscimento dello stato comatoso dell’economia nazionale e nascondimento della questione sociale, 4) adesione nei fatti alla visione liberista e smantellamento dello stato sociale, 5) pulsioni eversive nei confronti dell’assetto istituzionale della repubblica italiana e della costituzione, 6) diffusione della Paura nel corpo elettorale per consolidare il proprio potere, e si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma è bene fermarsi qui per ragioni di spazio. Se nel caso metaforico dei giganti gassosi del sistema solare esterno gli elementi leggeri che li costituiscono sono trattenuti dalle basse temperature e dalla minore intensità del vento solare, ciò che contribuisce a trattenere il consenso di questi gruppi esterni allo “zoccolo duro” elettorale berlusconiano e leghista [corrispondente al nucleo dei giganti gassosi], non è esclusivamente quel ”idiotismo socialmente organizzato” che ostacola cambiamenti di rilievo, ma è l’assenza di vere alternative politiche, che si accompagna al timore diffuso che comunque, dopo Berlusconi, la situazione economica del paese non potrà che peggiorare. Oltre all’equazione perversa, fondata sull’illegalità, che possiamo esprimere come “consenso elettorale = licenza di evadere il fisco”, e all’idiotizzazione di parte significativa della popolazione, che di questi tempi da sole potrebbero non bastare, l’esecutivo Berlusconi‐Lega si regge grazie alla compresenza nella società italiana di quattro elementi principali: 1) l’assenza di vere alternative politiche all’interno del sistema percepita dal corpo elettorale, 2) l’impossibilità di riacquisire la necessaria sovranità politica e monetaria per cercare di arrestare il declino, 3) il crescente terrore che l’azione speculativa dei Mercati ed Investitori si rivolga con decisione contro l’Italia, 4) la soggezione apparentemente senza scampo alle imposizioni di Unione Europea, FMI e BCE. Il risultato pratico di questa situazione è che il degrado culturale, economico e sociale del paese continua, favorito dalla relativa “inamovibilità” di Berlusconi che contribuisce, assieme ad una Lega sempre più influente e con il concorso di 46
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un’opposizione parlamentare inaffidabile e inefficace, ad alimentarlo oltre misura, allontanando nel tempo, sine die, ogni prospettiva di cambiamento. In ciò risiede, essenzialmente, l’ulteriore anomalia nell’”anomalia italiana”. 47
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Stupidità sociale indotta e situazione italiana Ovvero Berlusconi tiene, il paese è fottuto 18 marzo 2011 Lunedì 14 marzo 2011, nella sala Cral della Stazione Marittima di Trieste ha parlato Giorgio Cremaschi, davanti ad un’assemblea aperta al pubblico e organizzata da La CGIL Che Vogliamo, trasversale nella Confederazione ed ispirata dalle posizioni della Fiom. Fra le tante cose, Giorgio Cremaschi, come d’abitudine ottimo oratore che tende a non divagare troppo ed arriva sempre al nocciolo della questione, ha imputato il successo del processo de‐emancipativo – che procede spedito nel nostro paese non incontrando efficaci contrasti, al blocco formato da Berlusconi [non lui solo, ma il suo governo e la sua maggioranza, ovviamente], dalla Confindustria, dalle Banche, da CISL e UIL. Sarebbe questo, in sintesi, l’insieme di forze regressive che profittando della crisi in atto e senza concedersi un attimo di riposo, lavora ad ogni piè sospinto per il male del paese. Con queste affermazioni Cremaschi ci ha rivelato, purtroppo, di essere addirittura un ottimista, poiché le ragioni del disastro italiano, a sommesso avviso dello scrivente, sono ben più profonde e devono essere collegate, in primo luogo, alla “qualità umana” ed alla combattività espresse della popolazione di questo paese. Certo, il siffatto e composito blocco esiste, agisce contro di noi quotidianamente e si appresta a demolire anche la costituzione, oltre all’intero impianto giuslavoristico posto a tutela del lavoro, costruito a fatica nella seconda metà del Novecento, in seguito alle lotte delle componenti politiche e sociali più avanzate della società italiana di allora. Anzi, alle lobby del blocco de‐emacipatore citate dal Presidente del Comitato Centrale Fiom, possiamo aggiungere almeno un’altra componente fondamentale, ossia quella rappresentata dal potente “cartello” dell’evasione fiscale e dell’illegalità, che va ben oltre gli iscritti a Confindustria, comprendendo alcuni noti e spregevoli gruppi sociali che non frequentano Viale dell’Astronomia. Ma se fosse veramente tutto qui, si potrebbe pur sempre sperare in una lotta di popolo, condotta con alterne vicende dalla parte sana ed etica del paese, che consenta nel breve periodo di bloccare questo autentico attacco criminale, diretto contro la stessa possibilità, per tutti noi, nessuno escluso, di poter avere ancora un futuro. Senza voler smentire Cremaschi, il quale ha messo in rilievo un aspetto importante della profonda crisi che attraversa il paese – e magari che fosse soltanto di natura economica! E magari si tratti “soltanto” dello storico divario nord‐sud, oppure di una spesa pubblica allegra e non razionalizzata! – non si può non rilevare che 48
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l’Italia soggiace ad un comando capitalistico‐globalista esterno, posto al di sopra di tutto e di tutti, sottratto ai poteri decisionali interni, che perciò costituisce la sorgente del processo de‐emacipativo e precarizzante. E’ il comando capitalistico‐globalista, espresso dalla Global class occidentale che controlla l’euro e le istituzioni europee, a decidere in ultima istanza delle politiche finanziarie, commerciali e sociali degli stati, ed è a questo comando esterno che devono obbedire tutte le componenti del blocco nazionale de‐emancipatore. Oltre alla pesante limitazione della sovranità politica e monetaria del paese ed alle necessità complessive di riproduzione sistemica, davanti alle quali tutti sono costretti ad inchinarsi, comprese le “forze del male” autoctone oggi all’offensiva contro il resto del paese, c’è un punto di fondamentale importanza, che in prospettiva si rivelerà il più decisivo, rappresentato proprio dalla popolazione italiana, dalla sua incapacità di reazione, dalla sua mancanza di coraggio, dall’assenza di volontà di costruire un futuro degno di questo nome che la caratterizza, ed in definitiva, dalla bassa “qualità umana” che questa popolazione esprime. La popolazione del paese: qui sta il vulnus, come direbbe un giurista, o meglio il punctum dolens, con un noto latinismo, poiché senza il popolo non possono esistere e prosperare né una classe dominante ambiziosa, autoreferente e rapace né l’intero impianto capitalistico che oggi minaccia di distruggerci, sistema bancario e moneta privatizzata ivi compresi. E’ proprio da questo punto di vista che la situazione italiana, rispetto a quella di quasi tutti gli altri paesi capitalisticamente evoluti, non soltanto in Europa, rivela la sua massima drammaticità. Anche in Germania ed in Francia hanno agito, imponendo in qualche misura la loro sovranità, le forze globalista all’offensiva, ed anche in Francia c’è stata una controriforma delle pensioni, mentre in Germania i lavoratori hanno perso reddito, nonostante la potenza del sindacato tedesco ed i residui del capitalismo renano, ma queste popolazioni, più vitali e coese di quella italiana, hanno cercato quanto meno di limitare i danni, mostrando una qualche reazione [i molti scioperi generali francesi, ad esempio] seppure insufficiente e sostanzialmente interna al capitalismo. L’unica reazione di grande rilievo in Italia, che possiamo ricordare nello scorso decennio, è stata quella contro il tentativo di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, dando il via ai licenziamenti selvaggi. Con l’espressione “qualità umana” qui si intende la consapevolezza unita al coraggio, al senso della misura ed alla responsabilità nei confronti di sé e degli altri. La consapevolezza ha a che vedere con un certo grado di autocoscienza della persona e con la capacità di sviluppare una propria visione critica del mondo. Il senso della misura consente di riconoscere gli eccessi ed evitarli. 49
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La responsabilità nei confronti di sé e degli altri è un dato fondamentale della convivenza sociale, e un aspetto comunitario irrinunciabile. Questo capitalismo, fin nelle forme più peculiari e per molti versi particolarmente degenerate che ha assunto nella penisola, teme la consapevolezza delle persone, l’autocoscienza individuale e la possibilità di sviluppare una propria, originale welthanshauung. Essendo il capitalismo fondato sull’ideologia del progresso, che significa esclusivamente sviluppo tecnoeconomico illimitato e riduzione del mondo ad una rete di scambi commerciali, il senso della misura e del limite non solo non sono richiesti né desiderabili, ma contrastano con la sua stessa natura. Infine, persone coscienti, dotate del senso della misura e responsabili nei confronti di sé e degli altri, nonché portatrici di legami solidaristici classistico‐comunitari, potrebbero creare seri ostacoli al dispiegarsi delle logiche di sfruttamento e rapina dei dominanti ed alla stessa riproduzione sistemica, mettendola in forse. Nel grande esperimento di ingegneria sociale ancora in corso, precarizzante ed idiotizzante, alla consapevolezza si è sostituita la stupidità sociale, al coraggio, inteso come rigidità ed ostacolo alle controriforme, si è sostituita la flessibilità, al senso della misura, inteso come il giusto mezzo, l’illimitatezza riflessa dal capitalismo nella piena impotenza politica individuale, ed alla responsabilità, che nasce dall’appartenenza di classe, dal solidarismo comunitario e dalla stessa famiglia, la deresponsabilizzazione e l’egoismo del singolo. Questi sono gli elementi costitutivi, fra l’altro, del berlusconismo, inteso come un fenomeno culturale, sociale e politico affermatosi localmente, ma comunque di supporto alle logiche di fondo liberalcapitalistiche. Il berlusconismo, perciò, non può significare che indebolimento della popolazione italiana, a partire dalle sue capacità reattive, e riduzione progressiva della “qualità umana” nel paese, che procede di pari passo con la sua estensione. Senza questo sostanziale indebolimento, le riforme sociali penalizzanti e le privatizzazioni, il lavoro precarizzato a basso costo e la distruzione della scuola statale, il federalismo fiscale e i tagli alla cultura [giudicata inutile, per una popolazione di “idioti”] avrebbero incontrato forti ostacoli, e non avrebbero potuto passare con relativa facilità, come in effetti è accaduto. Aspetti simili hanno interessato il deleterio fenomeno del leghismo, con la Lega “di governo e di lotta” che tiene letteralmente in pugno un Berlusconi indebolito, rubandogli consensi, e persino la cosiddetta sinistra parlamentare, che da un ventennio a questa parte, nonostante qualche apparenza contraria, mostra un’evidente subalternità nei confronti dei sovrani interessi della classe globale anglo‐amercana e dei suoi collegati. 50
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Per tali motivi, nell’ordine vigente che non lascia scampo ad alcuno si è provveduto a flessibilizzare/ precarizzare ed idiotizzare ampie fasce di popolazione, ed in tal senso i processi di de‐emancipazione dei subordinati hanno agito in profondità. Simili processi hanno interessato, in qualche misura, tutto l’occidente capitalisticamente sviluppato, ma per quanto riguarda il caso italiano non si tratta soltanto dell’azione delle televisioni di Berlusconi o della diffusione del berlusconismo, come modello autoctono di idiotizzazione del popolo, ma di un’azione complessiva – nella quale rientrano anche le trasmissioni televisive “berlusconiane” e l’intera pattumiera mediatica – che è partita da lontano. L’azione controriformatrice è iniziata dagli attacchi al lavoro negli anni ottanta ed è continuata per gradi, fino ai recenti attacchi alla carta costituzionale. In assemblea, Cremaschi ha affermato che i processi de‐emancipativi, in corso da un buon trentennio, si sono velocizzati da Pomigliano in poi [vero], subendo un’ulteriore accelerazione, quando è passata la controriforma “pilota” di Marchionne a Mirafiori, potenzialmente estensibile a tutte le aziende italiane e a tutti i settori di attività [altrettanto vero]. Se negli anni ottanta si è trattato di invertire la rotta a vantaggio del capitale, con iniziative storiche come quella della marcia dei quarantamila organizzata dalla Fiat nel 1980 e l’attacco alla scala mobile della notte di San Valentino del 1984, mentre negli anni novanta hanno dominato le privatizzazioni, la controriforma delle pensioni e l’introduzione nell’ordinamento del lavoro precario, oggi si tratta di fare tabula rasa dei diritti dei lavoratori stabili, pubblici e privati, e di smantellare le garanzie costituzionali, incompatibili con una folle visione aziendalistica del paese e con un pieno assoggettamento alle leggi del mercato. A questa azione complessiva ed ultradecennale ha partecipato attivamente, o passivamente in certe fasi, l’attuale opposizione parlamentare, il cosiddetto centro‐
sinistra prodiano e postprodiano per intenderci, al punto che nel passato si è risolto a prendere l’iniziativa, come nel caso dell’infame pacchetto Treu che ha precarizzato la vita di un’intera generazione di giovani, preparando il terreno per i passi successivi. In questo percorso che ha rappresentato un continuo arretramento, colpendo la maggioranza degli italiani e la stessa economia nazionale, si è inserito a pieno titolo quel “idiotismo socialmente organizzato” analizzato dal filosofo Costanzo Preve nel suo saggio Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale, scritto per la rivista francese Rébellion, ma comparso in rete anche in Italia. Il discorso relativo all’imbecillità organizzata non è faceto, come a qualcuno potrebbe sembrare, visto l’argomento trattato, ma al contrario è fin troppo drammatico, determinante per il futuro del paese, ed ha avuto un grande peso nel determinare l’accettazione passiva delle controriforme capitalistiche, in Italia, fin dagli ultimi anni della prima repubblica, costruendo, anzi, un sostegno 51
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“idiotizzato” indispensabile per far passare le riforme stesse senza troppi problemi e senza contestazioni generalizzate, da Lamberto Dini a Maurizio Sacconi, da Tiziano Treu agli accordi sindacali separati, da Pier Carniti a Raffaele Bonanni, dallo smantellamento definitivo della scala mobile al progetto marchionnista di “Fabbrica Italia” ed al rilancio di Mirafiori. Flessibilizzazione e rimbecillimento delle masse, con la diffusione della stupidità sociale organizzata, hanno proceduto parallelamente, alimentando sia il berlusconismo sia il recentissimo e più specifico marchionnismo, facendo “digerire” alla popolazione italiana un numero incredibile di nefandezze senza suscitare reazioni apprezzabili. Se Marchionne, assunto quale simbolo della spietatezza del Nuovo Capitalismo, ha più a che vedere con la flessibilizzazione delle masse attraverso la precarizzazione e la sottomissione del lavoro, per realizzare le quali non ha nemmeno bisogno dell’approvazione di Berlusconi e del suo esecutivo o del placet di Confindustria, Berlusconi ha molto a che vedere – il berlusconismo ne è una prova, i “suoi” media e le sue grottesche campagne elettorali anche – con l’imbecillità indotta e organizzata, ed in tal senso ha dato un contributo non trascurabile quel centro‐
sinistra, da considerarsi in tal caso complementare a Berlusconi, che si è valso dell’opera delle spocchiose lobby intellettuali, organiche a questo capitalismo. Il risultato è la condizione nella quale è stata ridotta un’ampia fetta della popolazione italiana, così come la possiamo osservare oggi, al punto che un microbiologo parlerebbe di scatenamento di una pandemia, dovuto ad estese “colture di virus” sfuggite ad ogni controllo. I moltissimi che sostenevano Berlusconi perché il Milan vinceva gli scudetti, oppure perché ha promesso di creare un milione di posti di lavoro dal nulla, senza tener conto né delle vere “origini” di Berlusconi e dei veri interessi da lui rappresentati, né della sostanza del suo programma che li avrebbe in molta parte penalizzati, ne costituiscono una prova inequivocabile, e neppure troppo recente. Allo stesso modo, l’atteggiamento antipolitico di buona parte del corpo elettorale italiano è un frutto avvelenato della stupidità sociale, un esito che ha favorito non solo il dilagare del berlusconismo, ma lo stesso radicamento della Lega nel nord del paese. Costanzo, che è un filosofo sociale ed in un certo senso un “biologo” di questo capitalismo, distingue l’imbecillità naturale, presente in ogni epoca storica, riguardando minoranze di sfortunati e non potendo essere socialmente dedotta, dall’”idiotismo” scientemente e artificialmente indotto, che invece è socialmente deducibile. Per capire l’importanza del concetto di imbecillità in forma organizzata, nella progressiva drammatizzazione della situazione italiana dal crepuscolo della prima 52
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repubblica in poi, è necessario scomodare Costanzo con una citazione rivelatrice, tratta dal suo memorabile saggio dedicato al Nemico Principale capitalistico: L’imbecillità socialmente organizzata è una struttura ideologica di dominio funzionale alla riproduzione dell’attuale forma di capitalismo assoluto, interamente individualizzato e quindi non più caratterizzato dalle vecchie forme ideologiche. E’ molto importante capire questo punto delicatissimo, per non confondere l’imbecillità socialmente organizzata, fenomeno relativamente nuovo, con le vecchie forme di ideologia di legittimazione, come ad esempio le religioni monoteistiche organizzate. Se questo fenomeno è relativamente nuovo, essendosi manifestato nell’ultimo trentennio, e non ha a che vedere con la classica ideologia di legittimazione del quale ogni potere costituito si è valso, questo accade perché, a detta di Costanzo: L’imbecillità socialmente organizzata presuppone la società di mercato, la piena incorporazione della democrazia nella struttura del liberalismo politico, ed infine lo sbriciolamento di ogni residuo comunitario nell’individualismo nei suoi due complementari aspetti di “destra” e di “sinistra”. E’ così che siamo arrivati un passo oltre i dispositivi di dominazione simbolica di Pierre Bordieu, oltre le vecchie forme di integrazione e di controllo sociale ed oltre la stessa ideologia del progresso, di matrice illuministico‐borghese‐capitalista. La conseguenza è che la stupidità di massa, organizzata dalle strutture di potere, è la forma specifica di dominio classista nel nostro presente. Nel particolare caso italiano, se l’”idiotismo organizzato” ha alimentato il berlusconismo, garantendone la diffusione fra numerosi soggetti che hanno tutto da perdere dalle politiche degli esecutivi Berlusconi‐Lega – come accade per le casalinghe, i pensionati, i disoccupati di lungo periodo, i precarizzati – la sua stessa diffusione è stata favorita dal centro‐sinistra, attraverso l’azione dei governi ulivisti e prodiani ed il circuito giornali‐editoria‐università, ma spesso in una forma più “sofisticata ed elegante” del rozzo berlusconismo e del leghismo padano, rivolgendosi ad unʹutenza diversa da quella berlusconiana, costituita in questo caso da semi‐colti di fascia alta, media e bassa. La cultura è giudicata poco importante per il berlusconismo idiotizzante ed il leghismo bolso, ed anzi, quando non si considera inutile è vista con sospetto, come se si trattasse di un nemico. Da qui l’odio per gli intellettuali e i loro salotti, per i “professori” e gli eruditi, da qui l’approvazione delle manovre finanziarie – imposte dal Nuovo Capitalismo e diligentemente impostate da Tremonti – che comportano severe “punizioni” nei confronti della scuola pubblica, dei teatri e addirittura dei siti archeologici, ai quali si negano le risorse indispensabili per continuare ad esistere. L’atteggiamento della parte idiotizzata della base berluscones‐leghista nei confronti della cultura ricorda curiosamente [ma potrebbe non essere un caso] l’avversione e 53
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il sospetto, espressi dal popolo medioevale largamente analfabeta, nei confronti dei libri e di chi sapeva leggerli. I modelli e gli stili di vita diffusi – e vincenti – sono quelli dell’impresario di successo, che ha come unico scrupolo quello di non “scontentare” coloro che sono più potenti di lui, o che gli sono utili per i suoi scopi, come ha fatto ad esempio un Anemone, dello yesmen o del ruffiano che fanno carriera ed acquisisco vantaggi personali lisciando il pelo al “padrone”, fin tanto che gli è utile, come nei casi macroscopici di Emilio Fede e di Lele Mora, della prostituta nelle versioni soft, od anche in quelle hard, che vuole arricchirsi in fretta, acquisire una buona posizione sociale, e per questo è disposta a tutto, come Nicole Minetti, consigliere regionale imposto nel parlamentino lombardo del cattolicissimo Formigoni, e via discorrendo. E’ chiaro che per realizzare questi “sogni” bacati, la cultura, quella vera, quella che richiede tempo, dedizione ed anche sacrificio, e che porta a comprendere il mondo in cui si vive, non serve a granché. La cultura e l’erudizione rivestono maggior importanza per la sinistra d’operetta che siede nel parlamento italiano. La sinistra che ha aderito al liberalismo e al Mercato, abbandonando l’antagonismo e la critica sociale al capitalismo, ha favorito, nella sua base di semi‐colti, la diffusione di un’erudizione vuota, fine a se stessa, non pericolosa per il potere vigente ed insensibile davanti alle grandi questioni sociali dell’epoca, un’erudizione che non può consentire di cogliere la totalità, di comprendere il funzionamento del sistema e dei meccanismi di dominio che utilizza, limitandosi all’esaltazione del particolare, del bello e dell’inutile. L’erudizione fine a se stessa genera degli idioti acculturati che discutono, ad esempio, di un quadro, dello stile pittorico, dei cromatismi, delle sensazioni che trasmette, della vita e dell’aneddotica dell’artista che lo ha dipinto, senza preoccuparsi di collocare l’opera nella sua dimensione storica e sociale, come se fosse scaturita dal nulla, oppure discutono di filosofia come se si trattasse di una sequenza di bei pensierini sparsi e decontestualizzati, frutto della genialità inspiegabile di pochi iniziati, ignorando completamente le origini sociali e comunitarie della filosofia stessa. L’idiota acculturato “di sinistra”, in campo sociologico preferisce Francesco Alberoni a Luciano Gallino [pur ammettendo che Alberoni sia un sociologo, un’autentica bestemmia!], in campo filosofico apprezza Massimo Cacciari e non Danilo Zolo [ammesso che conosca quest’ultimo], in campo sindacale sceglierebbe un Guglielmo Epifani, o una Camusso, scartando a priori Giorgio Cremaschi [e qui, lo scrivente non ha più parole!]. L’argomento della stupidità umana può essere trattato da altri punti di vista, come ha fatto, ad esempio, lo storico dell’economia Carlo Maria Cipolla che gli ha 54
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dedicato un intero libro – The Basic Laws of Human Stupidity – in cui ha definito le cinque leggi della stupidità, oppure può essere visto in chiave psicologica, esplorando aree del cervello in cui la stupidità potrebbe annidarsi, per tentare una difficile se non impossibile cura, ma è sul piano sociale che la sua variante indotta ed organizzata – nonostante quello che potrebbero affermare un Cipolla o uno psicologo – fa i danni maggiori, che in Italia rischiano di diventare irreversibili. Un danno che dovrebbe essere per tutti evidente, ma che sicuramente non lo è per quanto si è fin qui affermato, è la tenuta di Berlusconi, dopo gli scandali personali e le ripetute manifestazioni d’incapacità politica, di “pochezza gestionale” in un paese dall’economia stagnante, e gli errori commessi in politica estera, con pesanti implicazioni energetico‐economiche, come nel caso dell’appoggio incondizionato e del successivo “tradimento” nei confronti di Gheddafi. La sua spettrale resistenza, che non è eroica e non deriva necessariamente da “patti segreti” stipulati con i potentati d’oltre oceano, è supportata non poco dal consenso idiota e dalla conseguente assenza di reazioni popolari, estese ed efficaci. Oltre al “patto di sangue” con la vasta area dell’illegalità e dell’evasione fiscale, la sua persistenza al potere si fonda sulla stupidità sociale organizzata, a riprova che non c’è la stupidità al potere né vi è un potere della stupidità, e ancor meno il potere istupidisce, come credeva Friedrich Nietzsche, ma è la stupidità dei subalterni che serve al potere e alla sua perpetuazione. Il sistema mostra una la sua peculiare “intelligenza” se riesce ad idiotizzare i sottoposti, neutralizzandoli per potersi riprodurre. Lo stupido di Carlo Cipolla, che non deve essere sottovalutato perché presente in gran numero intorno a noi, come ci insegna la prima legge della stupidità, non è lo stupido socialmente organizzato, ma è semplicemente una metafora individualizzata degli errori che l’umanità collettivamente commette, mentre l’idiota gestito dal potere è un supporto per il potere stesso. Presi singolarmente, gli stupidi/ imbecilli/ idioti organizzati non hanno grandi colpe, anzi, in molti casi non ne hanno alcuna, ma considerati collettivamente, come insieme sul quale si regge l’ordine vigente, hanno un’enorme, drammatica responsabilità storica, costituendo un pilastro irrinunciabile per l’intero sistema che ci domina, e che li domina contro il loro stesso interesse. Dalle lobby intellettuali e giornalistiche, ai pubblicitari ed ai politici, molti si sono dati da fare per veicolare questa “pandemia”, diffusa ormai su tutto il territorio nazionale e ben oltre i vecchi confini di classe, nella forma prevalente del berlusconismo, e del leghismo padano, o in quella numericamente minoritaria dell’idiota acculturato. Lo hanno fatto diffondendo teorie ingenue per il controllo della popolazione [vedi, in proposito, quel che scrive Marco Della Luna nel suo recente Oligarchia per popoli superflui], operando la diversione rispetto ai veri problemi che devono 55
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affrontare i subordinati ed in certi casi propagando vere e proprie menzogne, veicolate dai media o dal mondo editoriale e molto gradite al potere vigente. Disinformazione, idiotizzazione di massa, diversione e nascondimento passano abitualmente attraverso i microfoni, dimorano sulle pagine dei quotidiani e popolano lo schermo televisivo. Tutti quelli che in veste di giornalisti, di accademici rinomati, di intellettuali sponsorizzati partecipano attivamente al gran gioco manipolatorio, hanno fatto “un buon lavoro”, dal punto di vista del potere effettivo, e per questo sono stati adeguatamente ricompensati, ed hanno ottenuto lucrosi contratti nelle televisioni o nei giornali, l’assegnazione di seggi nelle assemblee parlamentari, riconoscimenti nel mondo accademico e editoriale. Ma il male che hanno fatto a questo paese e alla sua popolazione potrà rivelarsi fatale … anche per loro stessi. La conseguenza di breve‐medio periodo per l’intero paese è che Berlusconi tiene e l’Italia è fottuta. 56
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Dietro lo smottamento elettorale del 15 e 16 maggio 2011 23 maggio 2011 E’ bene cercare di guardare dietro lo specchio, di tanto in tanto, il che metaforicamente equivale all’andare oltre le apparenze. Così, in relazione alla prima tornata delle ultime elezioni amministrative che hanno riguardato circa tredici milioni di aventi diritti al voto, oltre mille e trecento comuni – fra i quali Milano, Napoli, Torino e Bologna – ed undici province, è bene andare oltre le apparenze per poter comprendere le ragioni dello “smottamento elettorale” che si è verificato, ed in particolare i fermenti sociali, culturali e politici visibili sotto la superficie. Tre sono le questioni che meritano di essere trattate per prime, considerato che il loro impatto va ben oltre il semplice prevalere del centro‐sinistra sul centro‐destra e lo spostamento di consensi, o la concreta possibilità di vittoria delle opposizioni nello storico “feudo” meneghino di Berlusconi, che si è sorprendentemente materializzata oltre le più rosee previsioni. Queste tre questioni, elencate in ordine decrescente di importanza, sono le seguenti e rappresentano altrettante novità emerse nelle ultime elezioni amministrative: 1) Un’inedita alleanza fra componenti sociali molto diverse, che ha alimentato il voto milanese per Pisapia, con l’obbiettivo immediato e visibile di abbattere lo pseudoregime di Berlusconi a partire dalla simbolica roccaforte di Milano. 2) L’assorbimento all’interno dei meccanismi elettorali e delle logiche liberaldemocratiche di una parte significativa della debole e frammentata protesta sociale, del malcontento dilagante, ma spesso generico, e di quel poco di critica intellettuale [“artistica”] non assorbita negli apparati culturali ed ideologici liberalcapitalistici durante decenni del post Sessantotto. 3) Le ragioni vere, concrete del malcontento che investe la cosiddetta base leghista, ed anche quella pidiellina che presenta alcune caratteristiche comuni con la prima, due componenti fondamentali del cosiddetto blocco sociale berlusconiano, che sembrano oggi disorientate, in subbuglio, se non in fibrillazione. Le tre domande da porsi, viste le questioni sollevate, sono rispettivamente: a) Qual è la ragione profonda del costituirsi di questa inedita alleanza, estensibile oltre i confini del comune di Milano, oltre le contingenze elettorali e la necessità del “superamento” di Berlusconi? 57
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b) L’assorbimento di parte significativa della critica al sistema all’interno dei meccanismi e dei riti elettorali, potrà neutralizzare il debole antagonismo esistente e nel contempo inibire la nascita di un nuovo antagonismo, diffuso e consapevole? c) Quali sono le vere e più profonde ragioni del malcontento della base leghista, ed anche di quella berlusconiana? E’ importante cercare di dare una risposta a queste domande, senza cadere nell’equivoco che porta a confondere la superficie di un fenomeno, che è quella che appare e si può cogliere con qualche immediatezza, ma che può indurre a conclusioni parziali od erronee, con la sua profondità, la quale nasconde le vere ragioni della genesi del fenomeno stesso e consente, perciò, di spiegarlo. Procedendo con ordine, è necessario concentrarsi sulla prima domanda, che è di gran lunga la più importante e riguarda i nuovi, possibili assetti sociali e politici che potranno affermarsi in futuro. Nel voto di Milano all’outsider Pisapia si nota una strana convergenza di interessi fra gruppi sociali molto diversi, che una trentina o una quarantina di anni fa, in pieno Novecento, sarebbe stata quantomeno improbabile. Il caso più emblematico di questa “convergenza d’interessi” fra una parte della vecchia borghesia, i ceti medi figli del welfare a rischio di impoverimento ed i cosiddetti centri sociali, che Pisapia dovrebbe rappresentare data la sua storia pregressa e soprattutto data la martellante propaganda berlusconiano‐leghista, non è episodica, occasionale, o il frutto di una sconcertante ed imprevista deriva politica [che pure c’è], e non è neppure il prodotto di una società senza classi, come crede il noto Piero Bassetti, industriale milanese di vecchia generazione, borghese del secolo scorso ed ex presidente democristiano della regione Lombardia, il quale ha garantito il suo appoggio a Giuliano Pisapia, proveniente dal PRC ed oggi vicino al SEL, motivandolo come segue: «Mi sono assunto la responsabilità di sostenere Pisapia nei salotti, dove qualcuno dice che non lo vota perché viene da Rifondazione, senza rendersi conto che i partiti non ci sono più, le classi non ci sono più, solo le istituzioni sono importanti. Attorno a Pisapia si possono costruire importanti alleanze sociali ed economiche. Ciò che è peggio è che quelli che credono di avere avuto dei vantaggi dalla giunta Moratti ma non si rendono conto che stanno scavando la loro fossa...» [http://www.facebook.com/notes/giuliano‐pisapia‐sindaco‐x‐milano/bassetti‐
attorno‐a‐pisapia‐alleanze‐importanti‐spiace‐che‐la‐moratti‐si‐sia‐
mess/213573815328229] 58
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E’ evidente che la mistificazione a‐classista, che da tempo prepara il terreno all’affermazione dell’ordine sociale del Nuovo Capitalismo, ha colpito in profondità, inducendo un uomo d’esperienza come Piero Bassetti a parlare di “società senza classi” in cui sono possibili alleanze di fatto – sia pur rigorosamente all’interno, per ora, dei meccanismi elettoralistici liberaldemocratici – fra i “salotti buoni” della vecchia borghesia indigena, oggi in vistoso declino, ed i tanto vituperati [da Berlusconi e Moratti, che cercano disperatamente di risalire la china dopo il primo turno] “centri sociali”, i quali dovrebbero rappresentare l’antagonismo e l’anti‐moderazione per antonomasia. Se l’obbiettivo più immediato ed ovvio è il rovesciamento di Letizia Moratti, e come diretta conseguenza l’indebolimento o la caduta del quarto esecutivo Berlusconi, questa alleanza eterogenea fra gruppi diversissimi, che nel passato si potevano pensare come contrapposti, è il segnale più evidente che il quadro sociale [e politico] inizia lentamente a ricomporsi in forma diversa, dopo l’azione ultraventennale del Nuovo Capitalismo finanziarizzato, gli shock economici e la crisi strutturale che hanno scosso le fondamenta del sistema economico e dell’ordine sociale anche in Italia e a Milano. La Classe Globale rampante si è “mangiata” in occidente la vecchia borghesia proprietaria, non più aderente alle esigenze riproduttive capitalistiche, e il vento ultraliberista della globalizzazione, in questo autunno europeo che tende ai rigori dell’inverno, disperde le tradizionali certezze borghesi come se fossero foglie rinsecchite staccatesi dall’albero della storia. Se il mondo culturale borghese sta andando verso l’estinzione, continua il massacro dei ceti medi legati alla stagione keynesiana del welfare ed è quasi giunta a compimento la disintegrazione della classe operaia, salariata e proletaria, che non può più esprimere, se non in forme residuali e totalmente inefficaci, impegnandosi in qualche battaglia di retroguardia silenziata dai media, la “lotta di classe”. Anzi, il monopolio della lotta di classe è finito nelle mani della Classe Globale, che lo utilizza a suo vantaggio contro le vecchie classi sociali ed il resto della società, riducendoli in poltiglia, e contro l’alta borghesia non “globalizzata” che perde il suo primato. Questa nuova classe dominante non ha, come aveva la vecchia borghesia proprietaria, la possibilità di sviluppare una “coscienza infelice” e critica nei confronti di sé stessa, in quanto classe , e del capitalismo ultimo, in quando nuovo modo storico di produzione. Se l’esempio massimo di coscienza infelice borghese che la storia pregressa ha prodotto è stato Karl Marx – il quale ha descritto in tutta la sua disincantata crudezza l’alienazione umana dovuta lavoro astratto, oggettivato, nei concreti rapporti di produzione della sua epoca, la formazione del valore di scambio ed il processo di produzione del capitale – i nuovi agenti della Classe Globale non hanno 59
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questo problema, perché non hanno neppure la possibilità di sviluppare una coscienza infelice e critica. Ma Piero Bassetti, che è un vecchio borghese [per appartenenza e in senso anagrafico, essendo ottuagenario] è ancora capace di indignarsi – con un fondo di sincerità, si spera, e non del tutto strumentalmente – davanti al malgoverno di Milano espresso dalla Moratti in nome e per conto di Berlusconi, ed è perciò che ha affermato: «Attorno a Pisapia si costruiscono alleanze sociali ed economiche importanti. Spiace che la Moratti si sia messa al servizio della disfunzione e della corruzione politica.» [Ibidem] Quello che probabilmente Bassetti non ha compreso è che dalla poltiglia del passato ordine sociale – come da un brodo primordiale – in una società apparentemente senza classi che è più che mai classista e squilibrata, stanno nascendo inedite alleanze, per ora di natura tattica, ma che in futuro potranno rinsaldarsi creando vincoli solidaristici più duraturi, e faranno capolino nuove forme di coscienza di classe, oggi in embrione, a partire dalla Pauper Class capitalistica del terzo millennio [della quale, però, l’attempato borghese Bassetti e i suoi sodali nei “salotti buoni” difficilmente faranno parte]. Se oggi parliamo al più di ceti, o di gruppi sociali come preferisce lo scrivente – dall’ex squatter del Leoncavallo “impegnato nel sociale” all’impiegato impoverito, dall’operaio flessibilizzato in odor di CIG al ricercatore precario – che a Milano hanno deciso di sostenere l’ex PRC Pisapia fianco a fianco con un pezzo di borghesia cittadina, forse domani parleremo di Classe Povera in un ordine sociale dicotomico e cristallizzato, con rarissime occasioni di promozione, e quella che fu la “Milano da bere” della stagione craxiana che preluse al berlusconismo, diventerà la Milano da ricostruire, assieme al resto del paese. Ma sarà ancora possibile farlo, tornando agli antichi fasti? Il fatto che gruppi sociali molto diversi – in cerca di rappresentanza – si sono scossi da un torpore ventennale ed hanno deciso di convergere sull’obbiettivo a breve termine, sul target “di prossimità” della liberazione di Milano da Berlusconi [e dal fallimentare berlusconismo, che pare aver esaurito la sua spinta propulsiva] è stato interpretato dal giornalista Michele Brambilla su La Stampa nel modo seguente: «Qualcosa è cambiato, ed è un grave errore del centrodestra non capire che a Milano «moderato» non vuol dire elettore di centro destra ma vuol dire, appunto, moderato. Cioè il contrario di estremista. E per i milanesi gli estremisti ‐ è quasi un gioco di parole, ma è così ‐ sono quelli che hanno accusato Pisapia di essere un estremista. Roberto Lassini, il candidato del Pdl che ha tappezzato la città con i manifesti «Via le Br dalle Procure», nonostante abbia ricevuto l’entusiastico endorsement del Giornale ha preso 872 preferenze. Una miseria. E Berlusconi? Gli sono giovati i toni da guerra santa usati al Nuovo e al Palasharp? Aveva preso 53.000 preferenze cinque anni fa, ne ha prese 27.972 adesso.» 60
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[http://www3.lastampa.it/focus/elezioni2011/articolo/lstp/402789/]
Anche questa interpretazione, come quella di Bassetti, non è corretta, o meglio lo è soltanto in parte, e così quella dell’ex sindaco socialista di Milano Carlo Tognoli, che è utile riportare: «Sono convinto che certi toni e un certo involgarimento abbiano indotto una parte degli elettori a spostarsi dal centro destra al centro sinistra», ci dice Carlo Tognoli, ex sindaco socialista dal 1976 al 1986. «Pisapia è rimasto tranquillo, non ha nemmeno parlato troppo di politica, è rimasto sui problemi della città. E la gente lo ha premiato perché lo stile violento non è nelle corde di Milano.» [Ibidem] Quindi, l’ampio consenso elettorale “incassato” da Pisapia, che ha riguardato un gran numero di profili sociali, sarebbe conseguenza della scarsa moderazione di Berlusconi e dei suoi peggiori accoliti, dell’involgarimento e addirittura dell’imbarbarimento della campagna elettorale del centro‐destra, fino al coinvolgimento in questa spirale negativa della stessa “moderatissima” Moratti. S’invoca, per spiegare l’insperato successo del più tranquillo Pisapia, che è parso concentrarsi sui problemi della città, quello “spirito moderato” che avrebbe sempre pervaso la maggioranza dell’elettorato milanese. Ma queste spiegazioni, che vorrebbero essere esaustive e chiudere definitivamente la questione, nascono da un fraintendimento, il quale spinge a confondere la superficie del fenomeno con la sua profondità, come se si affermasse che la genesi di un evento sismico è negli strati superficiali del terreno, senza considerare, nella ricerca della causa più probabile e verosimile, la tettonica delle placche che a maggiori profondità riesce a spiegare l’origine dei terremoti. Per quanto riguarda la spiegazione del “moderatismo” che fa vincere, e dell’”estremismo” radicalizzante che penalizza, in linea generale non si tratta che del mascheramento propagandistico‐mediatico di una precisa esigenza riproduttiva del sistema liberaldemocratico, il quale respingendo le “radicalizzazioni” e gli “estremismi” tende ad evitare, al suo interno, il coagulo di forze ostili e la nascita di alternative destabilizzanti, tali da pregiudicarne la tenuta. Ciò che più importa, in questa sede, è rilevare che sotto i flussi di voti che hanno favorito Pisapia a scapito di Moratti, a ben maggiore profondità, si stanno spostando le “placche sociali” [si passi l’espressione mutuata dalla tettonica], in un primo ed ancora scarsamente visibile accenno di ricomposizione in forme nuove di un quadro sociale frantumato, fenomeno che si chiarirà meglio nel medio‐lungo periodo, con la comparsa, anche in Italia, della Pauper Class capitalistica. Certo, Berlusconi non è un globalista, lui ed il suo raffazzonato pseudoregime non sono troppo graditi ai veri decisori che stabiliscono le politiche monetarie, finanziarie ed economiche in occidente, agendo attraverso gli organismi sopranazionali, ma ciò non toglie – è bene ripetere un’ultima volta – che la “strana 61
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alleanza” antiberlusconiana fra le future componenti della Pauper class capitalistica e fra queste ed una parte della vecchia borghesia meneghina superstite, se ha come obbiettivo immediato quello di sloggiare Letizia Moratti e la sua giunta dalle poltrone che occupano per assestare un colpo mortale al berlusconismo [che è nato a Milano e … morirà a Milano], rappresenta nel contempo un primo annuncio dell’avvento di un nuovo ordine sociale, indotto dal capitalismo contemporaneo e dalle trasformazioni che ha imposto nell’ultimo ventennio. Per quanto riguarda episodi minori di questa campagna elettorale che potrebbero confermare quanto qui si sostiene, è bene richiamare il caso di Trieste, in cui gli elettori sono stati chiamati alle urne per le elezioni comunali e per quelle provinciali. Al primo turno, l’aumento dell’astensionismo ha rappresentato il dato più significativo, in specie per le comunali, e la crescita del non‐voto è stata, in termini percentuali, superiore a quella registrata nel comune di Napoli. Su 184.952 aventi diritto al voto per il comune di Trieste, ha deposto la scheda nell’urna soltanto il 56,69%, con un aumento delle astensioni di quasi il 18% rispetto alla tornata elettorale del 2006, mentre a Napoli su 812.450 elettori potenziali, ha votato il 60,32%, quindi una percentuale più alta di quella triestina. A Milano i votanti sono stati, come ulteriore termine di confronto, il 67,56% degli aventi diritto. Nella tranquilla e periferica Trieste non ci sono i gravi problemi sanitario‐sociali che affliggono il capoluogo partenopeo – la pressione dei rifiuti non rimossi e i conseguenti rischi per la salute, un tasso di disoccupazione a due cifre, il controllo camorrista – e non ci sono le insurrezioni periodiche di interi quartieri, che bruciano le immondizie, i cassonetti, le macchine parcheggiate, talora scontrandosi con la polizia, ed allora perché l’astensionismo elettorale a Trieste ha registrato un picco superiore a quello di Napoli, andando ben oltre il 40%? Se a Napoli l’astensionismo che avrebbe potuto assumere dimensioni “bibliche”, in conseguenza dei drammatici problemi vissuti quotidianamente nella capitale del sud, è stato contenuto in dimensioni più accettabili dalla presenza di un De Magistris, a Trieste si direbbe che molti profili sociali, fra i quali i numerosi pensionati in una città che è fra le più anziane d’Europa, non hanno trovato rappresentanza nei due politici di professione contrapposti, Antonione per il PdL e Cosolini per il Pd, né fra i numerosi candidati sindaco minori. A Trieste, l’astensionismo in crescita esponenziale ed apparentemente anomala si deve al fatto che è mancato un candidato come Pisapia a Milano, o come De Magistris a Napoli, i quali presentano qualche tratto vagamente critico nei confronti del sistema pur essendo interni al sistema stesso, o comunque è mancato qualche candidato nuovo ed “atipico” che poteva polarizzare il voto dei diversissimi profili sociali vittime della crisi imperante, inducendo alla partecipazione una parte 62
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significativa degli scontenti e dei rassegnati ed alla formazione di un nuovo fronte, o “blocco” sociale. Perciò, è mancata la polarizzazione dello scontento e della critica [politica, sociale, culturale] rappresentata a Milano da Giuliano Pisapia, non si è realizzata un’alleanza sociologicamente complessa – dai centri sociali ad alcuni “salotti buoni” della vecchia borghesia – e l’astensionismo è esploso come inevitabile conseguenza. Anche qui, la sopraggiunta avversione, o in qualche caso la delusione nei confronti del berlusconismo e di Berlusconi, che si è espressa attraverso l’aumento dell’astensionismo ed ha investito molti gruppi della società triestina, nasconde un “movimento sociale” più profondo, sicuramente di lungo periodo, ed è forse il primo segnale, assieme a quello di gran lunga più importante che riguarda Milano, della ricomposizione della struttura di classe in nuove forme. Per dare una risposta alla seconda domanda, che segue in un ordine di importanza la prima, è bene premettere che la capacità di indignarsi, lo schierarsi apertamente contro un sistema oppressivo ed antiumano, è inversamente proporzionale al grado di adesione a capitalismo e liberaldemocrazia. Se manca o si riduce la capacità di indignarsi, che equivale a quello che è forse il bene più prezioso dell’uomo libero, cioè la propria capacità di critica e di giudizio, il “ritorno all’ovile” prima o poi è inevitabile, e quindi diventa possibile la supina adesione ai riti elettoralistici, da un lato, e l’assorbimento progressivo negli immaginari sistemici dall’altro lato. Da poco, nella Spagna dello sboom economico capitalistico che ha fatto seguito alle “vacche grasse” alimentate dal crescere della bolla immobiliare, è nato il movimento spontaneo autoconvocato degli Indignados, come momento di rottura del quadro politico sistemico e del bipolarismo locale. «Il movimento si ispira esplicitamente alle rivolte popolari nei paesi arabi. Un portavoce dei giovani antisistema, riuniti nella piattaforma “Democracia real Ya” (Subito una vera democrazia) e nel movimento ʹ15 Mʹ, ha precisato che intendono restare accampati a Puerta del Sol fino alle elezioni amministrative e regionali di domenica prossima. Manifestazioni di appoggio ai giovani di Madrid si sono svolte in circa 40 città spagnole. A Barcellona alcune decine di giovani hanno occupato nella notte la centrale Plaza Catalunya. I giovani ʹindignadosʹ (indignati), come loro stessi si sono autobattezzati, denunciano fra lʹaltro le condizioni di vita sempre più dure create dalla crisi e dai successivi giri di vite decisi dal governo del premier socialista Josè Luis Zapatero, la disoccupazione oltre il 20%, soprattutto la “collusione” fra politici e banchieri, e chiedono un sistema di democrazia partecipativa.» [http://www.contropiano.org/it/esteri/item/1382‐spagna‐dilagano‐i‐giovani‐
indignados] 63
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Alcuni elementi costitutivi di questo movimento, che è generazionale ed extraparlamentare, ma diverso dal “grillismo” e dal vecchio movimentismo antagonistico dei centri sociali italiani, devono essere sottolineati: a) L’indignazione come base della critica sociale e politica [e ciò è indubbiamente positivo, per quanto scritto in precedenza], b) la richiesta di “democrazia partecipativa”, come scrive la Redazione di Contropiano nel brano riportato, in contrapposto alla democrazia liberale rappresentativa che costituisce il miglior compendio, sul piano politico, del liberalcapitalismo ultimo, ben sapendo, però, che la “democrazia partecipativa” è ancora uno slogan e non assume chiare forme istituzionali, c) la relazione diretta fra la protesta in atto e le reali condizioni di vita della popolazione, che riporta lo scontro sul terreno più importante, il quale è e rimane quello sociale, e d) l’ispirazione tratta dalle rivolte nei paesi arabi, a dimostrazione che un concreto antagonismo può nascere nella periferia del “sistema‐mondo” economicizzato [o economia‐mondo, secondo la definizione di Immanuel Wallerstein] e non al centro. Tuttavia, pare che i giovani spagnoli autoconvocati, pur dialogando con il resto d’Europa ci tengano a sottolineare la dimensione nazionale della loro protesta: «Gli studenti spagnoli all’estero hanno iniziato subito a organizzare una propria mobilitazione in appoggio ai coetanei connazionale in quel di Madrid (e altrove). E hanno trovato subito appoggi anche italiani entusiasti. Al punto da far temere un successo «eccessivo» e non «nazionale». Di qui la richiesta avanzata da Spanish Revolution Rome: «RAGAZZI ITALIANI, questa protesta è SPAGNOLA, degli SPAGNOLI ALLʹESTERO, che vogliamo dare sostegno a quelli che stanno a Madrid e nel resto della Spagna. noi vogliamo cambiare il nostro sistema politico e per questo è stata convocata. siete benvenuti se venite a darci appoggio, ma se avete altri slogan, dovete fare la vostra protesta.» [http://www.contropiano.org/it/sindacato/item/1419‐indignati‐oggi‐in‐piazza‐
anche‐in‐italia] Nonostante il superamento dei confini consentito dalla rete – grazie alla quale le future idee rivoluzionarie potranno viaggiare e diffondersi in tempo reale dal Messico alla Birmania – il limite rappresentato dalla dimensione nazionale, che limita l’efficacia delle lotte, è ben lungi dall’essere superato. Vedremo quale sviluppo avrà il neonato movimento spagnolo degli Indignados, che pare estendersi rapidamente come un’onda d’urto ad altri pesi europei, fra i quali l’Italia, grazie al tam‐tam consentito dal web e dalle tecnologie della comunicazione disponibili, ma nel frattempo non possiamo non rilevare che la società italiana è molto particolare, rispetto a quelle del resto d’Europa, in quanto caratterizzata da una fortissima atomizzazione, dalla frustrazione massima del lavoro, dallʹimpossibilità di un vero impegno civile, dallʹidiotismo diffuso nella triplice forma del berlusconismo, del leghismo e dell’idiota acculturato “di sinistra”, e soprattutto da una passività sconcertante, che non consente estese mobilitazioni neppure davanti a questioni sociali drammatiche. 64
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2 giugno 2010
Sappiamo comʹè finito il movimento dellʹOnda studentesca, frangendosi contro gli scogli del particolarismo e dell’”anomalia italiana”. Sappiamo che alla grande manifestazione di sabato 16 ottobre 2010, organizzata dalla Fiom a Roma e caratterizzata da una straordinaria partecipazione di movimenti e di lavoratori [più del doppio del totale degli iscritti alla Federazione], non sono seguite iniziative eclatanti e di conseguenza non si è alzato il livello dello scontro sociale, che in Italia continua a languire. Sappiamo che dopo i disordini di Roma della fine del 2010, durati un solo giorno [il 14 di dicembre, per la precisione], non ci sono stati altri indizi significativi di una possibilità anche soltanto insurrezionale, destinata a spegnersi nel breve. Al contrario, il debole e frammentato antagonismo superstite, sia di origine virtuale sia di origine politico‐sociale, sembra che sia stato in buona misura assorbito nelle logiche e nei riti elettoralistici liberaldemocratici, come testimoniano il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, presente con propri candidati in molti comuni chiamati al voto, e lʹappoggio dei ʺfamigeratiʺ centri sociali di Milano allʹex parlamentare del PRC Giuliano Pisapia. La contraddizione che si può notare nei “grillini” è che da un lato hanno deciso di partecipare alla kermesse del voto liberaldemocratico per la rappresentanza, ponendosi nei fatti in posizione interna a questo sistema [non è unʹaccusa, ma una constatazione], mentre dallʹaltro lato rifiutano, a quel che sembra, ogni apparentamento elettorale per i ballottaggi, come se si trattasse di una ʺcontaminazioneʺ, di promiscuità con quel “sistema dei partiti” al cui rito loro stessi partecipano, chiamandosi così parzialmente fuori del sistema stesso. Ma visto che il Movimento 5 stelle è nato dal basso, come affermano i suoi capi, per risolvere la contraddizione ed evitare una “contaminazione” completa, che si avrebbe nel caso di accordi fra la loro lista e le altre prima del ballottaggio, hanno deciso di lasciare libertà di voto agli elettori, che a Milano voteranno per Pisapia, sostenuto dal Pd, non essendo neppure ipotizzabile il voto alla Moratti, e quindi allo “psiconano”. Sta di fatto che i “connessi” dialoganti sul blog di Grillo sono diventati elettori e sostenitori di specifiche liste elettorali nate dallo stesso blog. L’origine virtuale e l’approdo elettorale caratterizzano il Movimento 5 stelle, che è passato da un originario “stato di network”, e di esternità conclamata al sistema elettorale dei partiti, allo spoglio delle schede contenute nelle urne. Certo, in quelle liste ci sono molti giovani – il capolista milanese Matteo Calise è appena ventenne – e tante facce pulite, non compromesse con i cartelli elettorali della seconda repubblica e con lo scadimento progressivo della politica a “piccola politica”, politica minore, agenzia per l’impiego, familismo amorale ed anche immorale, ma le facce pulite possono sporcarsi molto presto, all’interno di un 65
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2 giugno 2010
sistema “collaudato” come quello italiano, così come la novità che questi giovani indubbiamente rappresentano può esaurirsi in breve tempo. Pur non avendo lo scrivente alcuna animosità contro il Movimento 5 stelle e i suoi supporter, che vorrebbero spingere il paese a percorrere una strada pur sempre migliore dell’attuale, certe cose devono essere dette e soprattutto scritte in modo chiaro. Se nella penisola si diffonderà l’indignazione giovanile che si è manifestata una prima volta in Spagna, emergerà la contraddizione fra una protesta spontanea autoconvocata che invade le piazze, fuori delle logiche sistemiche ed elettoralistiche, ed un antagonismo, di matrice sociale, politica, e/o virtuale che invece è rientrato, seppur parzialmente, all’interno di quel sistema oggetto di critica. La speranza è che in futuro il sistema non riesca ad assorbire integralmente la critica sociale, politica e generazionale nei suoi immaginari e nei suoi meccanismi elettorali, come sembra che sia riuscito a fare fino ad oggi. Infine, spiace di non poter dare una risposta più precisa, e predittiva, alla seconda domanda, ma il gran libro del futuro, ed in particolare il capitoletto riguardante lo stivale, non è ancora stato scritto. La risposta al terzo quesito è complessa perché riguarda quelli che potranno essere “i cattivi” nel futuro scontro sociale in Italia, in contrapposto ai “buoni” [pur con tutti i loro difetti e le loro contraddizioni] dei quali si è scritto diffusamente in precedenza. E’ opportuno chiarire che le espressioni “buoni” e “cattivi” non hanno qui un rilievo morale, e non implicano un’assoluzione o una condanna dei singoli in termini moralistici, perché una donna di mezza età postcasalinga di Voghera che ha sostenuto Berlusconi, subendo il fascino del suo ologramma mediatico, considerata individualmente potrà non avere particolari “colpe”, mentre un borghese di Milano che attualmente sostiene Pisapia, per fare un “dispetto” a Gianmarco Moratti silurando la consorte Letizia, può nascondere molti scheletri nell’armadio, così come un epigono dell’estrema sinistra extraparlamentare che fa riferimento ad un collettivo milanese può avere compiuto azioni violente, in passato, o non aver mai usato la violenza in vita sua, mentre un “bottegaio leghista” [più raro a Milano di quanto non lo sia altrove in Lombardia] può essere mite nella sua quotidianità, non particolarmente feroce nei confronti degli immigrati e dissentire con le peggiori “sparate” dei suoi capi. “Buoni” e “cattivi”, è bene precisare, esclusivamente in relazione alle potenzialità antagonistiche e trasformative dei gruppi sociali di appartenenza, che però potrebbero non trovare una compiuta e concreta espressione nello sviluppo storico futuro. 66
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2 giugno 2010
Ma per quale motivo reale e non apparente la cosiddetta base leghista, dopo il primo turno elettorale che ha segnato una sconfitta per la stessa Lega, ha sommerso di messaggi critici e proteste Radio Padania, al punto tale che i commenti sul forum sono stati bloccati? E per quale motivo, al di là delle apparenze e delle contingenze, anche i “berluscones” sono finalmente usciti allo scoperto, ed hanno osato criticare l’impianto di potere che si sostanzia nello pseudoregime berlusconiano? E’ la fine di unʹepoca, o soltanto l’effetto della cosiddetta crisi di midterm, espressa nelle midterm elections, che investe un esecutivo giunto a metà strada e che quindi, fisiologicamente, deve vedersela con un certo numero di scontenti? Procedendo con un po’ d’ordine, rileviamo che in occasione di questo evento elettorale, che è di natura squisitamente “amministrativa”, ma al quale è stata attribuita una valenza politica nazionale sia da un Berlusconi un po’ scricchiolante [invocando un plebiscito a suo favore] sia da una parte dell’opposizione [cercando un plebiscito contro Berlusconi], sembra che questa volta il blocco elettorale berlusconiano comprensivo della Lega, che somma all’evasione fiscale, ai furbi, agli impresari ed agli speculatori i socialmente idiotizzati [maggioritari nei quozienti], non abbia funzionato a dovere, esprimendo come è accaduto in altre occasioni un consenso acritico, generalizzato e granitico. Persino l’”urlo di battaglia” degli idioti – Forza Silvio! – in questa occasione non si è levato alto su Milano e su molti altri fronti, come accadeva in passato. Parimenti, l’”urlo di battaglia” del leghista delle origini – “Roma ladrona la Lega non perdona!” – non può più funzionare, essendo le burocrazie politiche della Lega perfettamente inserite nel sistema di potere romano, come possono facilmente osservare gli stessi idiotizzati di matrice leghista, ed il federalismo fiscale travestito da epocale e salvifica riforma dello stato, che secondo il rozzo e fastidioso Bossi [rozzo e fastidioso soltanto quando si rivolge alla sua base e ai suoi idioti] avrebbe dovuto essere “nel cuore” di tutti i popoli padani, con tutta evidenza non rappresenta l’esito più atteso e desiderato dalle popolazioni dell’immaginaria padania. Di seguito un piccolo spaccato del malcontento della base leghista: «RADIO PADANIA ‐ Durante il filo diretto di Radio Padania Libera con gli ascoltatori, prevalgono da un lato la delusione per il risultato registrato al primo turno delle amministrative milanesi e un vero e proprio ʺterroreʺ che il ballottaggio possa confermare la preferenza del capoluogo lombardo a Giuliano Pisapia. ʺEʹ stato bruttissimo ‐ ha detto unʹascoltatrice, lo vivo come un lutto, sto male fisicamenteʺ. La stessa donna non crede che al ballottaggio si possa determinare un cambiamento: ʺormai eʹ persoʺ, ha detto. ʺSono disperata ma ottimista ‐ ha invece fatto sapere una seconda ‐, ma bisogna che la Lega dica qualcosa a proposito di quello che sta arrivandoʺ. Sono molti quelli che chiedono di tornare a parlare dei problemi dei cittadini condannando talvolta implicitamente, altre esplicitamente 67
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2 giugno 2010
il piano di contenuti sviluppati da Silvio Berlusconi. ʺDirei di cominciare a parlare di programmi ‐ ha detto un altro ascoltatore ‐. Si cominci a parlare di quello che si vorraʹ fare se non vogliamo che Pisapia distrugga Milanoʺ. ʺNoi risentiamo molto ‐ ha fatto eco un altro ‐ delle posizioni del nostro principale alleato. La genete eʹ stanca di sentir parlare di vittimismo giudiziario. Non si parla di quello che la gente vuol sentireʺ. ʺLa persone hanno pensato ‐ eʹ stato il ragionamento di un altro sostenitore del Carroccio ‐ che i voti dati alla Lega sarebbero comunque andati al Cavaliere. Io penso che Berlusconi debba fare un passo indietro e lasciare la leadership a Tremontiʺ. Lo sgomento, comunque, regna sovrano: ʺio non so se i milanesi si rendono conto di aver votato un etremista, un fuori di testa, un ricco sfondatoʺ, ha tuonato una signora; ʺnon si puoʹ rischiare una cosa del genere (la vittoria di Pisapia ndr) ‐ eʹ il commento di un altro ‐. Non si puoʹ dare il voto per un sindaco di sinistra che rovinerebbe la cittaʹʺ. E cʹeʹ anche chi ha puntato il dito direttamente contro il sindaco uscente: ʺla Moratti non piace a Milano, si eʹ disinteressata delle periferie e ha pensato agli affari suoiʺ.» [http://affaritaliani.libero.it/politica/leghisti_processano_maroni_berlusconi170511.
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Le critiche all’impostazione politica bossiana, e ad altri esponenti illustri della Lega, per quanto variegate e confuse, od indirette nel senso che stigmatizzano l’insufficienza dell’argine creato per contenere il “pericolo [rosso] Pisapia”, spaziano fino ad investire lo stesso alleato Berlusconi: «Ma i leghisti non si scagliano solo contro Bossi. Berlusconi ha la sua parte di insulti, soprattutto per quanto riguardano le leggi ad personam. ʺLa lega paga il sostegno alle leggi ad personam e a tutte le altre schifezze che ha dovuto votare a Berlusconi. Non credevo che il mio voto sarebbe servito a far passare leggi vomitevoliʺ.» [Ibidem] Incapacità di contenere l’ascesa di Pisapia, sopraggiunta incapacità di “parlare alle gente dei problemi concreti” [cosa che la Lega è stata abile nel simulare per molti anni], condiscendenza eccessiva nei confronti di Berlusconi e accettazione delle sue “schifezze” [leggi ad personam], rappresentano alcune critiche mosse al gotha leghista, al punto tale che qualcuno invoca l’”avvento” del ministro dell’economia Tremonti – il miglior alleato della Lega, ma non una diretta espressione di quel partito – in sostituzione del pericolante Berlusconi. Anche in tal caso esiste una superficie del fenomeno e c’è una sua profondità, ed è chiaro che non ci si può fermare alla superficie, limitandosi a prendere alla lettera queste variegate critiche espresse un po’ confusamente dalla base “padana” in subbuglio, per riuscire a cogliere l’essenza stessa del fenomeno. Chi ha tentato un’analisi politica e sociale minimamente articolata del malcontento leghista, esploso con il voto amministrativo del 15 e 16 maggio, è stato, fra gli altri, Ilvo Diamanti sulle pagine di Repubblica, il quale ha tratto le seguenti conclusioni: 68
Eugenio Orso
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
«La Lega fluttuante. Radicata, dal punto di vista organizzativo e dellʹelettorato ʺfedeleʺ, sale e scende sulla spinta degli elettori ʺinfedeliʺ. Che la scelgono e la usano in base ai momenti. Per rivendicare e/o protestare. Perché è il sindacato del Nord e delle province produttive. Il partito del federalismo che garantisce meno tasse, più servizi, risorse e poteri. Non il contrario, come si comincia a temere. Di certo non è votata per difendere Silvio, i suoi interessi, le sue battaglie personali con i magistrati. Per questo il futuro della coalizione è difficile da decifrare. Perché Berlusconi, ormai, è prigioniero della propria sindrome autistica. Perché la Lega, senza Berlusconi, rischia di ritrovarsi fuori gioco. Lontana da Roma Improduttiva. Un amplificatore dei disagi e del malessere che finisce ai margini della scena politica. Perché insieme a Silvio rischia di apparire schiava di Roma, alleata del Sud …» [http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2011051818694945‐
1]
Ilvo Diamanti, nei confronti del quale chi scrive non nutre particolari sentimenti di stima o di disistima, affronta la questione principalmente dal punto di vista delle contingenze, dell’opportunità politica e degli esiti elettorali nel breve, mettendo in rilievo una contraddizione che scuote la Lega, e disorienta il suo elettorato “fedele” [secondo la definizione data da Diamanti del nocciolo duro leghista], quando afferma che stando insieme a Berlusconi rischia di apparire “schiava di Roma” e alleata del meridione, ma senza Berlusconi non potrà più fare “il topo nel formaggio”, occupando i ministeri romani. Il partito del federalismo, per quanto posticcio può essere il federalismo bossiano, nascondendo ben altre intenzioni, dovrebbe garantire meno tasse ai cosiddetti ceti produttivi del nord, ma oggi si comincia a temere il contrario. Se qualche bottegaio o impresario, leghista della prima ora, si aspettava che il federalismo avrebbe potuto sostituirsi all’evasione fiscale tollerata e largamente praticata da queste figure, riassorbendola con sgravi fiscali ad hoc e “trattenendo i danè a nord”, può essere che si sia ricreduto, ed abbia cominciato a riflettere seriamente in proposito, dopo la doccia fredda del primo turno delle amministrative. Potrà manifestarsi il rischio di maggiori tasse, di perdita progressiva dello status, non riuscendo più ad evadere il fisco a sufficienza per comprarsi il SUV da cinquantamila euro. Sono queste le cose che veramente importano al “nocciolo duro” leghista, e per la verità anche a quello berlusconiano, perché vi possono essere differenti valutazioni sulla figura di Berlusconi e sulla sua leadership, ma certe paure, molto concrete, sono comuni e largamente condivise. Nel contempo, riappare prepotente lo spettro di un’invasione “aliena”, quella degli immigrati – dalla base leghista che va per le spicce non distinti in regolari ed irregolari, ma considerati sempre e comunque come un pericolo – quegli stessi 69
Eugenio Orso
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
immigrati che la Lega, il governo in carica e Maroni agli interni, soprattutto dopo la rivolta araba e l’esplosione della Libia, non riescono a fronteggiare adeguatamente e ad espellere in massa. Infatti, qualche leghista “incazzato” si è espresso molto chiaramente in proposito, senza tirare in ballo, per farsi bello e sembrare illibato, il malcostume berlusconiano penalmente perseguibile, con tutto il suo codazzo di escort, ruffiani e leggi ad personam; «Clandestini, immigrati, richiedenti asilo. Al popolo della Lega non interessa come vengono chiamati, vogliono solo che se ne vadano dallʹItalia. ʺAlla gente interessa che i clandestini vengano respinti e non distribuiti alle regioni da un ministro leghista (e a nostre spese). Interessa che la politica costi meno e che non si tirino fuori il calo dei deputati solo in campagna elettorale. Interessa ridurre le spese dello Stato e il debito, aggregando comuni ed eliminando province, invece di farne delle nuove. Parola di un leghista delusoʺ.» [http://affaritaliani.libero.it/politica/leghisti_processano_maroni_berlusconi170511.html?ref
resh_ce]
Ed ancora, per rincarare la dose: « Se la Lega cercava un modo per ridurre i consensi, ci stava riuscendo alla grande! Al di là delle sparate ʺFoera du Balʺ i fatti raccontano di un ministro leghista indaffarato a concedere 30000 permessi di soggiorno a clandestini, a distribuirli in giro per lʹItalia pagandogli (noi ) vitto, alloggio, ecc. Lamentarsi della Francia perché (giustamente) non li vuole...» [Ibidem]
Questi ultimi due punti – A) il mantenimento a tutti i costi del proprio status economico e dei propri privilegi, se necessario evadendo più di prima, e B) il blocco dell’immigrazione con qualsiasi mezzo – sono le vere e più profonde ragioni di critica alla “nomenklatura” leghista, a Bossi e Maroni, a Berlusconi e al suo esecutivo, ancor più importanti e sostanziali dell’accusa di non aver saputo contenere l’ascesa “dei comunisti”, dei centri sociali, dei “matti” che vogliono trasformare Milano in una zingaropoli, simboleggiati dal moderatissimo Pisapia appoggiato opportunisticamente dal Pd [un partito scopertamente liberaldemocratico e liberista] e da Vendola [espressione politica di un comunismo individualistico postsovietico rifluito nel capitalismo]. Sull’immigrazione e sul trattamento da riservare agli immigrati, per la verità, c’è una differenza di vedute fra certi settori minoritari berlusconiani un po’ meno attaccati al soldo e non idiotizzati, che qualcuno definisce liberal con espressione politicamente corretta, ed i leghisti di base, ma ciò non toglie che la Paura dell’Allos, dell’estraneo, del diverso, e perciò del migrante, è in qualche misura una caratteristica comune. Se berlusconismo e leghismo hanno fondato il loro successo in parte significativa sulla Paura, è chiaro che questa importante componente dell’”animo umano” può 70
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ritorcersi improvvisamente contro di chi la diffonde, dopo averlo gratificato attraverso il consenso. Milano rappresenta simbolicamente l’ultima trincea prima del definitivo tramonto di Berlusconi, e per la Lega una ridotta del berlusconismo che è necessario difendere dagli attacchi dei “comunisti”, sostituendosi progressivamente a lui, nonostante le proposte dell’ultraliberista Bersani ai leghisti di un’alleanza in cambio del siluramento del Cavaliere. Per tale motivo, nellʹattesa spasmodica di un ballottaggio che chiarirà la situazione in termini di equilibri o disequilibri politici, di governi che restano o che se ne vanno, di comuni conquistati o persi da Milano a Napoli, gli attacchi mediatici e propagandistici di Bossi e soprattutto di Berlusconi sono diventati furibondi, oltre che scorretti e deliranti, con le menzogne e le false promesse che si sprecano, come quella del ministro dell’economia Giulio Tremonti che vorrebbe “moderare” i disgustosi strozzini‐avvoltoi di Equitalia, nella loro brutale ed incessante azione di esproprio rivolta contro i più deboli, i pensionati, i precari, i lavoratori a reddito fisso, o quella bossiana del trasferimento di un paio di ministeri a nord. Berlusconi compare in tutte le televisioni, ossessivamente, mostrando chi ne ha l’effettivo controllo e mobilitando i suoi numerosi sicari e giullari mediatici, nel tentativo di fermare la caduta e risalire la china. Ma ciò potrebbe non bastare, questa volta, per tutto quanto affermato in precedenza, e comunque non potrà arrestare quel “movimento sociale” [e politico] di medio‐lungo periodo che qui si è cercato di descrivere, o evitare il processo dissolutivo del blocco elettorale berlusconiano–leghista. In conclusione, dietro lo smottamento elettorale del 15 e 16 maggio ci sono tre elementi “pesanti” da considerare: 1) il primo e consistente indizio, ancora sotterraneo, della ricomposizione di un ordine sociale frantumato in forme più aderenti alle dinamiche del Nuovo Capitalismo del terzo millennio, 2) l’ingresso di un certo antagonismo nel sistema, che potrà comportare un suo riassorbimento nelle logiche sistemiche e la sua sostituzione con nuove forme antagonistiche, nonché la nascita di forze extraparlamentari inedite mosse dall’indignazione e da richieste “giustizialiste”, in senso sociale e politico, 3) l’inizio di una rapida dissoluzione di quello che in passato è stato definito “il blocco sociale berlusconiano”, che oggi più che mai sembra tenuto insieme con lo sputo ed agitato da paure e da fermenti scomposti. 71
Sezione seconda La crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno Eugenio Orso
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2 giugno 2010
Premessa La presente sezione del libro riguarda in buona misura la situazione italiana dall’inizio di aprile del 2010 alla fine di maggio del 2011, e costituisce in tal senso un’integrazione del discorso affrontato nella precedente sezione. I capitoli che seguono non sono dei veri e propri saggi, ma articoli e post che lo scrivente ha diffuso in rete e in mail, e che in diversi casi sono stati ripresi e pubblicati da vari siti antagonisti e/o di informazione alternativa. In questi articoli e post – presentati in ordine cronologico di pubblicazione nel blog Pauperclass [http://pauperclass.myblog.it] – si trattano molti temi, dalla questione sindacale, che in Italia è diventata drammatica e prioritaria perché si interseca con quella dei diritti dei lavoratori, a quella dei flussi migratori che investono questo paese, dalla questione politica, alimentata dall’intangibilità di Berlusconi che resiste a Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli e da lì periodicamente contrattacca, agli scioperi ed alle manifestazioni più significative dell’anno di riferimento, il 2010, con sconfinamenti significativi nell’anno successivo. I temi trattati sono apparentemente eterogenei, ma tutti contribuiscono a delineare il quadro sociale, politico ed economico che caratterizza l’Italia agli inizi del terzo millennio, un quadro fosco che non lascia spazio a troppe speranze, ma in cui sono già visibili le ragioni del futuro scontro sociale e politico, che avrà portata storica e che sarà decisivo per le sorti del paese da qui allo scadere della prima metà del secolo. Antagonismo e Conflitto, in netta contrapposizione a slogan propagandistici come la coesione sociale, la responsabilità sociale dell’impresa e la fine della lotta di classe, che i media, i politici e gli intellettuali addomesticati diffondono per blandire le tensioni che riaffiorano nella società italiana, sono le chiavi di lettura da adottare per comprendere il senso di tutti gli articoli e i post di seguito presentati. Il titolo della presente sezione è frutto di “un furto”, questa volta non capitalistico ma operato ai danni del grande Karl Marx, e sta semplicemente a significare che quando la situazione sociale diventerà concretamente intollerabile per la maggioranza della popolazione italiana, nonostante l’evidente passività che questa ha mostrato negli ultimi anni, nonostante la manipolazione mediatica, i ricatti e talora la criminalizzazione che subisce il lavoro da ri‐schiavizzare, nonostante la diffusione pianificata della “stupidità sociale organizzata” ad uso e consumo della riproducibilità sistemica, non ci saranno più santi che tengano, e lo scontro sociale dovrà manifestarsi. Sono le forme che questo scontro assumerà ad essere ignote nel momento presente, ma se è vero che ogni problema contiene in sé la sua soluzione, si possono tentare, con molta moderazione e in senso filosofico previano‐hegeliano, delle previsioni 72
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2 giugno 2010
che riguardano il futuro, nel tentativo di individuare la direzione che prenderà la storia. Come ha scritto Costanzo Preve nel saggio Hegel antiutilitarista, citando il maggior interprete novecentesco della filosofia hegeliana, Adriaan Peperzak, il fatto che siamo appena all’inizio di un percorso, corrispondente ad un nuovo Evo della storia umana segnato dall’affermazione del Nuovo Capitalismo finanziarizzato e della sua specifica organizzazione sociale, e che quindi abbiamo grosse difficoltà a prevederne gli sviluppi storici, «… non significa che non possiamo dire assolutamente nulla sul futuro, in quanto naturalmente nel presente ci sono tensioni che chiedono una soluzione, ci sono difficoltà che offrono già prospettive di soluzione e quindi a partire dal presente possiamo già avanzare ragionevoli supposizioni sul futuro.» Questo messaggio, trasmessoci da Costanzo Preve che cita Peperzak, il quale interpreta il grande Hegel – e quindi trasmessoci da Hegel attraverso i suoi interpreti posteriori, può essere in un certo senso armonizzato con la frase di Marx «la crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno», poiché se la questione sociale si drammatizzerà ulteriormente, in conseguenza della definitiva affermazione dei nuovi meccanismi capitalistici, i problemi destinati ad esplodere mostreranno già in sé la loro soluzione, politica, economica e sociale, e l’inevitabile innesco di una nuova stagione di lotta nella società farà emergere, finalmente, una possibile soluzione storica in ordine a questi problemi ed un programma politico concreto. In accordo con il pensiero dei due grandi Marx ed Hegel si può quindi affermare che la Rivoluzione è la Storia e la Storia è la Rivoluzione, nella ricerca di nuove prospettive per lo sviluppo della vita associata, inserite un lungo percorso di emancipazione umana che porge soluzioni inedite ed originali a problemi sociali antichi, i quali si ripresentano sempre in forme nuove. Il flusso storico, che contiene in sé i germi di un futuro cambiamento, non può arrestarsi e la Rivoluzione, intesa come una tappa fondamentale del lungo percorso di emancipazione umana, per sua natura destinato a restare inconcluso, non può morire. Il mondo non è destinato a sopravvivere in un eterno stato stazionario prodotto dall’ultimo tentativo del Capitale di affermare sé stesso e la sua società in secula seculorum. Ed è a queste incontestabili verità che lo scrivente si è ispirato nello sviluppo degli articoli e dei post che fanno parte della presente sezione. 73
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2 giugno 2010
L’Orda Verde 6 aprile 2010 Nei territori dell’impero ottomano sconfitto, subito dopo la prima guerra mondiale, regnava il disordine e soffiavano i venti della dissoluzione: gli inglesi tenevano prigioniero Mehemet, l’ultimo imperatore, a Istambul, francesi e italiani occupavano parti di territorio di quella che fu la Sacra Porta, armeni e curdi avevano fondato una propria repubblica, i greci sbarcavano in Anatolia per occupare Smirne, e gruppi armati islamici, caucasici con gli occhi azzurri e i capelli rossi, scorrazzavano in lungo e in largo, minacciosamente, nel crescente vuoto politico e d’autorità. Era la temuta Orda Verde circassa, costituita da islamici dall’aspetto ariano che furono sconfitti e acquietati da quella grande personalità, ex ufficiale superiore dell’esercito ottomano sotto il comando prussiano, il quale riuscì a mettere ordine combattendo, a venire a capo del caos imperante e a fondare la moderna repubblica turca, giunta fino ai nostri giorni: Gazni Mustafà Kemal, rinominato poi Atatürk. A chi scrive piacciono i paragoni storici improbabili e sperticati, ma nell’attuale situazione italiana di caos, di difetto di rappresentanza, di perdita di fiducia di parte significativa della popolazione nelle istituzioni, di “politiche economiche” anti‐sociali e controproducenti per il paese, per di più imposte dell’esterno ad un ceto politico vile e incapace, una “forza” diversa dalle altre, aggressiva e rozza, scorazza nel settentrione del paese prendendone gradualmente possesso: è la Lega bossiana, che consolida il suo ascendente sulle popolazioni settentrionali e letteralmente “tiene per le palle “ un Berlusconi ormai in declino, e con lui buona parte della maggioranza di governo. Mentre l’Italia sta per uscire sconfitta assieme a molti altri paesi occidentali da una cruenta guerra economica e commerciale, ingaggiata con i così detti emergenti, ed in particolare con quelli orientali nello spazio globalizzato, ancora non si intravede all’orizzonte un’alternativa vera e credibile al neoliberismo mercatista che ci imprigiona e ci impoverisce, suscitando ovunque, come estrema e irrazionale difesa, vecchi egoismi, nuovi vuoti e paure che spingono una parte non di rado maggioritaria della popolazione a trincerarsi in posizione difensiva nella dimensione regionale. Questa falsa alternativa al neoliberismo mercatista globalizzante, che non contribuirà ad inceppare i suoi meccanismi o a contrastare efficacemente le sue dinamiche a livello internazionale, impedendo che investano le dimensioni regionale e locale, scardinandone gli equilibri economici e sociali, spinge la parte meno acculturata della popolazione a seguire pseudo‐leader, abili soltanto nel confezionare e nel rinnovare rapidamente l’”offerta politica”, e ad alimentare movimenti xenofobo‐regionalistici destinati nel lungo periodo a sicura sconfitta. 74
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2 giugno 2010
Il vessillo della “forza” leghista di recente convertitasi al cattolicesimo più osservante, antiaborista e difensore della famiglia monogamica tradizionale, è curiosamente di colore verde come quello dell’Islam, ma si tratta di un verde di tonalità un po’ diversa – come mi ha fatto notare qualcuno che non ha il mio difetto di vista – ed è legato ad una patria immaginaria, a quella Padania creata da Bossi e dal suo entourage, che rappresenta una pura espressione geografica e non certo un’autentica fede comune, un sentire di popoli condiviso, o un’appartenenza che ha sfidato i secoli. Ciò che risulta evidente è il tentativo di creare un surrogato di comunità, in cui fanno difetto sia le solide identità del passato sia gli aspetti propriamente, profondamente solidaristici, e l’uso strumentale della religione e delle stesse tradizioni locali sono altrettanto evidenti, quando all’accettazione della “difesa della vita”, simboleggiata dal rifiuto da parte dei neoeletti governatori leghisti di Piemonte e Veneto – Roberto Cota e Luca Zaia – della distribuzione negli ospedali della pillola abortiva RU486, non fa minimamente seguito la necessaria carità cristiana nei confronti dei più deboli, incarnati nella nostra società dagli immigrati sans papier. Più di qualche maligno insinua che Cota e Zaia, astri nascenti della Lega del futuro, pagano in tal modo “pegno” a Santa Romana Chiesa per le sue ingerenze pre‐
elettorali e l’invito a non votare i candidati antiaboristi, gli “atei”, e via elencando … Nella Padania, intesa come realtà puramente geografica che non esaurisce il settentrione d’Italia, alle sagre paesane e alle feste popolar‐leghiste a base di polenta e salcicce, al mantenimento e alla rivitalizzazione delle tradizioni locali, si sovrappongono lo sfruttamento del lavoro nero e di quello precario – non importa se degli autoctoni più poveri o degli extra‐comunitari – in fabbrichette e fattorie di proprietari “padani”, o il rifiuto di concedere la residenza a chi non ha un reddito adeguato. La stessa discriminazione fra poveri e ricchi, con l’avvento di quel ordine sociale rigidamente stabilito in base al censo che caratterizza il Nuovo Capitalismo globalista, utraliberista ed antisociale, tende a riprodursi in terra padana nonostante la conclamata avversione leghista per la globalizzazione, e riguarda sia gli immigrati – di fatto criminalizzati nella propaganda della Lega – sia i poveri locali, in barba a qualsivoglia forma di “solidarietà comunitaria”. Così, non solo l’immigrazione irregolare, priva di documenti di riconoscimento personale, ma anche la stessa povertà tende a diventare un reato, da perseguire e punire. Anche la rapida e opportunistica sostituzione di un vero e proprio culto pagano nei confronti dei celti e della loro civiltà con il cattolicesimo, o dell’avversione originaria nei confronti dei “terroni”, e di Roma Ladrona, con il pericolo [e 75
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2 giugno 2010
l’autentico odio nei confronti degli] immigrati – che diventano perciò il nuovo capro espiatorio sul quale scaricare tutte le tensioni e le paure – rappresentano altrettante prove dell’assoluta strumentalità delle scelte e del cinismo politico che caratterizzano i vertici leghisti. In queste squallide manovre, nel mercimonio con i “ceti produttivi” del Nord [piccola impresa, Coldiretti, eccetera], nelle “conversioni” improvvise e nel rapido cambiamento di comodo, puramente per scopi di consenso ed elettoralistici, i commentatori ufficiali ravvisano, a gran maggioranza, l’”intelligenza politica” di Bossi. Che poi nella Padania verde e dai mille campanili, testimonianza della millenaria tradizione cattolica – comune, del resto, ad ogni porzione dell’italico suolo – rientrino anche territori della Toscana, il Friuli Venezia Giulia o la costa ligure, la cosa mi sembra ancor più dubbia e opinabile, anche se in una patria immaginaria è pur vero che si può far rientrare tutto ciò che si vuole, a piacimento ... non escluso, in futuro e se vi sarà un’opportunità politica da cogliere, quel meridione che fu prima bizantino, poi arabo e infine normanno. Sommamente dubbia è l’omogeneità della terra nordica rivendicata dai leghisti come se per secoli avesse avuto unità politica o un destino comune, perché le grandi Signorie del settentrione, evoluzione dei comuni e governate da grandi famiglie [Della Scala, Gonzaga, Sforza, Visconti], erano ben diverse dalla Serenissima, contro la quale alcune hanno aspramente combattuto, il Friuli che fu dominato dall’arcaica figura del principe‐vescovo [tralasciando il particolare che non fa parte della pianura padana, se non in un certo immaginario leghista], si caratterizzò per la sua arretratezza e la persistenza dei rapporti feudali di servitù, e la sua “emancipazione” fu possibile soltanto dopo il 1420, in seguito all’arrivo di Venezia liberatrice ed emancipatrice, mentre Parma e Piacenza, fino a quel tempo, avevano conosciuto un grado ben più alto di sviluppo economico e sociale, per non dire poi delle differenze fra la Trieste asburgica, in cui oltre all’italiano si parlava tedesco e sloveno, e la Torino sabauda, in cui, ancora qualche decennio addietro, nei salotti buoni si parlava francese. E’ storicamente esistita l’area culturale franco‐veneta, dalla Francia all’Italia del nord, in cui, accanto alla letteratura, banalmente sono riscontrabili tracce dell’esistenza di costumi e persino di una cucina simili, sono nate le repubbliche marinare, come la Venezia dogale dello Stato da Màr e dei successivi domini sulla terraferma, che aveva un ordine sociale e un sistema educativo e scolastico fra i più avanzati del mondo [allora conosciuto], consentiti da una straordinaria accumulazione di ricchezze, e la stessa Genova che ha fatto la sua fortuna sulle invisibili rotte dei mari, fino al Bosforo e ben oltre, ma da quel che mi consta non è mai esistita una vasta area omogenea, culturale, economica, linguistica, come dovrebbe essere la Padania, continuamente evocata nei miti e nei riti leghisti. 76
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2 giugno 2010
Quel che importa non è, però, la verità storica, ma il fatto che una parte della popolazione sembra crederci, e sembra identificarsi con il progetto leghista, in cui il federalismo [anzitutto fiscale] mal cela pulsioni separatiste mai sopite definitivamente, mentre l’appartenenza in tal caso significa, in pieno accordo con la “pancia”, il mantenimento a tutti i costi dei propri standard di vita materiale e l’esclusione, senza appello, dei più poveri. Il fatidico 1176, Il mito di Pontida, l’Alberto Da Giussano dalla biografia incerta schierato contro l’imperatore, la Lega dei comuni lombardi mai doma, presi sapientemente [e pelosamente] in prestito dalla storia d’Italia del dodicesimo secolo e insaporiti con tutto un corredo di giuramenti, carrocci allegorici e battesimi pagano‐leghisti nelle acque del Po, hanno infuso in taluni una sorta di senso di appartenenza, ma pur sempre in accordo con gli interessi [molto] concreti di certi gruppi sociali, ai quali fin dall’inizio si è rivolta la Lega bossiana. Si potrebbero evocare strumentalmente scenari molto antichi nella penisola, ben prima di Cristo, in cui al centro‐sud era diffuso l’alfabeto latino e in parte del nord, nella Val Padana celtica e gallica, era ancora in uso quello runico, ma Bossi in persona ha affermato, di recente, che la Padania c’è da ottocento anni … Se si vuole far nascere la Padania nel dodicesimo secolo, in seguito alla sollevazione di Milano e di alcuni comuni lombardi, nonché emiliani e veneti, contro il Barbarossa e le sue temibili armate, si deve tener conto che vi furono entità comunali e intere comunità “padane”, parrebbe numerose, che sono rimaste fedeli all’imperatore, e quindi, anche in quella storica circostanza non vi fu vera unità di quelle genti medioevali che la nomenklatura xenofobo‐regionalista di Umberto Bossi spaccia, impunemente, per progenitrici dei leghisti contemporanei. In occasione del trionfo leghista nelle recenti amministrative di aprile, sono riapparsi i soliti luoghi comuni che colgono la superficie del fenomeno, ma non spiegano le ragioni più profonde dell’avanzata di questa forza regionalista, xenofoba e ormai apparentemente interclassista, o addirittura “meticcia” come qualcuno ha ironicamente insinuato. Unʹaffermazione che spesso si sente è “la Lega è radicata nel territorio” [ancor più spesso “sul territorio”], non di rado tirando in ballo come termine storico di paragone le strutture e gli insediamenti del vecchio PCI, e l’altra, altrettanto diffusa e fuorviante, è che “la Lega parla alla gente di problemi reali” e così,a differenza degli altri partiti, si farebbe capire. A queste affermazioni quasi mai fa seguito un’analisi che cerca di spiegare i veri motivi del radicamento leghista in Padania, o il perché la Lega talvolta parla alla gente [qui intesa come una volgarizzazione, ad uso politico, delle moltitudini spinoziane] di problemi reali e concreti. Ebbene, è necessario anzi tutto fare un po’ di luce sui motivi del crescente radicamento leghista nella “Padania profonda”, dal bergamasco ad Asolo, da 77
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2 giugno 2010
Comacchio a Ponte di Legno, e segnare le differenze fra questo nuovo rapporto con il territorio e la forte strutturazione, particolarmente in certe aree del paese, del defunto PCI. Il Partito Comunista Italiano, partito “pesante” delle masse organizzate erede del PCdI leninista e gramsciano nato nel 1921, poteva contare su un “collante ideale” e sull’apporto di ottime scuole per quadri e dirigenti, come quella celeberrima di Frattocchie, in Roma, chiusa dal lontano 1991, ma se il “collante” non è più ideale/ ideologico, non è più la messianica attesa dell’avvento del Comunismo, nell’ultimo dei “cinque stadi” storici, ed ancor meno può essere la lotta di classe, per la quale i panciuti bottegai padani e i padroncini non sembrano troppo versati, quale può essere nel caso leghista? In altre parole, cosa si nasconde dietro i miti della verde “Padania” che dovrebbero unificare il nord e, come fondatamente ancora si sospetta persino in ambienti filo‐
governativi alleati della Lega, gradualmente separarlo dal resto d’Italia? Per quanto mi riguarda e molto banalmente, il collante è in parte rilevante dovuto all’interesse che hanno certi, ben definiti gruppi sociali, ai quali la Lega di Bossi ha parlato fin dall’inizio e dai quali non può prescindere, di poter continuare ad evadere il fisco, scaricando i costi sociali sugli altri gruppi e sul resto della società, di poter continuare ad impiegare nelle loro attività lavoro precario locale e lavoro extra‐comunitario sottopagato, facendone largo uso nel caso che “il mercato si riprenda”. Si tratta di gruppi le cui scelte sono legate non certo ad una nobile idea di comunità, di difesa del territorio, di solidarietà, ma esclusivamente al livello del loro benessere materiale, minacciato dalla prima crisi sistemica globale “insaporita”, nel caso italiano, da ben noti fattori endogeni di degrado. Di fronte alla coperta sempre più corta delle risorse, questi gruppi sono disposti a buttare in mare tutto il resto – immigrati e Meridione compresi, anzi, fra i primi – pur di continuare ad esibire un ventre rigonfio, e la Lega, pena la sua stessa sopravvivenza, deve ascoltarli e interpretarne con solerzia i “movimenti di pancia”. Bottegai, artigiani, piccoli imprenditori rappresentano lo zoccolo duro del consenso elettorale leghista, una “riserva di caccia” originaria e irrinunciabile, intorno alla quale il partito e le sue strutture sono cresciuti e si sono consolidati. La mitica Padania, quindi, è un mascheramento di egoismi che un tempo potevano essere definiti senza esitare “di classe”, anche se da qualche anno la Lega raccoglie a piene mani il voto operaio orfano di una vera rappresentanza politica, sopravvissuto alla “morte cerebrale” dell’omonima classe, quella operaia, salariata e proletaria, salvo poi disinteressarsi di operai e lavoratori dipendenti, ed anzi, stando al governo mantenere in vita la precarietà del lavoro, i parasubordinati, i co.co.pro, proponendo per soprammercato le famigerate “gabbie salariali”, rigettate persino dai forzaitalioti berlusconiani. 78
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Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
La Lega non contrasta e non contrasterà l’attacco in corso ai diritti dei lavoratori, né dice nulla a riguardo della pressione fiscale in gran parte a carico dei redditi fissi, non si sogna di dire qualcosa a riguardo della necessità della lotta all’evasione fiscale [per non perdere il suo “zoccolo duro” elettorale, che esprime la piccola evasione fiscale e contributiva], e ancor meno dispone di programmi seri e articolati per quanto riguarda la Sanità e l’Istruzione pubbliche. E’ certamente passato molto tempo da quando lo storico di Venezia Alvise Zorzi scriveva con eccessivo ottimismo, nel [bellissimo] libro San Marco per sempre, che “tecnici e operai del Nordest sono la maestranza più evoluta e consapevole che si possa trovare e col padrone il rapporto è raramente conflittuale. E gli industriali, gli industrialotti, gli industrialetti e i padroncini sono ormai altrettanto numerosi degli operai, se non di più.” Gli operai del Nordest [e non soltanto quelli, purtroppo] oggi sono come un esercito in rotta, che non esiste più e non sa a che santo votarsi, e gli industrialotti, i padroncini della PMI rischiano anche loro, in non pochi casi, la ri‐plebeizzazione favorita dalla lunga crisi in atto. La Lega, in sostanza, si radica dal Piemonte al Veneto, e si espande anche fuori del suo alveo per il vuoto lasciato dai partiti di massa [che non esistono più], in una vasta area – comprendente anche significative porzioni dell’Etruria – che diviene un territorio da conquistare con poca o nulla concorrenza, sfruttando abilmente la paura di certi gruppi sociali davanti alla crisi, all’impoverimento, alle prospettive future non certo rosee. Sono il Vuoto, la Paura e l’Egoismo che favoriscono nella realtà economica e sociale italiana la Lega Nord, nel suo ultra‐decennale rapporto con il territorio e con i gruppi sociali che vi dimorano. Se questi elementi negativi stanno alla base del “successo” leghista è chiaro che il fenomeno Lega non può essere in alcun modo positivo, propositivo in termini costruttivi ed emancipativi delle popolazioni interessate. Il vuoto è anzitutto culturale e valoriale, che la Lega riempie con i suoi slogan e le sue “parole d’ordine” destinate a giocare non di rado sui peggiori istinti del suo “bacino d’utenza”, e poi deriva dalla progressiva scomparsa di forze politiche ben strutturate, alternative al leghismo, in grado di mantenere e rafforzare i legami con le comunità locali. Paura ed egoismo sono strettamente interrelati e nascono dall’intreccio di una condizione sociale ed economica in rapido deterioramento, anche per i “ceti medi padani” oltre che per il lavoro operaio, dalle buie prospettive che investono l’Europa, soccombente nel lungo periodo, assieme agli Stati Uniti, nei confronti dei paesi “in sviluppo” in rapida avanzata, dall’atteggiamento ambivalente nei confronti degli immigrati, che da un lato si accettano nel ruolo di “utili neoschiavi” a basso costo e dall’altro si respingono perché percepiti come veicolo di una futura 79
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
“colonizzazione”, o dai lavoratori autoctoni come concorrenti dalle poche pretese che alimentano il gioco al ribasso, ormai ultra‐ventennale, di salari e stipendi e delle condizioni di lavoro. Per quanto riguarda la formazione dei quadri di partito, poi, non mi risulta che per formare i futuri dirigenti leghisti – oltre alla pattuglia di quarantenni rampanti alla Cota o alla Zaia, da qualche tempo in ascesa nel partito ed “esibiti” mediaticamente – esiste l’equivalente di ciò che era la scuola di Frattocchie, o anche soltanto un suo pallido surrogato. Prova ne è che Bossi impone una carriera politica fulminante per il suo figlioletto ventiduenne, Renzo detto “Trota”, non proprio dotato intellettualmente [si colga la luce nel suo sguardo, nelle innumerevoli foto in circolazione], fino a imporlo come consigliere regionale lombardo … in questo curiosamente e grottescamente simile al Caligola della disprezzata “Roma Ladrona” che nominò senatore un cavallo. Come ha dichiarato Michele Santoro nella puntata di Anno Zero del primo aprile, “la lega è molto abile nel rinnovare il suo gruppo dirigente, nel far esprimere i giovani”, ma, con tutta evidenza, si tratta di un’abilità nel rinnovare i volti ed in contemporanea, con brutta espressione, l’”offerta politica”, in linea con l’imbarbarimento dei tempi, se si pensa che Renzo “Trota”, il più votato a Brescia con circa tredicimila preferenze piovutegli addosso grazie a papà, ha contribuito a diffondere il gioco online “Rimbalza il clandestino”, che istiga apertamente alla violenza nei confronti dei più deboli e diffonde il razzismo più vile. Per quanto riguarda l’affermazione “la Lega parla alla gente di problemi reali”, va rilevato che lo fa in modo strumentale e secondo un suo “codice di comunicazione” attraverso il quale si rivolge in primo luogo al suo elettorato più tipico, volgendosi poi anche ad altre fasce sociali, purché nordiste e “padane”. Il Federalismo Fiscale irrinunciabile per mantenere l’asse Berlusconi‐Lega, in ultima analisi e se passerà la sua versione più “hard”, vorrà dire concretamente “taglieremo i viveri al Sud e tratterremo a Nord la ricchezza prodotta”, mentre colpire gli immigrati, rendergli la vita impossibile, trattarli come dei senza diritti o dei criminali se privi di documenti, vuol dire, fra le altre cose, lanciare un messaggio chiaro [ancorché truffaldino] ai lavoratori in bilico, ai precari e ai disoccupati: “i posti di lavoro resteranno a voi, perché elimineremo la concorrenza”. Ecco la vera sostanza del nuovo “Partito di Massa del Nord” strutturato sul territorio – in grado di occupare gli spazi che furono della vecchia DC ed anche del vecchio PCI – il quale parla alla [ggg]gente di problemi reali … Niente a che vedere con nuove forme di comunitarismo, perché molto più simile ad un tribalismo postmoderno calato in una dimensione regionale, niente a che vedere con il vecchio PCI perché mancano grandi idealità e vero solidarismo, niente a che vedere con la parte sana, onesta e consapevole del Nord – alla quale mi onoro di 80
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
appartenere – perché la Padania, tutto sommato, non esiste e non è esistita se non come pura espressione geografica. All’inizio del Novecento l’Orda Verde circassa è stata fermata da Mustafà Kemal Atatürk. Ma chi fermerà, nell’Italia degli albori del terzo millennio, l’avanzata dell’Orda Verde padano‐leghista? 81
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
Prospettive rivoluzionarie e situazione bloccata 15 aprile 2010 Circoscrivendo il discorso allʹItalia e alla sua particolare, disperante situazione politica e sociale, ritengo che il primo passo per ʺliberare nuove forzeʺ e per iniziare un difficile e lungo cammino ʺrivoluzionarioʺ, preparando le basi per la vera alternativa, non potrà che essere la distruzione di quella oscenità sistemica che è rappresentata dal Pd, rivelatosi peggiore del previsto, e cioè totalmente privo di nerbo e senza uno straccio di linea politica ... Il contenitore in questione accoglie una varietà di gruppi che, per comodità, si possono censire come segue: 1) Consistenti gruppi di burocrati politici sopravvissuti alla liquidazione dei partiti di massa dell’Italia postbellica [PCI, DC, qualche socialista orfano e “pentito”] e di alcuni partitelli storici minori [PSDI, PRI], politici di professione disponibili al riciclo, portaborse, elementi cresciuti nelle organizzazioni giovanili delle formazioni politiche novecentesche, vecchie tessere del PCI, della DC, dei popolari, più recenti tesserati DS e Margherita, una parte della CGIL o spezzoni rilevanti di altra triplice, ad esclusione naturalmente della grande maggioranza della FIOM. Questa componente, che ha perduto ogni idealità ponendosi come target quello di sopravvivere a qualsiasi costo, è e rimane la componente principale e più influente del Partito democratico. 2) I supporter di nuove e inconsistenti “star” costruite artificialmente, in certi frangenti con abbondante uso di internet, youtube e simili, come nel caso emblematico di Debora Serracchiani, più simile ad un manga giapponese [ho visitato tempo fa il suo sito, quindi so di cosa parlo] che ad una solida e motivata militante politica. In questa ottica potrebbe rientrare anche il dottor Marino [con il codazzo dei suoi sostenitori] o l’infante del Pd Matteo Renzi. Le “star” in questione generalmente non sono in grado di costituire un vero pericolo, come è ovvio, per i decisori notabilar‐burocratici all’interno del partito. 3) Giovani veltroniani raccolti a casaccio nella società civile con foga “nuovista” e piglio interclassista e loro sciagurati sostenitori, che hanno “abboccato all’amo” della novità fine a sé stessa, o ancor peggio gattopardesca. Gli esempi possibili vanno dal rampollo semi‐scemo della potente famiglia Colaninno, Matteo, proveniente dallo sfavillante mondo dell’impresa italiana [leggi Confindustria] alla figlia dell’amico attore di Veltroni spacciata per valente economista, Marianna Madia, all’operaio della Thyssen Crupp sopravvissuto al rogo, eccetera. Anche questi giovanotti, in 82
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
passato esposti mediaticamente come “segno” inequivocabile del cambiamento, ma totalmente inconsistenti, non mettono in pericolo il potere e la posizione dei dinosauri pidiini, quali sono il liberista “in pectore” Bersani, la “pasionaria” catto‐dem Bindi, l’inutile Finocchiaro, eccetera. 4) Gruppi piuttosto numerosi legati all’impiego pubblico e loro rappresentanti, come ad esempio nella scuola gli insegnanti e i prof., nonché alcuni settori impiegatizi dello stesso ed una parte di ciò che rimane del vecchio “parastato”. 5) Una parte [minoritaria] del commercio, dell’artigianato e dell’industria, concentrata in modo particolare nelle “regioni rosse”, dove ancora esistono clientele e dove si lavorava [ed in parte ancora si lavora] soltanto esibendo la famigerata “tessera di partito”, che ieri era quella del PCI ed oggi è quella del Pd. 6) Varie ed eventuali, comprese le sopravviventi adesioni operaie, ormai del tutto minoritarie, vista la preferenza emersa nel Pd per le politiche neoliberiste e l’accettazione del libero mercato. Se il modello di riferimento “veltroniano” del Pd doveva essere il Partito Democratico americano, concretamente, per questo cartello elettorale sempre meno pesante in termini di voti e di adesioni, vale l’antico detto “Franza o Spagna purché se magna”, e da qui il “tutto e il contrario di tutto” che il Pd ha dimostrato, fin dalla sua nascita, di incarnare e di interpretare perfettamente. Il collante sembra essere costituito, oltre che da interessi non di rado di tipo parassitario – che caratterizzano in modo particolare i gruppi schiettamente burocratico‐partitici interni – dall’”antiberlusconismo non propositivo”, tenendo conto che l’antiberlusconismo, di per sé, è cosa legittima e condivisibile, oserei dire un imperativo etico, ma non lo è di certo nell’accezione pidiina e bassamente utilitaristica dello stesso, che consente al più uno scadente “gioco di rimessa”, per il quale non sembrano necessari l’elaborazione di vere proposte politiche, il collegamento con la realtà sociale e un vero radicamento nella società. Non a caso, senza dichiararlo si spera nella dipartita di Berlusconi come soluzione ottimale del problema, nel conseguente e praticamente certo sfaldamento del suo cartello elettorale, per poter “andare al potere” [inteso come la pura occupazione dei posti di potere, fine a se stessa] senza sforzo alcuno e senza doversi occupare di fastidiosi problemi economici e sociali, della proposta politica che costa fatica, ma che potrebbe consentire una stabile estensione del consenso, e via dicendo. Soltanto la distruzione, la liquidazione, la soppressione, lo sfaldamento del Pd od anche un relativamente pacifico e pianificato divorzio delle sue componenti – ciascuna di queste soluzioni può andar bene – avrà il potere di sbloccare la situazione politica e sociale in Italia senza attendere che gli arrivi il “coccolone” a 83
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
Berlusconi, è consentirà di aprire la strada a nuove [ed in parte imprevedibili] soluzioni del problema, prima che la cancrena si estenda all’intero organismo, dalle isole alla Val d’Aosta, da Catanzaro a Cuneo. Perché faccio simili affermazioni, con una certa qual convinzione? Essenzialmente perché è proprio a causa della presenza di questa ʺamebaʺ postpartitica [il Pd], la quale contribuisce alla legittimazione del berlusconismo e alla sua affermazione, consentendogli di crescere come un tumore nel tumore, ossia nel corpo di una liberaldemocrazia crepuscolare ed esausta, che diventa possibile qualsivoglia deriva.
Il Pd rappresenta un’alternativa falsa e rigorosamente interna al sistema, un riformismo di facciata, inane e ipocrita, e per questo molto debole, non credibile, cosa della quale si sono accorti non pochi fra i suoi stessi elettori e sostenitori, scegliendo l’astensione o la ben più aggressiva e visceralmente antiberlusconiana IdV di Di Pietro e di De Magistris. Il Pd è un’opposizione di comodo, o meglio ancora, unʹopposizione ufficiale che ha fatto comodo in primo luogo a Berlusconi – il quale ha l’esigenza primaria di reggersi in sella il più a lungo possibile, fino a raggiungere l’agognato ʺriparoʺ del Quirinale – e naturalmente alla minacciosa Lega che lo tiene ben stretto per le palle, spremendole per ottenere maggior potere. Nel caso specifico della Lega, che sta alle spalle di Berlusconi e sa benissimo che non potrà mai spuntare con altri sodali politici condizioni così vantaggiose come quelle garantitegli dal satrapo‐Cavaliere – governatorati di regioni importanti, federalismi‐truffa, leggi razziste contro gli immigrati, ancorché inefficaci, per soddisfare la sua base, assenza di una vera lotta alla piccola evasione fiscale espressa dallo “zoccolo duro” del consenso leghista – l’ulteriore vantaggio nel tenere in vita l’opposizione pidiina è rappresentato dal fatto che le truppe leghiste non incontrano ostacoli nella loro “avanzata”, nell’occupare e “colonizzare” porzioni sempre maggiori dei territori settentrionali della penisola. Quel ʺpartito di plasticaʺ, molle e non dura, che è il Pd non rappresenta di certo un vero pericolo, un concreto ostacolo per la ʺpresa sulla società italianaʺ, la stabilità e lʹespansione del raffazzonato schieramento di potere/ blocco sociale berlusconiano‐
leghista, che tende a diventare sempre più leghista dopo le ultime amministrative. Tolta di mezzo la camarilla burocratico‐politica‐notabilare pidiina – ben rappresentata dai Bersani, Finocchiaro, Franceschini, Veltroni, con D’Alema e ancora Prodi sullo sfondo – verrebbe meno, fra le altre cose, la legittimazione della maggioranza, il sistema si rivelerebbe, agli occhi di tutti, palesemente ʺmoncoʺ, privo di molti dei soliti alibi da sbandierare mediaticamente per intontire masse obnubilate, le attenzioni della martoriata ʺpubblica opinioneʺ italiana potrebbero, rivolgersi direttamente verso lʹesecutivo berlusconiano, ponendo spietatamente sotto i riflettori tutte le sue inefficienze, le non‐politiche, gli interventi legislativi ad 84
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
uso e consumo del “capo” e le politiche sbagliate o volutamente de‐emancipatrici, l’insensatezza a sfondo propagandistico delle grandi opere che non giungeranno mai a compimento, e così un crescente ed insidioso malcontento, destinato a trasformarsi in vera e propria ira con il procedere della crisi economica e occupazionale, dellʹimpoverimento di massa e della ri‐plebeizzazione, si ritorcerebbe contro il dittatorello mancato di Arcore, la sua variegata corte aziendal‐partitica ed i suoi alleati più fedeli, cioè i leghisti. Se si tiene conto che il destino del PdL è legato a doppio filo alla sorte politica e personale di Berlusconi, che non c’è successione pianificata e vero ricambio ai vertici, che è comunque diviso al suo interno, che è un “partito leggero”, non radicato, clubbistico, che è riuscito a raccogliere soltanto una minima parte di quel milione di tessere che avrebbe voluto il “capo”, nel suo patologico delirio auto‐
celebrativo ad uso elettorale, comprendiamo che non potrà reggere a lungo, davanti ad un’ondata di crescente malcontento, caratterizzata da un aumento progressivo dell’astensionismo elettorale e da un confuso ma significativo ritorno della critica sociale. La stessa Lega – ben più solida e organizzata del PdL – sarebbe indotta a venire definitivamente allo scoperto e a mostrare in piena luce il suo vero volto, avanzando richieste insostenibili da “asso pigliatutto” [più banche, più regioni, più ministeri], applicando pesantemente le sue politiche dementi e punitive per gli strati sociali più bassi [già oggi in grave difficoltà], per gran parte del meridione del paese, per milioni di immigrati che lavorano e producono, per il lavoro dipendente minacciato dalla scomparsa del livello contrattuale nazionale, dello Statuto dei Lavoratori e dalla ricomparsa delle “gabbie salariali”. Tutto ciò non potrebbe che scatenare reazioni contrarie di natura politico‐sociale [e, si spera, autentici, insidiosi ma salutari disordini] nello stesso nord “padano” del paese, cuore dell’insediamento leghista, ma soprattutto cuore economico e motore dello sviluppo economico nazionale. Questo processo – che rimetterebbe in movimento lʹimpaurita, passiva e sempre più degradata ʺsocietà italianaʺ, oggi votata allo sfascio – potrebbe iniziare grazie ad uno sfaldamento del cartello elettorale pidiino, parte del quale si collegherebbe con il ʺcentroʺ opportunistico di Casini in Caltagirone e di altri noti attori che vorrebbero costituire il futuro “ago della bilancia” sistemico, parte con alcuni settori della così detta sinistra radicale [sinistra e libertà vendoliana, verdi/ falso‐
ecologisti superstiti dell’era “governativa” Pecoraro Scanio, eccetera], parte potrebbe restare ancorato allʹaggressiva IdV [ma a quel punto in posizione totalmente subordinata] e parte manterrebbe una maggiore, ancorché completamente inutile, autonomia. Del resto, la natura “maligna” del Pd emerge in pieno se si considera l’acquiescenza davanti alle ferali iniziative della maggioranza ed ai suoi “colpi di mano”: 85
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2 giugno 2010
acquiescenza [se non condivisione] davanti alla privatizzazione dell’acqua, che avrà effetti devastanti sul prezzo di un elemento fondamentale della vita, scarsa [o nessuna] opposizione davanti alle intenzioni di “rimuovere” definitivamente lo Statuto dei Lavoratori, per far pagare interamente il costo della crisi alla parte più povera della società, nessuna proposta concreta e attuabile di sostegno ai redditi del ceto medio legato al lavoro dipendente, da tempo in caduta libera, deboli e inconcludenti critiche allo “scudo fiscale” salva‐evasione e salva‐mafia, eccetera. Consideriamo anche che il partito che ha introdotto le primarie in Italia, per la scelta del futuro candidato premier [ma con risultati decisi prima del voto, a tavolino], piace alla potente finanza anglo‐americana, nonché alla nuova amministrazione federale americana, molto di più dell’asse Berlusconi‐Lega, considerata in qualche misura inaffidabile – accordo del 2008 con Gheddafi, partnership ENI‐Gazprom, ad esempio – meno “manovrabile” e perciò alquanto problematica da gestire. Non a caso sondaggi ammaestrati hanno sancito il gradimento – come outsider da esibire per l’alternativa a Berlusconi – per il “centrista” confindustriale, targato FIAT, Luca Cordero di Montezemolo. Il Pd se ne frega del moltiplicarsi delle lotte operaie in difesa del posto di lavoro, prova ne sia che è scarsamente presente ai cancelli delle fabbriche a rischio in cui si concentrano presidi, scioperi, occupazioni, non essendo quella una questione rilevante per le sue “politiche” … molto meglio trattare per le riforme istituzionali volute dall’asse Berlusconi‐Lega, a suo uso e consumo, e per leggi e leggine elettorali. Più spinta sarà la possibile, futura, atomizzazione del ʺpartito che non cʹèʺ – ma che purtroppo esiste ed occupa spazi notevoli, contribuendo a bloccare la situazione in un paese che rischia la cancrena – e meglio sarà per rimettere la situazione italiana in movimento, per ravvivare la speranza nel possibile sviluppo [lento, difficoltoso non ci si illuda] di una futura Prospettiva Rivoluzionaria, e questa, ho ragione di temere, è l’unica chance che ci resta per non sprofondare completamente nella … melma. **** **** Nel frattempo, sta cambiando la situazione all’interno del PdL, grazie alla fronda finiana che esce nuovamente allo scoperto agendo questa volta in modo più duro e più deciso del solito ed approfondendo la frattura, sollecitata in questo dalla vittoria elettorale leghista, e dallo strapotere di una Lega che determina a tutto campo la politica dell’esecutivo. La crisi interna al Pdl non è certo un evento trascurabile e mette in luce l’intrinseca debolezza del partito del “capo”, in cui non proprio tutte le componenti sono 86
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2 giugno 2010
appiattite sulla figura e sul presunto carisma di Berlusconi, ma questo evento – anche se si produrranno rotture insanabili e un divorzio definitivo nel cartello elettorale berlusconiano – non rimuove la necessità del superamento del Pd. L’”ameba” Pd che invade le acque dell’opposizione potrebbe rendersi immediatamente disponibile – in accordo con la volontà e gli interessi di quei potentati esterni prima evocati – per una ricomposizione del quadro politico italiano in altra forma, escludendo Berlusconi e forse la Lega [esclusione che rappresenterebbe in sé un bene], il tutto per consegnare l’Italia nelle mani dei globalisti anglo‐americani in crisi di potenza, i quali si valgono di molti strumenti – dalle rivoluzioni colorate, alla penetrazione di certe ong in aree critiche, dalla dipendenza di governi fantoccio e forze politiche locali, alla guerra e all’occupazione militare in nome della democrazia e dei diritti umani – per mantenere il più a lungo possibile la loro stretta sul mondo. In conclusione, che l’alternativa futura a Berlusconi sia un Gianfranco Fini, nell’inedita veste di Quisling Liberal che riporta all’altra sponda dell’Atlantico, piuttosto che Montenzemolo che anche lui riporta ai soliti noti, non è la sola cosa rilevante nel nostro discorso, perché l’importante è che in questo gioco che rischierà di annichilire definitivamente l’Italia, al Pd, o comunque a qualche sua componente maggioritaria in caso di futura scomposizione del cartello elettorale, potrà essere assegnato un ruolo di primo piano. 87
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2 giugno 2010
C’era una volta la FIAT … in Italia 22 aprile 2010 Fra un po’, procedendo la crisi sistemica globale che travolge grandi e piccoli, popoli e stati, strutture sociali e strutture produttive – senza guardare in faccia nessuno, senza sconti da occidente ad oriente – oltre a dire c’era una volta la PMI, con i distretti del Nord‐Est considerati ingenuamente il “Giappone d’Italia”, c’era una volta la chimica “Padana” del Nord e la “piastrella Valley” in Emilia, diremo: c’era una volta la FIAT, quella del Lingotto fordista e di Mirafiori su un area di un milione di metri quadri, quella dei Giovanni e dei Gianni Agnelli, dei Valletta e dei Cesare Romiti. Già dal prossimo decennio, se la storia, il “progresso” e lo “sviluppo” seguiranno la strada sulla quale si sono incamminati con decisione dall’inizio degli anni novanta, gli stabilimenti della Fabbrica Italiana Automobili Torino, nata nel remoto 1899 e cresciuta, nel bene e nel male, con questo paese e in dipendenza delle sue alterne vicende storiche, diventeranno materia per l’archeologia industriale e l’epopea del “grande capitalismo privato” italiano, del quale la FIAT è il simbolo più noto e importante, ma non sempre e non proprio positivo, sarà consegnata definitivamente alla storia. Dopo aver liquidato l’imprenditore pubblico e proceduto alla svendita delle sue grandi aziende, i globalisti anglo‐americani, in veste di alfieri del capitalismo transgenico a scorrimento liquido ed incontrastato dei capitali finanziari, favoriscono la piena internazionalizzazione della FIAT, per separarla definitivamente dalle sorti di questo paese. L’Italia futura è previsto che diventi un grande “deserto industriale”, con servizi in prevalenza a basso contenuto tecnologico e un’estrema dipendenza dall’esterno, quanto a materie prime, energia e per le stesse produzioni industriali, nonché con una dipendenza assoluta dal centro di quello che sarà il grande feudo globalista occidentale, sulla via di un’irreversibile: gli Stati Uniti d’America. Così, è chiara la logica sottesa dal piano 2010‐2014 predisposto da Marchionne e dagli attuali vertici per la casa automobilistica Torinese, è simbolica l’”ascesa al trono” dell’ultimo degli Agnelli, che però di cognome fa Elkann, il trentenne John cosmopolita ma residente a Torino, ed è contestuale, o quasi, l’uscita di scena di alcuni esponenti della vecchia guardia, come Gabetti. Alcuni punti importanti e rivelatori, nella vicenda, sono a mio sommesso avviso i seguenti: 1) Lo spin‐off, lasciando perdere la letteratura teorica e accademica in materia, in Italia ha sempre avuto il vero scopo di separare dal resto stabilimenti e parti di azienda in previsione di una chiusura o di una vendita “sul Mercato”, previa ristrutturazione. Lo scorporo dell’auto da farsi in sei mesi, con la nascita di FIAT 88
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2 giugno 2010
Industries che comprenderà la produzione [quella considerata “buona”, redditizia] di trattori, veicoli commerciali e camion [con IVECO], e di tutto ciò che non è strettamente auto con una parte di Powertrain [quella che non produce i motori per auto], è soltanto il primo passo per preparare il terreno alla futura vendita della FIAT auto a qualche competitor di settore, oppure a massicce delocalizzazioni degli stabilimenti produttivi fuori del paese? 2) A fronte della previsione di un buon 40% delle autovetture prodotte in Italia da qui al 2014 – se il piano avrà seguito e i “cattivi” sindacati [leggi FIOM] non lo saboteranno – vi sarà nello stesso periodo la perdita di almeno 4.500 posti di lavoro. I lavoratori FIAT del settore auto “superstiti” oggi sono circa 21.000 [in Italia], mentre nel lontanissimo 1918, ai tempi del capostipite Giovanni, erano 40.000, e nei primi anni cinquanta superavano i 70.000. Il solo stabilimento di Mirafiori, al suo sorgere, occupava più lavoratori di quanti occupa oggi, direttamente, l’intero complesso di stabilimenti italiani. Inoltre, si sente parlare poco del destino dell’indotto e di coloro che vi lavorano, più numerosi dei dipendenti Fiat. 3) La sorte di Termini Imerese sembra comunque segnata. 4) Si richiederanno miglioramenti di produttività negli stabilimenti italiani, “sotto‐
utilizzati” rispetto a quelli europei, e un’infernale turnazione [i 18 turni] che peggioreranno ulteriormente le condizioni dei dipendenti FIAT. Non vi sarà, però, aumento nelle capacità produttive come non è previsto aumento ‐ ma anzi si è pianificata la riduzione – dell’occupazione. E’ importante per l’Italia, giunti a questo punto, che una FIAT ristrutturata ed internazionalizzata, dietro la quale si staglia l’ombra maligna e interessata di Goldman Sachs, riesca a vendere con Chrysler 6 milioni di vetture nel mondo? Anche ammesso che oltre un milione di queste autovetture si produrranno effettivamente in Italia, quale beneficio ne ricaverà questo paese, in termini di aumenti significativi posti di lavoro, diretti e nell’indotto, di ricadute economiche positive sul territorio, eccetera? Nessun beneficio, come lascia intuire il Piano strategico, tanto più che sono previsti una contrazione dell’occupazione ed un peggioramento dei ritmi e delle condizioni di lavoro. L’annuncio del Piano 2010‐2014, chiamato [ironicamente?] Lingotto II, è comunque piaciuto ai Mercati Finanziari, che hanno risposto con aumenti delle quotazioni delle azioni FIAT, confermando che l’”economia finanziaria” tira soltanto se si ristruttura e si annunciano tagli di posti di lavoro. L’ulteriore effetto impoverente che si avrà in Italia, grazie a Lingotto II, a Marchionne e al nuovo management FIAT potrebbe essere ancora più rapido ed accentuato se FIAT non riuscirà ad attuare questo Piano strategico, ma dovrà ricorrere al ben più penalizzante [per il nostro paese] “Piano B”. Se ai lavoratori italiani della FIAT si richiedono ulteriori sacrifici, in cambio della promessa di mantenimento del posto di lavoro con salari sempre più insufficienti, 89
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
ai manager del Lingotto [II] si assegnano gratuitamente 6 milioni di azioni e al solo Marchionne 2 milioni, per un valore che supera i 15 milioni di euro. Eppure il bilancio di gruppo 2009 si è chiuso con una perdita superiore a 800 milioni di euro, ancorché inferiore a ciò che si temeva. Con tutta evidenza, Marchionne se la cava bene nella “creazione del valore finanziario” a favore della proprietà FIAT, anche se lo fa a scapito dell’occupazione, in Italia. Luca Cordero di Montezemolo, in uscita – avendo lasciato la presidenza al sorridente pargoletto John Elkann, allevato da nonno Gianni ma adatto al clima globalista che si respirerà nella nuova FIAT post spin‐off internazionalizzata/ americanizzata – sarà finalmente libero di dedicarsi a Ferrari, ma, soprattutto, di fare ulteriori danni entrando nella politica sistemica italiana come possibile ologramma alternativo all’ologramma Berlusconi. Goldman Sachs, covo di serpenti finanziari che ha “benedetto” questa operazione, ne ricaverà cospicui utili, come sempre. Gli unici che non ricaveranno niente – se non ulteriore disoccupazione e desertificazione nel sistema produttivo – saremo noi, costretti ad assistere a queste manovre impotenti. C’era una volta la FIAT … in Italia. 90
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2 giugno 2010
Mattatoio globalista 7 maggio 2010 «Siamo di fonte a un brutto colpo di coda della crisi finanziaria ed economica mondiale. Tutti dobbiamo sentire il dovere comune di concorrere a superare questa crisi.» Solo dall’ospite del Quirinale, che troppo debolmente ha protestato davanti alle iniziative destabilizzanti dell’ultimo esecutivo Berlusconi, Tremonti, Lega, potevamo attenderci parole vuote e insignificanti come quelle riportate in apertura di questo post, pronunciate davanti ad un uditorio di VIP in occasione della recente cerimonia per la consegna del premio David di Donatello. La dichiarazione di Napolitano è perfettamente in linea con le menzogne che i media stanno cercando di propinarci in questi ultimi tempi, e cioè che la crisi è finita o, al più, si sta esaurendo non senza qualche possibile e spiacevole colpo di coda. Poi, i Mercati ripartiranno e con loro il prodigioso “sviluppo” alimenteranno una nuova stagione di consumi e commerci … e infatti si è visto come sono ripartiti, a razzo, cercando di razziare e distruggere un altro pezzo di mondo, in questo caso il nostro. La realtà è che il presunto “colpo di coda” della crisi sistemica globale rappresenta un’ulteriore e cruenta fase del conflitto in corso fra i gruppi strategici di potere globalista nel cuore dell’occidente, e non certo l’ultimo riverbero di una crisi in via di superamento. La stessa crisi è nata per effetto del conflitto elitistico, orizzontale, e quindi interno alla Global class, in una prima fase rivolto principalmente contro il crescente potere e degli “emergenti” globalisti asiatici – fra i quali spiccano russi e cinesi – e nella presente fase di attacco all’euro in buona parte interno al “campo occidentale”. La Grecia rappresenta soltanto l’inizio della grande battaglia dei globalisti anglo‐
americani per affossare l’euro – come da più parti fortemente si sospetta, anche se la cosa non viene detta esplicitamente – ed attutire la caduta del dollaro. I globalisti anglo‐americani, che si valgono come armi nel conflitto delle famigerate banche d’affari e delle altrettanto famigerate “agenzie di rating” – di supporto ai Grandi Investitori ed alla Finanza Strutturata per il dominio del Libero Mercato – vorrebbero “cannibalizzare” l’Europa dell’unione monetaria al fine di salvare il dollaro e la potenza strategica USA, che potrebbe risultare ancora utile per i loro scopi. Se fino a vent’anni fa si diceva che la potenza planetaria americana non sarebbe potuta sopravvivere senza la sponda europea, dopo la fine dell’URSS e dell’alternativa sistemica da questa rappresentata, il quadro strategico internazionale è completamente mutato, i principali fronti di conflitto si sono spostati in Asia e la marginalità dell’Europa sta apparendo in piena luce. 91
Eugenio Orso
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
Il bel “magnete” europeo nelle mani della potenza americana, prima e dopo l’era Neocon, ha sempre meno potere attrattivo e chi lo maneggia potrebbe essere tentato di estinguerlo. Il mondo globalizzato e feudalizzato in cui nostro malgrado ci troviamo, con le nuove strutture di potere e i nuovi gruppi dominanti in lotta reciproca, è il peggior nemico del vecchio continente e di tutti i popoli europei, dai greci agli irlandesi, dai portoghesi agli ungheresi, dagli stessi tedeschi ai polacchi, che pagheranno tutti, in qualche misura, il prezzo della crescente marginalità europea e le distruzioni che provocherà il conflitto in corso. Il Mercato‐Moloch esigerà un ennesimo, sanguinoso sacrifico, quello dell’Europa, affinché i suoi sacerdoti possano ancora officiare e il suo culto continui. Nei loro interventi su giornali e media degli stessi paesi sotto attacco, o comunque a rischio di collasso, coloro che hanno messo la penna al servizio dei liberalglobalisti – come ad esempio l’infimo contractor Francesco Giavazzi spacciato per grande economista, che scrive sulla prima pagina del Corriere – scaricano le responsabilità dei default se non direttamente sul popolo e sui subalterni, sul governo e sullo stato come nel caso della Grecia, se la prendono con l’elevata spesa pubblica, e cercano di sollevare da ogni responsabilità i loro sponsor, che gli gettano un polposo osso da spolpare sotto il tavolo, proclamando l’innocenza dei Mercati e dei fantomatici Investitori, ostacolati dalle “resistenze al cambiamento”. Ecco cosa ha scritto Francesco Giavazzi sul Corriere, il 29 aprile, in merito ai paesi dell’Europa che si trovano o rischieranno di trovarsi nel breve sotto i bombardamenti a tappeto speculativi dei suoi padroni: «La preoccupazione più grande, ciò che accomuna questi Paesi, è la mancanza di crescita, perché senza crescita è impossibile ripagare i debiti. Da qui bisogna cominciare. Chiedendosi che cosa si deve fare per far ripartire la crescita. La risposta è semplice: non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercati alla concorrenza per creare più occasioni di crescita alle imprese. Non mi sembrano le priorità del nostro governo. Chissà che lo spavento greco e il rischio che prima o poi gli investitori perdano fiducia anche nei nostri titoli, non ci aiuti a uscire dal torpore.» L’attacco all’euro è una ghiotta occasione per tagliare drasticamente salari, stipendi, pensioni e spesa sociale, continuando con la ri‐plebeizzazione di massa, e un ipocrita come Giavazzi lo sa bene. Un po’ come dire che i costi del conflitto devono ricadere interamente sulle spalle delle vittime innocenti, su coloro che incolpevoli subiscono il bombardamento. Dal canto suo, l’ultraliberale Piero Ostellino, per sviare l’attenzione dalle manovre dei suoi sponsor, prossimi o remoti, scarica interamente la colpa della situazione esplosiva – che potrà rivelarsi un Armageddon per il vecchio continente, 92
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2 giugno 2010
annichilendolo – direttamente ed esclusivamente sugli stati europei, non avendo però il coraggio di incolpare in modo diretto le popolazioni e i lavoratori. Scrive il paladino del liberalismo, Piero Ostellino, nell’editoriale sulla prima pagina del Corriere del 7 maggio, dal titolo Cade in borsa anche lo Stato: «Nessuno sembra essersi accorto che la situazione della Grecia è la sindrome della crisi dello Stato moderno. L’Unione Europea ha salvato la Grecia; che, ora, deve curare se stessa. Ma è qui che — al di là della contingenza greca— emerge, appunto, sotto il profilo storico e teorico, la crisi dello Stato moderno. Il quale, da un lato, è responsabile della disastrosa situazione finanziaria in cui si trovano anche altri Paesi dell’Unione Europea; e, dall’altro, è incapace di uscirne se non (ri)confermando la propria natura e i propri limiti.» Altrove si leggono cose grottesche, al limite dell’inverosimile, come ad esempio l’attribuzione di colpa per l’attuale situazione greca ai lavoratori dipendenti dell’Ellade, in particolare occupati nel settore pubblico, sollevando problemi d’importanza capitale fino ad ora sottostimati, che hanno inciso sul disastro greco, quale dovrebbe essere quello delle figlie zitelle degli impiegati pubblici defunti che hanno diritto alla pensione del superstite! Ha ragione da vendere il giornalista alternativo Paolo Barnard, quando individua chiaramente le responsabilità per il disastro europeo che si va profilando nel «Tribunale Internazionale degli Investitori e Speculatori guidato appunto dagli Stati Uniti, che con la scusa del risanamento degli Stati indebitati ma non più sovrani (noi appunto) ci costringe a vendere a prezzi stracciati i nostri beni pubblici ai barracuda finanziari, a deprezzare il lavoro con la disoccupazione (tanta offerta di lavoratori = crollano i loro prezzi, come con le merci), rovinando così le vite di generazioni di esseri umani, le nostre vite.» La verità è che la ricomparsa della “schiavitù per debiti”, in forme nuove, subdole e indirette, riguarda anche interi stati, oltre che i singoli, ma in tale caso si tratta più propriamente di un arma per colpire l’euro e un importante spazio economico e commerciale del mondo. Per troppo tempo, in Spagna come in Italia, i governucoli della destra o della sinistra si sono occupati di questioni fuorvianti, per generare consenso elettorale o per agevolare gli affari di VIP e di alcuni gruppi di pressione. In Spagna il truffaldino Zapatero si è affermato praticando la permissività e concedendo le nozze alla minoranza gay, mentre in Italia i governi Berlusconi si sono occupati soprattutto di proteggere dalla magistratura, intesa come fazione politica avversa, il loro ologramma elettorale incarnato da Silvio, lasciando ai Mercati, agli Investitori e ai club privati globalisti campo libero per ciò che veramente conta: posti di lavoro, welfare, economia, moneta, eccetera. Ormai è tardi per ricostruire l’autorevolezza dello stato e un vero consenso su basi concrete, ed una volontà politica in tal senso manca completamente ai subdominanti politici. 93
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Vedremo come proseguirà l’attacco alla Grecia e quali forze si solleveranno contro le misure draconiane adottate dal locale Quisling George Papandreu, per cercare di salvare il futuro del popolo greco e la sua stessa dignità. Certo che se la rivolta sarà guidata dalle minoranze anarchiche, che nella Grecia sotto choc sembrano quasi le sole attive nella guerriglia urbana, non si andrà da nessuna parte – perché queste non sono vere forze rivoluzionarie, non hanno né possono avere un progetto politico di ampio respiro – e si resterà in una fase insurrezionale o addirittura preinsurrezionale, dando l’occasione ai vari Quisling/ Papandreu di turno di mettere in campo i tradizionali apparati repressivi, per spegnere i fuochi o almeno circoscriverli rapidamente. Una domanda, giunti a questo punto, mi sento di porre, precisando che a questa domanda non so rispondere: Quando toccherà al Portogallo, poi alla Spagna e più in là forse anche all’Italia [per Francia e Germania ci vorrà molto più tempo e gli attacchi globalisti dovranno essere ancor più massicci] si troverà qualcuno disposto a rischiare, a riscoprire il vero, drammatico significato della parola Rivoluzione, a mettere in gioco anche la propria pelle pur di resistere contro l’invasore, oppure ci rassegneremo docilmente a farci scannare nel Mattatoio globalista? 94
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Mele marce e casi isolati 21 maggio 2010 Ed ecco che il satiresco ed istrionico Cavaliere propina ad una platea mediatico‐
popolare, obnubilata dalle sue televisioni, la storiella per bambini che non c’è corruzione politica diffusa, nella politica sistemica ed in particolare nel PdL di governo, ma ci sono soltanto “casi personali e isolati” da esecrare. Con tutta evidenza, si tratta di una classica ed abusata giustificazione che vorrebbe nascondere la realtà: la presenza di singole mele marce in un cesto fondamentalmente sano. Il veicolo che Berlusconi sceglie per comunicare al suo popolume e agli italiani tutti quanto precede è un ennesimo libro di quello che possiamo definire, consacrandolo con un titolo, il Supremo Leccaculo Mediatico Bruno Vespa. Questo libro ha un titolo espressivo, Nel segno del Cavaliere, ed un possibile sottotitolo che potrebbe convenientemente essere: E sul suo libro paga. La balla berlusconiana dei casi isolati, peraltro non troppo originale e brillante, rivela tutto il disprezzo che SuperSilvio [come lo ha definito acutamente un suo ammiratore e mio ex corrispondente] nutre per la popolazione della penisola e nasconde una valutazione, non certo confortante, sul livello d’intelligenza e sulle capacità critiche dell’italiano medio – debitamente massificato e flessibilizzato, precarizzato fino al punto da accettare con passività qualsivoglia peggioramento della sua condizione sociale e materiale di vita – al quale tipicamente si rivolgeva e tuttora si rivolge l’”offerta politica” berlusconiana. Non c’è dunque da meravigliarsi se tale “offerta politica”, sul Mercato del Consenso Elettorale e dei Sondaggi che ha sostituito la più antica e ormai neutralizzata Politica, è rappresentata da prodotti oltremodo scadenti, a partire da quelli berlusconiani. A partire dai “prodotti” berlusconiani reclamizzati per acquisire consenso, ho scritto, ma certo non soltanto da quelli, essendo tutto il sistema pseudopolitico liberaldemocratico nella penisola ridottosi a vendere simili prodotti standardizzati attraverso le pubblicità e i “comizi” televisivi, con l’eccezione vistosa del Pd, dato che questo amebico cartello elettorale – pur contribuendo in modo significativo alla Nuova Corruzione Politica Nazionale, familistica, tutta individualistico‐liberale e completamente rifluita nell’interesse privato – sembra che non sia in grado di esprimere alcuna “offerta politica”, seppur scopertamente truffaldina e di bassa lega. Ha certo ragione il sociologo americano Richard Sennett, quando parla dell’applicazione della Tecnica della Piattaforma – in uso nell’industria automobilistica e altrove per ottenere un prodotto unico, che poi si differenzia sulla base di piccoli particolari esaltati dalla pubblicità con lo scopo di far metabolizzare 95
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ai consumatori significative differenze di prezzo – a questa nuova “offerta politica” frutto della riduzione della politica a consumo [“la politica come consumo”, secondo l’acuto Sennett], ma in Italia tali “prodotti”, quando esistono e sono proposti a livello di massa, sono decisamente scadenti e spesso poco differenziati. Da buon manipolatore delle tre carte, non nei classici atri delle stazioni ma in quelli televisivo‐mediatici, e da buon imbonitore postmussoliniano di masse obnubilate, ma tragicomico e decisamente inferiore a Mussolini, Berlusconi cerca di far passare per singole mele marce, da buttare per conservare un cesto fondamentalmente sano, coloro che presi con le mani nel sacco non si difendono più affermando di “averlo fatto per il Partito” – che nel passato impropriamente si spacciava quale sinonimo di alta idealità, di vera lotta politico‐sociale, come avveniva nella Tangentopoli dissolutiva dei primi novanta – ma invocano semplicemente la famiglia, non di rado numerosa e bisognosa di cure, la moglie, i figli e i nipoti “da sistemare” e da accudire, i fratelli minori o meno fortunati, e via elencando … Gli agi, i lussi e i piccoli piaceri della vita – escort di buon bordo ivi comprese, sembrano aver sostituito almeno in parte le più sbrigative e agili bustarelle colme di denaro, retaggio di un passato di scandali. Con una battuta, dopo i Citaristi recordman in termini di avvisi di garanzia arrivano gli Scajola, in un ulteriore ed evidente peggioramento della situazione. Gli 80 assegni della banda Anemone, erogati per pagare l’appartamento romano del ministro Scajola [ed intestato alla figlia dello stesso, se non erro, nel solco di questa nuova corruttela “familistica”], non equivalgono esattamente la valigetta colma di denaro che fu trovata dagli uomini in divisa nei primi novanta e nel periodo di torbidi di Tangentopoli, fra le mani del mitico Primo Greganti – unico PCI‐PDS allora pubblicamente “impallinato” –, e questo non soltanto per la differenza di valuta, di importo e di potere d’acquisto. Emerge un’evidente differenza qualitativa con Tangentopoli/ Mani pulite che rivela un’ulteriore e drammatica involuzione del sistema politico ufficiale liberademocratico, avvicinando di qualche passo il momento della sua dissoluzione finale. L’ex democristiano e attuale pidiellino Claudio Scajola non è certo la fotocopia, nel terzo millennio, del celebre “mariuolo” socialista Mario Chiesa, come è stato definito il nostro dallo stesso Bettino Craxi, una volta scoperto. Qui e oggi è messa a nudo spietatamente la crisi terminale della liberaldemocrazia novecentesca, attraverso gli scandali che investono membri del governo, politici di primo e secondo piano, responsabili della gestione di opere pubbliche e funzionari dello stato, anche se non si tratta della celebre “dazione ambientale” di Di Pietro, ma di qualcosa di più grave e forse di più invasivo, di capillare e di irrimediabile. La putrefazione progressiva ed inarrestabile della liberaldemocrazia, che trova la sua prima sorgente nella perdita di autonomia dello stato nazionale e delle 96
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federazioni [quindi il federalismo demaniale e fiscale non risolverebbero un bel nulla] quanto a sovranità nazionale, politica monetaria e politiche sociali, ben al di là dei fenomeni di corruzione diffusa, rivela una malattia terminale e la sostanziale irriformabilità di questo sistema, che deve essere combattuto e superato da tutti gli uomini di buona volontà, per poter uscirne con le ossa almeno parzialmente intere e un futuro ancora possibile. Come ha messo bene in rilievo il filosofo Costanzo Preve, una importante contraddizione sistemica del Nuovo Capitalismo del terzo millennio [in realtà, un vero e proprio nuovo modo di produzione sociale con nuovi attori e nuovi paradigmi] è che per esistere la liberaldemocrazia rappresentativa ha necessità di uno stato nazionale sovrano dal punto di vista politico e monetario, perché entro tale quadro ed esclusivamente entro questa cornice la liberaldemocrazia si è accreditata nello scorso secolo come “il migliore dei sistemi possibili” [o meglio come scelta obbligata, date le vicende storiche di molti paesi tributari degli USA], mentre l’avvio dell’internazionalizzazione della finanza e della globalizzazione neoliberista hanno avuto come presupposto indispensabile la progressiva riduzione di tale sovranità. In altre parole, la stessa costruzione del Nuovo Modo di Produzione Sociale fondato sulla Finanza Selvaggia per la Creazione del Valore” e sugli espropri e razionamenti del Libero Mercato Globale ha richiesto, e richiede, la diminuzione degli stati nazionali e delle federazioni in termini di sovranità. Tornando al periferico ma significativo caso italiano, le marionette sistemico‐
berlusconiane Scajola, Bondi, Matteoli, Verdini, Bertolaso, collegate alla “cricca” affaristico‐paramafiosa Anemone‐Balducci‐De Santis‐Della Giovampaola o ad altre simili consorterie, altro non sono che piccole e tutto sommato insignificanti comparse dell’atto finale della dissoluzione della liberaldemocrazia rappresentativa. I Verdini, i Bondi, i Matteoli, nonché i Balducci e complici, sono niente di più che figurette meschine e sbiadite nell’epoca della probabile implosione di quello che è – e forse fra qualche anno si potrà dire di quello che fu, il miglior compendio sul piano politico del Neoliberismo Mercatista Planetario di marca statunitense. Su tutto questo grava naturalmente l’ombra della prima e irrisolta crisi sistemica globale, ma rispetto alla stagione di Mani pulite [scomodando ancora una volta l’espressione usata a suo tempo da Giorgio Amendola] oggi non è più la politica, già a quei tempi abbondantemente corrotta ma ancora sovrana, a “condurre le danze”, a imporre tangenti ad un’industria parzialmente sana ed efficiente, con il fine – oltre l’arricchimento personale e gli agi e i lussi di singoli attori – di finanziare le attività politiche e la “raccolta” di consensi dei partiti di massa. Oggi prevale una corruzione diffusa e atomizzata, “rifluita anche lei totalmente nel privato”, in cui politici frutto della Selezione Inversa Sistemica – operata 97
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massicciamente dopo la fine dei cosiddetti partiti di massa novecenteschi sia dal centro‐destra sia dal centro‐sinistra, in ciò gemelli – accettano di buon grado il polposo osso che gli gettano sotto il tavolo, con sollecitudine, i comitati d’affari costituiti da imprenditori cinici e delinquenziali, diventati avventurieri degli appalti pubblici e saccheggiatori di risorse comunitarie [in ciò la vera sostanza del celebratissimo Libero Mercato], che però hanno ancora bisogno dei servigi dei politici e di quelli della svalutata burocrazia di stato. Non c’è più il diligente tesoriere della DC di Arnaldo Forlani, il noto Severino Citaristi con ben 74 avvisi di garanzia all’attivo – ai tempi del C.A.F. di Craxi, Andreotti e per l’appunto Forlani e della “dazione ambientale” dipietrista – che teneva in ordine la contabilità dei finanziamenti leciti ed illeciti raccolti per lo storico partito, ma c’è il riciclato Scajola, ministro berlusconiano e pidiellino di seconda scelta, ai vecchi tempi già detenuto per settanta giorni nelle patrie galere in seguito allo “scandalo dei casinò”, che intasca direttamente, che aspira ad un comodo “mezzanino” romano con vista sul Colosseo, e probabilmente non soltanto a quello, con il mecenatesco Anemone disposto ad aiutarlo a realizzare i suoi sogni. Si sono in qualche modo invertite le parti, rispetto a ciò che accadde nella Tangentopoli novecentesca, ed è la politica a dipendere dall’industria saccheggiatrice delle risorse pubbliche, o meglio, dall’industria fondata sul saccheggio del prodotto quale “competenza distintiva” e oggetto sociale non formalizzabili, anche se Anemone con la sua solerzia e la sua disponibilità nei confronti dei politici, ad un osservatore superficiale può aver dato l’impressione di essere lui al servizio dei politici e di pendere dalle loro labbra. La politica sistemica liberaldemocratica standardizzata rivela pienamente, in tali contesti, di essere diventata un dio minore, senza più un Olimpo in cui nascondersi e disposta a mettersi al servizio di chi meglio paga. I favori concessi, e talora non sollecitati ma erogati come se dovuti, non sempre costituiscono un reato penale, e la giustificazione non può più essere come un tempo, detto brutalmente, “ho rubato per il partito” – perché ormai a questa favoletta non crederebbero neanche i figli scemi dei leghisti d’annata, a partire dalla Trota di Bossi – tanto più che in relazione agli specifici casi citati, da Scajola a Bondi, che tanto scalpore hanno fatto e tanto riflesso mediatico hanno avuto, lo stesso Berlusconi ha ricordato nel libro del devoto Vespa che i soldi per coprire i “buchi” del Pdl ce li mette lui, di tasca sua … Non si tratterebbe, quindi, di furti per finanziare l’attività politica ed il proselitismo del Pdl e men che meno le attività civiche e politiche dei Circoli [o dei Guardiani] della Libertà Berlusconiana, tanto che la scosciatissima Michela Brambilla qui non c’entra proprio, con il partito che diventa una semplice copertura, un utile veicolo per farsi gli affaracci propri, una ghiotta occasione per assicurarsi [alle spalle di tutti gli altri] una vita comoda e numerose occasioni di promozione sociale. 98
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Lungi dal trattarsi di “casi personali e isolati” – alias, si potrebbe affermare, singole mele marce in un cestino di frutti belli e sani – questi soggetti sono centinaia, se non probabilmente molte migliaia [decine di migliaia?] ad ampia diffusione sul territorio, e quindi rivelano l’epocale Sfacimento Etico e Politico del Sistema Liberaldemocratico, pur nella variante periferica italiana afflitta da mali endogeni pluridecennali, se si pensa che la sola Lista Anemone, non corredata di precisi importi economici, riporta circa 400 nomi di effettivi e potenziali corrotti [sarà soltanto l’ennesima punta di un grande iceberg?]. Gli importi della Nuova Corruzione Atomizzata, Familistica Amorale e Individualistica, presi singolarmente possono essere pure modesti in valore assoluto – come ad esempio il costo di manutenzione di una caldaia, o di uno scaldabagno, o la riverniciatura di un appartamento, o l’assunzione del figlio – ma non lo sono nel loro complesso, se sommati per determinare il “saldo finale” della corruttela, e resta il fatto che dalle Grandi Opere [o peggio, dalle grandi sciagure, come quella del terremoto in Abruzzo] in genere si possono ricavare centinaia di milioni di euro, attraverso l’esplosione voluta e pianificata dei costi degli appalti. Questa montagna di risorse per così dire “privatizzate” attraverso la Corruzione Sistemica deve essere sommata annualmente, nel caso italiano, agli oltre 150/ 200 miliardi di euro sottratti attraverso la tollerata evasione fiscale e contributiva. Infatti, se la celebre “lista della corruzione potenziale ed effettiva” dell’impresario‐
bandito Anemone riporta circa 400 nomi, la cosiddetta lista Falciani, ben più corposa, riporta la bellezza di 7.000 nomi di correntisti italiani della banca britannica Hsbc in Svizzera, in odor di evasione fiscale, i quali però non potranno essere perseguiti se hanno fruito dello “scudo fiscale” tremontian‐berlusconiano. Lo scudo fiscale voluto dal governo è un vero salvagente per questi criminali, comportando l’adesione allo scudo l’inibizione dei poteri di accertamento dei pubblici uffici e l’estinzione delle sanzioni amministrative applicabili. Per valutare la dimensione complessiva del furto operato ai danni delle comunità, si devono quindi sommare i costi [almeno quelli ragionevolmente quantificabili e monetizzabili] originati dalla Corruzione Sistemica Nazionale alla enorme sottrazione di risorse annualmente operata attraverso le pratiche dell’Evasione Diffusa. Con buona pace dei senatori Salvi e Villone, che qualche anno fa scrissero un libro per cercare di quantificare il costo della politica liberaldemocratica nel nostro paese [operazione peraltro sensata e benemerita], è questo il vero Costo della Democrazia che grava sulle spalle di noi tutti, direttamente legato allo scadimento etico della politica e dei suoi attori, al difetto di sovranità ed autorevolezza dello stato, alla flessibilizzazione/ precarizzazione di massa, al banditismo dei nuovi imprenditori/ saccheggiatori lasciati liberi di agire, nella razzia delle risorse, ed alla Corruzione Diffusa elevata a sistema di malcostume individualistico e familistico. 99
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Un costo per sua natura e origine inquantificabile, come del resto anche Salvi e Villone hanno ben compreso e chiaramente scritto nel libro Il costo della democrazia, perché oltre ai danni economici che le comunità sopportano, vi sono dei guasti rilevanti e non monetizzabili di ben altra natura, legati al degrado etico e allo scadimento culturale. Ne consegue che chi si fa beffe dell’Etica, che non sarebbe necessaria in politica, in cui contano i risultati, pur cinicamente ottenuti, dovrebbe riflettere che l’assenza di etica amplifica i costi, monetizzabili e non monetizzabili, per la collettività. Per restare al problema economico e finanziario conseguente, ciò che viene sottratto in termini di risorse pubbliche, si sottrae agli ospedali, alle scuole e alla formazione culturale e professionale delle nuove generazioni, ai trasporti di massa, alla raccolta dei rifiuti, all’assistenza agli anziani e ai malati, alla cassa integrazione per i lavoratori delle aziende in crisi, ed alla soddisfazione di tanti altri bisogni delle comunità. Sicuramente la questione Etica, o dell’Etica Politica, o della Politica e dell’Etica, assume un certo rilievo, nella crisi di autorità e di sovranità dello stato liberaldemocratico, poiché la Selezione Inversa che ne è una conseguenza e che a sua volta la alimenta promuove i peggiori, i più “flessibili” e “adattivi”, quelli che meglio aderiscono alle logiche degenerative dilaganti, e incide inesorabilmente sulla qualità umana che il nostro tempo esprime. Mi sento di dover ricordare a coloro che respingono il concetto, di natura umanistica, di Alienazione e si disinteressano dell’uomo, delle questioni e dei mutamenti culturali e antropologici che lo investono, riuscendo ad ammettere soltanto i ruoli sociali perché non “disturbano” le loro teorie scientifiche [o più spesso pseudo‐scientifiche], che la crisi dello stato liberaldemocratico in termini di sovranità, autorevolezza e competenze, nonché il parallelo avvento del Nuovo Capitalismo Transgenico nell’era della Globalizzazione, sono stati favoriti [direi resi possibili] da un mutamento culturale e antropologico manipolatorio, che ha riguardato anzitutto le élite e interessa tuttora, anche nella penisola, le masse di subalterni. Lo possiamo osservare agevolmente in Italia, in cui per far “digerire” alla popolazione un simile degrado suicida condito dalla Corruzione Sistemica Dilagante, senza che si verifichino estese proteste o scossoni insurrezionali, si è proceduto speditamente sulla via della costruzione sociale dell’Uomo Precario e Flessibile. Tale costruzione è il frutto di un epocale “esperimento” di massa di natura antropologica e culturale, l’effetto più eclatante e drammatico di un cambiamento realizzato in dimensioni bibliche – nel nostro paese favorito dagli stessi apparati mediatici che diremo “berlusconiani”, per la loro natura bassamente manipolante – con il fine del superamento del vecchio Ordine Sociale e la transizione al Nuovo 100
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Mondo, imposta dalle dinamiche vincenti del Capitalismo transgenico del terzo millennio a scorrimento liquido del capitale finanziario. Berlusconi stesso – o comunque la consorteria di potere legale ed extralegale che si vale della sua immagine, in contrapposto ad un centro‐sinistra parlamentare decadente, vile e volutamente risparmiato a suo tempo dai rigori di Tangentopoli, ha venduto la sua immagine [da intendersi come Truffaldino Ologramma] e rivolto l’”offerta politica” ad un certo pacchetto di elettori, a precisi target di Mercato. Ma questi elettori, se ai primi inizi e fin dal 1994, anno dell’entrata in politica del cavaliere, erano in buona parte quelli resi orfani dalla magistratura dei partiti di massa inteclassisti DC e PSI [con i cosiddetti laici minori al seguito], nel periodo che parte con gli anni ottanta ed arriva fino ai giorni nostri sono stati “plasmati” culturalmente, attraverso la propaganda, gli spot e l’uso finalizzato degli strumenti mediatici, nonché in forza delle profonde modificazioni sociali e culturali tuttora in atto, per mantenere, consolidare ed estendere il consenso. Lʹelettorato storico berlusconiano, dagli anni novanta fino ai primi duemila, si può classificare in sintesi come segue: 1) Soggetti in grande parte scarsamente acculturati, che occupavano e occupano posizioni basse nella scala sociale. Si tratta di un gran “calderone” che comprende tipici spettatori Mediaset, casalinghe non più “di Voghera”, neoplebi delle regioni meridionali più sfortunate, disoccupati siciliani o d’altre regioni speranzosi di avere un’occupazione grazie all’intercessione di SuperSilvio [un milione di posti di lavoro creati dal nulla], tifosi del Milan e perciò ammiratori del presidente del football club, i pensionati del “Forza Silvio!”, e tanti altri ancora a seguire. Sono quelli, in buona sostanza, che non leggono libri, se leggono quotidiani spesso si limitano alla prima pagina o ai titoli, e traggano gran parte delle informazioni di cui dispongono, per valutare criticamente la realtà, dalla televisione generalista sempre più spesso caratterizzata da un mix di censura politico‐sociale [oggi Minzolini al TG1], di servilismo becero e mortificante [da sempre Emilio Fede, al presente, il ricordato Minzolini con Vespa, Paragone e tanti altri] e di autentica, distruttiva spazzatura [oggi Morgan il tossico, assieme a numerose perle dell’intontimento da tubo catodico, in origine Drive‐In]. 2) Individui debitamente flessibilizzati, non di rado di giovane età. Le partite I.V.A. parasubordinate e un certo precariato, ad esempio, messi volutamente e cinicamente in competizione con il lavoro stabile e sicuro nel gioco al ribasso dei redditi da lavoro e dei diritti, attraverso un sistema normativo dalla sostanza socialmente criminale – nelle logiche da basso impero, tributario di un centro nordatlantico che impone – al quale hanno contribuito gli stessi esecutivi berlusconiani [macellai sociali Sacconi, Maroni], oltre che il 101
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centro‐sinistra prodiano [sotto il segno di Prodi, consulente Goldman Sachs, quello che ha portato l’Italia nell’euro] e ulivistico‐riformista con tratti liberisti. Piccoli evasori fiscali, che possiamo definire i più poveri fra i ricchi. bottegai “padani” non ancora leghisti, padroncini, industrialotti e micro‐imprenditori della P.M.I., artigiani, piccoli [e talora medi] professionisti, faccendieri vari di piccolo cabotaggio e altri. A nord in evidente competizione con la Lega bossiana. Non pochi fra questi, nonostante abbiano sostenuto e ancora sostengono con il consenso elettorale le brutture degenerative sistemiche, non riusciranno a scampare alla loro sorte, a “farla franca”, ed entreranno o sono già entrati a far parte [in qualche caso, per cessazione attività o per fallimento] dei ceti medi riplebeizzati della Classe Povera del futuro. La loro situazione concreta è diventata in questi ultimi anni sempre più difficile, e in alcuni casi [credo una ventina], come è accaduto di recente nel nord “produttivo”, si può arrivare fino al suicidio. Questo gruppo rappresenta uno “zoccolo duro” di consenso irrinunciabile, la base sociale tipica dell’attuale centro‐destra di Berlusconi. Qualche operaio, orfano della storica classe e della coscienza di classe e ormai immemore di queste, ma destinato, nella nuova strutturazione sociale che il capitalismo del terzo millennio ci riserva, ad entrare a pieno titolo nella Classe Povera [in qualità di nuovo lavoro operaio]. Qui è palese la contraddizione che nasce da un consenso elettorale dato a forze che per la loro stessa genesi non rappresentano politicamente e socialmente gli operai, ma che, anzi, diffondono precarietà del lavoro, ingiustizie distributive sempre più vistose, impoverimento di massa, “liberalizzazioni” nel segno dell’interesse privato [oggi l’acqua] e alimentano copiosamente i flussi della Corruzione. Gruppi impiegatizi, che a maggioranza alimenteranno [e già oggi alimentano] i ceti medi riplebeizzati della Classe Povera in via di rapida formazione. Anche qui, il consenso dato non trova alcuna corrispondenza in una rappresentanza politica e sociale effettiva, come molti potrebbero facilmente scoprire semplicemente guardando la busta paga, non di rado unica fonte di reddito e di sostentamento. Varie ed eventuali. La composizione statistica del consenso acquisito dalla vecchia Forza Italia, ben da prima del lancio sul Mercato del Consenso Elettorale del “partito del predellino”, prima dell’avvento del IV governo Berlusconi e della successiva ri‐affermazione elettorale della Lega Nord, rivelava una percentuale modestissima di laureati [meno del 4%] e una percentuale altrettanto ridotta di militanti attivi e “impegnati 102
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in politica” [meno del 4%], e quindi rivela il basso livello culturale medio di coloro che hanno espresso il consenso e lo scarsa partecipazione alle attività del partito‐
club, una partecipazione che non è neppure richiesta al di là del momento della campagna elettorale e del voto. Quel paio di dati statistici che ho richiamato a memoria sono verificabili facilmente, per chi fosse interessato alla questione, e si possono trovare anche in rete. Tornando all’oggetto del presente approfondimento, il nesso fra Alienazioni contemporanee e Uomo Precario, con la distruzione dell’Etica, dei legami solidaristici e la flessibilizzazione del lavoro, è anche lui parte integrante di questo sistema – nello specifico, stiamo parlando della Nuova Corruzione Familistica Amorale, prodotto spregevole della crisi dello stato liberaldemocratico nella penisola – e lo ha reso purtroppo possibile scongiurando il pericolo, per il sistema, di vaste reazioni popolari. Comunque sia, e posto che la specifica questione del “familismo amorale” può ben essere affrontata, per la sua rilevanza, con piglio propriamente sociologico, va rilevato che l’obiettivo finale del vischioso Sistema di Corruzione Atomizzata, che investe ormai l’Italia intera, non è diverso da quello generale e planetario della Globalizzazione Neoliberista di matrice anglo‐americana, la quale rappresenta un ben più importante e sofisticato corrompimento, capace di minare alle fondamenta e ad ogni latitudine la società degli uomini. Il Nuovo Modo di Produzione Sociale non prevede ridistribuzione della ricchezza, ma si fonda sull’acquisizione dei beni delle comunità umane – attraverso gli strumenti finanziari, valutari od anche grazie alla corruzione e all’extralegalità – da parte di gruppi di potere della nuova classe dominate, la Classe Globale, o di gruppi sub‐dominanti a livello locale [quelli italioti, ad esempio, particolarmente spregevoli], i quali sono portatori di interessi privati in aperto conflitto con gli interessi e i reali bisogni del resto dell’umanità [quindi non soltanto con quelli di qualche altro singolo gruppo sociale], o meglio portatori di interessi particolaristici totalmente opposti a questi ultimi. Il modello storico di riferimento può essere individuato, per qualche verso, anzitutto su un piano culturale e sociale, nel modello che si è sviluppato dopo l’indipendenza all’interno della società nordamericana, caratterizzato dalla presenza solo minoritaria della classe borghese propriamente detta, come si intendeva in Europa, e dalla presenza decisiva dei Baroni‐Banditi che si appropriavano le risorse non di rado, appunto, in modo banditesco e “pionieristico”, in origine armi alla mano, costruendo le grandi fortune private ai limiti, od anche oltre i limiti, sia della legalità formale sia di un’Etica di tipo comunitario o classista. L’epopea del selvaggio West e dei suoi eroi, a diffusione popolare e planetaria, è in tal senso emblematica, nella costruzione di un nuovo mito e di un nuovo modello 103
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di società colonizzatrice dei vasti spazi “dalle opportunità illimitate” per il singolo, in un curioso e ardito parallelo con l’importanza che ha avuto ed ha l’epopea di Gilgamesh – giunta fino ai giorni nostri – per la comprensione di alcuni lineamenti essenziali e costitutivi dell’antico mondo culturale mesopotamico e sumero. La premessa più recente, da un punto di vista culturale e sociale, è la metamorfosi elitistica in Global class a partire dalla società nordamericana degli anni settanta e ottanta del novecento, che ha soppiantato la vecchia borghesia al vertice della piramide sociale [tema di cruciale importanza per comprendere l’”economia” e l’etica del capitalismo contemporaneo, da me trattato nel libro Nuovi signori e nuovi sudditi scritto a due mani con Costanzo Preve]. Tale premessa all’affermazione del Nuovo Modo di Produzione Sociale è nel contempo all’origine, come ho già accennato in precedenza, della progressiva perdita di sovranità e di importanza degli stati nazionali e delle federazioni tradizionali, trattati come degli abiti da smettere perché andavano ormai stretti ai nuovi dominatori e ne limitavano appetiti e movimento. In estrema sintesi e in conclusione, il principale obiettivo sistemico è quello dello spostamento delle risorse dall’ambito pubblico ai “forzieri” privati, fino ad esaurimento delle stesse e alla completa spoliazione delle comunità umane: A) Nel miserando caso italiano caratterizzato dalla Nuova Corruzione Politica Nazionale, il maltolto finisce direttamente nelle tasche di industrialotti/ impresari‐banditi e saccheggiatori, con la successiva “ricaduta” di favori, di gentilezze e di benefit di ogni genere su politici infimi e decisamente sub‐
dominati, affamati di comodità e bonus per sé e per la propria famiglia. Saccheggio indiscriminato e privilegio totalmente immeritato procedono tristamente di pari passo, calcando l’italico suolo e calpestando il cadavere della legalità. Del resto, l’obiettivo principale e personale di Berlusconi – che in qualche modo è oggi simbolicamente il “garante”, sull’intero territorio nazionale, di questo nuovo sistema di corruttele e dei suoi attori [oltre che degli evasori fiscali, soprattutto se grandi e influenti, ma anche dei piccoli] – è quello di raggiungere in tempo il Quirinale, onde mettersi definitivamente al riparo dalle insidiose inchieste dell’avversa fazione dei magistrati e non pagare eventuali debiti con la giustizia. Autorevolezza e Sovranità dello Stato, Legalità ed Etica si affermano o cadono tutte insieme, non marciano certo separate. Scrivendo queste righe, ammetto provocatoriamente di essere non soltanto un “comunista” e un “pauperista” – come direbbero i berluscones, con fare insultante e con un certo orrore – ma anche un po’ “giustizialista” … B) Nel caso planetario, ad un livello di potere effettivo incomparabilmente più alto dove si decide la sorte del mondo e dove la faccenda si fa ben più seria, 104
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le grandi azioni acquisitorie e speculative sono impostate e realizzate, in primo luogo, a beneficio dei gruppi di comando della Classe Globale, quelli propriamente definibili Strategici, che si affrontano senza risparmio nel conflitto mondiale [per ora principalmente] finanziario e valutario. Il recente caso del default dello stato greco, nel più generale quadro dell’attacco speculativo all’euro, è nello stesso tempo emblematico e chiarificatore. Si arraffa tutto ciò che si riesce ad arraffare, navigando a vista fra gli scogli in un presente che potrebbe non avere futuro, come se fossero gli ultimi giorni del Basso e dell’Alto Impero. 105
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Pomigliano: militarizzazione bismarkiana del lavoro industriale regolare 18 giugno 2010 Se molti, a partire da certi intellettuali marxisti “scientifici”, hanno archiviato durante il Novecento l’imbarazzante discorso sull’Alienazione del giovane Marx dei Manoscritti economico‐filosofici del 1844, oggi tale discorso ritorna prepotentemente di attualità, anche nella stessa Italia, insieme alle nuove forme di alienazione indotte dal capitalismo del terzo millennio e dalla globalizzazione neoliberista.
L’Alienazione marxiana dell’operaio di fabbrica, prepotentemente suscitata già nel diciannovesimo secolo dall’attivazione e dall’espansione dei rapporti di produzione capitalistici, convive con lo Schiavismo classico dai lineamenti precapitalistici, con il Neoschiavismo precario e con le più raffinate, invasive e ideologico–culturali forme d’alienazione che lo scrivente ha sintetizzato nell’espressione di Meta‐alienazione.
Tutte queste forme coesistono nello stesso tempo storico e non di rado all’interno di molte formazioni sociali particolari, come ho già cercato di spiegare in altra sede, ma oggi è bene concentrare l’attenzione sulla forma storica dell’alienazione che riporta al pensiero e alle analisi del giovane Marx, suscitata dal capitalismo ottocentesco, perché oltre a non essersi affatto “estinta” nello spazio finanziarizzato e globalizzato, sta riacquistando una certa importanza.
E certamente vero che una forma di alienazione, di estraniazione della forza–
lavoro, molto simile a quella marxiana legata alle spietate dinamiche produttive e sociali della prima industrializzazione, ha interessato lo sviluppo capital‐comunista cinese fin dai suoi inizi ed è osservabile anche oggi nelle aree di rapida e selvaggia industrializzazione di quello che fu l’impero di mezzo.
Questa forza–lavoro, in non pochi casi, è costituita da contadini di recente urbanizzazione che hanno in questi giorni intrapreso una lotta per migliorare le loro condizioni economiche, chiedendo aumenti salariali e proclamando scioperi – che colpiscono la Honda delocalizzata come la Toyota – nelle ormai storiche regioni manifatturiere cinesi, a partire dal Guangdong.
Inutile dire che non si tratta, con buona probabilità, di vere proteste anticapitaliste, con la riaffermazione di una “speranza” esterna al sistema, ma di rivendicazioni per miglioramenti economici e di paga dei subalterni che non mettono in discussione, dalle fondamenta, il “mercatismo orientale” e il modello dell’”economia socialista di mercato” il cui successo, la cui vertiginosa espansione è stata resa possibile proprio dai meccanismi attivati a livello planetario dalla globalizzazione neoliberista.
Un’inedita stagione di rivendicazionismo sociale – ancorché interno al capital‐
comunismo mercatista – ha avuto inizio in Cina, in questi giorni?
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Potrebbe anche essere, e osserveremo gli sviluppi futuri di queste lotte, nonché la loro eventuale diffusione, ma c’è un insidioso elemento di novità, di questi tempi, che investe l’Europa e nella fattispecie l’Italia, e riguarda il futuro del lavoro operaio e dipendente in fabbrica in termini di diritti e di paghe.
In breve, è in atto un tentativo epocale, in un paese cosiddetto sviluppato quale dovrebbe essere appunto l’Italia, di spostare indietro le lancette dell’orologio della storia e di tornare a quella sciagurata condizione – ossia la condizione dell’operaio‐
proletario della prima industrializzazione, ridotto a merce umana – per una spietata, “ricardiana” compressione dei salari e dei diritti.
Il recentissimo caso delle condizioni poste da Fiat Auto ad alcune migliaia di lavoratori campani in quel di Pomigliano d’Arco, con la clausola della limitazione del diritto di sciopero pena il licenziamento, la turnazione selvaggia, gli straordinari imposti liberamente dall’azienda, la malattia “approvata”, le pause mensa che saltano per le superiori esigenze della produzione, ne costituisce la miglior [anzi, la peggior] testimonianza.
Come dire che in una società che si vorrebbe [eccezion fatta per la Lega e per alcuni componenti del PdL, che immaginano una società ancora peggiore dellʹattuale] popperianamente “aperta”, votata in apparenza ad un multiculturalismo tollerante e includente, rispettosa dei “diritti individuali ed umani”, attenta alle “libertà dell’individuo”, fondata su un dettato costituzionale formale avanzato, si impone una pesante militarizzazione bismarkiana del lavoro industriale regolare, diminuendo in modo sostanziale diritti e tutele, come se gli operai, gli impiegati, i lavoratori dipendenti in generale non appartenessero a questa stessa società, come se non fossero meritevoli di tutela alcuna, costituendo puri strumenti per il profitto e la creazione del valore finanziario, e rappresentassero materie prime indispensabili ma problematiche da “razionalizzare”.
Il caso Fiat dimostra che la tendenza sarà quella di creare delle zone di libero scambio sotto la sovranità assoluta del Capitale finanziarizzato e mobile anche in Europa occidentale, delle autentiche zone franche sottratte, anzitutto per quel che attiene la tutela del lavoro, alla garanzia rappresentata da fastidiose legislazioni giuslavoristiche in essere, dai contratti nazionali di categoria, dallo stesso dettato costituzionale ed infine, come si può già fondatamente temere, sottratte all’applicazione delle norme penali.
Se tutto ciò si concretizzerà, se la Fiat riuscirà ad imporre una prima volta in Campania il suo nuovo modello aziendal‐autoritario armonizzato con le esigenze globali del Capitale Finanziario, se il grande stabilimento di Pomigliano d’Arco fungerà concretamente da “apripista” per un’estensione dell’applicazione del modello ben oltre la Fiat, le condizioni di lavoro e di vita dell’operaio italiano tenderanno sempre di più ad approssimare quelle, ancor oggi decisamente peggiori, dell’operaio cinese.
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Nel contempo, se prevarrà la Fiat spalleggiata da un governo complice, da un’opposizione amebica e vigliacca, dai sindacalisti gialli e dagli intellettuali‐
cortigiani, vi sarà un’ultima, decisiva sconfitta di quella parte del sindacato italiano – rappresentata essenzialmente dalla Fiom – che non si è venduta e non ha intenzione di vendere fino alle estreme conseguenze la pelle dei lavoratori, e giungerà a definitivo compimento quel processo storico di “rotta di classe” iniziato nel lontano 1980 con la “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati Fiat a Torino, ed innescato al fine di neutralizzare una volta e per tutte l’Antagonismo, per spezzare un’opposizione sociale e politica all’epoca ancora forte e per distruggere fino alle fondamenta la coscienza della classe subalterna novecentesca.
Se vi sarà un referendum, come sembra dovrà accadere il 22 di questo mese e limitatamente allo stabilimento di Pomigliano, i votanti saranno lavoratori terrorizzati di perdere il posto di lavoro e i già scarsi mezzi di sussistenza, quindi esposti al ricatto dell’agente strategico globalista/ macellaio sociale Marchionne, nonché pressati dalla maggioranza dei sindacati e dalla sconcia politica sistemica [sono tutti favorevoli all’accordo, questi loschi figuri, da Berlusconi e Sacconi a Veltroni e Bersani] che punta alla definitiva capitolazione dei lavoratori, per fare di loro ciò che si vuole.
Si nota che in questo caso piena è la smentita della melensa favoletta sistemica del “lavoro libero”, che dovrebbe animare il mondo capitalistico, e della universalizzazione delle fantomatiche “libertà individuali” a tutti garantite.
La situazione è perciò gravissima, se vista in combinata con la manovra finanziaria tremontiana che massacra lo stato sociale, riduce i servizi pubblici, non tocca evasione e privilegi e apre le porte ad un’ultima, finale stagione di de‐
emancipazione e ri‐plebeizzazione di buona parte della popolazione italiana.
La ʺbattaglia di Pomiglianoʺ per una militarizzazione bismarkiana del lavoro regolare in fabbrica, pur riguardando direttamente e in apparenza soltanto qualche migliaio di lavoratori metalmeccanici, ha un enorme valore simbolico e potrà rivelarsi decisiva.
Perciò riporto di seguito una mail che mi è stata girata, oggi, da ambienti della Fiom giuliana, datata 16 giugno e scritta da dipendenti Fiat che si trovano in “prima linea” nell’impari scontro. Una comunicato dal fronte che vale più di tutte le mie parole:
Accordo separato a Pomigliano. Le lavoratrici e i lavoratori Fiat non ci stanno: raccolta di firme contro il ricatto dell’azienda Questa mattina, su sollecitazione delle lavoratrici e dei lavoratori, è stata avviata, da parte dei delegati della Fiom‐Cgil delle Carrozzerie di Mirafiori, una raccolta firme contro 108
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lʹaccordo separato siglato ieri dalle altre sigle sindacali per lo stabilimento di Pomigliano. Solo alle Carrozzerie, nel giro di poche ore, sono già state raccolte oltre un migliaio di firme. Nei prossimi giorni, lʹiniziativa verrà estesa agli altri stabilimenti del gruppo. Domani saranno raccolte le firme alla Fiat di Cassino e alla Sevel di Atessa, in Val di Sangro. In quest’ultimo stabilimento saranno effettuate due ore di sciopero per turno – dalle 9 alle 11 e dalle 16 alle 18 – durante le quali si terranno le assemblee davanti ai cancelli. Nel testo, indirizzato a Sergio Marchionne, ad della Fiat, che le lavoratrici e i lavoratori stanno sottoscrivendo si legge, tra le altre cose, che «di fronte alla possibilità di vedere la produzione aumentare negli stabilimenti italiani siamo pronti a fare la nostra parte, ma questo non può avvenire a scapito dei nostri salari, dei nostri diritti, della nostra dignità e della possibilità di contribuire a migliorare la nostra vita e la stessa impresa in cui lavoriamo». «Fare la nostra parte – conclude l’appello – per noi vuol dire sforzo e lavoro ma anche e allo stesso modo difesa della nostra salute e dei nostri diritti. La messa in discussione di questi per i lavoratori di Pomigliano è per noi la messa in discussione dei nostri: per questo siamo con loro, ci consideri in campo.» Roma, 16 giugno 2010 109
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Marchionne, alias la globalizzazione senza veli 28 luglio 2010 Mi ha colpito, a suo tempo, l’espressione globalizzazione senza veli, un po’ politicamente corretta e un po’ impudica, che devo aver letto di sfuggita da qualche parte, magari bevendo velocemente un caffè e gettando l’occhio su un quotidiano, o che posso aver sentito alla radio, ancora insonnolito, in qualche rassegna stampa mattutina. In quel momento, devo aver immaginato curiosamente una sorta di figura femminile, misto di bellezza, di ambiguità e di perfidia, un po’alla Salomè di Giuseppe Flavio e soprattutto di Oscar Wilde, bellezza lunare questa ultima, che mentre danza lascia cadere tutti i veli e nelle mani sembra stringere un vassoio, sul quale campeggia una testa, simile a quella del povero San Giovanni Battista – la solita vox clamantis in deserto, sempre lì a denunciare inganno e malcostume, decollato dal tetrarca Erode proprio su richiesta della bella Salomè. Il mito di Salomè, che si incarna in un corpo seducente usato a fini malvagi dalla madre Erodiade assetata di vendetta, ricorda certamente la globalizzazione, seducente all’inizio e gravida di false promesse di miglioramenti materiali, di emancipazione generalizzata dei popoli, nonché di realizzazione suprema del Progresso capitalistico con la fine conclamata dei conflitti a livello mondiale – chi se la ricorda la retorica pelosa sul “villaggio globale”? – ma poi rivelatasi, come la stessa Salomè, uno strumento nelle mani del “maligno”, in tal caso degnamente rappresentato dalla classe globale e camuffato, nella presente epoca storica, da Investitori, Mercati, Azionisti e Rentier. L’espressione globalizzazione senza veli è altresì il riflesso dell’ipocrisia di un’epoca in cui non si possono chiamare le cose con il loro nome, si devono nascondere a tutti i costi le ineguaglianze sociali, lo sfruttamento del lavoro, le povertà suscitate dalla nuova crematistica, ed in cui, in particolare, non è dato comprendere i veri meccanismi di funzionamento sistemici, in quanto alla comprensione di questa realtà deve sostituirsi l’adorazione del Libero Mercato Autoregolantesi, accompagnata dall’accettazione acritica delle superiori ragioni degli Investitori che muovono la finanza, e perciò il mondo. Quegli stessi Investitori per i quali Marchionne cambia spesso i suoi piani, giostrandosi fra gli stabilimenti polacchi, serbi, italiani, e minaccia all’improvviso esodi di produzione dalla penisola, tanto che le parole del manager maximo di Fiat seminano abitualmente angoscia nei lavoratori dell’auto e dell’indotto, che diventano ostaggi nelle mani del capitale nomade, e sono trattati come materie prime nel processo produttivo, quando non servano quale merce di scambio. E’ per soddisfare gli interessi privati dei suoi referenti, e naturalmente i suoi personali, che il brillante manager venuto dai sobborghi di Toronto ha creato 110
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Fabbrica Italia Pomigliano, costituitasi in società per intero partecipata dalla Fiat e posta sotto la sua diretta presidenza, fagocitando per tale via lo stabilimento campano che con il recente referendum ha avuto l’impudenza di resistere, come ha potuto sull’ultima trincea, al piano di completa flessibilizzazione, “normalizzazione” e militarizzazione del lavoro [ironicamente, il piano “Panda”]. L’obiettivo è di non rinnovare il contratto nazionale di lavoro in scadenza alla fine del 2012, applicando le proprie regole, accettate in aprile come una panacea dai soliti sindacati gialli collaborazionisti – resistenti della Fiom e “cattivi comunisti” esclusi, naturalmente – e nel contempo l’azienda dovrebbe uscire dalle organizzazioni padronali di Confindustria e Federmeccanica, per realizzare la contrattazione aziendale da posizioni di forza, in modo incontrastato, e liquidare definitivamente le ultime garanzie per il lavoro regolare in fabbrica. Ecco cosa significa, nella concreta trasformazione dei rapporti sociali di produzione, la globalizzazione senza veli, senza freni e senza maschere formali, che si palesa agendo direttamente, con un blitzkrieg giocato a tutto campo, sulla sostanza delle relazioni industriali ed incide così nella “carne viva” dei rapporti produttivi. Poi, dopo un’abbondante dose di bastone annunciata per il Lavoro, c’è la subdola carota dei 20 miliardi di investimenti sul suolo nazionale, destinata a convincere i più riottosi, nel mondo politico e come in quello sindacale, ma sappiamo bene che negli attuali assetti di crisi permanente, utilizzati dal Capitalismo Transgenico per fare opera di reengineering dell’intera società contemporanea al solo scopo adattarla ai suoi contesti, se ci sono momenti di “ripresa” e di crescita di vendite e di ordinativi, ciò avviene senza sostanziali riflessi positivi sull’occupazione, in termini di quantità e di qualità. L’arroganza del manager globale dell’auto arriva fino al punto da imporre, in primo luogo al sindacato, ma poi anche a tutti gli altri soggetti, compreso il governo italiano, un “prendere o lasciare”, ben sapendo che negli spazi globali gli Investitori che rappresenta possono muoversi liberamente. Qui, in Italia, Marchionne è diventato il simbolo della globalizzazione “svelata” e mostra come deve comportarsi un vero manager globale, fedele esclusivamente ad una ristretta cerchia di sodali [che non sono soltanto John Elkann, famiglia e soci], ai quali risponde e dei quali – da bravo contractor di alto livello – deve curare diligentemente gli interessi. Marchionne svolge il suo compito, di contractor‐
stratega globalista, passando come un rullo compressore sugli interessi nazionali del paese ospitante, sui diritti dei lavoratori, sulle stesse necessità di coesione del campo confindustriale, perché Confindustria e Federmeccanica, a partire da Marcegalia, non sono affatto contente della situazione, in quanto temono che oltre a perdere il settore dellʹauto, altre aziende seguiranno in futuro l’esempio della Fiat, buttando la tessera per bypassare lʹostacolo rappresentato dai CCNL. 111
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Va anche sottolineato che voltando le spalle alle organizzazioni dell’Industria Nazionale Decotta [Confindustria e Federmeccanica] il nuovo contratto dovrebbe essere accettato da tutti i lavoratori interessati per poter continuare a mantenere il lavoro e un minimo di reddito, garantendosi così la mera sopravvivenza in completa balia dell’azienda. E perché non estendere questo subdolo meccanismo, ad un certo punto, anche agli altri stabilimenti italiani, Torino compresa? Perché non applicare anche qui il Modello Detroit che ha sepolto per sempre l’italianità della Fiat, con sindacati gialli ed entità pubbliche che diventano soci, facendosi forte dell’”appoggio” garantitogli oltreoceano dall’amministrazione Clinton/ Obama, che forse è il sodale in questo momento più significativo per lo stratega Marchionne, ben di più degli stessi Eredi Agnelli? Giunti a questo punto, farà tanta differenza, in un futuro non lontano, avere qui i cinesi, in veste neocolonialista di acquisitori di attività produttive, oppure l’italo canadese Marchionne, il gruppo Fiat e dietro di loro l’ombra dell’amministrazione federale USA? Se la bella Salomè danzante di Oscar Wilde, idealmente incarnata in altra epoca nella divina Sarah Bernhardt, si disvelava sapientemente dinanzi al re, per sedurlo e avere la testa del povero Giovanni Battista reo di aver “sputtanato” l’adultera Erodiade, il cinico Marchionne dalla chioma bisunta che si toglie il maglione rappresenta oggi la migliore immagine della globalizzazione senza veli, e forse riuscirà ad avere anche lui una testa da esibire su un piatto d’argento … quella degli incolpevoli lavoratori italiani. 112
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Lo stato dell’arte del disastro italiano 2 settembre 2010 E’ bene gettare uno sguardo nell’abisso, ritraendosi in fretta, cioè dare un’occhiata alla situazione politica, sociale ed economica italiana senza indulgere troppo e lasciarsi fagocitare dalle dinamiche sistemiche, per un rapido monitoraggio della stessa e per censire i peggioramenti in termini di prospettive future intervenuti dall’inizio dell’estate a oggi. Gli eventi più recenti ed eclatanti si possono così riassumere: 1) L’attacco della Fiat ai diritti dei lavoratori in Italia, ben simboleggiato dai licenziamenti nello stabilimento di Melfi e dal rifiuto di reintegrare concretamente i lavoratori licenziati, in spregio ad una sentenza della magistratura. 2) La crisi di governo non dichiarata e non ancora formalmente esplosa, con la probabile dissoluzione dell’attuale maggioranza ed il ricorso alle urne, alla quale si aggiungerebbe un fantomatico [ma non troppo] “complotto” per far fuori Berlusconi e sostituirlo con un elemento più facilmente gestibile dai globalisti e dalla finanza privata sovrana. 3) La recente visita del dittatore libico Gheddafi in Italia, appena conclusasi, che pone diversi problemi: dipendenza italiana dall’estero, per quanto riguarda non solo la decisione politica ma anche le materie prime, l’efficacia del business [micro]aziendalistico berlusconiano, in sostituzione di vere politiche economiche e industriali, ed eventuali ricadute positive per l’economia nazionale, l’occupazione, i redditi, la subordinazione della “dignità nazionale” e soprattutto dell’Etica alle esigenze del business, con la questione dell’immigrazione perennemente sullo sfondo. A questi eventi aggiungiamo pure: 4) La minaccia del federalismo “realizzato” che incombe da tempo sul paese e che potrebbe provocare fermenti secessionisti nel meridione. Per quanto riguarda il punto 1, è chiaro che la Fiat, oltre a manovrare per riuscire a bypassare le garanzie del contratto nazionale di lavoro in tutti i suoi stabilimenti, e non soltanto in quello di Pomigliano, pretende una piena ”extra‐territorialità”, creando in Italia l’equivalente delle famigerate Zone Franche di Esportazione nei 113
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paesi in sviluppo, in cui non si applicano vere garanzie normative a favore dei lavoratori, soggetti ad un libero sfruttamento integrale, e in cui, addirittura, non si rendono pienamente operative le sentenze dei tribunali a loro favorevoli. Ma forse Marchionne e i suoi “azionisti” vogliono ancor di più, in ossequio al Liberoscambismo Assolutizzato, ed aspirano ad una completa extra‐territorialità degli stabilimenti in loco, anche rispetto alla stessa legge penale del paese ospitante. Potremo aspettarci anche qui, nel prossimo futuro, condizioni di lavoro paragonabili a quelle praticate nelle maquilladoras messicane, ed anche l’assassinio di sindacalisti scomodi e antagonisti, come ad esempio quelli della Fiom, sull’esempio dell’azione contro i diritti dei lavoratori delle multinazionali e dei narcos in Colombia? Certo è, vista l’aria che tira, che si vuole estendere forme di sfruttamento intensivo del lavoro, in passato limitate ai paesi “in via di sviluppo”, al tessile, al lavoro femminile, anche alla vecchia Europa e al mondo “ex‐ricco”. Di certo, un “modo più moderno e dinamico” di intendere il rapporto di lavoro per poter affrontare l’accesa competizione globale che abbiamo davanti, un segno del percorso emancipativo tracciato per tutti noi dal liberismo e dalla liberaldemocrazia egemoni! In pratica, la Zona Franca sul territorio nazionale pretesa da Marchionne e dai suoi referenti globalisti, in cambio della carota rappresentata da 20 miliardi di euro di investimenti sull’italico suolo nei prossimi anni, corrisponde in linea di massima a quella che Paolo Barnard, nel suo saggio “Il più grande crimine”, definisce una “sacca di Cina” in Italia, e se riuscirà a stabilirsi si rivelerà un efficace cavallo di troia dei globalisti – mascherati come sempre da Mercati e Investitori – che sono abbondantemente infiltrati nei gangli vitali dell’amministrazione Obama, ed anche attraverso quel contenitore impongono la realizzazione delle loro strategie in occidente e nel mondo. La Fiat non è più un’azienda italiana e non è neppure un’azienda propriamente definibile americana, come molti mostrano di credere, ma bensì uno strumento di penetrazione della Global class in Italia, per l’ultima grande colonizzazione e per gli ultimi espropri vampireschi. Le aziende globali, come ormai dovrebbero sapere anche i bimbi e i liberisti più tonti, non hanno nazionalità alcuna, non hanno obblighi verso alcun popolo e richiedono con sempre maggior arroganza l’extra‐territorialità, in ossequio alla supremazia della libertà d’iniziativa economico‐finanziaria e della proprietà privata, quali diritti naturali che mettono in ombra lo stesso diritto alla vita e che valicano ogni confine geografico, politico, doganale. L’azienda ingrata e infedele oggi rappresentata dal laureato in filosofia [!] Marchionne, ha pur sempre ricevuto, negli ultimi anni, parecchi miliardi di euro in regalo dagli esecutivi italiani, sottratti alla spesa sociale, recuperati con le tasse, e 114
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trasformatisi poi in dividendi per l’intangibile Proprietà, con la scusa della difesa dei posti di lavoro sul patrio suolo che inesorabilmente e beffardamente si sono ridotti, e minacciano di assottigliarsi ancora nel breve. Il terreno per un possibile, storico e definitivo successo della penetrazione globalista nel belpaese, non si è formato improvvisamente, ma è stato preparato negli ultimi due decenni con le manovre de‐emancipatrici del lavoro, l’introduzione dei contratti di precarietà e flessibilità, la messa in discussione di contratto nazionale e dello statuto dei lavoratori, nonché con la compressione dei redditi da lavoro dipendente, in una sostanziale continuità che in tal senso hanno espresso le politiche‐replicanti dei governi cosiddetti di centro‐destra e di centro‐
sinistra. D’altra parte, se per la Creazione del Valore finanziario le aziende sono diventate come limoni da spremere, nel breve, estraendone valore in borsa e poi gettandole, o vendendole dopo sanguinose ristrutturazioni giustificate dalla necessità di “riposizionamenti” sui mercati, perché non fare la stessa cosa con interi stati, siano asiatici o europei, appartenenti al sud del mondo od anche al settentrione? Che differenza c’è, per gli agenti strategici del Capitale Transgenico del terzo millennio, fra i dipendenti della Fiat, quelli di Wal‐Mart, o l’intero popolo italiano, o fra un grande organismo produttivo e lo stato italiano? Nessuna differenza, in linea di principio, trattandosi nel caso dei dipendenti e dei popoli di “risorse” da spremere, direttamente o indirettamente, e nel caso delle grandi company e dei vecchi stati nazionali di organismi utili per la Creazione del Valore, diretta o indiretta. Il Partito Unico della Riproduzione Capitalistica sta conducendo unʹintensa campagna giornalistico‐mediatica a favore del manager globale Marchionne, della “ventata di modernizzazione” che i suoi piani, se realizzati, porterebbero nel sistema produttivo nazionale, consentendogli finalmente di affrontare le “sfide globali”. Si esalta il suo vivere “dopo Cristo” e non prima di Cristo che ha suscitato nel consueto meeting estivo di Rimini gli applausi della “cristianissima” platea di Comunione e Liberazione, più devota, con tutta evidenza, a Smith, a Friedman, a Soros che a Gesù Cristo … “La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”, ha dichiarato Marchionne in relazione ai tre dipendenti Fiat di Melfi da lui licenziati ma da reintegrare pienamente, intendendo con questa ipocrita sentenza, in realtà, che dignità e diritti dei lavoratori devono essere superati nel suo allucinante “dopo Cristo”, che esclude qualsiasi vera Etica, compresa quella cristiana, ed ammette soltanto la falsa etica del valore creato e del profitto. 115
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La vera sostanza del messaggio/ diktat all’Italia è la seguente: o si accettano queste condizioni‐imposizioni o si resta esclusi dai mercati mondiali e dalle grandi correnti globali di “sviluppo”. In poche parole, “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”, essendo il governo italiano palesemente diviso fra impotenza e forzata accondiscendenza. Ah sì, quasi dimenticavo: Il Quirinale, nella persona del suo attuale dormiente, ossia il migliorista‐comunistachehastudiatoinamerica Giorgio Napolitano, non ha mancato di ringraziare pubblicamente Marchionne per la sua disponibilità al dialogo! In relazione al punto 2 non si può non riconoscere la ferale capacità di “resistenza” espressa da Silvio Berlusconi, davanti agli attacchi esterni di potenti entità mediatico‐finanziarie principalmente albioniche e americane [iniziati sulla stampa nazionale ed internazionale con la pubblicità data agli scandali sessuali, alle escort, alle orge nei suoi palazzi privati, alle feste di compleanno di ragazze neomaggiorenni], in relazione agli “attacchi” di una magistratura politicizzata che lo ha sommerso negli anni di avvisi di garanzia e impegni processuali, ed anche in relazione alle recenti fronde interne al suo stesso cartello elettorale. Nonostante la sostanziale pochezza che finora ha dimostrato, Berlusconi resiste, no se rinde nei suoi sontuosi Alcazar, fucilino pure chi vogliono, ma non lui, organizza cene di lavoro nel comodo Fuhrerbunker di Palazzo Grazioli, senza il fragore dell’artiglieria comunista in sottofondo, stabilisce cinque punti irrinunciabili dell’azione di governo con i suoi ministri‐avvocati‐impiegati, primo fra i quali evitare i processi, e mostra di essere come la caparbia sanguisuga, che si potrà staccare soltanto con il fuoco. Del resto, quello che vuole il cavaliere è soltanto mettere il suo culo al sicuro, raggiungere il Quirinale in tempo o più realisticamente giungere ad uno stabile compromesso con la potente mafia finanziario‐globalista, dotata di mezzi incomparabilmente maggiori di quelli a disposizione della sua piccola mafia locale, la quale dovrà concedergli un buon salvacondotto per toglierselo dalle scatole. Lo attende una vecchiaia su qualche isola offshore, in villa, con tutto il codazzo di escort e giullari di corte di cui ama circondarsi? Salverà il suo impero aziendal‐privato distribuito alla figliolanza? Per ora, in luogo delle solenni note di Wagner [anche se il Götterdämmerung pare un po’ esagerato per Berlusconi], nei corridoi dei suoi palazzi risuona al più l’armoniosa voce partenopea di Apicella accompagnata dalla chitarra, a dimostrazione di quanto può essere grottesca e casereccia anche la tragedia. Certo è che non soltanto il [presunto] blocco sociale berlusconiano è tenuto insieme con lo sputo – dall’egoismo di gruppi sociali retrivi, dall’ignoranza, dal plagio, dalla paura – ma anche il suo amato PdL, la sua creatura pseudo‐politica fulcro del partito dell’amore e del predellino, frutto di un calcolo che si sta rivelando 116
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2 giugno 2010
sbagliato, troppo frettoloso, a dimostrazione che il gruppo di potere che circonda Berlusconi e sfrutta la sua immagine non dispone di grandi strateghi, ma solo di mediocri impiegati, yesman e piccole tacche. L’imprenditorialità tanto cara al cavaliere che questi suoi dipendenti, collaboratori e sodali dovrebbero esprimere si concretizza in misure raffazzonate, tipiche di un “navigare a vista” evitando fortunosamente gli scogli, e non certo di una razionale pianificazione strategica d’ampio respiro. Da due mesi il ministero dello sviluppo economico è soggetto all’interim di Berlusconi, e ciò vale a dire che è completamente scoperto, come se si trattasse di cosa di secondaria importanza, durante una lunga crisi economica e sociale. Del resto, essendo il gruppo di potere berlusconiano per certi versi erede del craxismo, non può non essere attorniato da nuovi contingenti di “nani e ballerine”, ed essendo il PdL un partito “leggero”, ossia principalmente una sorta di grande comitato elettorale/ club liberal‐salottiero, non ha adeguate strutture per radicarsi nel territorio, all’infuori di quelle “ereditate” da AN, a suo tempo, dal vecchio MSI, quella stessa componente del PdL oggi spaccata dalla cosiddetta fronda finiana. Con buona probabilità, le ultime settimane hanno chiarito che la fronda finiana non potrà più rientrare all’ovile, che non si potrà scordare il passato pur di continuare a governare, dopo un’accesa lotta ai coltelli, con attacchi personali, colpi bassi, diffamazioni e colluttazioni. L’ambizioso e cinico “gerarca” [ex]berlusconiano Gianfranco Fini tenterà prossimamente altri colpi di mano, fuori o dentro il PdL, pur di far cadere lo scettro a Berlusconi ed aprirsi la strada verso la presidenza del consiglio o verso qualche altro importante incarico di governo. In parallelo alla crisi del partito del fare, dell’amore e delle faide interne, se la piratesca Lega che ha raggiunto o quasi il suo massimo storico, dopo il quale non potrà che scendere o precipitare a vite, vuole elezioni subito per fare il pieno di consensi un’ultima volta e “fottere” con la consueta eleganza il suo malconcio alleato, il vergognoso partito di plastica chiamato Pd, senza programma politico e senza dignità, cerca penosamente di ritardarle, invocando, ad esempio, la necessità di una nuova legge elettorale condivisa, un superamento del porcellum, e sicuramente sarebbe favorevole a torbide soluzioni istituzionali, con l’alto patrocinio di Napolitano, che allontanino Berlusconi dalla presidenza del consiglio, ma che non portino allo scioglimento delle camere. Infuria nel Pd, dimentico di ogni drammatica questione sociale in atto [Melfi, Pomigliano, ricatti Fiat, precari della scuola in angoscia, disoccupazione giovanile dilagante, condizione operaia degradata] alla quale le sue squallide burocrazie non sono evidentemente interessate, la polemica che divide trasversalmente la nomenklatura post‐post comunista e post‐post democristiana, fuse nell’unico “blocco” – non di granito, ma di merda, e quindi prossimo a sfaldarsi o a liquefarsi 117
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– che oggi discute accoratamente di sistemi elettorali alla francese o alla tedesca, mentre ieri discuteva su altri bizantinismi, come l’opportunità dell’uso della storica espressione “compagno” nei suoi inutili consessi. Nel frattempo rischiano di aumentare le tensioni nord‐sud, quale effetto congiunto della crisi economica e del malgoverno, e qui si innesta bene il punto 4. Il federalismo fiscale e burocratico bossiano concesso da Berlusconi al Bossi opportunista e ricattatore puramente per mantenersi in sella, se veramente si realizzerà nella sua versione più hard, comporterà aggravi di costi insostenibili, tagli draconiani di risorse a [quasi] tutte le regioni meridionali già malconce, e fin d’ora questa minacciosa prospettiva moltiplica i fermenti fra gli stessi politici sudisti del PdL, fermenti e malcontenti nei quali si può cogliere una ancor embrionale minaccia secessionista, ma destinata a svilupparsi rapidamente nel caso si vada verso il baratro … pardon, verso il “federalismo fiscale” voluto dalla Lega. Ultimo viene Muammar Gheddafi, di cui al punto 3, il pagliaccesco dittatorello libico che fuor dalla Gran Giamahiria Araba solo in Italia può sentirsi veramente importante, come se fosse un “conquistador” prodotto da una sorta di colonialismo di ritorno e nel contempo un grande uomo di stato che finalmente trova la sua platea e può pontificare. Più che dall’evidente cattivo gusto nell’abbigliamento, a metà fra l’avanspettacolo e una sorta di uniformologia dadaista, nella scelta delle automobili, o nello sfoggio di agguerrite Amazzoni in funzione di guardie del corpo, più ancora dell’invito a convertirsi all’islam, rivolto a un paio di pool di hostess locali assunte a termine, l’attenzione dovrebbe essere attratta dai cinque miliardi di euro l’anno richiesti all’Europa dell’Unione allo scopo di arrestare il flusso migratorio verso il vecchio continente, che altrimenti, invaso da legioni di disperati, potrebbe a sua volta diventare Africa, cioè nero o almeno caffellatte … Evidente l’intento levantino di contrattare alzando il prezzo, nonché il velato ricatto contenuti nelle richieste di Muammar Gheddafi, tanto che l’Unione ha dichiarato che la cifra è un’esagerazione, che si potrebbe far molto con capitali più ridotti. Il dilettante Frattini al ministero degli esteri farà da tramite fra il dittatore libico e l’Unione, fino a che si troverà il “prezzo giusto”, stabilendo magari un tot di euro per ciascun disperato che giunge in Giamahiria dall’Africa subsahariana, sulla base di flussi migratori annualmente stimati … Ciò che non si considera minimamente, in tutto questo mercimonio e in primo luogo nella democraticissima e liberale Europa, sugli organi di stampa “politicamente corretti” come nelle dichiarazioni politiche ufficiali o ufficiose, è la condizione dei migranti detenuti in Libia, la loro sorte, la necessità di riconoscergli almeno qualche fondamentale diritto e di tutelarli. Ma l’imbroglio sta nel fatto che i flussi migratori potranno veramente arrestarsi, o ridursi significativamente, impedendo così la temuta africanizzazione–
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islamizzazione dell’Europa, solo e soltanto se si interromperanno le dinamiche di questo capitalismo, perché sono queste che li suscitano, che rendono inevitabile lo spostamento di intere masse umane verso nord e verso occidente, mentre i paesi più poveri del continente nero perdono circa un terzo della loro preziosa manodopera specializzata. Ben poco può il regime di Gheddafi, nella piccola Libia, sia con 5 sia con 15 o più miliardi di euro annui erogati dalla UE, se agguerrite organizzazioni criminali transnazionali gestiscono i flussi di immigrati, fra i quali ben pochi possono viaggiare liberamente, per scelta, con mezzi decenti, dato che l’”economia criminale”, la quale fra le sue lucrose attività annovera anche il traffico di braccia e di schiavi, si sviluppa in parallelo con quella globale liberista, e le due si alimentano a vicenda. E infine, chi può credere seriamente alla storiella che sarà Gheddafi [lautamente pagato] il difensore di unʹEuropa che rischia di essere sommersa da schiere di “nuovi barbari”? Per chiudere il capitoletto dedicato al surreale colonnello libico, va ricordato che due anni fa è stato stipulato il Trattato di Bengasi fra Libia e Italia, che ha ufficializzato l’amicizia fra i due paesi [su questo, niente in contrario] e quella, sicuramente interessata, fra il colonnello esternatore e il cavaliere istrionico. Nel Capo II dell’accordo, relativo alla chiusura del capitolo del passato e dei contenziosi, l’Italia si impegnava a reperire fondi finanziari per la realizzazione [in Libia] di progetti infrastrutturali di base per la bellezza di 5 miliardi di dollari in 20 anni, mentre la Giamahiria garantiva alla parte italiana e alle aziende esecutrici l’esenzione dalle tasse [art. 8 del trattato]. A ciò faceva seguito tutto un complesso di disposizioni, per la verità generiche, riguardanti materie quali la cooperazione negli ambiti scientifici e culturali, collaborazione economica, industriale e in campo energetico, collaborazioni militari ed altro. Importante fu la rimozione di ostacoli procedurali e di regolamenti restrittivi, da parte del governo libico, che limitavano le possibilità d’azione delle aziende italiane. I rapporti economici fra Libia e Italia, da allora, si sono effettivamente sviluppati ed oggi le importazioni di gas libico coprono oltre il dieci per cento del fabbisogno annuo nazionale, mentre oltre un terzo del greggio libico è destinato all’Italia. Inoltre, il relativamente ricco fondo sovrano della Libia attratto da investimenti nella penisola non ha tipicamente velleità coloniali – a differenza di quello russo o cinese, ma principalmente “normali” scopi d’investimento. Ma nonostante la relativa positività dei rapporti economici e finanziari Italia‐Libia, che hanno avuto nuovo impulso in questi ultimi anni – forse uno dei pochi “meriti” che taluni riconoscono al IV governo Berlusconi – non si può che concordare con lo 119
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storico Franco Cardini che scrive, nel suo Il Colonnello in maschera: Gheddafi appare oggi, dal nostro punto di vista, quello che è: un “uomo di sponda” dell’affarismo berlusconiano, che si spinge perfino all’avventura criptofiloiraniana e alla russofilia strisciante, giustificate sempre dal nostro “interesse nazionale” (che poi sarebbe quello di alcune imprese italiane il cui business ha ben scarsa ricaduta sul benessere del paese). Infatti, nonostante il Trattato di Bengasi del 2008, il petrolio e il gas libici, una certa apertura alle aziende italiana nei territori della Giamahiria libica, araba, islamica, socialista [eccetera, chi più ne ha più ne metta], e nonostante gli accordi Eni‐
Gazprom, nonché altri accordi e trattati minori con entità non troppo gradite ai globalisti occidentali e americani, non rileviamo da allora a oggi rilevanti e decisivi effetti benefici per l’economia nazionale, nonché ricadute positive sui redditi da lavoro e sull’occupazione. Ciò che rileviamo, nonostante i supposti, importanti benefici che dovrebbero discendere dai richiamati accordi, è l’inesorabile prosecuzione del processo di de‐
emancipazione di massa, della compressione di salari e stipendi, della costruzione sociale di un “uomo nuovo”, costretto alla precarietà lavorativa ed esistenziale, e tutto ciò anche a causa dell’azione/ inazione dell’esecutivo berlusconiano. E’ bene precisare con chiarezza, sulla scorta delle acute osservazioni di Cardini, che nonostante queste secondarie, timide “manifestazioni di indipendenza” dalla grande finanza anglo‐americana che vuole privatizzare e colonizzare completamente la penisola, gestendola attraverso Quisling politici locali, non si inverte ma si approfondisce la tendenza complessiva al declino economico‐
produttivo e all’impoverimento della popolazione, una tendenza che è iniziata con gli anni novanta e che ormai può dirsi storica. In definitiva, dopo questo breve excursus che si spera non troppo frammentario e superficiale, fuor di metafora, con linguaggio non eccelso ma sicuramente a tutti comprensibile, possiamo concludere che siamo sempre di più nella merda, e che di conseguenza, come disse a suo tempo un certo Paco d’Alcatraz, quando si tocca il fondo, ci si mette a scavare. Grazie per la cortese attenzione 120
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2 giugno 2010
Profumo, puzza di bruciato e spartizione delle banche 22 settembre 2010 L’antefatto è notissimo: le dimissioni del top manager bancario Alessandro Profumo dalla carica di Ad di Unicredit, carica che occupava se ben ricordo dal lontano 1998, frutto di un’affermazione personale progressiva, dopo la rapida scalata in Credito Italiano avvenuta negli anni novanta. Alessandro Profumo sembra essere un self made man inserito non in un American Dream, ma in più modesto Italian Dream, che da giovanetto è partito come impiegato al Banco Lariano, in posizione umile, lavorando durante il giorno allo sportello e la sera “studiando alla candela” per una laurea alla prestigiosa Bocconi. Poi è “cresciuto”, naturalmente in termini aziendalistici di affermazione personale e di scalata, entrando in McKinsey e successivamente in RAS. Certo non è uno degli squali finanziari peggiori, ma è comunque un Top Manager, un Banchiere contemporaneo, uno che cura gli impietosi interessi degli Investitori, oltre che i suoi personali, e quindi per tutti noi non può che rappresentare un nemico. Volendo fare un po’ di chiarezza nell’intricata vicenda del repentino “siluramento” di Profumo, senza troppe pretese di scoprire verità assolute o segreti inquietanti, è bene porsi alcune domande. * Normale avvicendamento al vertice di una delle due più grandi banche della penisola? E’ l’ipotesi meno probabile, anche se Mercati ed Investitori talora esigono sacrifici umani fra gli stessi VIP che ne curano gli interessi, per spingere l’acceleratore sul valore creato e sul profitto. Non dovrebbe essere questo il caso di Profumo, definibile come un banchiere con tendenze “globali”, ben attento al dividendo da distribuire alla Sovrana Proprietà ed ai Rentiers, orientato verso le grandi acquisizioni [l’HVB tedesca e Capitalia, ad esempio] e il superamento degli angusti confini nazionali. * Esito di una lotta ai coltelli per il controllo di pezzi importanti del sistema bancario nazionale? Il Profumo di turno ha votato alle primarie del Pd e in qualche modo appartiene a questa trista fazione della politica sistemica, non potendo escludere, nonostante si sia parlato spesso di lui come di un manager “distante” dalla politica, una sua prossima “discesa in campo” Alessandro come prossimo anti‐Silvio? C’è chi lo vede come il possibile, futuro, “Papa straniero” nel Pd, il quale dovrebbe risolvere i problemi di questo cartello elettorale che sembra molto vicino allo sfaldamento. 121
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2 giugno 2010
Ma i giochi sono complessi più di quanto può sembrare, e l’intricata jungla pidiina, infestata di nomenklature postcomuniste e postdemocristiane in reciproca lotta, prive di qualsivoglia programma ma affamate di posti di potere, è forse un po’ troppo anche per un “collaudato” manager come Profumo, per anni al vertice di un organismo finanziario sempre più multinazionale, che vanta oltre 10.000 filiali in 22 paesi [http://www.unicreditgroup.eu/it/About_us/About_us.htm]. Inoltre, una liquidazione di ben 40 milioni di euro – autentica buonuscita da manager globalista di media tacca – potrebbe suscitare qualche piccola discussione, anche se la cosa non dovrebbe avere troppo peso all’interno della cinica burocrazia pidiina, la quale ha da tempo [e volentieri] rinunciato alla battaglia per la giustizia sociale e la difesa dei subalterni impoveriti, schierandosi apertamente sul fronte opposto. Dall’altra parte della politica sistemica, è fin troppo chiaro che l’interesse di un Berlusconi in difficoltà, in vistoso calo di consensi nei sondaggi – il quale si è finalmente accorto, seppur in ritardo, che la truffa del berlusconismo è ormai scoperta – è proprio quello di controllare quanti più organismi possibili [bancari e non] per mantenersi ancora in sella a qualsiasi costo, e di metterci ai vertici suoi burattini, o comunque personaggi non potenzialmente ostili al suo gruppo di potere e alle politiche, talora feudali, localistiche e regionaliste, che questo esprime, complici le pressioni [e i molti casi i diktat] di una Lega sempre più determinante. Da più parti si ricorda che Alessandro Profumo intendeva fare di Unicredit una vera e propria “banca globale”, confliggendo con tutta una serie di interessi consolidati proprio all’interno del gruppo, non di rado di natura localistica/ regionalista. * C’è di mezzo il solito Gheddafi con i cospicui capitali libici da investire in “paesi amici”? Anche, ma forse non è la ragione principale del “siluramento” di Profumo, pur potendo avere qualche peso nella complessa vicenda che ha indotto il consiglio di amministrazione della banca a sfiduciare il brillante manager, dando mandato al presidente Dieter Rampl di “trattare la resa” con il manager e attribuendogli temporaneamente le deleghe dell’Ad. In effetti, la banca centrale libica ha un suo alto rappresentate in Unicredit ed una cospicua partecipazione nell’istituto, tendenzialmente in crescita. E’ possibile che nel contrasto fra l’Ad “storico” di Unicredit e i soci, più della controversa questione della “penetrazione libica”, pesi la questione delle Fondazioni, principali azioniste della banca, ormai nemiche giurate del Profumo con aspirazioni “globali”, tendente alla banca unitaria che parla fluentemente inglese e che non dovrebbe piacere molto alle Fondazioni stesse. * Quanto conta in questa vicenda la Lega, che preme da buon parvenu per un suo feudo bancario? 122
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2 giugno 2010
La Lega si è finalmente integrata in Roma Ladrona – non più tanto sputtanata, se non per tener buoni i bruti nelle sagre padane – ed aspira ad avere un suo peso nelle banche, anzi, vorrebbe una banca importante e “tutta sua”, come la volevano non troppo tempo fa [2005] i capi diessini Fassino, i D’Alema, i La Torre intercettati telefonicamente, che facevano il tifo per l’intraprendente Unipol di Gianni Consorte [al quale D’Alema disse telefonicamente “facci sognare”]. Come i politici diessini di allora[non c’era ancora il Pd], che in pieno 2005 volevano una banca tutta loro a costo di andare a braccetto con i “furbetti del quartierino”, anche i leghisti che ormai fanno parte a tutti gli effetti del sistema della piccola politica corrotta e cialtrona, aspirano ad entrare nei salotti buoni finanziari, pur a livello locale, non potendo puntare più in alto, ad esempio a JP Morgan Chase/ Chase Manhattan Bank, alle guglie più alte del capitalismo contemporaneo finanziarizzato, come farebbero i tutti gli strateghi globalisti che si rispettano … E’ chiaro che la Lega deve accontentarsi di ciò “che passa il convento”, essendo il sistema bancario italiano piuttosto provinciale, ancora in parte protetto e “riserva di caccia” per cordate indigene politico‐economiche, nonché giudicato un po’ “asfittico” e arretrato rispetto ai brillanti attori finanziari occidentali del collasso “sub‐prime” e della più folle finanza creativa. La Lega giustifica i suoi appetiti in campo bancario, le sue pulsioni acquisitive, con la necessità di concedere credito alla PMI del nord in agonia, soffocata dal credit crunch e bisognosa di supporto finanziario per poter sperare di sopravvivere ancora un po’, ed in effetti un po’ è vero, perché si tratta di una fetta importante del suo elettorato tipico, che deve essere preservata per poter continuare la scalata al potere. La Lega, inoltre, oltre alla naturale avversione per la penetrazione dei capitali libici nel sistema bancario italiano, ha mostrato di essere contraria alla visione politico‐
strategica di Profumo, un po’ troppo globalista/ mondialista per gli xenofobi‐
regionalisti padani, ben arroccati nei loro feudi, influenti nella Fondazione Cariverona che partecipa al capitale del gruppo, nonché pilastro principale del IV esecutivo Berlusconi. In conclusione, tanti sono gli attori della partita per il controllo di Unicredit, dalle Fondazioni ai libici [i cui interessi sembrano divergenti], dalla Lega a Berlusconi [i cui interessi non sempre sono coincidenti], trattandosi di almeno tre o quattro parti in lizza per determinare il futuro della banca, ma ciò che emerge è che sia le Fondazioni sia la Lega, incatenando il gruppo bancario ai feudi sul territorio, respingendo la visione un po’ ”globalista” dell’estromesso Profumo, oggettivamente ed occasionalmente incarnano la resistenza locale/ regionale all’avanzare inesorabile della globalizzazione finanziaria, che prima o poi dovrà investire in pieno anche il sistema bancario italiano, per ora ancora soggetto ai giochi di potere interni. 123
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2 giugno 2010
Più che Profumo, c’è un po’ di puzza di bruciato nella complessa vicenda, che è tuttora in sviluppo non essendoci ancora il successore di Profumo, il quale dovrà essere formalmente nominato dal presidente Rampl. La partita è quindi aperta, e se provvisoriamente la vittoria può essere assegnata alle Fondazioni bancarie e alla Lega bossiana nessuno può escludere colpi di scena futuri. Ad infima! 124
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2 giugno 2010
La vera opposizione in Italia 5 ottobre 2010 «Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo». In queste attualissime parole di Antonio Gramsci è racchiusa la sostanza del problema politico e sociale dell’Italia di oggi, in cui non c’è più un’estesa mobilitazione sulle grandi questioni del lavoro e del welfare, che incidono nella carne viva della classe subalterna, e in cui è evidente – accanto ad una “idiotizzazione” di strati sempre più ampi di popolazione, promossa dal subpotere mediatico e politico italiota – il drammatico difetto di partecipazione e di consapevolezza dei soggetti. Il fatto è che non pochi si “agitano”, in questo paese, appoggiando le false opposizioni, la cui pericolosità per il sistema è bassa o nulla, per rivendicazioni o finte battaglie destinate ad arenarsi e a spegnersi sui binari morti della protesta. Ma la vera opposizione politica e sociale fa veramente paura ai “servi del sistema” [usiamo pure questa vecchia espressione, destinata a tornare d’attualità], al punto tale che le questioni del lavoro, le agitazioni dei lavoratori a “macchia di leopardo” sul territorio, le proteste di operai e impiegati, di precari della scuola e disoccupati, davanti all’offensiva finale de‐emancipatrice e ri‐plebeizzante, sono opportunamente silenziate, a partire dai media nazionali fino alla stampa locale, oppure strumentalizzate in chiave negativa e denigratoria dei lavoratori stessi. Non altrettanto può dirsi per le false opposizioni e le loro iniziative, utili al sistema per distrarre l’attenzione dalle questioni fondamentali dell’epoca. Le false opposizioni, anche se non sempre godono di “buona stampa”, non subiscono certo la congiura del silenzio che è riservata alle lotte sindacali, alle proteste sul territorio, agli scioperi e alle manifestazioni dei lavoratori, ed infatti, si parla del “popolo viola” che vorrebbe fare una nostrana “rivoluzione colorata”, simile a quella ucraina o georgiana benedette dall’amministrazione USA, delle liste elettorali del comico Beppe Grillo che strapperanno voti e seggi al Pd e porteranno in parlamento una protesta virtuale, delle sfuriate e delle iniziative di quella IdV dipietrista interna al sistema politico che fa discendere ogni male da Berlusconi, o di Vendola che si propone come leader dell’ala sinistra filo‐capitalista, ma non si parla, se non per denigrare, accusare di illiberalità o addirittura di “squadrismo”, delle iniziative di lotta concrete, sul territorio, dei lavoratori e delle motivazioni più profonde che animano questi resistenti. In ciò, tutte le televisioni, tutti i canali d’informazione “ufficiale” e tutti i gruppi editoriali sono uguali, “normalizzati” e aderenti ai sovrani interessi del capitalismo contemporaneo, dai quali non è permesso prescindere e i quali informano, sempre più capillarmente, le linee editoriali e l’autocensura del clero mediatico‐
giornalistico. 125
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2 giugno 2010
Mentre il popolino vestito di viola, i grillini ed altri “arrabbiati” sbraitano periodicamente nelle piazze contro Berlusconi o assumono iniziative superficiali, fuorvianti, del tutto secondarie, destinate a non avere un impatto decisivo sull’ordine politico e sociale impostoci, se dovesse montare la vera protesta sociale, con riflessi politici concreti e con la nascita di un vero e proprio movimento antagonista, non si potrebbe più procedere così spediti sulla strada della flessibilizzazione selvaggia del lavoro, della precarizzazione esistenziale e della compressione dei redditi dei subalterni, che poi sono le cose che contano e che caratterizzano, da un punto di vista sociale e culturale, il modello di capitalismo in essere e ne garantiscono la riproduzione. Accanto alle menzogne mediatiche sulla ripresa economica – che può significare soltanto la ripresa delle rendite finanziarie e dei profitti, in quadro capitalistico senza ridistribuzione della ricchezza – appare ormai chiaro che la crisi non ha comportato una revisione in senso keynesiano delle politiche economiche e sociali, per quanto moderatamente e timidamente riformista, tale da non compromettere interamente il potere del capitale finanziario, ma ha consentito ai gruppi globalisti dominanti di “premere sull’acceleratore” per velocizzare lo spietato processo di ristrutturazione sociale in corso. Se le strutture globaliste europee, come è ormai chiaro, puntano a prendere il controllo dei paesi del vecchio continente, ricattati con le sanzioni, tagliando selvaggiamente salari e pensioni, Marchionne da Pomigliano in poi ha “dato una scossa”, sempre in senso globalista e peggiorativo, non solo alle relazioni industriali in questo paese per un nuovo e più intenso sfruttamento di un lavoro senza diritti, ma anche a coloro che covavano residui di speranza per la ripresa di un possibile, futuro percorso di emancipazione dei subalterni. Dietro lo spettro della “competitività” a livello globale, si nasconde lo scontro che fra un po’ sarà senza quartiere fra i gruppi di potere globalisti, con i gruppi occidentali il cui potere è minacciato dagli “emergenti”, intendendo con questa espressione non certo gli operai cinesi o indiani – che sono vittime nello scontro planetario quanto noi – ma la dirigenza del partito comunista cinese, i nuovi miliardari cresciuti all’ombra delle riforme capitalistico‐mercatiste orientali denghiane e i magnati indiani. Pressoché tutta la piccola politica interna al sistema, senza distinzioni anacronistiche fra destra e sinistra, nonché i sindacati gialli e compiacenti, gli organi di stampa, le televisioni, convergono con Confindustria [e con Marchionne] nell’affondo finale al lavoro, ed assediano l’unica forza rimasta in Italia, cioè la Fiom all’interno della CGIL, che guida la vera protesta sociale, politica e sindacale. Gli eventi di questi ultimi giorni confermano che la posta in gioco è alta, e che con o senza Berlusconi – rimosso il quale tornerà il sereno, come si cerca di far credere – Confindustria, Marchionne, sindacati proni, la piccola politica e loro collegati non 126
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la smetteranno fin tanto che non avranno piegato totalmente i lavoratori, riducendoli a meri fattori della produzione o a dei moderni iloti di proprietà delle aziende, naturalmente per “competere sul piano globale” e garantire lo sviluppo. Ciò rivela il ruolo che in questa divisione internazionale del lavoro è stato assegnato all’Italia dai grandi centri finanziari anglo‐americani, dei quali tutti, dall’esecutivo Berlusconi‐Lega alla sinistra parlamentare sono in qualche modo tributari. Un ruolo marginale, all’interno degli steccati delle produzioni tradizionali, per giocare il quale servono soprattutto lavoratori dequalificati e sottopagati, e soprattutto sottomessi. La concorrenza con la Cina – il vero incubo capital‐mercatista di questo inizio di millennio, sembra che si faccia sempre e soltanto sul costo del lavoro e sui diritti dei lavoratori, violando sistematicamente la stessa costituzione formale. Per questo si erigono recinti normativi, con la complicità del governo in carica, con l’aiuto determinante dei falsi sindacati e della sinistra neoliberista, in cui relegare lavoratori che non hanno più la qualità di cittadini, ma quella di qualsiasi altra materia prima o semilavorato da utilizzare assieme agli altri nel ciclo produttivo. Il giorno 29 settembre è stato siglato l’accordo separato fra la Confindustria e Fim‐
CISL e Uilm‐UIL compiacenti per derogare a tutti gli istituti del contratto nazionale di lavoro, con la scusa del contenimento degli effetti economici e occupazionali [ironia probabilmente voluta, questa ultima] derivanti da situazioni di crisi aziendale, attraverso specifiche intese modificative. Solo una minoranza particolarmente “illuminata” ha colto la gravità di questo accordo, siglato in barba al sindacato italiano maggiormente rappresentativo, dato che quello che era il plafond minimo, il contratto collettivo nazionale di lavoro, attraverso la prassi delle deroghe diventerà il massimo ottenibile dai lavoratori, essendo certi che ovunque, all’interno degli organismi aziendali e con il supporto dei sindacati gialli firmatari, si derogherà abbondantemente, erodendo il potere d’acquisto di salari e stipendi e rendendo inoperanti i diritti fino ad ora riconosciuti. Le “Organizzazioni sindacali stipulanti”, come risulta dal testo del famigerato accordo, sanno bene quello che fanno e sanno cosa significherà tutto questo per i lavoratori. In pratica, dopo aver diffuso il lavoro flessibile e precario, particolarmente fra le nuove generazioni “colonizzandole culturalmente” e precarizzando la loro intera esistenza, si flessibilizza il lavoro regolare, soggetto ai contratti a tempo indeterminato, quanto ad orari, ritmi, condizioni, straordinari, malattia, pause, eccetera. Come precisato in apertura, le manifestazioni dei lavoratori e gli scioperi, guidate da quegli “estremisti” della Fiom e dell’Area Programmatica CGIL [alla quale 127
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2 giugno 2010
aderiscono impiegati pubblici, insegnanti, bancari, altro che “estremisti” o sovversivi patologici!], sono spesso ignorati a tutti i livelli dai media italiani, oppure connotati negativamente quando i lavoratori osano alzare, sia pur di poco e simbolicamente, il livello della protesta. I lavoratori che manifestano per la difesa del posto di lavoro – che in certi casi vale poco più di mille euro netti mensili – rappresentano un pericolo maggiore dei centri sociali o degli stessi black bloc, per la stabilità sistemica, e perciò ogni loro atto di ribellione, anche se pacifico, è criminalizzato duramente, in quanto non è permesso mettere seriamente in discussione il modello. Alcuni esempi? I lavoratori della Same di Treviglio e i metalmeccanici di Livorno sono assurti ai “disonori” delle cronache non perché hanno aggredito e bastonato datori di lavoro e sindacalisti venduti, non perché hanno aderito alla “critica delle armi” nelle situazioni sempre più disperate in cui versano soprattutto gli operai, ma soltanto per il lancio di qualche uovo, accompagnato da qualche insulto, contro la locale sede della CISL, per quanto riguarda i primi, ed anche contro la sede di Confindustria per quanto riguarda i secondi. La stampa prezzolata ha subito approfittato per parlare di “squadrismo”, di estremismo, per diffondere una sorta di allarme, come si trattasse di gravissime violenze. Sul Corriere della Sera di ieri, 4 di ottobre, per fare un solo esempio qualificante, il pennivendolo‐servo Dario De Vico, nell’articolo «La Fiom e la strategia delle uova», stigmatizza i “cattivi” della Fiom e i “cattivi” operai che seguono questa nuova ed indesiderata forza extraparlamentare, nel tentativo – secondo De Vico condannabile perché non ci sono di mezzo i suoi sontuosi compensi e i suoi ingiusti privilegi – di ostacolare l’armoniosa collaborazione instauratasi fra Confindustria e sindacati compiacenti, che sola potrà assicurare “competitività” delle strutture produttive nazionali ... naturalmente riducendo all’impotenza ed infine rinchiudendo in una gabbia d’acciaio i lavoratori. Per quanto riguarda il silenziamento giornalistico delle iniziative dell’unico sindacato rimasto e di tutti i lavoratori consapevoli della situazione, posso portare brevemente il caso di Trieste, per far comprendere a chi ancora non l’avesse intuito come funzionano le cose. Giovedì 29 settembre la Fiom ha indetto uno sciopero di otto ore, a Trieste, nel locale stabilimento di una delle maggiori industrie metalmeccaniche della Venezia Giulia, la Wärtsilä Italia, di proprietà di un gruppo finlandese, che produce grandi motori ad uso navale. Per quanto allo sciopero abbia aderito almeno il sessanta per cento dei dipendenti, non una sola riga è comparsa sui giornali locali a titolo d’informazione, e questo a partire dal quotidiano Il Piccolo, che è il più venduto nella zona. 128
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Il giorno dopo, 30 di settembre, la direzione provinciale della Fiom si è riunita in una piazza di Trieste per un incontro pomeridiano aperto alla cittadinanza, che ha avuto un discreto successo in termini di partecipazione ed ha attirato molti triestini per la concretezza dei temi trattati. Anche in tal caso, non una sola riga sui quotidiani locali, con il chiaro intento di “oscurare” anche questa iniziativa. In entrambi i casi non si è avuto un solo incidente, trattandosi di manifestazioni ordinate e civilissime [alla seconda ho partecipato anch’io], e perciò, non potendo essere strumentalizzate mediaticamente in chiave negativa, non potendo procedere alla solita “criminalizzazione” dei partecipanti, in assenza di slogans coloriti e di immancabili lanci di uova, si è provveduto a silenziarle, a non far trapelare nulla che le riguardava. Ciò che non viene raccontato in video, in voce o sulla carta stampata, non è mai accaduto, praticamente non esiste. Che dire, se questo è il clima, e come si può riassumere in breve la situazione? Giornalisti e intellettuali sono schierati per ben oltre il 90% con il potere vigente, appoggiano le manovre precarizzanti e flessibilizzanti, sono disposti a legittimare qualunque nefandezza esclusivamente per mantenere i loro privilegi e il loro status, fregandosene delle sofferenze che il prossimo futuro riserverà alla grande maggioranza della popolazione. Non c’è più alleanza – tanto per scrivere una cosa ovvia, talmente ovvia che si potrebbe tranquillamente omettere, fra quella che è la critica sociale al sistema e la critica intellettuale, da taluni chiamata “artistica”, questa ultima ormai assorbita quasi per intero negli apparati ideologici neoliberali e globalizzanti. In altri casi, quando non ci sono “pericoli estremistici” e supposte violenze da paventare [lanci di uova? Lanci di insulti meritati?], le notizie passano sotto completo silenzio anche sulla stampa locale, che dovrebbe essere attenta a tutto ciò che si muove sul territorio segnalandolo ai lettori. Un’ultima considerazione di seguito, che non chiude il cerchio, ma completa un poco il fosco quadro generale. Giovedì 29 settembre, durante la notte, si è consumato un ambiguo attentato a Belpietro, berluscones di rango e direttore del berlusconiano Libero. Questo attentato, è stato attribuito ad un ignoto, il quale è fuggito nonostante sia stato intercettato sulle scale del condominio dal capo scorta di Belpietro, quando il direttore di Libero già al sicuro nel suo appartamento. Un paio di colpi in aria, da parte del capo scorta, e poi la fuga dell’ignoto attentatore, che portava una camicia grigia e le mostrine della guardia di finanza. Tralasciando le incongruenze che caratterizzano la versione dell’oscuro episodio data dal capo scorta, per lo scrivente si tratta di un falso attentato senza conseguenze, che forse sarà seguito, nel prossimo futuro, da episodi simili, volti a 129
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diffondere la “sindrome terroristica” nella popolazione, tale da giustificare interventi repressivi diretti essenzialmente contro coloro che ancora animano la vera protesta, quella sociale. Anzi, non è escluso che possa essere sacrificato un VIP di seconda scelta, come passo successivo e se le agitazioni dei lavoratori – guidati dalla Fiom e dalla parte più combattiva all’interno della CGIL – dovessero riprendere vigore nel paese, in tal caso non si tratterebbe certo di un atto senza conseguenze, ma di un’azione violenta atta a drammatizzare il pericolo terrorista e a renderlo più concreto … Quindi, come ha scritto il filosofo politico Antonio Gramsci all’inizio del Novecento, «Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo», riscoprite la parola conflitto, ricomponete in forma nuova le solidarietà di classe fra i subalterni, vincete la paura e l’inerzia per una nuova e partecipata stagione di antagonismo ed emancipazione, ma in modo responsabile, con prudenza e attenzione, dati gli inquietanti segnali che fin d’ora ci giungono. 130
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Verso Roma 20 ottobre 2010 Venerdì notte, andando verso Roma da Trieste e dal Friuli, sul treno speciale della Fiom in cui si concentrava la vera opposizione politica e sociale del nord est. Un viaggio di almeno otto ore, fra discussioni, canti, musica e qualcuno che cercava a tutti i costi di dormire. Si sapeva che i partecipanti alla manifestazione di sabato 16 ottobre sarebbero stati tanti, e si intuiva che non poteva trattarsi di un’ordinaria adunata sindacale. Ed infatti, è stato molto di più. Tempo fa, quando dicevo o scrivevo che soltanto la Fiom, nel desolante panorama italiano, avrebbe potuto rappresentare il nucleo di aggregazione di una nuova opposizione integrale a questo capitalismo, ai suoi modelli, alla sua spietata organizzazione del lavoro, ai suoi miti fuorvianti che generano soltanto ostilità fra le persone e i gruppi ed imbarbarimento nella società, molti aggrottavano le ciglia, alcuni mostravano sorpresa, altri scuotevano la testa, come se si trattasse di una bizzarria. Il sindacato – questa era la motivazione addotta per blandirmi, non può sostituire il partito, non si presenta alle elezioni, non elegge deputati, non vota le leggi. Motivazione ingenua, perché una crisi complessiva come quella che stiamo vivendo, che oltre ad essere economica è anche crisi di civiltà, può far nascere “sul campo di battaglia” soluzioni nuove, e così, andando oltre la separazione gramsciana fra partito e sindacato che poteva avere un senso politico e sociale nel Novecento, una forza come la Fiom, coesa e non disposta a capitolare davanti al “nuovo” che avanza travolgendoci [leggi, davanti al rullo compressore della “globalizzazione senza veli”], può favorire con la sua resistenza propositiva il coagularsi di unʹinedita opposizione, fuori della trappola mortale rappresentata dalla liberldemocrazia e dai suoi riti. Non si tratterà, per come la vedo io, di un vago aggregato, vistosamente eterogeneo, sottilmente moltitudinario e figlio di una situazione politico‐sociale molto frammentata, sulle soglie del caos. Al contrario, sarà un fronte del Lavoro materiale e intellettuale esterno a quella “sinistra di sistema” che ha archiviato definitivamente la questione sociale, e non si costituirà come un “blocco granitico” guidato da un capo carismatico, ma come un movimento‐partito‐sindacato nato dal basso, da un vero consenso di massa, che dovrà strutturarsi rapidamente, prima che gli eventi precipitino del tutto. Ritorna, lo possiamo già affermare mettendo da parte un’eccessiva prudenza, la lotta di classe pur in forme diverse da quelle del passato, per ora timidamente ma in futuro con prepotenza, frapponendosi fra il capitalismo transgenico finanziario e il controllo huxleyano/ orwelliano dell’intera società. 131
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2 giugno 2010
Venerdì notte, sul treno non c’era il cosiddetto “paese reale”, che è soltanto un’espressione ipocrita usata dalla politica minore italiota, ma il paese vero, fatto di carne e di sangue, quello che non accetta la rassegnazione che gli è imposta giorno dopo giorno, quello che respinge il ricatto di un nuovo capitalismo che vive di ricatti, quello che si indigna ascoltando le piccole tacche dell’epoca asservite totalmente a questo capitalismo, come i Bonanni, gli Ichino, i Brunetta, i Sacconi. I corpi e le anime compongono il paese vero, ne costituiscono l’essenza, e nel contempo rappresentano una forza in grado di rimettere la storia in movimento. Credere in ciò non significa essere fuori della storia, confinati irrimediabilmente in un passato che non può tornare, come vorrebbero far credere gli interessati predicatori e cantori della globalizzazione neoliberista, ma significa, al contrario, cercare di dirigere le correnti storiche verso un’altra società possibile. La manifestazione di sabato è stata vigliaccamente e preventivamente criminalizzata dagli organi di informazione di regime, dal governo, dai sindacati gialli, dalla stampa addomesticata, perché costoro temono come la peste la partecipazione e il giudizio dei lavoratori. Tutta la parte peggiore di questo paese, quella più spregevole e senza scrupoli – da Maroni a Bonanni – si è prodigata per paventare rischi di disordini, di scontri, di atti teppistici, di vandalismi, nel contempo annunciando una partecipazione ridotta, di poche decine di migliaia di unità e riconducibile a non meglio identificate minoranze di “estremisti”. Lo spettro delle uova, neppure marce, lanciate contro i covi dei sindacati gialli – nella veste di nuovi mercanti di schiavi che fiancheggiano questo capitalismo – è diventato il simbolo di uno squadrismo inesistente, inventato dai media di sistema per delegittimare la sacrosanta protesta sociale. Si comprende bene, a tal punto, dove sta la vera e l’unica opposizione in questo paese. Ma non serve arrivare ai centri di potere politico o confindustriale per constatare l’ostilità nei confronti della Fiom, di ciò che rappresenta e degli stessi manifestanti, visto che in certi blog finti alternativi, ma in realtà filo‐berlusconiani e filo‐leghisti non dichiarati, come ad esempio in uno dei peggiori della serie, battezzato pomposamente Conflitti e Strategie, sono comparsi a cura del “guru” di turno [tale glg] commenti del seguente tenore: «Attorno alla Fiom non si coagula nulla di buono, le manifestazioni saranno una sempre più brutta copia delle altre che abbiamo visto fin qui. Portano solo caos a favore dellʹammucchiata di sinistra (con centro e spezzoni di destra) che è quella del ʺpiù alto tradimentoʺ, che ha colorazione tendenzialmente ʺviolaʺ (e non mʹinteressa se non verrà inalberato tale colore, sto dicendo il significato reale di queste manifestazioni nel contesto in cui si muovono, quello di tanti tori che vedono rosso appena sentono ʺBerlusconiʺ). Non mʹinteressa se ci saranno anche 10 milioni di persone. Chi non lo capisce, per quanto mi 132
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riguarda è pericolosissimo, anche se sapessi che è buonissimo e morale e pieno di ʺsocialitàʺ. Non capisce un cazzo di chi sta favorendo con le sue lotte destinate a rimanere solo caotici fermenti, [...] Perciò spero che la manifestazione, se supererà i livelli di una pacifica dimostrazione, venga brutalmente repressa e dispersa. E’ scandalosa un’affermazione del genere? [...]» Parole ancor più dure e inaccettabili di quelle di Libero e de Il Giornale contro coloro che lottano per il lavoro e il futuro dei figli, come dire che al peggio non c’è limite, che l’ipocrisia non conosce confini, e che contaminazione e idiotismo arrivano fin nei più remoti angoli della rete. Parole indubbiamente peggiori di quelle dette dal ministro degli interni Maroni, alla vigilia della manifestazione di Roma, il quale evocava il rischio rappresentato da fantomatici «gruppetti che staccandosi dal corteo vanno a spaccare le vetrine. Gli stessi servizi dicono che è una occasione troppo grossa quella di infiltrarsi al corteo della Fiom.» Ebbene, non si sono visti i soliti gruppetti dediti al vandalismo e non c’è stata alcuna ghiotta occasione per bastonare a sangue – in una catarsi di violenza filo‐
capitalistica, soddisfando i desideri di Maroni, del glg di Conflitti e Strategie e di molti altri loro simili – i civilissimi manifestanti e militanti della Fiom. Ma questo clima oppressivo e soffocante che avvertiamo intorno a noi, era ed è il clima dell’epoca, il filo neppure troppo sottile che unisce i berluscones a Confindustria, i leghisti agli evasori fiscali, i pidiini alla Cisl. Sappiamo che in questo inizio di millennio i nemici sono molti e potenti, arroganti e baldanzosi, ben foraggiati dal capitale finanziario, disposti alla menzogna ed al silenziamento della protesta con ogni mezzo. Costoro si prostrano senza riserve davanti ai dogmi del capitalismo del terzo millennio e ne accettano l’assolutismo. Convergono da ogni recesso del sistema nel portare l’attacco alla Fiom, nel tentativo di separarla dal paese vero, dalle persone reali e dal lavoro vivo, impedendo una saldatura che potrebbe rivelarsi per loro letale. Sono tutti dalla stessa parte, dai sindacalisti gialli ai leghisti delle gabbie salariali, dagli impresari locali, avidi di profitto e privi di un orizzonte di sviluppo, ai manager globalisti come Marchionne che giocano con le esistenze degli operai, serbi, polacchi e italiani, dai liberalsocialisti che applaudono le “modernizzazioni” e la flessibilizzazione del lavoro ai finti alternativi, che ci insultano cinicamente e si augurano che ci bastonino [vedi come esempio estremo Conflitti e Strategie]. Ma non tutto è perduto e non tutto è “normalizzato”, omologato, idiotizzato, se c’è chi non si rassegna al dopo Cristo di Marchionne, popolato dagli incubi della de‐
emancipazione di massa e dalla guerra fra i gruppi finanziario‐globalisti, e c’è ancora, in questa società prostrata, chi è disposto a rischiare le “cariche di alleggerimento” della polizia sopportando tutte le conseguenze del caso. 133
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Il treno speciale della Fiom partito da Trieste era pieno, quella notte, ma non di “squadristi” da operetta armati di uova della Conad in una surreale marcia su Roma, bensì di militanti che avevano la consapevolezza di vivere un momento storico importante, di essere ad un bivio dal quale si dipartono due strade, l’una che porta alla vittoria per tutto il secolo del capitalismo finanziarizzato a dimensione globale ed alla costruzione del suo allucinante dopo Cristo, fatto di lavoratori poveri e di ineguaglianze sociali enormi, e l’altra che porta alla resistenza dell’intero corpo sociale, alla Rivoluzione ed alla possibilità della liberazione. In assenza di reazioni, accettando queste dinamiche sistemiche come inevitabili, deponendo le armi davanti alla piccola politica, all’aggressività di Confindustria, agli inganni del sindacalismo giallo, non resterà che percorre a testa bassa la prima strada, ed allora sì che dovremo vergognarci, davanti a noi stessi e davanti alle future generazioni. Venerdì notte, sul treno che andava verso Roma, eravamo coscienti che non era e non sarà una mera battaglia sindacale – contro il famigerato “contratto leggero” come surrogato del contratto nazionale di categoria, contro l’infamia dell’arbitrato che mette la parte più debole alla completa mercé della parte più forte, contro il nuovo regime disciplinare capitalistico di “Fabbrica Italia” –, ma di un’autentica battaglia culturale e politica, ben oltre i confini del ruolo storico del sindacato. Certo, bisogna saper cogliere il momento storico favorevole, organizzarsi e lavorare duramente senza aspettare l’evento esterno risolutivo come se fosse la manna dal cielo, ma tutti noi speravamo – essendo uomini e non macchine da lavoro come auspicato da Marchionne e dai suoi sodali – almeno per una volta in un pizzico di fortuna, di buona sorte, ben sapendo, però, che «la fortuna è come vetro: come può splendere così può frangersi» [«Fortuna vitrea est; tum cum splendet, frangitur», Sentetiae, Publilio Siro]. E la fortuna, una volta tanto ci ha sorriso, con un’enorme partecipazione di singoli, di gruppi e di movimenti, ben oltre l’avanguardia dei militanti Fiom, e ci ha regalato una giornata senza incidenti, senza lacrimogeni, senza “cariche di alleggerimento” e vetrine infrante. Lo stesso Guglielmo Epifani, così attendista, possibilista e prudente ha dovuto prendere atto della situazione ed ha promesso lo sciopero generale per il 27 novembre. Poi il balletto dei numeri, da quelli falsi e addirittura ridicoli – ottantamila dichiarati dalla questura per star sotto ai centomila fatidici assegnati alla precedente manifestazione dei gialli, a quelli più realistici che approssimano il milione. Con rabbia e abituale vigliaccheria, il nemico ci ha accusati di aver fatto una manifestazione politica. 134
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Lo stesso refrain e accuse simili da Sacconi, il macellaio sociale incaricato del welfare [ironia della sorte], a Bonanni, che in futuro vedremo esclusivamente “indoor” per evitare il rischio del contatto diretto con i lavoratori. Ebbene sì, si può ed anzi si deve ammettere con un certo orgoglio: c’era la politica a Roma, sabato 16 ottobre, ma la politica autentica, partecipata, che nasce dalle istanze del paese vero, quella che finalmente, almeno per un giorno, ci ha restituito non un paese rassegnato, idiotizzato e attraversato dalla paura, come lo vorrebbero sia il governo sia la Confindustria, ma un’Italia che vuole risorgere e che si fa sentire. Quello che mancava, in Piazza San Giovanni, era la piccola politica dei circoli parlamentari, fatta di clientele, di familismo amorale o immorale e di favori, quella dei salotti equivoci in cui si mescola con gli “affari” o addirittura con gli interessi della criminalità organizzata, e quella posticcia dei cartelli elettorali [Pd e PdL, tipicamente] progressivamente svuotati di contenuti e rappresentanza, se mai li hanno avuti. Certi di aver vinto almeno una battaglia – quella della partecipazione – al punto tale da poter controbattere alle menzogne del nemico con un secco e sprezzante “contateci!”, come nella canzone diciamo Grazie Roma, rivolgendoci a quella Roma che ci ha ospitati, ai romani che hanno seguito i cortei e applaudito, a quella Città troppo spesso insolentita da gentaglia della fatta di Umberto Bossi. Ritorneremo a percorrere le sue storiche strade, come la Via dei Fori Imperiali, ad occupare pacificamente le sue piazze per i comizi, a invadere le sue stazioni, da Termini a Ostiense, ancor più numerosi e motivati di quel che eravamo sabato 16 ottobre. Ritorneremo, perché in fondo l’esito della lotta dipende da noi. 135
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2 giugno 2010
Società e Movimento 25 ottobre 2010 La nostra è già, irreversibilmente, una società di mercato prodotta dalle dinamiche neoliberiste e dai processi di globalizzazione, oppure la transizione dai vecchi assetti sociali ai nuovi è ancora in corso e il periodo che stiamo vivendo è un tormentato ed incerto interregno, in cui l’affermazione del nuovo ordine può ancora essere messa seriamente in discussione, attraverso la resistenza propositiva della classe povera del terzo millennio? Per quanto non sia facile rispondere a questa domanda, chi scrive propende con decisione per la seconda ipotesi, ed infatti le resistenze, gli scioperi contro la rischiavizzazione del lavoro, i blocchi nei rifornimenti energetici, le conseguenti repressioni, si estendono dalla Grecia alla Francia, dalla Spagna all’Italia, con un’estensione delle proteste fino in Nuova Zelanda. Queste reazioni ad una situazione socialmente sempre più intollerabile, per quanto frammentate ed ancora insufficienti, mantengono in vita una speranza che altrimenti non avrebbe alcuna ragion d’essere. E’ ancora d’attualità ciò che disse, a suo tempo, Karl Marx, e cioè che «la crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno», perché esistono dei limiti fisici e psicologici alla compressione in termini materiali dei subordinati e alla loro manipolazione, delle soglie invalicabili di esproprio che neppure questo capitalismo, il quale sta raggiungendo l’apice della propria potenza e il culmine della propria trasformazione storica, potrà superare restando indenne. Ed è di una certa attualità, particolarmente per quanto riguarda il caso italiano, ciò che scrisse nel 1922 su Ordine Nuovo Amedeo Bordiga: «Quando si dimostrerà che anche lʹesperienza di un governo di sinistra della macchina statale borghese non fa fare un passo alla soluzione di quei problemi vitali per i lavoratori, allora lʹazione di grandi masse sulla rete di lavoro e di organizzazione da noi tracciata, si svolgerà efficacemente sulle vie rivoluzionarie [...]» Se ad Atene si occupa l’Acropoli, simbolo remoto di tutta la civiltà occidentale, nella Francia di Sarközy si bloccano i rifornimenti di carburante, minacciando di lasciare l’intero paese all’asciutto, mentre in Italia la vera opposizione politica e sociale inizia a radunarsi sotto le bandiere di un sindacato, la Fiom, ed elementi insurrezionali si insinuano nella protesta di popolo, alle pendici del Vesuvio e nei paesi prossimi al parco naturale, contro le discariche di rifiuti brutalmente imposte alle comunità. Elementi insurrezionali si manifestano in contemporanea con tentativi di organizzazione della protesta anticapitalista e di costituzione del Nuovo Movimento, ed una tendenza dissolutrice, che non lascia spazio ad alcun progetto futuro, convive con il senso di responsabilità di quanti si impegnano a creare il 136
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nuovo, partendo da quel tanto di strutture e gruppi antagonisti che ancora sopravvive. E’ sintomatico di una situazione sociale che tende ovunque a diventare intollerabile che il giorno 16 di ottobre c’è stata in Italia la pacifica ed oceanica manifestazione di Roma indetta dalla Fiom, politica nel senso più proprio del termine e non puramente sindacale, il 19 ottobre la Francia si è fermata per lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni, e nella stessa settimana sono scesi in campo quindicimila lavoratori neozelandesi, a molte migliaia di chilometri di distanza. Le ostilità si sono aperte a partire dai vecchi stati nazionali, dall’Europa mediterranea fino agli angoli più remoti del cosiddetto mondo occidentale, ma per ora non c’è un coordinamento della protesta che riesce a superarne i confini e a “sincronizzare” le azioni di lotta. Su questo punto cruciale, con riferimento al vecchio continente, sappiamo bene che lʹUnione Europea non è uno spazio politico autentico, accessibile a tutti noi, ma una creatura globalista, mascherata e neppure troppo bene da unione di popoli consenzienti, la cui funzione è di imporre certe politiche agli stati nazionali e garantire, nel contempo, l’allineamento dell’Europa con i centri di potere nordamericani. Ma sappiamo altrettanto bene che nei singoli paesi vi sono ragioni comuni di lotta antiliberista ed antiglobalista che la crisi rende sempre più evidenti, ed esiste, o esiterà in futuro, quando circostanze più drammatiche lo imporranno, una possibilità di aggregazione sopranazionale. Il problema può essere posto nel modo seguente, partendo dal presupposto che «il nostro mondo può essere considerato come una struttura in uno spazio a infinite dimensioni, uno spazio dentro il quale noi e le nostre menti ci muoviamo come pesci nell’acqua» [Rudolf von Bitter Rucker, La quarta dimensione]. Se le soggettività antagoniste dimorano in uno spazio bidimensionale, e quindi nel piano, che rappresenta metaforicamente i singoli paesi in cui si muovono e manifestano i subordinati, ancora divisi dai confini e talora da rivalità nazionali, il Nemico si muove agilmente in uno spazio tridimensionale, e così in effetti fanno la UE, la UEM, la BCE, gli altri organi della mondializzazione come il FMI o il WTO, ma soprattutto quella classe globale che ne determina le politiche e i diktat in base ai suoi interessi privati. Il Nemico ci osserva dall’alto, tiene sotto controllo gli stati nazionali e le masse di subalterni come se fossero suoi strumenti, ha capacità di intervento nello spazio inferiore, ma non si vede chiaramente, e quindi non si riesce a combatterlo con efficacia. Il Nemico si muove in una dimensione superiore a quella dei resistenti‐antagonisti, e sappiamo bene che uno spazio con una dimensione in più non può essere visto da 137
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chi dimora nella dimensione inferiore, ma solo descritto con l’uso di algoritmi, attraverso le formule matematiche. E’ proprio nella dimensione superiore che hanno preso forma le politiche globalizzatrici, ed è in questo empireo, inaccessibile alle masse, che sono stati pensati e generati gli strumenti di espropriazione finanziaria. Per tale motivo c’è una generale difficoltà nell’individuare il Nemico Principale, nel dargli un volto riconoscibile, nel tracciarne un preciso identikit, e questo a differenza di quanto accadeva nello scorso millennio, in cui il despota contro il quale si sollevava il popolo era riconoscibile e dimorava nel castello [si sapeva, in linea di massima, “dove andarlo a prendere”], mentre il capitalista‐proprietario aveva un nome, un cognome e un indirizzo. Il despota contro il quale si sollevava il popolo e il capitalista‐proprietario che estorceva il classico plusvalore si muovevano anche loro sul piano a due dimensioni, essendo interni all’organizzazione statuale e legando a questa le loro fortune e il loro potere. Superare lʹangusto piano, caratterizzato dalle due dimensioni rappresentate dallo stato nazionale e dalla classe antagonista interna allo stato, vorrebbe dire accedere alla terza dimensione, definita da tre coordinate: gli organi sopranazionali della mondializzazione che dettano le politiche e le strategie in nome e per conto della nuova classe dominante, gli stati nazionali che le trasmettono al loro interno, quale catena di trasmissione finale, e la classe antagonista [europea o planetaria] che le subisce. Se nelle due dimensioni ci si può muovere soltanto avanti/ indietro e a destra/ a sinistra, il Nemico che popola la terza dimensione dispone di “una marcia in più”, perché può spostarsi anche dall’alto verso il basso e viceversa, surclassando i subordinati senza che questi se ne accorgano. Accedere alla dimensione superiore – cioè aggregare la protesta a livello europeo o addirittura planetario, significherebbe poter vedere in piena luce il vero Nemico Principale, che a quel punto avrebbe grandi difficoltà a nascondersi, come ha fatto abilmente finora suscitando nemici immaginari o secondari, e vorrebbe dire combatterlo con qualche possibilità di successo nella sua stessa dimensione, cioè sul suo stesso terreno. In altre parole bisogna affrontare il Nemico nel suo spazio “superiore”, invadendolo. La metafora dimensionale potrà sembrare a qualcuno un po’ bizzarra, e così anche il riferimento ad un matematico, musicista e scrittore di fantascienza come Rudy Rucker, ma è un tentativo di chiarire con semplicità i motivi perché sino ad ora le lotte contro la de‐emancipazione neoliberista, rinchiuse entro gli angusti spazi nazionali, si sono rivelate generalmente inefficaci, non riuscendo a fermare il 138
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processo di sussunzione capitalistica di intere società e di intere aree economico‐
culturali nel mondo. Per la verità, c’è stato il movimento antiglobalista che ha dato l’impressione del superamento dei confini da parte della protesta, e dell’unificazione delle sue componenti sociali, culturali e nazionali, ma tale movimento si è rivelato effimero e scarsamente efficace, più simile ad un’occasionale “onda moltitudinaria” non riconducibile ad un’unica volontà politica che ad una vera sintesi planetaria dell’antagonismo sociale. Alla fine del primo decennio di globalizzazione spinta, con crisi economico‐
finanziaria incorporata, le cose sembrano essere cambiate, pur non potendo ancora osservare la tanto attesa “internazionalizzazione della protesta”. Per ora, si procede in ordine sparso, restando all’interno dei singoli paesi e in modo del tutto indipendente dagli altri gruppi e movimenti che altrove organizzano la lotta. In Francia un intero popolo, a partire dai lavoratori dipendenti, mostra di resistere davanti al rullo compressore della riforma delle pensioni, che altro non è se non l’ennesimo duro colpo inferto in Europa al welfare, ma lo fa in modo del tutto indipendente dall’Italia, in cui si consuma l’attacco generalizzato ai diritti dei lavoratori, e dalla Grecia soggetta alla dittatura finanziaria e monetaria degli organi sopranazionali. Eppure esistono centrali sindacali europee e mondiali, ed esiste un’evidente convergenza di interessi non soltanto fra gli operai italiani, quelli serbi e quelli polacchi vessati dal globalista Marchionne, ma fra questi e la “parte buona” del ceto medio declassato, e addirittura fra questi ed elementi della vecchia borghesia proprietaria, il cui mondo culturale e le cui prospettive future sono state distrutte dalla globalizzazione. Dal professore universitario precarizzato che rivendica i suoi diritti all’operaio della grande industria manifatturiera ridotto a “fattore della produzione”, dal pensionato di Terzigno, in Campania, costretto a manifestare contro le discariche di “monnezza”, al marginale che partecipa ai sommovimenti popolari in Atene, sembra di udire una sola voce che si leva contro questo capitalismo, una voce che si leva da soggettività in passato forse contrapposte, sul piano sociale come su quello politico, ma oggi impegnate in una resistenza alle dinamiche ultraliberiste purtroppo non ancora comune e ben organizzata. Vittime sacrificali della classe globale trionfante, abbandonati a sé stessi dai cartelli elettorali che hanno sostituito gli storici partici, beffati dai moderni sindacati “riformisti” che li usano come merce di scambio, lontani come non mai dalle cosiddette istituzioni, nessuno di questi gruppi ha una vera rappresentanza politica all’interno del sistema, cosa che possiamo facilmente osservare in Italia, paese in cui l’astensionismo elettorale, per decenni di dimensioni modeste, avanza ad ampie 139
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falcate fino a raggiungere [e forse a superare] gli alti livelli storicamente riscontrati nelle democrazie anglosassoni. Con riferimento al nostro paese, in cui il dilemma “Società e Movimento” antagonista presentato nel titolo è sembrato negli ultimi vent’anni irresolubile, in presenza di una progressiva disgregazione della società e in assenza di un Nuovo Movimento di opposizione sistemica, la data del 16 ottobre 2010, che è quella della manifestazione Fiom a Roma, assume già fin d’ora un alto valore simbolico, anzitutto in termini di aggregazione e partecipazione. Il 16 ottobre 2010 potrà segnare per moltissimi il momento del passaggio da una situazione di passività ad una nuova situazione di reattività organizzata, e potrà rappresentare il discrimine fra la rassegnata accettazione dei modelli neoliberisti e l’insorgenza concreta della protesta nel nostro universi cives. La Fiom diventa nella società italiana contemporanea il catalizzatore di una protesta che esce dagli steccati dell’attività sindacale, per aggredire finalmente la dimensione politica. Aggredire la dimensione politica, per ora a livello puramente nazionale, significa porre le questioni della rappresentanza di milioni di persone marginalizzate, della loro partecipazione al processo decisionale su materie che le riguardano, nonché delle alternative ai modelli politici, sociali ed economici vigenti. I Nemici sono il Mercato globale e la sua società, il paradigma da rifiutare è quello della creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica, e sul piano sociale l’avversario è la nuova classe dominante, composita e stratificata, che possiamo unificare con l’espressione di Global Class. Sullo sfondo c’è la formazione della nuova classe povera antagonista – la nuova Pauper Class postproletaria – destinata a subire i rigori del capitalismo transgenico finanziarizzato del terzo millennio. Questa classe è costituita non soltanto da operai [New Workers, il Nuovo Lavoro Operaio], ma da altre componenti significative, come i ceti medi novecenteschi ri‐
plebeizzati [Midlle Class Proletariat, che esprime il lavoro intellettuale dipendente nel pubblico e nel privato], dalla “parte buona” dei cosiddetti marginali [Under Class], non collusa con la delinquenza e le attività criminali, e addirittura da rappresentanze della vecchia borghesia proprietaria, a sua volta espropriata dai globalisti. La precarizzazione si estende dal lavoro manuale al cosiddetto ceto medio ed è sintomatica, nella formazione del “nuovo mondo” e nell’affermazione di un nuovo modo di produzione sociale, l’espropriazione della stessa borghesia, un tempo dominante e oggi “cannibalizzata” dai globalisti. Nel contempo, il lavoro operaio oscilla fra la minaccia dell’esclusione dal processo produttivo, con o senza l’anticamera della cassa integrazione, e la crescente invisibilità in termini di istanze e rivendicazione dei diritti. 140
Eugenio Orso
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Se grattiamo lo strato superficiale delle vecchie appartenenze e dei simboli novecenteschi, che in apparenza hanno caratterizzato e colorato la grande manifestazione di Roma del 16 di ottobre, affiorano queste nuove appartenenze e con loro un’inedita strutturazione sociale. Sotto le sigle ed i colori di numerosi soggetti e micro‐soggetti politici extraparlamentari che si definiscono comunisti, ecologisti, anti‐globalisti, decriscisti, si può certo nascondere un certo nostalgismo, ma questo sempre più spesso convive con la consapevolezza che è necessario costruire, e in fretta, un nuovo soggetto politico allargato, per non mancare il possibile appuntamento con la storia. Non si tratta, perciò, della “battaglia di retroguardia” di chi vorrebbe un ritorno al passato, né della protesta di gruppi di “estremisti” del tutto minoritari nel corpo sociale, secondo le accuse strumentali lanciate dal governo, dalla Confindustria e dai sindacati gialli, e tanto meno di un sostegno indiretto ai “morti viventi” della principale opposizione parlamentare, l’informe cartello elettorale del Pd, che aderisce alla visione neoliberista e, perciò, si è ben guardato dal partecipare alla manifestazione di Roma. Nuova strutturazione di classe, interessi convergenti fra il lavoro operaio e quello dei ceti medi ri‐plebeizzati hanno mosso, in quella circostanza, la partecipazione. Il movente economico e ridistributivo ha avuto una grande importanza, nella decisione di aderire alla manifestazione di Roma, ma non è certo l’unico, perché il disagio è ben più ampio e profondo. L’altro movente fondamentale è la ricerca di una rappresentanza politica, così come è posto bene in rilievo in un articolo, dal titolo Se la Fiom coinvolge il ceto medio, comparso in rete proprio in questi giorni: «Oggi non esiste unʹopposizione politica, ma non perché manchi lo spazio sociale per unʹopposizione; al contrario: non viene permessa lʹesistenza di unʹopposizione proprio perché questa, altrimenti, avrebbe a disposizione uno spazio sociale storicamente senza precedenti per vastità.» [http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=381] Una vera opposizione politica, in grado di esprimere alternative radicali in relazione alle politiche sociali, a quelle industriali, monetarie e finanziarie, non può esistere in una liberaldemocrazia dominata dal Partito Unico della Riproduzione Capitalistica e caratterizzata dalla politica come consumo, marketing, illusione mediatica. E’ per questo che il Nuovo Movimento d’opposizione, nella società italiana agli albori del terzo millennio, si costituisce fuori dei circuiti della politica liberaldemocratica, la quale lo nega e lo blandisce con ogni mezzo, applicando le tecniche del silenziamento, per nascondere la realtà sociale, e quelle della 141
Eugenio Orso
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disinformazione mediatica, quando non si possono nascondere gli eventi, le proteste popolari, le manifestazioni di disagio diffuso. Data la situazione con la quale dobbiamo fare i conti, in base all’analisi concreta della situazione concreta, non senza un piglio dal vago sapore leninista, appare chiaro che il Movimento non può che costituirsi intorno all’unico sindacato antagonista e combattivo del paese, caratterizzato da una storica militanza, mai venuta meno, e da strutture diffuse sul territorio. Quello che per Lenin è stato il partito dei rivoluzionari di professione, quale avanguardia della Rivoluzione, catalizzatore della protesta e guida per i subalterni, nel nostro tempo potrebbe essere il Sindacato‐Movimento, in cui le rivendicazioni salariali, per un’equa distribuzione del prodotto e per invertire la rotta dopo due decenni di espropriazione mercatista, si fondono con la richiesta di partecipazione al processo decisionale strategico‐politico, in cui le istanze operaie si armonizzano con quelle dei ceti medi declassati, ed in generale con quelle delle altre componenti della classe povera del futuro. Un sindacato immarcescibile quello degli operai e degli impiegati metallurgici – classe 1901 e perciò ultra‐centenario, da sempre in prima linea nel difendere i lavoratori ed il diritto alla partecipazione e al lavoro, ed oggi vero catalizzatore della protesta in tutti i suoi aspetti. Se il gioco dei potentati locali – dalla maggioranza di governo all’opposizione formale del Pd, dagli industriali affamati di denaro pubblico alla centrale sindacale gialla della CISL – è quello di isolare la Fiom per ridurla a più miti consigli, sappiano, questi ascari della classe globale, che saranno loro ad essere isolati dal nuovo che emerge nella società italiana, rischiando di trascinare con sé, nella caduta, le stesse istituzioni statuali che hanno occupato e screditato. Il Nuovo Movimento è forse l’unica speranza che ci rimane, per non sprofondare definitivamente, a milioni, nelle bassure e negli inferi della postmodernità capitalistica, in quel buco nero pronto ad inghiottirci che è la “globalizzazione senza veli”. 142
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Forza Alluvione! 10 novembre 2010 Questa mattina, a Trieste e dintorni, piove a dirotto. L’acqua continua a cadere ed è straripato qualche torrente in provincia di Udine, con qualche problema in più nel Friuli orientale, ma è soprattutto il Veneto, quello della Lega, della mitizzata PMI e del passato miracolo del Nord Est, a finire malamente sott’acqua. E’ come se all’originaria prosperità si fosse sostituito, materialmente e simbolicamente, il diluvio: quello molto concreto della pioggia scrosciante di questi giorni, e l’invisibile diluvio, produttivo, economico, sociale, suscitato dalla concorrenza cinese, dall’arretratezza della piccola industria italiana, dalla crisi conseguente del Made in Italy, e dalla riduzione dei consumi interni. Non è certo un diluvio universale, ma è soltanto un fenomeno locale, un evento naturale, non privo però di implicazioni politiche, che si somma alla crisi in atto. Tuona il “governatore” veneto Zaia, ex cameriere di trattoria e attuale cameriere politico di provincia, che è necessario, per far fronte agli ingenti materiali danni dell’alluvione, tenere l’acconto irpef in Veneto, senza versare alcunché allo stato centrale. Ha già protestato, lo stesso soggetto, contro le attenzioni e i fondi da dedicare allo storico sito di Pompei, parte della nostra storia più remota ed oggi in pericolo per sopraggiunta incuria. Chissenefrega della storia e del comune patrimonio culturale! Quello che conta è che l’elettorato leghista tipico, zoccolo duro irrinunciabile del bossianesimo, è stato colpito dal piccolo Armageddon di questi giorni, e rischia di annegare, economicamente e … fisicamente. La pioggia e la paura non cessano, aumentano i danni e con loro si moltiplicano le reazioni scomposte, i lai, le richieste di intervento di chi ha sostenuto con il consenso l’asse Bossi‐ Berlusconi‐Tremonti. Berlusconi in persona, per un attimo distolto dal bunga‐bunga e dagli affari processuali privati, assieme ad Umberto Bossi con tanto di figlio scemo, Renzo Trota, ha visitato il Veneto, beccandosi bordate di fischi e accese contestazioni in particolare a Padova. Ormai le contestazioni si estendono dalla martoriata e irricostruita L’Aquila allo stesso Veneto, regione‐roccaforte xenofobo‐egoistico‐leghista dell’attuale maggioranza, e non sono inscenate soltanto dai terremotati che affrontano la polizia, ma dagli stessi “bottegai leghisti padani”, ossatura elettorale, nel mitico Nord Est produttivo, di un sistema di potere sempre più barcollante. E’ curioso osservare come lo “zoccolo duro” elettorale leghista e, in subordine, piediellino‐forzaitaliota, a lungo spacciato come quintessenza delle forze veramente 143
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produttive in Italia, sotto la pressione diretta di problemi molto concreti – migliaia di piccole aziende in malora e danni che forse raggiungono il miliardo di euro – inizia a ribellarsi e a contestare quello stesso, inefficiente governo che fino ad ora ha contribuito a tenere in piedi. Causa del disastro italiano, che è complessivo, dispiegandosi sul piano etico‐
politico oltre che sul piano sociale ed economico, sono loro stessi, i “cocchi” del governo berlusconian‐leghista ai quali l’evasione fiscale e contributiva è consentita, o meglio, anche loro ne sono la causa e fanno parte interamente del problema. Vogliono i soldi dal governo, ma fino ad ora non li hanno forse ricevuti, attraverso il voto fondato sullo scambio “piccola evasione contributiva e fiscale tutelata e garantita contro il consenso”, tipico del voto leghista e di quello forzaitaliota? Impresari di piccolo cabotaggio, commercianti ed altre simili figure che popolano il ricco Veneto, hanno persino ottenuto, dal Berlusconi che la Lega tiene letteralmente “per le palle”, il federalismo fiscale realizzato entro la fine dell’anno. Gran parte delle amministrazioni locali venete sono leghiste o pidiellino‐leghiste, a partire dall’ente regione. Stampelle di uno dei peggiori governi della storia d’Italia, questi individui, colpiti da una calamità naturale i cui effetti devastanti potevano forse essere attenuati da interventi pubblici mirati, sul territorio, ora sbraitano, piangono e si strappano le vesti per avere denaro da quello stato centrale che tanto hanno vituperato, magari togliendolo alla preservazione e alla tutela del patrimonio artistico, storico e culturale comune, in altre aree della penisola. Accanto agli ultimi crolli materiali e simbolici, dalla Domus Aurea neroniana alle vestigia di Pompei, quali simboli di malgoverno e incuria ai quali farà forse seguito il crollo finale del Colosseo, vaticinato da Nostradamus, l’alluvione sembra produrre lo smottamento del consenso al governo di Berlusconi e della Lega, l’ulteriore e decisiva perdita di credibilità, proprio nei luoghi in cui l’attuale cartello di maggioranza ha i suoi sostenitori più accaniti e convinti. Se l’Italia è veramente “costruita sulla sabbia”, come ha scritto nel suo best seller Gomorra il tanto celebrato e discusso Saviano, il problema non è certo limitato al solo meridione, e ciò è avvenuto anche a causa di questi individui, che tanto sbraitano o si lamentano nel momento in cui tocca a loro, poiché gli stessi hanno offerto un contributo sostanziale al sostegno e all’inazione dei governi cialtroni e incapaci, prevalentemente del cosiddetto centro‐destra, succedutisi in questi ultimi anni. Che poi questi individui rappresentino la parte produttiva del paese, e tutto il resto viva bellamente alle loro spalle, sappiamo che è una palese menzogna. Hanno costruito le loro piccole e meno piccole fortune personali, non soltanto sulla pratica ammessa e tutelata dell’evasione, ma anche sul lavoro degli altri, e cioè 144
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degli operai autoctoni, dei migranti meridionali, e recentemente su quello degli immigrati, regolari e irregolari, provenienti da altri paesi. Non di rado, si è trattato di lavoro nero, non tutelato, supersfruttato, e totalmente “informale”, a tutto vantaggio dell’imprenditore, o del possidente di terre. Me li ricordo, i “commendatori” veneti, quando passavano il week‐end a giocarsi al casinò i frutti del lavoro loro e di quello di molti altri nella Slovenia da poco diventata indipendente. Me li ricordo mentre si trastullavano con le escort dell’est che fu sovietico, affamate di soldi e all’epoca, in certi casi, affamate tout court, nei locali notturni, davanti ad una bottiglia di millesimé posticcio. Sull’arretratezza tecnologica che caratterizza buona parte PMI italiana, proprio non serve sprecare parole, trattandosi di un fenomeno ben noto da tempo, ed oggi, momento in cui tutti i nodi economici e produttivi stanno arrivando al pettine, ben visibile ed inquietante. Le imprese piccole e medie che si definiscono “di nicchia”, parte di terziari avanzati o avanzatissimi, sono molto poche numericamente, generano ben poca occupazione, e soprattutto, sono ben altra cosa rispetto alla generalità della PMI, perché del tutto inserite, come i grandi gruppi, nelle attuali dinamiche capitalistiche globalizzatrici. La PMI colpita dall’alluvione ha fatto le sue temporanee fortune, in passato, in seguito allo smantellamento della grande industria, pubblica e privata, in vari settori produttivi [dall’alimentare all’informatica], ed ha costituito la debole ossatura del sistema produttivo nazionale, in assenza di alternative migliori e di effettivo avanzamento tecnologico. I centri di potere finanziario globalisti, con sede in Nord America e giurisdizione sull’occidente, hanno decretato per l’Italia un futuro di produzioni tradizionali, a basso contenuto tecnologico, e la frammentazione [forse irrimediabile] del suo apparato produttivo, perché le produzioni “più avanzate” dovevano e devono confluire al centro. La PMI alluvionata che chiede contributi pubblici sembra già condannata, nel medio termine, dallo stesso punto di vista capitalistico contemporaneo, evasione o non evasione, incentivi di stato o disincentivazioni, Irpef trattenuta o versata, piogge torrenziali o sole splendente, perché la tanto invocata “competitività internazionale” non c’è più, se anche c’è stata in un passato ormai lontano, in altri contesti economico‐finanziari … Ma quello che più conta, è che coloro che un tempo gridavano cinicamente “Forza Etna!” o “Forza Vesuvio!” in occasione di eruzioni vulcaniche nel sud del paese, oggi sono travolti dall’acqua, dal fango, e dal malgoverno di un esecutivo cialtrone che loro stessi hanno strenuamente sostenuto. 145
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E allora noi oggi diciamo provocatoriamente “Forza, Alluvione!”, dando la nostra solidarietà esclusivamente ai lavoratori dipendenti di quelle terre, ai subordinati che non hanno nulla, al lavoro migrante, ammirando sempre e comunque la splendida Venezia. Sic Transit Gloria Padaniae. P.S.: chi scrive ha nonni, bisnonni e trisnonni paterni veneti, provenienti della zona di Bassano del Grappa. 146
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Roma 14 dicembre 2010: insurrezione? 15 dicembre 2010 Ore 20.00 del 14 dicembre, telefono dalla stazione delle corriere di Trieste ad un compagno di Roma del laboratorio di Comunismo e Comunità. Gli chiedo: come sta andando, da voi, a Roma? Lui mi risponde: Eugè, qui è un macello! Piazza del popolo, piazzale Flaminio, una parte del cuore della città è rimasto a lungo sotto stress, investito dall’onda d’urto dei disordini di piazza. Poi mi racconta, brevemente, di scontri che continuano in periferia, episodi forse isolati e legati al deflusso dei manifestanti, mi avverte che qualcuno ha notato strani figuri, con passamontagna o comunque “in borghese”, che nel pieno degli scontri si aggirano con tanto di trasmittente e di manette, mi parla di una situazione diventata improvvisamente esplosiva, tanto da far pensare a qualche intervento esterno, mirato, che ha favorito l’accensione della miccia, o che forse l’ha accesa direttamente. Provocazioni? Infiltrazioni da parte di “corpi speciali” fra i manifestanti? Manipolazioni della protesta per criminalizzarla? Forse … perché ci vuole qualcosa di più del semplice lancio di uova [di Conad o del Ildi] contro i covi dei sindacati venduti a Fiat, a Confindustria ed alla politica compiacente, o dei cori goliardici degli studenti durante i cortei, per criminalizzare la protesta, e con lei buona parte della società italiana. Ci vogliono almeno un centinaio di feriti, un blindato in fiamme e qualche automobile privata distrutta, per poter giustificare la futura repressione della protesta sociale. Mi tornano alla mente d’improvviso Nicolae Ceauşescu e la sua milizia segreta, la Securitate parallela, e se così fosse, non avrebbe più senso parlare del sistema di potere berlusconiano tenacemente in essere – per quanto assediato dai futuristi, dalle sedicenti e vili opposizioni parlamentari, i cui esponenti sono in vendita al miglior offerente, ma soprattutto indebolito dalla “sfiducia” della finanza globalista nordamericana – come di una sorta di “dispotismo dolce”, quasi che fosse tollerabile, un dispotismo “all’acqua di rose” che tutto sommato esprime una violenza anch’essa dolce, benché continua, quotidiana, destinata a penetrare nel pubblico e nel privato come l’acqua che si infiltra ovunque. Tutti i parlamentari, della maggioranza e dell’opposizione, hanno condannato senza riserve questa improvvisa ondata di violenza, che ha messo a ferro e fuoco il centro della Capitale, com’è logico e scontato che sia, quando si è beneficiari di privilegi ingiusti e si fa parte di clan subdominanti che legano in toto le loro fortune e il loro miserando sotto‐potere alla tenuta di questo sistema, a qualsiasi costo etico e sociale. 147
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Però è strano che ci sia questa contemporaneità fra l’esplosione improvvisa di violenza [la cui origine resta sospetta] e il voto parlamentare sulla sfiducia a Berlusconi, ed ancor più strano è che ciò avviene in una situazione che non è “esplosiva” come quella del settantasette, una situazione che fino a ventiquattro ore prima non pareva sul punto di esplodere … Disordini, atti di teppismo di facinorosi, rivolta, insurrezione, le definizioni si sprecano, nella consueta confusione terminologica e nell’opera di depistaggio mediatico, volte a rendere “illeggibili” questi fenomeni politici e sociali. Si tratta di espedienti utilizzati per nascondere la realtà, mentre si tende a criminalizzare i manifestanti, che hanno accolto i violenti nello loro file, ed a giustificare le asprezze di una futura repressione. Quando la “realtà virtuale” di questo capitalismo, diffusa dai media nella loro incessante opera di flessibilizzazione e intontimento, rischia di dissolversi per l’emergere di contingenze sempre più dure, perché il piano sociale tende ad incrinarsi e il Vaso di Pandora della protesta rischia di scoperchiarsi da un momento all’altro, allora possono tornare in funzione, a pieno regime, gli apparati repressivi del potere mai dimessi – nonostante il dispotismo “dolce” e simili amenità, ed anzi, è più efficace anticipare la repressione, uccidendo i neonati movimenti antagonisti nella culla, quando non possono ancora difendersi, piuttosto che aspettare che crescano, nella società, nel paese vero, nella “realtà reale”, per affrontarli quando sono già ben saldi sulle gambe e possono restituire colpo su colpo. Ricompare perciò l’ombra inquietante dei fantomatici black bloc, che si aggirano nelle piazze e nei viali come degli spettri senza volto armati di spranga, e questo ci avverte che fra un po’ il potere non scherzerà più, ma passerà all’offensiva cercando di colpire nel cuore la protesta sociale, per annichilirla prima che si diffonda. I nuovi black bloc, come qualcuno li ha definiti, sono i neri uccellacci che annunciano il temporale, sono gli elicotteri il cui ronzio minaccioso annuncia l’avvicinarsi del conflitto, sono un segnale di futuri scontri e soprattutto della futura repressione. Il finanziere circondato dai “facinorosi” che difende la sua pistola d’ordinanza, al prezzo di rischiare l’incolumità personale, ufficialmente vuole essere la patetica immagine di un potere democratico che si difende dai violenti, dai teppisti, dai frangitori di vetrine e dagli incendiari. In realtà, dietro l’incolpevole ed ignaro finanziere si nasconde neppure troppo bene l’immagine di un potere spietato, violento al massimo grado e generatore di violenze attraverso le profonde ingiustizie sociali, che si prepara ad attaccare, a lanciare la sua offensiva per difendere il “Palazzo d’inverno”. 148
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2 giugno 2010
E’ bene iniziare a comprendere i fenomeni, a penetrare la loro sostanza, a leggere questa realtà con nuove chiavi di lettura, perché solo questa comprensione può aiutarci ad impostare una lotta efficace, ed in primo luogo a difenderci dalle violenze di questo potere. 149
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Marchionne qui in Italia è in buona compagnia 27 dicembre 2010 A questo punto le mezze parole, le ipocrisie, le parafrasi e tutto l’impianto letterario‐sintattico‐lessicale del “voglio ma non posso” dirlo con chiarezza non regge più. Marchionne non è altro che un bieco sfruttatore globalista, uno spietato contractor ad alto livello e uno schiavista lasciato libero di agire, in questo paese e in altri, da governicchi asserviti agli agenti storici di quel capitalismo marcio che ci tiene in pugno, e che sembra destinato a dominare l’inizio del terzo millennio.
Marchionne è simile ai macellai che dirigevano i campi di concentramento novecenteschi o ai “lanisti” di età romana che trafficavano in schiavi, sempre proni dinanzi all’aristocrazia del tempo, ma forse è ancor peggiore di questi, poiché rappresenta un’ulteriore diminuzione dell’uomo che prelude ad un’altra “specie”, più feroce ed insensibile della nostra. Marchionne è ben pagato per ristabilire l’equazione lavoro‐schiavitù portandola alle estreme conseguenze, ed è incaricato della Creazione del Valore in nome e per conto degli agenti strategici di questo capitalismo, delle élite globaliste per le quali questo individuo abbietto sta pregiudicando il futuro e la dignità di migliaia di famiglie italiane. Marchionne è disposto a tentare qualsiasi ricatto, come quello che prevede lo scambio dei diritti contro un salario che in realtà è sempre più misero, e per lui l’etica significa esclusivamente “creare valore per l’azionista”. Se poi posiamo lo sguardo sul testo dell’accordo dello scorso 23 di dicembre, per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant, scopriamo che si tratta di una serie di clausole‐capestro imposte ai lavoratori, poiché: Ai fini operativi la Joint Venture, che non aderirà al sistema confindustriale, applicherà un contratto collettivo specifico di primo livello che includerà quanto convenuto con la presente intesa. Si specifica di seguito, essendo questo “accordo” un’imposizione, una sorta di diktat mascherato, che tutte le sue clausole sono correlate ed inscindibili tra loro, e che il mancato rispetto degli impegni da parte dei sindacati gialli firmatari e delle loro rappresentanze avrà l’effetto di liberare l’Azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo nonché da quelli contrattuali, lasciandola magari libera di chiudere Mirafiori e di andarsene dall’Italia. Due sono gli elementi che balzano all’occhio, leggendo il testo di questo accordo‐
diktat dalle cosiddette clausole di responsabilità agli allegati, e cioè che ciò avviene al di fuori di quelli che ancora dovrebbero essere i canali ordinari – il citato sistema confindustriale, ossia il Ccnl per intenderci meglio – e la piena libertà che la Fiat di Marchionne si concede nel caso qualcuno osi “alzare la testa” non rispettando le clausole imposte. 150
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2 giugno 2010
Fatta salva la mezz’ora retribuita per la refezione collocata all’interno dei turni, iniziano le grottesche imposizioni, in una generale limitazione dei diritti non certo “compensata” da robusti elementi retributivi. Particolarmente feroce sarà la lotta all’”assenteismo”, ad eccezione dei casi conclamati di malattie gravi, gravissime o terminali, i quali saranno valutati [forse] con occhio benevolo dall’azienda, e le indennità concesse ai lavoratori sono particolarmente ridicole, come ad esempio le seguenti: indennità di disagio linea, euro/ora 0,0177 lordi pari a euro/mese 3,0621 lordi, oppure premio mansione euro/ora 0,0248 lordi pari a euro/mese 4,2900 lordi. Dato che l’utilizzo degli impianti, a discrezione dell’azienda, è giudicato molto più importante della dignità delle persone e del riconoscimento dei diritti, si impongono due schemi di orario, che in sintesi sono i seguenti: 1° schema orario – 15 turni (8 ore x 3 turni x 5 giorni alla settimana) e 2° schema orario – 18 turni (8 ore x 3 turni x 6 giorni alla settimana). Però non si rinuncia a scaricare la crisi capitalistica che investe il settore dell’auto su lavoratori e risorse pubbliche, in quanto durante il periodo che precederà l’avvio produttivo della Joint Venture le Parti convengono sulla necessità di ricorrere […] alla cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi aziendale per evento improvviso e imprevisto, per tutto il personale a partire dal 14 febbraio 2011 per la durata di un anno. Quelle che si fanno passare per esigenze produttive determinate dal mercato domineranno incontrastate, a Mirafiori, poiché l’azienda gestita da Marchionne per conto dei globalisti potrà imporre ai lavoratori fino a 200 ore annue pro‐capite di lavoro straordinario, di cui 120 ore senza preventivo accordo sindacale. Non solo, ma per i lavoratori addetti alle linee che saranno così “fortunati” da operare sul turno sperimentale di 10 ore, vi sarà unʹindennità di prestazione collegata alla presenza di ben 0,2346 euro [neanche a dirlo] lordi orari. Seguono poi i recuperi produttivi, i fabbisogni organici, per i quali vi sarà ampio ricorso in primo luogo al lavoro precario somministrato, al termine e all’apprendistato, le disposizioni in merito all’assenteismo, per malattia anzitutto, ma è chiaro che questo orribile accordo‐diktat fra le “Parti” è stato possibile perché ci sono i sindacati gialli firmatari, disposti a vendere il vendibile, ed un governo nazionale cialtrone, socialmente criminale, il cui capo è interessato in primo luogo alla sua sopravvivenza politica per evitare le manette, fregandosene sia delle sorti del paese sia della questione sociale. Le “Parti”, per quando riguarda l’abominevole sindacalismo giallo che oggi trionfa, sono per l’esattezza Fim, Uilm, Fismic e UGL Metalmeccanici, e queste sigle, gli stessi nomi e cognomi dei firmatari, sarà bene ricordarseli, quando e se verrà il momento del riscatto, perché sappiamo bene che d’ora in avanti si cercherà di estendere simili accordi alla generalità dei settori produttivi. 151
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
L’accordo‐capestro, volto a sottomettere interamente i lavoratori e ad espellere dalla fabbrica l’unico sindacato che ancora li rappresenta – quella Fiom che è l’unica ad aver respinto l’esca avvelenata – è stato ottimamente accolto da Berlusconi, il quale lo ha definito un accordo storico e positivo … Marchionne è quindi in buona compagnia, una compagnia degna di lui e di ciò che nella realtà rappresenta. Per la verità, questo individuo tanto giustamente vituperato da chi ha ancora un po’ di senso di giustizia e qualche considerazione per la dignità dell’uomo, è niente altro che un prodotto antropologico spregevole della dominazione capitalistica incontrastata, la quale agisce sempre più in profondità attraverso manipolazioni culturali e simboliche, attraverso la flessibilizzazione del lavoro e la precarizzazione degli stessi percorsi esistenziali. Il Dopo Cristo in cui questo individuo dichiara di vivere, è il tempo della riproduzione capitalistica che non incontra più ostacoli, è il tempo discontinuo della precarietà, è il tempo della speculazione su tutto, dai prodotti energetici all’acqua, è il tempo di una nuova barbarie che lo stesso Marchionne e i suoi simili diffondono. Per quanto riguarda l’Italia, notiamo che l’accordo separato per Mirafiori, estensibile in futuro in tutte le direzioni, ad altri settori e in molti comparti, non è altro che la riproposizione per nuove vie e in nuove forme, questa volta in piena Europa, di quelle “zone franche d’esportazione” diffuse nei paesi in sviluppo, in cui si possono violare tranquillamente i diritti dei lavoratori, sottopagarli ed aumentare rapidamente il valore creato. Per poter istituire queste zone in cui il dominio del capitale tende a diventare assoluto, sono necessarie alcune sponde, come quelle rappresentate, in Italia, dai sindacati gialli, da un governo screditato, corrotto, cialtrone e compiacente, e da un’opposizione vile e inconsistente, a sua volta sottomessa al peggior capitalismo. Ed è grazie a queste sponde che il Marchionne di turno può realizzare anche in Italia, partendo da Mirafiori e dagli stabilimenti Fiat ancora attivi, il suo allucinante Dopo Cristo, che altro non è se non il tempo dell’illimitatezza capitalistica, della ri‐
schiavizzazione del lavoro, delle grandi ineguaglianze, dei rischi ambientali diffusi e del degrado etico. Marchionne qui in Italia è purtroppo in buona compagnia. 152
Eugenio Orso
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2 giugno 2010
Per colpire Berlusconi bisogna colpire la Lega 26 gennaio 2011 Che il pericolo maggiore, in prospettiva, sia la Lega e non Berlusconi dovrebbe essere per tutti un’evidenza. La forza eversiva e dissolutiva leghista dorme costantemente sotto le ceneri pronta ad attivarsi in ogni momento, ed è arrivata fino ai ministeri romani, occupati da esponenti della burocrazia politica leghista. Mentre il vecchio libertino si “rilassava” ad Arcore o nella villa in Sardegna, circondato da belle mercenarie in un improbabile riposo del guerriero, la Lega lavorava senza risparmio per estendere il suo potere, nelle istituzioni centrali e locali e in tutta la società del nord. La Lega sa bene che più il Tycoon festaiolo è in difficoltà, assediato dai gruppi editoriali avversi e dalla stampa straniera, attaccato dai magistrati ʺrossiʺ, colpito dalle defezioni nel suo stesso cartello elettorale e costretto a ricorrere alla compra dei parlamentari, più il potere politico bossiano all’interno della maggioranza cresce, ma soprattutto cresce il suo potere di ricatto, nei confronti della presidenza del consiglio ed indirettamente dell’intero paese. Lo scandalo della “prostituzione minorile”, nonostante tutto ciò che di negativo e dissolutivo ha comportato e sta comportando per l’intero paese, ha rappresentato la ciliegina sulla torta per la Lega – i cui interessi, non dimentichiamolo, sono opposti a quelli della maggioranza degli italiani – perché gli ha consentito di estendere ulteriormente la sua malsana influenza sull’esecutivo, imponendo il ben noto aut‐
aut “approvazione del decreto relativo al federalismo o scioglimento delle camere ed elezioni politiche anticipate”. Qualcuno ha definito la battaglia leghista per il federalismo come una battaglia per la vita, quella della Lega bossiana naturalmente, e giunti a questo punto l’approvazione del decreto riveste un indubbio valore simbolico, che non sarà privo di riflessi elettorali. Se il decreto passerà, ci saranno ulteriori problemi per il paese, e soprattutto per coloro che non essendo evasori fiscali impuniti si vedranno aumentare le imposte e le tasse a livello locale, ma la Lega, fregandosene bellamente di questi dettagli, otterrà una vittoria simbolica da sbandierare davanti alle sue orde di sostenitori. La cosa sembra talmente importante, per la stessa sopravvivenza politica del cartello elettorale bossiano, che La Padania, il suo quotidiano, è stato uno dei pochissimi ad ignorare, in prima pagina, lo scandalo con risvolti penali delle puttane e dei ruffiani del presidente Berlusconi, come per esorcizzarlo, sperando che il vizioso di Arcore resti al suo posto, almeno quel tanto che basta per far passare il fatidico decreto. 153
Eugenio Orso
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
La settimana di ritardo per recepire le obiezioni dell’Anci si è già riflessa negativamente – almeno dal punto di vista delle burocrazie politiche leghiste – sulla tabella di marcia e Bossi ha risposto con una pernacchia, come sempre elegante ad uso e consumo dei bruti padani, ai centristi che proponevano un rinvio di sei mesi. Se alcuni esponenti di quel partito dei “morti viventi” che è il Pd, fra i quali il pessimo Chiamparino, sostenitore della distruzione dei diritti dei lavoratori e di Marchionne, hanno cercato di lusingare la Lega, proponendo l’approvazione del federalismo e la sua attivazione in cambio della fine dell’appoggio padano al governo, i più astuti, primo fra tutti Casini con il suo neocostituito terzo polo, hanno compreso come ha compreso lo scrivente che sparando sempre e soltanto sul ʺbersaglio grossoʺ, cioè su Berlusconi, si possono ottenere in questa situazione effetti limitati. Il consenso al Puttaniere‐Tycoon di Arcore non sembra decrescere con la dovuta rapidità, e questo perché chi lo vota per idiotismo resta un socialmente idiotizzato nonostante le orge a base di escort ormai di pubblico dominio, malgrado le 389 pagine prodotte dalla Procura di Milano, e soprattutto in difetto di un’azione governativa anticrisi, e chi beneficia dell’evasione fiscale grazie a Berlusca e alla Lega continuerà ad appoggiarlo, anche se ammazzerà qualche prostituta nel suo palazzo, facendone sciogliere il cadavere nell’acido per occultare le tracce.
Eʹ necessario, quindi, individuare il vero ʺtallone dʹAchilleʺ della maggioranza di governo, colpendo il quale si può far fuori Berlusconi, e non soltanto lui. Se è proprio la Lega che tiene in piedi Berlusconi, ben di più dei vari parlamentari comprati a partire dal “responsabile” Scilipoti, e se per la Lega è essenziale, politicamente, lʹapprovazione del federalismo a qualsiasi costo e in tempi brevi, ecco individuato il “tallone d’Achille”, centrando il quale si può innescare un salutare ʺeffetto dominoʺ. In estrema sintesi, due sono le possibilità. Ritardando lʹapprovazione del federalismo leghista, rinviandola sine die – soluzione ancor migliore della più drastica bocciatura del decreto – si potrà inchiodare la lega al governo e allʹappoggio ad oltranza concesso ad un Berlusconi sempre più debole e in emorragia di consensi, che non è ancora evidente, ma che dovrà verificarsi se lʹattuale situazione continuerà a degenerare e alla fine si arriverà alla cancrena.
Così, la lega nei fatti non ottempererà alla sua promessa/ aut‐aut federalismo o elezioni subito, e potrà essere trascinata con sé da Berlusconi, nella sua possibile caduta.
Due piccioni con una fava.
Se il decreto federal‐leghista sarà infine respinto, si andrà ad elezioni politiche perché Bossi difficilmente potrà rimangiarsi le sue promesse, e qui Berlusconi, 154
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2 giugno 2010
presentandosi con la Lega, potrebbe effettivamente avere qualche chance in più, ma a quel punto sarà più probabile una sconfitta, nonostante il persistere del voto a suo favore degli idiotizzati e degli evasori fiscali.
Anche in tal caso, obbiettivo raggiunto. Ma le cose, nel medio‐lungo periodo, potrebbero non andare come sperano i terzopolisti, a partire dall’astuto Casini che pregusta il momento in cui entrerà nel nuovo governo come “ago della bilancia” o addirittura presidente del consiglio, senza Berlusconi e senza la Lega. Un futuro movimento antagonista e anticapitalista rinvigorito dalle durezze sociali della crisi e della ristrutturazione liberalcapitalistica, si troverebbe di fronte governi ancor più deboli dell’attuale, terzopolisti e pidiini, ancorché maggiormente asserviti di quanto lo è Berlusconi alla grande finanza globalista, ed avrebbe a disposizione, di conseguenza, un maggior spazio nella società per svilupparsi, per acquisire il consenso di fasce sempre più ampie della popolazione e per preparare una vera alternativa politica. Gli idiotizzati e quei gruppi sociali spregevoli, venduti come “produttivi”, che esprimono l’evasione fiscale, continueranno ad esistere, naturalmente, ma non saranno così determinanti come lo sono oggi con il satrapo Berlusconi, e ci sarà più spazio per un auspicabile e generale ritorno al “principio di realtà”, per la diffusione di una nuova consapevolezza politica e per la nascita di una nuova coscienza di classe. 155
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2 giugno 2010
Non esistono profughi economici 7 aprile 2011 L’evento che fa notizia in Italia, da un paio di giorni, è quello delle dimissioni di Cesare Geronzi, da un anno ai vertici di Generali dopo la militanza in Mediobanca, e da tempo un VIP del potere finanziario locale. Rimane però al suo posto, in qualità di vicepresidente delle Generali, il finanziare‐
imprenditore bretone con origini “televisive” Vincent Bolloré, uno dei simboli della penetrazione transalpina nella penisola e della colonizzazione francese dell’Italia. Il brillante Bolloré, il suo ammiratore‐consulente e nipote di Buorguiba Tarak Ben Ammar, Lactalis [alimentare], BNP Paribas [banche], Lvmh [moda e non solo moda], e via di seguito, sono altrettanti attori di questa colonizzazione, che non pare destinata a fermarsi nonostante la recente levata di scudi italiana [Tremonti] a difesa di Parmalat, minacciata da Lactalis. Con l’uscita di scena di Geronzi, dimissionario in seguito ad una mozione di sfiducia, lo stesso scompare anche dai patti di sindacato, perché le partecipazioni della primaria compagnia assicurativa sono regolate da tali patti, e la lista è significativa, strategica, per gli assetti del potere economico‐finanziario nella penisola, comprendendo RCS, Mediobanca, Pirelli, Gemina, Telecom. L’esclusione di Geronzi innescherà qualche “effetto domino”? Peggiorerà o migliorerà la situazione finanziaria ed economica nazionale? Domande che resteranno senza una sicura risposta, almeno per un po’, ma ci sono altri fatti, oltre a questa vicenda molto “gettonata” dai media, che dovrebbero suscitare interesse ed indurre ad una seria riflessione, che supera i confini italiani e le “miserie” economico‐finanziarie nazionali. Pur essendo rilevanti e di una certa portata nella crisi italiana le dimissioni di Geronzi, non è questa la notizia che ha attirato la mia attenzione, perché l’evento che più mi ha colpito, per il suo contenuto drammatico e per il suo valore simbolico, non riguarda le strategie, le tattiche e le trame ordite nel mondo finanziario, i patti di sindacato, le cariche, l’avvicendarsi di VIP ai vertici e la loro ascesa e caduta, in quel basso impero da colonizzare che è oggi l’Italia, ma riguarda degli sconosciuti, che non sono neppure italiani, dei poveri migranti che troppo spesso si abbandonano alla completa balia delle onde del mare e delle correnti della storia. Il numero di vittime del rovesciamento di un barcone di “clandestini”, durante le operazioni di soccorso al largo delle isole Pelagie, può essere superiore alle trecento, visto che il barcone era stracarico [fino a 350 o 370 a bordo, secondo alcune fonti] e i superstiti dovrebbero essere poco più di una cinquantina, ma questo non è che un caso fra i tanti casi simili, già verificatisi e che sicuramente si verificheranno in futuro. 156
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2 giugno 2010
In questa tragica circostanza, sono state le profondità marine ad accogliere gli anonimi corpi di coloro che fuggono dalla guerra, ma in altri casi potrebbe essere il deserto africano a nasconderli, oppure, se giunti a destinazione e morti improvvisamente sul lavoro, in nero e senza alcuna garanzia, qualche terreno agricolo o le fondazioni di un edificio in costruzione. L’ipocrisia leghista a sfondo elettoralistico, frutto della miopia e dell’ostilità nei confronti dei più deboli, in primo luogo nei confronti di tutti i migranti ed in particolare dei non‐bianchi, se si affermasse completamente imporrebbe la ferrea e strumentale distinzione fra profughi provenienti da teatri di guerra, che dovrebbero essere accolti temporaneamente “per ragioni umanitarie”, seppur a malincuore, ed i cosiddetti profughi economici, che non rischierebbero la vita e che dovrebbero essere perciò respinti, ma soprattutto la contestuale dicotomia fra regolari e “clandestini”, intendendo che i profughi economici dei barconi sono tutti dei clandestini da respingere, con le buone o con le cattive. La clandestinità, se diventa un reato, è esattamente la negazione di quei diritti umani – o ancor meglio, visto che l’espressione “diritti umani” è screditata, dei diritti naturali che devono essere riconosciuti a ciascuno – che l’occidente capitalistico dichiara di riconoscere e millanta di voler difendere. Alla fine i leghisti che fanno il bello e il brutto tempo nell’indebolito esecutivo berlusconiano, vista l’eccezionalità della situazione mediterranea aggravata dalla guerra civile libica, hanno dovuto ammettere la concessione ai “profughi economici‐presunti clandestini” di un permesso temporaneo di soggiorno, sperando, o meglio illudendosi, che se ne andranno Fora di Ball [credo che si scriva così, ma non conosco bene l’agglutinata lingua bossiana] al più tardi dopo sei mesi o un anno e il più lontano possibile dalla sacra “padania”. Il gioco di identificare i cosiddetti profughi economici con i clandestini, in presenza del reato formale che deriva dall’essere semplicemente privo di documenti, non può funzionare nel lungo periodo e non può arrestare i flussi migratori verso il nord [del mondo intendo. Chissenefrega dell’immaginaria “padania”, patria delle sole e delle sparate bossiane]. Dall’altra parte ci sono gruppi di imprenditori italiani, destinanti a diventare sempre più sparuti con l’avanzare della crisi e l’estendersi della moria d’industrie, i quali accolgono favorevolmente gli arrivi stabili – più che i transiti verso la Francia e la Germania – per poter disporre di schiavi ancor più schiavi, ad un costo più basso rispetto ai precari locali. Non parliamo poi dell’economia formalmente criminale, espressione di un certo potere finanziario che per convenzione ancora chiamiamo Mafia, Camorra, ‘ndrangheta – ma che è semplicemente élite, Global class mascherata – la quale necessita di manovalanza per il crimine, di braccia per il lavoro in nero ed anche di 157
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2 giugno 2010
lavoratori, docili, di poche pretese e facilmente gestibili, nelle attività legali ed emerse che controlla. Il ricatto della fame e della guerra, i continui shock utilizzati per imporre gli espropri capitalistici e le controriforme, liberano “fattori della produzione umani” a bassissimo costo, in apparenza più facilmente gestibili dei lavoratori autoctoni minimamente tutelati, che sono a completa disposizione della creazione del valore e completamente soggetti al peggior sfruttamento schiavista. Certo, i flussi migratori verso il nord che attraversano il Mediterraneo si sono improvvisamente ingrossati a causa dell’instabilità tunisina e come conseguenza della guerra civile libica, ma è da tempo che quelle “Cassandre” che sono i demografi avvertono che ci si deve attendere, per il futuro, masse crescenti di migranti provenienti, in particolare, dall’Africa subsahariana, in cui l’ancora elevato numero di figli per donna, in certi casi superiore a quattro, nonostante l’elevata mortalità infantile alimenta le “eccedenze umane”, costringendo una popolazione giovane e senza alcuna prospettiva a cercare possibilità di sopravvivenza altrove. Nel lungo periodo, avvertono i demografi con uno sguardo dall’alto che abbraccia tutto il pianeta, il fenomeno migratorio non pesa quanto la vulgata è portata a credere, ma semplicemente può “ripopolare” aree del mondo [nel nostro caso la parte nord‐occidentale] in cui già si manifesta e si manifesterà nei prossimi decenni un significativo calo demografico, riequilibrando così le sorti – demografiche, in primo luogo, ma anche economiche – di queste aree ed arrestandone lo spopolamento. Ma nel breve e nel medio periodo si scatenano inevitabilmente forti tensioni all’interno delle società di destinazione dei flussi migratori, ed in subordine in quelle di transito, da un lato, e si inizia a percepire un ulteriore e più grave impoverimento nelle società di partenza, dall’altro lato, perché private della parte più giovane e vigorosa della forza lavoro. E’ nel breve e nel medio periodo, quindi, che appare in piena luce il duplice svantaggio dei flussi migratori imposti da questo capitalismo, ben oltre la relativa “asetticità” di studi demografici che possono avere un orizzonte temporale di trenta o di cinquanta anni. Se il nuovo modo storico di produzione, che drammatizza ed accelera impoverimento di massa e fenomeni migratori per poter estendere la sua presa sul mondo, potrà riprodursi fino alla metà di questo secolo senza incontrare ostacoli rilevanti, l’esito non potrà essere che un aggravarsi dell’impoverimento di massa, nel sud ed anche nel nord del mondo, e una continuità, al ritmo di circa due o tre milioni l’anno, dei flussi migratori verso i paesi “sviluppati”, come previsto dai demografi. 158
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2 giugno 2010
In tal caso, il Nuovo Capitalismo e i suoi agenti globali avranno vinto per tutto il secolo, e si verificherà una progressiva ed inevitabile sostituzione delle originarie popolazioni nord‐occidentali con quelle provenienti dalle aree più malconce del pianeta [Africa subsahariana, certi paesi dell’America Indio‐Latina, vaste regioni dell’Asia], pur in presenza di un graduale e già oggi prevedibile calo demografico, fino ad avvicinarsi alla fatidica soglia “di sostituzione” dei due [o meglio, 2,1] figli per donna, persino nella ventina di paesi più poveri del mondo, in gran parte africani. Quindi è perfettamente inutile che Bossi & C. si agitino sputando veleno contro i migranti, cercando di criminalizzarli e di imbonire le loro “tribù padane” minacciate dall’intrusione aliena, ed è illusorio, per quanto riguarda gli imprenditori italiani piccoli e medi non ancora “delocalizzati”, o espulsi tout court dal mercato, sperare di poter approssimare almeno un po’ i fasti del passato – se sono stati veramente tali – o addirittura di poter tornare ad una condizione di status quo ante, sfruttando nuove ondate di lavoro schiavo. Il Nuovo Capitalismo, dilagando anche da noi grazie alla globalizzazione neoliberista, ha fatto sì che in Italia coesistano tre mercati del lavoro, fin tanto che non si completeranno la distruzione del lavoro stabile e garantito e la mattanza dei ceti medi: 1) Un mercato tradizionale, riguardante i “vecchi contratti” ancora in essere e portatori di ampie garanzie per il lavoratore, che tende progressivamente a restringersi riguardando, ormai in maggioranza, lavoratori di mezza età o anziani. Le garanzie, giudicate troppo ampie, sono in fase di superamento attraverso la pratica degli accordi separati con i sindacati compiacenti, delle conseguenti deroghe sulle materie del contratto nazionale e grazie ai blitz come quelli di Marchionne, che implicano la rinuncia ai diritti contro il mantenimento, a condizioni peggiori di prima, del posto di lavoro. 2) Un mercato del lavoro precario, dominato dai nuovi contratti stabiliti in violazione dei principi costituzionali ed aggirando lo stesso Statuto dei Lavoratori, ancora in vigore, che oggi si vuole “riformare” in fretta e furia e ridurre ad uno statuto dei lavori. La spersonalizzazione – dovuta all’uso dell’espressione lavori, anziché quella di Lavoratori – non è casuale, ma sancisce la separazione della persona, come centro di diritti inalienabili non soggetti al mercato, dal servizio lavorativo del quale è portatrice, che si intende assoggettare interamente alle leggi di mercato. Si diffonde la forma di alienazione contemporanea che ho definito in altre sedi “Neoschiavismo precario”. 3) Un vasto mercato nero del lavoro, in cui non vale alcuna garanzia ed in cui si realizza un ulteriore e maggiore risparmio in termini di “costo della 159
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2 giugno 2010
produzione” identificato con quello del lavoro. Questo mercato è alimentato, in parte significativa, dal lavoro migrante, clandestino e non clandestino, e rappresenta un terreno fertile per l’economia capitalistica mafiosa, formalmente criminale, nonché per gli imprenditori senza scrupoli, posto che esistono veramente, in numero non insignificante, imprenditori “etici”, non privi di coscienza. Qui sono osservabili forme di alienazione antiche, o forme contemporanee a loro molto simili, che riportano allo “Schiavismo classico precapitalistico”. Infine, la massima ipocrisia si raggiunge separando i profughi di guerra, per i quali l’accoglienza è un atto dovuto [seppure a malincuore, come ho scritto in precedenza] da quelli che scappano per ragioni economiche, ampiamente e strumentalmente identificati con i clandestini, i quali commettono reato per il semplice motivo che non hanno, o non hanno più, i documenti. Per quanto mi riguarda, i profughi sono tutti, indistintamente profughi di guerra, persone che fuggono da un conflitto nella speranza di approdare in terre pacifiche o pacificate, fidando che queste possano garantirgli i mezzi di sostentamento in cambio dell’unica cosa che hanno da offrire: il loro lavoro. La lotta di classe non è mai stata feroce come in questi anni, scavando crateri –
seppure invisibili – più profondi di quelli che producono le bombe, anche se i media, i giornalisti, gli intellettuali e molti accademici la negano, come se ormai fosse storicamente, socialmente e culturalmente superata. La lotta di classe, per piegare le resistenze dei subordinati e dei popoli ribelli, la conducono oggi i membri della classe globale [ e li chiamino pure oligarchi, élite, dominanti: la sostanza non cambia] con ogni mezzo, dalla guerra finanziaria a quella commerciale, dalla guerra energetica a quella tradizionale, che si fa ancora con bombardamenti e che provoca distruzioni di strutture, morti e feriti. Che differenza c’è fra un bombardamento “umanitario”, mirato alle sole strutture militari, politiche e produttive, condotto con precisione chirurgica e l’uso di bombe intelligenti, come ad esempio quello dei “volenterosi” prima e della NATO dopo in Libia, ed un bombardamento finanziario, dell’intensità di quello che ha colpito molti paesi, fra i quali l’Italia, provocando la prima crisi economica globale del 2007/ 2008? Certo, nel primo caso e nell’immediato vi possono essere morti e feriti, ma in ambedue i casi l’azione ostile e classista dei dominanti provoca inevitabilmente ondate di profughi, che cercano riparo ed accoglienza in aree del mondo credute sicure e pacifiche, confidando in un’altrui umanità non sempre provata. Se gli africani arrivano in Italia, speranzosi di restarvi o più spesso di raggiungere la Francia, la Germania, il nord dell’Europa, gli italiani colpiti da impoverimento e de‐emancipazione, in maggioranza giovani e acculturati, tentano sempre più spesso 160
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2 giugno 2010
la fortuna all’estero, e sperano, in molti casi inconsciamente, che la guerra elitista non li raggiunga, un giorno, anche là … Non esistono profughi economici, quindi, ma tutti i profughi, tutti i migranti per forza maggiore devono essere considerati profughi di guerra, perché il conflitto scatenato dagli elitisti è generale, multiforme, senza esclusione di colpi e senza tregue, così capillare che arriva ovunque, tanto che nel mondo vi saranno sempre meno luoghi sicuri, in cui fuggire. 161
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2 giugno 2010
Una Confindustria di assassini e stragisti 9 maggio 2011 E’ inutile girare intorno alle questioni, con espressioni ipocrite, eleganti perifrasi o distinguo pelosi, quando sono chiare ed inequivocabili. Ci sono situazioni in cui è inutilizzabile, come schermo, anche il “politicamente corretto”, e questo è esattamente il caso degli applausi tributati da una platea di confindustria [che da questo momento in poi scriverò, per disprezzo, con l’iniziale minuscola] all’amministratore delegato di Thyssenkrupp, Espenhahn, un assassino condannato a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario, in seguito alla morte di sette operai nello stabilimento di Torino il 7 dicembre del 2007. Qualsiasi giustificazione si può addurre, davanti alle ovazioni tributate dal consesso di industriali ad un assassino e stragista, nato dalla putrefazione del peggior capitalismo mutante, non è sufficiente, non basta per non farci dire: ecco cos’è veramente confindustria, un covo di sfruttatori e parassiti disposti alla strage, abituati da troppo tempo al caviale dei contributi erogati con i soldi pubblici ed allo champagne del profitto estorto ai lavoratori. Dietro l’aspetto austero, moderatamente piacente ed elegante di Emma Marcegaglia, si malcela un nido di serpenti – o più precisamente di assassini e sfruttatori oggettivi, date le continue morti bianche e i bassi salari – che si fanno apertamente beffe della sicurezza sul lavoro, degli stessi operai caduti sulle linee di produzione, perché tanto il lavoro è interamente a carico degli altri, e la cosa sembra non riguardarli, se non nel momento di intascare gli utili e di consolidare la loro posizione di privilegio. La vecchia ed imbarazzante immagine dell’imprenditore‐puttaniere usata dai soliti “comunisti” otto‐novecenteschi, il quale sfruttava cinicamente i lavoratori costringendoli ad oltre dieci ore di lavoro giornaliere per la mera sopravvivenza, mentre lui se ne andava tranquillamente a puttane [ieri cocotte ed oggi escort] e si baloccava nel vizio con i frutti del lavoro coatto altrui, oggi ci sembra tornata prepotentemente di moda, quanto mai veritiera ed attuale, se guardiamo per un istante la realtà produttiva e sociale di questo paese. Gli applausi di una platea di assassini e sfruttatori ad un loro complice, condannato ma naturalmente a piede libero, perché i veri assassini in questo sistema non pagano mai, confermano una volta di più che non esiste “il lavoro libero” capitalistico, ma agiscono forme di costrizione che in questa epoca tendono a diventare più stringenti, tanto è vero che un ministro della repubblica, nella persona di Giulio Tremonti, ha dichiarato tempo fa in merito alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla legge 626 del 1994 al Testo Unico Sicurezza Lavoro [Decreto legislativo n. 81 del 2008] che avrebbero dovuto garantirla per tutti: “robe come la 162
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2 giugno 2010
626 sono un lusso che non possiamo più permetterci”, perché troppo costosa per il cosiddetto sistema‐paese, una mera zavorra nella competizione globale.
Ma forse è meglio dire, con chiarezza, che non ci si può più permettere la sicurezza sul posto di lavoro – accettando come se nulla fosse le morti bianche, quali incidenti collaterali dello “sviluppo economico” – esclusivamente perché limita il profitto intascato dalla stessa platea di assassini e schiavisti che ha applaudito Espenhahn. Altri ministri in carica, nelle persone di Romani e Calderoli, hanno debolmente condannato – ma senza eccedere nel biasimo – l’atteggiamento benevolo, anzi, apertamente favorevole, di confindustria nei confronti dell’AD pluriomicida del gruppo Thyssenkrupp, parlando di “applauso improprio”, come ha fatto Romani, o semplicemente “fuoriluogo”, come ha fatto Calderoli. Pur apprezzando la moderata e cauta umanità di questi ministri [Romani e Calderoli] davanti alla sfacciatezza degli assassini che si riconoscono e si applaudono pubblicamente, devo rilevare che l’applauso non è improprio né fuoriluogo, ma rappresenta il più palese riconoscimento che Harald Espenhahn è in tutto e per tutto uno di loro, figlio della stessa logica sistemica e membro della stessa classe, e fa quello che anche loro cercano di fare, per perseguire obbiettivi di puro arricchimento personale, di carriera e di potere vendendo la pelle degli altri, se necessario. Il rischio d’incendio c’era, alla Thyssenkrupp di Torino, e la cosa era nota alla dirigenza che aveva deciso di continuare la produzione, senza però provvedere alla manutenzione degli impianti, in uno stabilimento in dismissione, tanto che in quel tragico 7 di dicembre del 2007 si poteva dire che le morti erano annunciate, e che potevano essere evitate manutenendo gli impianti ancora in attività. Anche le condizioni di pulizia dell’ambiente di lavoro, tali da incidere sulla sicurezza, erano in quel caso discutibili, tanto che il giorno dopo l’incidente [8 dicembre 2007] la ditta incaricata delle pulizie che da tempo interveniva “a chiamata”, dovette pulire tutte le linee di produzione, meno l’ultima, quella in cui si era verificata la tragedia, perché posta sotto sequestro giudiziale. Il risparmio sulla sicurezza e quello sulle stesse pulizie dell’ambiente di lavoro, la rinuncia alla manutenzione degli impianti, che possono costituire un pericolo per l’incolumità fisica dei lavoratori, hanno un solo scopo: alimentare il profitto, la creazione del valore ad esclusivo beneficio dell’”azionista” [l’Investitore], davanti al quale in questo liberalcapitalismo sovrano non c’è etica né legislazione che tenga. In altre parole, c’è chi si sente al di sopra della legge civile e penale degli stati, riconoscendo soltanto “la legge del mercato” che per lui significa ricchezza e potere e per moltissimi altri sfruttamento, povertà e morte. Anzi, ai gradi ed ai livelli più alti della scala sociale, i grandi Investitori sono “esenti” anche dalla spietata legge del mercato, che colpisce sempre e soltanto i 163
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2 giugno 2010
subordinati, quale strumento di dominazione e sistema di razionamento ed esclusione imposto. Altro che il vecchio ordigno islamico Bin Laden che si sognava nuovo califfo, ma si scopre ormai arrugginito, morto da poco in seguito all’azione di commando americana oppure, secondo quanto riportano altre fonti, deceduto da dieci anni … sappiamo bene, qui, in occidente, chi e cosa rappresentano il vero pericolo per il nostro futuro! E’ ora di finirla di parlare di “imprenditori buoni” in contrapposto a quelli “cattivi”, di bere menzogne come quelle della “coesione sociale”, di cercare “concertazioni” che equivalgono ad altrettante sconfitte per la parte più debole, penalizzando sempre e comunque lavoratori e subordinati. Il nemico sociale va riconosciuto e combattuto senza esclusione di colpi, altrimenti si moltiplicheranno le platee che applaudiranno con esultanza gli stragisti e gli assassini di questo capitalismo, mentre noi saremo condannati in massa ad una nuova, più pesante e più invasiva servitù, a quel punto senza scampo. 164
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2 giugno 2010
Goodnight Silvio, Silvio goodnight 30 maggio 2011 Mi viene in mente, dopo alcuni decenni, il ritornello di una vecchia canzonetta di Lou Reed, dei tempi in cui eravamo giovani e l’americanismo dilagava intorno a noi, assumendo le forme più svariate, a partire da quelle musicali. C’erano i dischi di vinile, a quarantacinque e trentatré giri, e l’acustica degli impianti stereo lasciava un po’ a desiderare, ma certe canzoni rimangono nella memoria ed il passare degli anni non riesce a cancellarle. Il ritornello faceva “goodnight ladies, ladies goodnight/ it’s time to say goodbye” [LP Transformer del 1972], e si presta bene, avendo cura di sostituire all’espressione esotica ladies il nome di battesimo del Cavaliere, ad esprimere sinteticamente ciò che potrà accadere subito dopo l’ufficializzazione dei risultati dei ballottaggi, che avverrà fra lunedì 30 e martedì 31 maggio. Certo, Silvio ha resistito caparbiamente fino ad ora e continuerà a farlo, con ogni mezzo e ad ogni prezzo [che tanto dovremo pagare noi, non lui], ma le probabilità di potergli dare “la buonanotte” in questi giorni sono cresciute esponenzialmente. Stante che non bisogna vendere la pelle di Silvio prima di averlo preso, o prima di averlo stretto definitivamente in un angolo – disponendo il suddetto di molti trucchi e di discrete risorse, da quelle finanziarie all’abilità comunicativa per mobilitare gli idiotizzati – nel caso di perdita contestuale di Milano e di Napoli, corroborata dalla sconfitta in altri capoluoghi di regione come Trieste, non potrà non innescarsi una catena di eventi politici a lui sfavorevole. Le avvisaglie della débâcle, che inducono ad anticipare la buonanotte a Silvio, a ben guardare si sprecano. Negli ultimi istanti di una campagna elettorale disastrosa in cui moltissime tegole sono cadute sulla testa dei cosiddetti centrodestri, con grande giubilo ed una certa sorpresa dei centrosinistri, la Lega ha tentato opportunisticamente [e un po’ vigliaccamente, ma i leghisti non sono certo degli eroi] di prendere le distanze da Silvio per “salvare il salvabile”, come dal titolo e dal testo di un’altra vecchia canzone, questa volta di Edoardo Bennato. Quegli stessi leghisti che in parlamento e nel paese hanno appoggiato tutte le peggiori “schifezze” di Berlusconi, per poter influire da posizioni di forza sulle scelte dell’esecutivo ed imporre falsi federalismi, decentramenti penalizzanti per tutti, logiche spartitorie del potere a loro favorevoli, all’improvviso tendono ad abbandonare la nave, preparandosi a scappare come i topi un attimo prima dell’affondamento. Ma forse è troppo tardi, nonostante la ciambella di salvataggio lanciatagli dai pessimi dalemiani e bersaniani, che li vogliono con loro e che gli promettono lo “sdoganamento” in cambio dell’affondamento definitivo di Silvio. 165
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Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
Sul fronte berluscones, in luogo delle Santanchè e dei peggiori pasdaran pidiellini sono comparsi mediaticamente i Lupi, molto più presentabili ed abili nel giocare in difesa, e questo per tentare in estremix di riparare i precedenti guasti, ai quali lo stesso Silvio ha dato un significativo contributo. Le tegole cadute in testa ai candidati berlusconiani, fra i quali spicca Letizia Moratti, sfortunata giraffa dello zoo di Arcore, sono sostanzialmente le seguenti in rapida sequenza: 1) I falsi zingari e militanti dei centri sociali che in piena Milano hanno infastidito i passanti, in un’iniziativa carnevalesca, da candid camera o da “scherzi a parte”, che rivela tutta la disperazione di Silvio e dei suoi accoliti. Del resto, ognuno fa quello che sa fare, e tende a farlo fino alla fine: i pagliacci fanno i pagliacci. I televisivi si ostinano a fare televisione anche nel mondo reale, i mentitori continuano a mentire anche se scoperti, e via dicendo. 2) Pisapia non si è presentato per l’ultimo confronto con la Moratti, lasciando la sedia fisicamente e simbolicamente vuota, in quegli studi televisivi in cui è stato accusato di essere un ladro di automobili, senza diritto di replica, dalla ex advisor della multinazionale Carlyle in Europa. 3) La percezione collettiva dell’isolamento e della solitudine della povera giraffa berlusconiana è stata accentuata, drammaticamente, dalla mancata partecipazione del cantante Gigi D’Alessio al concerto finale indetto in Milano dal centro‐destra. Se me l’hanno raccontata giusta, neppure l’ospite straniero si è presentato [avrebbe dovuto essere Rod Steward?]. La pensionata berluscones Iva Zanicchi non è bastata a coprire il vuoto, ma chissà se per tirar su il morale ai presenti ha cantato un suo vecchio ed indimenticabile hit, che faceva: “prendi questa mano zingara e dimmi che destino avrò”. 4) Berlusconi ha fatto il suo sconcertante show al G8 in Francia, rivelando, non richiesto, ad un Obama allibito e privo di parole, che l’Italia è una quasi dittatura dei magistrati cattivi che lo perseguitano. Se tutti i messaggi di Berlusconi fino a quel momento, ed anche quelli apparentemente più deliranti, erano rivolti al voto idiota per mobilitarlo, e dunque potevano trovare una chiara spiegazione di tipo elettoralistico in quanto espressione caratteristica del suo marketing elettorale, l’ultima dichiarazione, dato il contesto internazionale ed i contenuti, non sembrava avere questa 166
Eugenio Orso
Buoni e cattivi nel futuro scontro sociale in Italia
2 giugno 2010
giustificazione, e perciò dovrebbe sollevare un inquietante ma legittimo interrogativo di natura psichiatrica. 5) Ultima ma non ultima tegola, per le sue implicazioni politiche, le recenti dichiarazioni di personalità del passato che possono essere lette, indirettamente, come un sostegno a Pisapia. E’ il caso del vecchio squalo Fiat Cesare Romiti. Ancor più rilevanti le dichiarazioni di Marcegaglia, ai vertici di Confindustria, che dopo aver parlato è comparsa in una gigantesca vignetta, pubblicata in bella posta sulla prima pagina di quel penoso tazebao berlusconiano che è Libero, con tanto di basco nero e stella rossa in versione Che Guevara. Un inutile sfregio alla memoria del Che? Una rappresentazione surreale? Oppure effettivamente la Marcegaglia e la consorteria confindustriale si apprestano ad uscire definitivamente allo scoperto, ad appoggiare con decisione, ufficialmente, il centro‐sinistra liberale e il condiscendente Pd, avanzando nuove richieste per le privatizzazioni e per l’accesso alle risorse pubbliche? Forse, ma di sicuro hanno abbandonato al suo destino Silvio, e ciò spiega il furore dei propagandisti berluscones, che perdendo il controllo hanno attaccato apertamente la borghesia italiana, accusata di essere “voltagabbana”, senza considerare che così si stavano dando un’altra martellata sui coglioni [o in testa? Il che, nel caso specifico, sarebbe lo stesso]. Cosa dire di più, nell’attesa spasmodica dell’esito finale dei ballottaggi che si avrà durante la notte? Buonanotte Silvio, ma forse la notte, per te, questa volta non sarà né buona né felice e difficilmente potrà portarti consiglio. 167