95ª RASSEGNA ARCIFILM

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95ª RASSEGNA ARCIFILM
95ª RASSEGNA ARCIFILM
a cura dell’ Associazione Rosebud
BELLUSCONE - UNA
STORIA SICILIANA
IL REGNO
D’INVERNO*
Italia 2014;
di Franco Maresco
Turchia, Francia 2014;
di Nuri Bilge Ceylan
LE MERAVIGLIE
PICCOLE CREPE,
GROSSI GUAI
Italia 2014;
di Alice Rohrwacher
Francia 2014;
di Pierre Salvadori
MEDIANERAS
Argentina, Spagna 2011;
di Gustavo Taretto
ANIME NERE
BOYHOOD**
Usa 2014;
di Richard Linklater
Italia, Francia 2014;
di Francesco Munzi
DUE GIORNI,
UNA NOTTE
CLASS ENEMY
Belgio 2014;
di Luc, Jean-Pierre
Dardenne
Slovenia 2013;
di Rok Bicek
STORIE PAZZESCHE
Argentina,Spagna 2014;
di Damián Szifron
Abbonamento alla Rassegna: € 30
I film della Rassegna saranno proiettati il Mercoledì di
ogni settimana a partire dal 15 OTTOBRE 2014
Orari Spettacoli: 18.00 - 20.00 - 22.00
*Orari Spett.: 17.30 - 20.45
**Orari Spett.: 18.00 - 20.35
CINEMA SAN MARCO - BENEVENTO - TEL. 0824/43101
http://cinemasanmarco.jimdo.com http://www.facebook.com/rosebud.s.marco
BELLUSCONE - UNA STORIA SICILIANA
Regia: Franco Maresco. Sceneggiatura: Franco Maresco,
Claudia Uzzo. Con Tatti Sanguineti, Salvo Ficarra, Valentino
Picone, Ciccio Mira, Vittorio Ricciardi, Salvatore De Castro.
Durata 95 min. - Italia 2014
NOTE - PREMIO GIURIA, ORIZZONTI VENEZIA 2014; PREMIO
ARCA CINEMAGIOVANI, MIGLIOR FILM ITALIANO
(…) un oggetto magmatico e decisamente affascinante. Un
incrocio vagamente mostruoso tra un diario, un'inchiesta
politica e un reportage in alcune delle propaggini più
estreme, e rivelatrici, del nostro paese (…)
Fabio Ferzetti, Il Messaggero
Si ride parecchio vedendo 'Belluscone' (...) Il merito è di
Franco Maresco, geniale regista palermitano che ha
preferito disertare Venezia per non «sporcare» la sua opera
con polemiche, pensa un po', su Berlusconi (...) La
differenza rispetto alla valanga di film e documenta rivisti
finora sul tema è la cifra ironica. Al posto del livore
giustizialista (...), si predilige il tono scanzonato. Il tutto
confezionato in un documentario su cui però s'innesta un
altro giallo: l'improvviso ritiro di Maresco (…)
Maurizio Caverzan, Il Giornale
(…) Maresco non ha in mente un film di denuncia, né a tesi.
Non sarebbe nelle sue corde. Ha in mente un'inchiesta sui
generis che vuole andare alle radici di un fenomeno
culturale e di costume apparentemente solo siciliano, in
verità intimamente italiano (…) le riprese iniziano quando
Berlusconi è al potere ed arrivano (senza finire) sulle code
della sua parabola politica, sconfinando nella tanto veloce
quanto sospetta "rimozione collettiva nazionale" (…) Tra
disperazione e calcolo, Maresco fa di sé un latitante,
franando dentro qualche cupa cantina della Kalza (…) Così
Tatti dalla Milano dei suoi eterni traffici si mette in viaggio
(…) Va a Palermo alla ricerca del regista perduto. Come
fosse l'investigatore privato di un noir hollywoodiano, tra
Chandler e Wilder, il famoso critico, inizia a mettere insieme
i pezzi. Parte dalla rivisitazione delle diverse ore di girato,
scoprendo (e facendoci scoprire) i tratti di un progetto
ambizioso e folle (…) Prende vita la tela del progetto, ma
molti, troppi sono i buchi, parzialmente colmati
dall'investigazione di Tatti che si muove con grazia inusitata
tra le testimonianza di amici, collaboratori, giornalisti locali,
passanti e tassisti. Il puzzle si ricompone e quel che doveva
essere il film di Maresco si trasforma nella geniale
ricostruzione del suo fallimento: il film postumo di un regista
latitante, chiuso al montaggio da un amico complice.
Questo è Belluscone. Una storia siciliana, un film già di
culto. Un'opera straordinaria, intimamente wellesiana, un F
for Fake palermitano, divertente e tragico. Un giro
nell'ottovolante dell'assurdo siciliano e italiano. Sublime,
una delle cose più sorprendenti e potenti del cinema italiano
degli ultimi tempi. Ma anche il film più bello della Mostra di
Venezia. Belluscone. Una storia siciliana è anche un film
divertentissimo, sorretto da un'intelligenza sopraffine (e
crediamo che molte siano le sue possibilità anche
commerciali). Ma è anche un film complesso e stratificato.
È un film politico ma non perché parla di Berlusconi e delle
compromettenti relazioni con il sistema mafioso (…) È un
film politico perché parla degli italiani e dell'Italia, un film su
di noi e per noi, se solo avessimo il coraggio di vedere quel
che siamo, seppure deformati nei volti assurdi dei
personaggi freaks di Maresco.
Belluscone è anche un film sul cinema che non si può più
fare, sulla libertà artistica che si tenta di governare, sulla
memoria che si vuole manipolare, sulla rimozione che non
smette di agire, sulla solitudine di chi parla contro il coro,
sulla cultura mafiosa che si pensa di folklore, sulla
televisione che ha devastato l'immaginario nazionale, sulla
musica popolare che piace e confonde, sui giovani e la
tecnologia, sui vecchi e l'omertà... (…) Si intuisce di essere
innanzi a qualcosa di strano, di diverso, di importante. Lo si
coglie e lo si fa sedimentare. E il coraggio arriverà più tardi,
quello di capire, di meglio analizzare, facendo spazio nel
puzzle rigogliosissimo di materiali cinematografici diversi,
esempio di una libertà compositiva assoluta. Ora,
storpiando Celine, vorremmo dire a Maresco, se ci potesse
leggere da un posto che non conosciamo, laggiù dove si è
nascosto, che dopo aver visto questo suo film non saremmo
più, ne siamo certi, tanto freddi, cialtroni, volgari come gli
altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che ci ha
regalato nel corso di questo viaggio nel suo universo e
immaginario, che è anche il nostro, perché se guardando un
film non si ha la sensazione che qualcosa ci ri-guardi, è
inutile perdere il tempo con il cinema.
Dario Zonta, MyMovies
LE MERAVIGLIE
Regia: Alice Rohrwacher. Soggetto e Sceneggiatura:
Alice Rohrwacher. Con Maria Alexandra Lungu, Sam
Louwyck, Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo, Agnese
Graziani, Monica Bellucci. Durata 111 min. - Italia 2014
NOTE – GRAN PREMIO DELLA GIURIA AL FESTIVAL DI CANNES
2014
Raccontare l'Utopia, i suoi sogni e i suoi errori e fallimenti.
E raccontarla quando non è più di moda, quando ti devi
interrogare sul suo senso, sulle sue ragioni, sulle sue
fatiche: ecco la scommessa - vinta, diciamolo subito - di
Alice Rohrwacher e del suo 'Le meraviglie' (…) Un film
«fragile», «indifeso», che si offre «nudo e senza trucchi»
agli occhi dello spettatore (...) ma attraversato da una
straordinaria fiducia nel cinema e nella sua capacità di saper
mostrare e svelare le cose. Ambientato in un presente
indistinto, forse un passato prossimo come farebbe pensare
la canzone di Ambra che tanto piace a una delle bambine, il
film racconta la vita quotidiana di una famiglia allargata che
vive al confine tra Toscana e Lazio producendo miele. C'è
un padre dalle evidenti origini tedesche (Sam Louvyck), una
madre che dev'essere vissuta a lungo in Francia (Alba
Rohrwacher), quattro figlie dove spicca la maggiore,
Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), e un'ospite, Coco
(Sabine Timoteo), di cui non si capiranno mai bene i legami,
ma che aiuta a sottolineare la realtà aperta e non chiusa di
quella famiglia. Allevano api, coltivano la terra e cercano di
barcamenarsi tra regole igieniche europee e fatica
quotidiana, inseguendo un ideale di indipendenza
economica e rifiuto del consumismo che rimanda ad altre
stagioni e altre ideologie. Una vita sul filo di un difficile
equilibrio, dove le convinzioni del padre spesso diventano
imposizioni autoritarie, dove la sopportazione della madre
non sempre significa comprensione e dove Gelsomina cerca
di conciliare senso del dovere e sogni di fuga. A mettere in
crisi quel mondo così residuale arriva il programma di una
scalcinata televisione locale condotto dalla presentatrice
Milly Catena (Monica Bellucci, bravissima) che promette «un
sacco di soldi» al miglior produttore di prodotti alimentari
locali. E che agli occhi di Gelsomina sembra fondere la
speranza di un aiuto economico ma anche il sogno di una
favola salvifica. Lo spunto narrativo poteva trasformarsi
nell'ennesimo melodramma famigliare di ribellione e rabbia
e invece Alice Rohrwacher (che firma da sola anche la
sceneggiatura) sceglie una strada meno appariscente ma
più profonda e vera. Ricordandosi della lezione di Rossellini
(quello di 'Europa '51', di 'Viaggio in Italia', del
documentario sull'India) mette i suoi personaggi nella
condizione di superare i limiti della finzione: la verità delle
loro azioni non nasce dalle battute del dialogo o dalle trovate
della sceneggiatura ma dalla capacità degli attori - tutti
straordinari e straordinariamente diretti - di far proprie le
motivazioni e le ragioni profonde dei personaggi per far
nascere attraverso i corpi e i volti quello che poi la macchina
da presa si incarica di selezionare e registrare. In questo
modo lo spettatore è preso come per mano e portato dentro
le situazioni (più che dentro la trama), capace di capire le
esitazioni o gli slanci dei vari personaggi. 'Le meraviglie'
coglie la verità contraddittoria del reale. Senza per questo
nascondere i limiti e le ambizioni dell'Utopia, un sogno che
era giusto per i padri ma può diventare problematico per i
figli. Ma di cui, come dice l'ultima battuta del film, bisognerà
comunque
conservare
e
nascondere
un qualche
componente segreto perché possa essere trasmesso anche
alle generazioni successive.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera
(...) Nato da schegge autobiografiche ma sviluppato con
libertà, inventiva e una prepotente vena poetica, 'Le
meraviglie' di Alice Rohrwacher è un piccolo miracolo di
compattezza e coerenza. Tutto si tiene (…) ogni personaggio
è motivato e disegnato alla perfezione, senza perder tempo
e tensione (…) Fabio Ferzetti, Il Messaggero
Meraviglioso di fatto, ma in lizza per la Palma d'Oro c'è un
(...) film che lo è già nel nome: 'Le meraviglie' (...) per
lusinghiero biglietto da visita. Qui va oltre, si supera
mantenendo fede a se stessa, al desiderio di non appiattirsi
sulla realtà - anche la sua autobiografia - ma di amarla,
analizzarla e comprenderla a tal punto da poterne fare fiaba,
immaginazione al potere (…) La Rohrwacher racconta la
resistenza strenua fino all'ottusità di un luogo umano tra
tanti non luoghi para-televisivi: la fata è Gelsomina, l'altra
ha la parrucca e il sorriso gentile e compiacente della
rassegnazione. Il conflitto è sempre quello, realtà contro
reality: solo nella prima c'è spazio per l'immaginazione (…)
la felicità e il fallimento non hanno stacchi di montaggio.
Cannes o non Cannes, ecco un'autrice.
Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano
MEDIANERAS - INNAMORARSI A BUENOS AIRES
Regia: Gustavo Taretto. Sceneggiatura: Gustavo Taretto.
Con Pilar López de Ayala, Javier Drolas, Inés Efron, Carla
Peterson, Rafael Ferro, Adrián Navarro, Romina Paula.
Titolo originale: Medianeras. Durata 95 min. - Argentina,
Spagna, Germania 2011
NOTE - LE 'MEDIANERAS' SIGNIFICA ‘MURI CIECHI’ DELLE CASE;
PREMIO DEL PUBBLICA A BERLINO E TOULOUSE 2014
(…) vivere in case adiacenti eppure non accorgersi
minimamente
della
presenza
l'uno
dell'
altra?
Con la sua opera prima, l'esordiente Gustavo Taretto coglie
le contraddizioni del mondo post-moderno contemporaneo
con uno stile ironico e originale (…) Taretto riesce a costruire
la narrazione attraverso i sentimenti e le angosce provate
dai protagonisti e direttamente connessi con il cemento
urbano che li avvolge come in una trappola senza via
d'uscita. I due ragazzi appaiono entrambi sensibili e
perfettamente consapevoli della atmosfera claustrofobica
che li soffoca. Però, Martin e Mariana vogliono trovare una
soluzione a quel caos di grattacieli e volti sconosciuti.
Nessuno dei due pensa ad una situazione diversa dal vivere
in città, ma entrambi credono che davanti a mille possibilità
una, almeno una, faccia per loro. La ricerca, sempre
deludente, di un approccio diverso e genuino che possa dare
un senso alla vita alienante, trova il suo sbocco in un finale
romantico e liberatorio. Taretto racconta l'amore ai nostri
giorni senza giudicare, ma con uno sguardo che mostra
qualcosa in più rispetto alla banalità delle apparenze. Con
l'ironia di due personaggi che si rincorrono a perdifiato e alla
fine aprono la finestra e lasciano entrare la luce, l'amore,
che ancora oggi dà senso ad esistenze perdute.
Roberta Montella, MyMovies
Che cosa ci rende più soli? Le fobie e i dolori della vita che
spingono a rinchiuderci in noi stessi o l'anonimato e la
disumanizzazione delle città che finiscono per impedire ogni
comunicazione interpersonale? 'Medianeras - Innamorarsi a
Buenos Aires' dell'argentino Gustavo Taretto si interroga su
questi temi con la leggerezza della commedia e lo stile del
film d'autore raccontando la storia di due single che vivono
praticamente uno di fronte all'altra ma non si conoscono.
(...) il terzo protagonista del film è proprio la capitale
argentina, il suo sviluppo urbanistico spropositato («una
citta sovrappopolata in un paese sottopopolato»), le sue
ambizioni architettoniche, le pareti a specchio e i muri
scrostati, i mega-appartamenti per la borghesia ricca e
potente e i mini-locali dove si fa fatica a muoversi e ci sente
inquilini di passaggio. (...) E se un finale di speranza è
praticamente obbligato, non altrettanto è il modo con cui il
regista - esordiente nel lungometraggio dopo alcuni corti conduce per mano lo spettatore, preoccupato soprattutto di
trovare uno stile adatto a coniugare la voglia di commedia
e lo sguardo da urbanista antropologo. Soluzione che
Taretto trova in uno stile classico e piano, come di chi
osserva la realtà da un postazione nascosta (un metaforico
buco nel muro?) che si apre all'improvviso su scorci en plein
air, dove si mescolano le passioni architettoniche di
Mariana, le ossessioni abitative di Martin e il gusto visivo del
regista, che se da una parte guarda a Woody Allen come
maestro di ironia e di «complicazioni sentimentali» dall'altro
sembra preoccupato di nascondere il suo passato
pubblicitario con un rigore autoriale molto «europeo».
Trovando alla fine una strada personale e interessante.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera
(…) Taretto pedina queste due vite in trappola catalogando
tutto senza sosta. Come se solo dall'accumulo nascesse la
soluzione. Così ogni pensiero, sentimento, edificio, ogni
mania, fobia, idiosincrasia dei suoi protagonisti, viene
censita e mappata. Non nuovissimo ma sottile, insinuante,
intelligente. E malgrado la nota di speranza, mai banale o
rassicurante. Fabio Ferzetti, Il Messaggero
ANIME NERE
Regia: Francesco Munzi.Sceneggiatura: Francesco Munzi,
Fabrizio Ruggirello, Maurizio Braucci, Gioacchino Criaco.
Con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio
Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo, Giuseppe
Fumo, Pasquale Romeo, Aurora Quattrocchi. Durata 103
min. - Italia, Francia 2014
NOTE
TRATTO
DALL’OMONIMO
ROMANZO
DI
GIOACCHINO CRIACO ; IN CONCORSO VENEZIA 2014; PREMIO
FRANCESCO PASINETTI (SNGCI) - MIGLIOR FILM; PREMIO
SCHERMI DI QUALITÀ
Meglio l'Italia non poteva esordire a questa Mostra. 'Anime
nere' di Francesco Munzi è un film straordinario per forza
emotiva e coerenza narrativa, specie di tragedia
elisabettiana ambientata nella parte più cupa della Calabria
(…) Ma è insieme un ritratto finissimo e preciso di un modo
di vivere che sembra sfidare i secoli e le leggi, ancorato a
vecchie tradizioni e usanze immodificabili che aggiunge al
dramma un altro e più concreto livello di lettura, quasi da
antropologia dei costumi. Un incontro raro, tra storia e
contesto, tra forza della finzione e concretezza del reale, che
fa del film una splendida riuscita (...). Munzi, che ha firmato
la sceneggiatura con Fabrizio Ruggirello (scomparso
recentemente: a lui è dedicato il film) e Maurizio Braucci,
mette in scena la storia con una linearità «classica», attento
alle psicologie così come ai colpi di scena, per delineare coi
caratteri dei fratelli tre modi diversi di vivere l'inevitabile
modernizzazione della Calabria (...). Ecco allora che al
centro del film non c'è più una «storia di 'ndrangheta» ma
piuttosto una riflessione più ampia e complessa sui rapporti
tra cultura arcaica e le « tentazioni» della modernizzazione
(tentazioni che vogliono dire soprattutto soldi e droga) e che
nessuna mediazione culturale o politica sembra in grado di
controllare. Non lo Stato né la Legge, disprezzati nei loro
rappresentanti (...), ma neppure il senso della comunità,
che si frantuma di fronte al risuonare di un destino che sente
solo le ragioni del sangue e della vendetta. Munzi, che ha
ambientato il suo film nel triangolo più ostile della Locride
(Africo, Platì e San Luca) e che ha fatto parlare i suoi
personaggi nel dialetto locale (naturalmente sottotitolato),
sfrutta le sue origini documentaristiche per rimarcare
legami sotterranei tra le persone e i loro comportamenti
(...), sfrutta al meglio un cast eccezionale per forza
espressiva e verosimiglianza (dove accanto ad attori
professionisti recitano abitanti di Africo e dintorni) e tesse
così la rete di un racconto dove il realismo
dell'ambientazione e la giustezza dei comportamenti
finiscono per esaltare ancora di più l'esplosione della
tragedia finale, vero pugno nello stomaco che lascia
ammutoliti e ammirati.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera
'Anime nere' di Francesco Munzi parte da Amsterdam per
portarci in poche vorticose scene ad Africo, passando per
Milano. Dal narcotraffico globale alla lingua pietrosa
dell'Aspromonte, dunque. Dagli intrecci tra economia
criminale e economia reale, alla voce del sangue (…) la
voglia di rappresentare quel mondo evitando i cliché. Per
leggere nel buio di quelle anime qualcosa che forse non
riguarda solo loro ma tutto il nostro paese corrotto e
ostinatamente premoderno. Si sente la grande lezione
antropologica di certo nostro cinema, da Visconti a Rosi e
De Seta, da cui Munzi prende il gusto del dettaglio e la
limpidezza con cui descrive i rapporti: di forza, di parentela,
di sangue, di affari (…) Fabio Ferzetti, Il Messaggero
(...) come non intravedere sullo sfondo il modello di certo
nostro grande cinema, da 'Rocco e i suoi fratelli' a 'Tre
fratelli'? Come nel film di Visconti si comincia in quel di
Milano dove si sono trasferiti il protervo, spavaldo Luigi (…)
Munzi, che con il film d'esordio 'Samir' aveva evocato il
dramma dell'emigrazione (…) si conferma cineasta
interessante, capace di ritagliare gli ambienti con verità di
documentarista, che scava nel cuore nero degli uomini, così
come nelle zone oscure di una società che è all'origine di
tutto, degli affetti viscerali come dei più trucidi fatti di
sangue. Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa
CLASS ENEMY
Regia:
Rok
Bicek.
Sceneggiatura:
Rok
Bicek,
Nejc Gazvoda, Janez Lapajne. Con Igor Samobor, Natasa
Barbara Gracner, Tjasa Zeleznik, Masa Derganc. Voranc
Boh. Titolo originale: Razredni sovraznik. Durata 112
min. - Slovenia 2013
NOTE - PREMIO FEDEORA MIGLIOR FILM, SETTIMANA
INTERNAZIONALE DELLA CRITICA, VENEZIA 2013; PREMIO
CINEUROPA AL FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO DI LES ARCS
2014
Ci sarà una ragione se ogni volta che un regista,
generazione dopo generazione, si cala l'elmetto e torna
nella trincea della scuola, ne esce un film vivo, vibrante,
traboccante di energie e di domande senza risposta. Che
per giunta non sono mai le stesse perché la scuola è un
sismografo infallibile di tutto ciò che è in gioco in una
comunità in un dato momento storico, sul piano del potere
e dei modelli a cui obbedisce quella comunità. Ovvero della
loro legittimità. Ieri 'La scuola' di Luchetti, 'La classe' di
Cantet, e anche il meno risolto 'La mia classe' di Gaglianone.
Oggi 'Class Enemy' dello sloveno Rok Bicek, 29 anni,
scoperto alla Settimana della Critica di Venezia. Un film in
cui non si spreca una scena, una faccia, un gesto, senza che
accada qualcosa di irrimediabile. Come sempre negli anni
della formazione, quando tutto accade per la prima volta e
lascia tracce indelebili. Non solo in chi è lì per imparare ma
in chi dovrebbe insegnare, se è degno del suo mestiere. (...)
La spirale che si mette in moto ricorda quella del 'Sospetto'
di Vinterberg, ma lo sguardo di Bicek è più ampio e sfumato.
Oltre ai ragazzi, mai giudicati ma solo osservati nella loro
ingenua arroganza (non priva di ragioni), sfilano infatti i
professori e in una breve scena sarcastica i genitori, che
portano di colpo tra quelle mura il rumore del mondo. Lo
spunto di partenza sarà autobiografico, ma il neoregista lo
ha elaborato a dovere. Di Bicek risentiremo parlare.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero
Per i Marx ed Engels del Manifesto del Partito comunista, le
due classi erano borghesia e proletariato, ma oggi?
Lasciamo perdere pure Sorel, Brecht e il letterale - e teatrale
- 'Nemico di classe' di Nigel Williams, e andiamo al cinema,
con un film che non capita ogni weekend: 'Class Enemy',
folgorante (sul serio) esordio dello sloveno Rok Bicek, classe
1985. (...) Sullo schermo, un rapporto di causa-effetto
apparentemente semplicissimo: un nuovo professore di
tedesco, una classe che esplode. Eppure, la tavolozza
umana di Bicek non ha bianco e nero, ma tutte le sfumature
del caso, i chiaroscuri psicologici, le ambiguità etiche, le
relazioni politiche tra bene e male: chi è il colpevole,
soprattutto, c'è un colpevole? Apparentemente, anche qui,
non ci sono dubbi: Robert (Igor Samobor, superstar in
Slovenia, le signore gradiranno assai...), il professore tutto
d'un pezzo, marziale si direbbe, 'nazista!' replicano gli
studenti (…) ragazzi e ragazze diversi tra loro, eppure, come
tutti. Il ribelle, il secchione, la punkettona, gli stereotipi,
meglio, i tratti distintivi sono ordinari, forse, a dare
nell'occhio è solo Sabina (Dasa Cupevski), che suona Mozart
al pianoforte. (...) La sinossi, ovvero la guerra con la
cattedra a far da barricata, non è inedita, ma il titolo non è
solo un evocativo, elegante e furbo gioco di parole: un
nemico di classe qui c'è davvero. Già, ma chi è? Se Sabine
è il capro espiatorio, la preside - direbbe Lenin - l'utile idiota,
sicuri che Robert sia la nemesi? No, troppo cattivo, troppo
'nazista' per essere davvero tale, ma la forza del film qui
risiede: Robert non ha inquadrature in soggettiva, Robert è
oggetto degli studenti, correlativo oggettivo della loro
ribellione,
eppure
nonostante
non
abbia
voce
drammaturgica - a parte la straordinaria presa scenica stiamo con lui, meglio, gli concediamo il beneficio del
dubbio. Bicek (...) cita Haneke, Mungiu e Zvyagintsev tra i
propri maestri e non paiono nomi a caso, soprattutto il
primo: 'Amo la sua spietata dissezione dell'animo umano, e
cerco di rappresentarla anche nei miei film'. Ci è quasi vicino
(...) Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano
(…) un esordio intelligente che scarta ammirevolmente tutti
gli stereotipi dello 'school movie'. Non solo per l'ottima
composizione del cast, assortimento di attori professionisti
e studenti scelti nelle scuole. La sua forza sta nell'assumere
diversi punti di vista, mostrando anche le ragioni di un
insegnante severo perché prende il suo compito molto
seriamente. Così che il vero colpevole diventa il sistema
educativo (non solo) sloveno, proiezione di una società dove
permissivismo fa rima con indifferenza, generando effetti
depressivi sui giovani. Roberto Nepoti, La Repubblica
IL REGNO D'INVERNO - WINTER SLEEP
Regia: Nuri Bilge Ceylan. Sceneggiatura: Ebru Ceylan,
Nuri Bilge Ceylan. Con Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet
Akbag, Ayberk Pekcan, Serhat Mustafa Kiliç. Titolo
originale: Kis uykusu. Durata 196 min. - Turchia, Francia,
Germania 2014
NOTE - PALMA D'ORO AL FESTIVAL DI CANNES 2014; PREMIO
FIPRESCI
(FEDERAZIONE
INTERNAZIONALE
STAMPA
CINEMATOGRAFICA) MIGLIOR FILM, A CANNES 2014
'Il regno d'inverno', film del turco Nuri Bilge Ceylan, Palma
a Cannes e in gara per l'Oscar, è un pezzo unico e
imperdibile di 196 minuti che impegna a tempo pieno
ragione, cuore e sentimento. Non temete, è un suggestivo
kolossal introspettivo consigliato a chi al cinema chiede
ancora le virtù del pensiero, a chi capta atmosfere e
panorami non da cartolina, chi vede oltre che guardare e
ascolta oltre che sentire. Chi ama cine panettoni o best
seller fantasy per teenager, fugga: ma coloro che hanno la
pazienza di entrare in una storia, viaggiando in paesi
lontani, partecipando a processi a porte chiuse, non lo
perdano. Coabitiamo con personaggi in ostaggio di un
innevato, silenzioso paesaggio dell'Anatolia, caratteri di
cechoviana pazienza ma che si pongono dilemmi etici da
Dostoevskij. Chi conosce questo regista personale ('C'era
una volta in Anatolia'), sa che ha un modo di pensare il
cinema senza Tempo: l'infinito pare sempre senza ritorno
poi ti accorgi che ti riguarda. (...) eccezionale Haluk Bilginer
(...) Maurizio Porro, Il Corriere della Sera
(...) 3 ore e 15 di immagini maestose e dialoghi bergmaniani
che battono con forza e profondità non comuni su pochi
punti decisivi. Quanta violenza latente si annida nei rapporti
- di coppia, di classe, di lavoro - che scandiscono le nostre
vite? Quanti modi abbiamo per dissimulare, anche a noi
stessi, l'odio che scorre nelle vene della cosiddetta civiltà? E
che prezzo paghiamo per questo autoinganno che spesso
genera altro malessere e violenza? Era, a ben vedere, anche
il soggetto dell'ultimo capolavoro di Nuri Bilge Ceylan, 'C'era
una volta in Anatolia'. Ma se quello era quasi un thriller fatto
di svelamenti progressivi, qua l'enigma sembra infittirsi man
mano che ci addentriamo nel regno di Aydin. E più che delle
novelle di Cechov rielaborate dalla sceneggiatura (scritta
con sua moglie Ebru Ceylan), si sente l'eco dell''Idiota' di
Dostoevskij: vedi la tirata della sorella di Aydin, quasi la
chiave del film, sulla scelta di non opporsi al male per
combatterlo. Il tutto esaltato dall'ambientazione in quella
terra così remota che le relazioni sociali hanno qualcosa di
arcaico e di particolarmente scoperto (…) Chi crede che la
lunga durata si identifichi col ritmo martellante delle serie
tv, giri al largo. Ma chi a un film chiede ancora la densità e
la complessità di un romanzo, non se lo lasci sfuggire.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero
E' un viaggio verso l'inverno della vita, quando all'impeto,
alla passione, al desiderio di nuovo si sostituisce il bisogno
di riflessione e di quiete; e la vera avventura diventa quella
di trovare il coraggio di accettarsi per quel che si è. (...)
Attraverso un succedersi di scene di impianto teatrale,
Aydin, Nihal e Nicla si confrontano in lunghe discussioni
etico culturali che, nonostante sembrino improntate a puro
gusto speculativo, ne tradiscono frustrazioni e delusioni.
Potrebbe venire in mente Bergman, ma Nuri Bilge CeyIan
non scava nelle viscere, guarda piuttosto a Cechov
intessendo la complessità inafferrabile della vita sui fili di
una quotidianità priva in apparenza di eventi; e regalando,
a dispetto delle oltre tre ore di durata, una coinvolgente
esperienza di cinema. Colonna sonora affidata all'Andantino
della Sonata 20 di Schubert, attori perfetti, sceneggiatura
densa, 'Il regno di inverno', (Palma d'oro a Cannes)
conferma che l'autore di 'C'era una volta in Anatolia' è
davvero un grande.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa
PICCOLE CREPE, GROSSI GUAI
Regia: Pierre Salvadori. Sceneggiatura: Pierre Salvadori,
David Colombo-Léotard. Con Catherine Deneuve, Gustave
Kervern, Féodor Atkine, Pio Marmaï, Michèle Moretti. Titolo
originale: Dans la Cour. Durata 97 min. - Francia 2014
Uscita sale: giovedì 16 ottobre 2014
Antoine è un musicista 40enne che improvvisamente decide
di porre fine alla sua carriera. Inizia così a vagare senza
meta fino a quando viene assunto come custode di un
vecchio edificio residenziale di Parigi. E' qui che osserva ed
entra in contatto con i vari condomini tra cui Mathilde, una
donna generosa e vivace che da poco tempo è andata in
pensione e che dopo aver scoperto una crepa nella parete
del soggiorno viene assalita dalla preoccupazione che il
palazzo possa crollare…
Una commedia sulla depressione che scivola con grazia dall’
umorismo alla serietà. Alle volte inatteso ed evidente, i due
attori effondono a meraviglia la polifonia, in apparenza
semplice ma studiata ad arte, dei dialoghi e delle situazioni.
Positif, Ariane Allard
Una "mélancomédie" elegante su dei depressi che imparano a vivere.
Pierre Salvadori, ha abbandonato le commedie sofisticate e firma il suo
film più intimo e commovente.
Les Inrockuptibles, Romain Blondeau
Pierre Salvadori è il pittore delle anime doloranti, dipinge
ritratti di personaggi sensibili, tra risate e lacrime.
Figaroscope, Nathalie Simon
Di una bellezza aerea, funambolica, irradiante, che il film
finisce per emanare non si sa come.
Télérama, Louis Guichard
La finezza dei dialoghi e dei ritratti ha eguagliato
l'intelligenza del casting. Metro, Marilyne Letertre
BOYHOOD
Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard
Linklater. Con Ethan Hawke, Patricia Arquette, Ellar
Coltrane, Lorelei Linklater, Steven Prince. Tamara
Jolaine, Nick Krause, Jordan Howard, Evie Thompson, Sam
Dillon, Natalie Wilemon, Shane Graham, Zoe Graham.
Durata 165 min. - USA 2014
NOTE - ORSO D’ARGENTO A BERLINO 2014, PREMIO GILDA L’OSCAR TEDESCO - MIGLIOR FILM STRANIERO 2014
Uscita sale: giovedì 23 ottobre 2014
Uno dei più importanti esperimenti cinematografici
del nuovo millennio. Mason 8 anni vive con sua madre
Olivia e la sorella Samantha di poco più grande ma senza il
padre Mason sr., da anni separato ma rimasto comunque
vicino ai ragazzi (…) Boyhood è molto più di un period movie
sugli ultimi 12 anni degli Stati Uniti ed è molto più di un
romanzo di formazione. È addirittura molto più di un
particolare esperimento cinematografico (realizzare un
lungometraggio lungo più di una decade, riunendo ogni
anno il cast per girare alcune scene e vederli così
invecchiare realmente), è un grandissimo affresco
sull'essere ragazzi americani oggi, partendo dalle radici,
dalla formazione individuale, un racconto fondato quasi
tutto sul concetto di famiglia, non tanto come nucleo ma
come elemento centrale nella "boyhood", l'età tra gli 8 e i
20 anni. C'è un paese intero e il suo spirito per come è vivo
oggi nella storia per nulla clamorosa di Mason.
In questo senso l'ultimo film di Richard Linklater non è
diverso da La conquista del West, è l'epica di un popolo letta
attraverso una famiglia e uno sguardo non-epico, molto
disilluso e un po' depresso (nonostante si rida tanto e ci si
commuova molto di gioia) (…) concentrandosi su quegli
istanti di ordinario svolgimento in cui i sentimenti sono
visibili, come se una luce passasse attraverso le persone e
svelasse inesorabilmente quello che sentono (…) Questo
esperimento narrativo invece riprende l'opposto, non vuole
cristallizzare intorno a dei protagonisti un sentimento
immutabile nel tempo ma celebrare il cambiamento. Il suo
racconto passa attraverso momenti in linea di massima
ordinari o eventi poco importanti, quel che conta è il passare
del tempo, cambiare realmente (non usando del trucco o un
altro attore più adulto), per realizzare il sogno del cinema
portato all'estremo: mostrare la vita umana mentre si
svolge senza rinunciare alla forza comunicativa di un corpo
vero che invecchia. Gabriele Niola, Mymovies
DUE GIORNI, UNA NOTTE
Regia:
Luc
Dardenne,
Jean-Pierre
Dardenne.
Sceneggiatura: Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne.
Con Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne, Simon
Caudry. Titolo originale: Deux Jours, Une Nuit. Durata 95
min. - Belgio 2014
NOTE - IN CONCORSO AL FESTIVAL DI CANNES 2014
Uscita giovedì 13 novembre 2014
Ci sono dei film che riempiono gli occhi, altri che soddisfano
la mente. 'Deux jours, une nuit' (Due giorni, una notte) dei
fratelli Dardenne riempie il cuore. Non che non abbia altre
qualità, tutt'altro, ma è un film che va diritto all'emozione,
anche se è ben attento a non «ricattare» mai lo spettatore.
Piuttosto usa l'empatia con la protagonista per aprirti gli
occhi sull'oggi e sulla realtà. (...) La grandezza dei
Dardenne, come sempre autori della sceneggiatura, è quella
di lasciare pochissimo spazio ai «problemi» sindacali per
scavare nelle contraddizioni delle persone: solidarietà
contro gratificazione finanziaria, libertà di decisione contro
ricatti aziendali (il capofabbrica è una presenza lontana ma
incombente), disponibilità al sacrificio contro egoismo. A
reggere tutto il film, una Cotillard davvero straordinaria,
capace di comunicare la tensione che la agita - non vuole
«elemosine», non vuole ricattare nessuno - grazie a una
forza espressiva intensissima, vera e commovente, che la
candida a una Palma che finora le è sempre sfuggita.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della sera
Il punto è la solidarietà, solo da lì può ricominciare il
cammino delle vittime della crisi, stritolate non solo dalla
pressione economica, ma anche dalla perdita della dignità e
della fiducia in se stesse. I fratelli Dardenne arrivano al
Festival e, come sempre, ipotecano il Palmares con un film
asciutto e potente, perfettamente nell'aria del tempo (…)
Fulvia Caprara, La Stampa
Sono per i fratelli (...) Dardenne gli applausi più convinti
ascoltati finora sulla Croisette (...). Il loro nuovo film ha la
leggerezza e insieme la forza di una favola, si intitola 'Due
giorni, una notte' e avrebbe buone probabilità di vincere il
premio più ambito se non fosse che nessuna giuria avrà mai
il coraggio di assegnare un'altra Palma a chi ne ha già due
in bacheca... (...) La struggente bellezza del film sta nel
contrasto tra la fragilità della donna e la difficoltà mostruosa
della sua impresa (…) questa piccola storia personale
diventa un inno alla solidarietà e, insieme, la polaroid
appassionante della società contemporanea, postideologica (...). I Dardenne non vanno all'attacco del
capitalismo (o almeno non lo fanno lancia in resta come
Michael Moore o Ken Loach), ma non per questo la loro
condanna del sistema è meno efficace. Regna incontrastata
la Grande Depressione, categoria economica che diventa
psicologica. (...) Marco Dell'Oro, L'Eco di Bergamo
STORIE PAZZESCHE
Regia: Damián Szifron. Sceneggiatura: Damián Szifron.
Con
Ricardo
Darín,
Leonardo
Sbaraglia,
Darío
Grandinetti, Erica Rivas, Julieta Zylberberg, Nancy
Dupláa,María Onetto, Oscar Martínez, Rita Cortese, Osmar
Núñez. Titolo originale: Relatos Salvajes. Durata 121
min. - Argentina, Spagna 2014
NOTE - IN CONCORSO AL 67. FESTIVAL DI CANNES (2014);
VINCITORE MIGLIOR FILM AL FESTIVAL DI SAN SEBASTIAN 2014
Uscita sale: giovedì 20 novembre 2014
Un uomo decide di vendicarsi di tutti quelli che gli hanno
fatto del male riunendoli in un luogo improbabile; un
gangster capita per caso nel diner dove lavora la figlia di
una delle sue vittime; un diverbio fra automobilisti si
trasforma in un massacro grandguignolesco; un ingegnere
vessato dalle multe trova il modo di vendicarsi; un incidente
automobilistico dà il via ad una gara fra avvoltoi; un
matrimonio da favola sfocia in un'escalation di insulti e
ricatti. Relatos Salvajes è un buon esempio del lato
commerciale (ma non privo di cura registica) del nuovo
cinema argentino e riflette sui mostri della modernità
lasciandosi dietro un retrogusto amaro. L'imprinting della
commedia all'italiana è fortissimo, ma rispetto ai film comici
a episodi prodotti in Italia in tempi recenti Relatos
Salvajes rimane saldamente agganciata alla realtà del paese
che racconta, e tanto i dialoghi quanto le svolte narrative
mantengono un occhio alla contemporaneità e un orecchio
al vero modo di esprimersi della gente.
Lo stile di regia dell'episodio sul matrimonio sembra ispirarsi
a Reality di Matteo Garrone, la violenza in chiave satirica
piacerebbe invece a Tarantino, e certe volgarità alla nuova
commedia yankee del filone Una notte da leoni. Ma Relatos
Salvajes riesce a trovare una sua identità originale filtrando
le varie influenze attraverso una discreta sensibilità
autoriale.
L'accento è sulla violenza e la brutalità ferina dei personaggi
(di qui i ritratti di animali della giungla che appaiono dietro
ai titoli di testa), ma anche sul potere di compressione di
una società basata sulla sopraffazione e sulla disparità
economica. Prodotto da Pedro Almodovar, Relatos
Salvajes (che significa storie selvagge), colora di ironia e di
spunti polemici ogni situazione, e il cast riunisce il meglio
del talento argentino attuale, a cominciare da Ricardo Darin
che dà all'ingegnere stanco di subire la giusta sfumatura
malinconica.
La colonna sonora, composta e arrangiata da Gustavo
Santaolalla, fa da contrappunto tragicomico alle vicende
narrate, e non disdegna gli excursus nel pop, da Flashdance
a Lady lady lady. Il risultato è un mosaico della
contemporaneità dolorosamente realistico anche quando
vira verso i toni della farsa, del pulp e del kitch.
Paola Casella, MyMovies
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