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IL FILM La scheda La vicenda Il genere OLTRE IL FILM La grande
LA GRANDE GUERRA IL FILM ● La scheda ● La vicenda ● Il genere OLTRE IL FILM ● La grande guerra al cinema ● “Letterati al fronte” ● “Un illetterato al fronte” LINKS APPENDICE ● ● Guerra “all'italiana”, intervista a Mario Monicelli” “Monicelli e il milite noto” SCHEDA DEL FILM Regia: Mario Monicelli Sceneggiatura: Age & Scarpelli, Vincenzoni, Monicelli Fotografia: Giuseppe Rotunno Scenografia: Mario Garbuglia Costumi: Danilo Donati Musica: Nino Rota Montaggio: Adriana Novelli Prodotto da: Dino De Laurentiis Cinematografica Luogo e anno: Italia; 1959 Durata: 135' PERSONAGGI PRINCIPALI E INTERPRETI Oreste Jacovacci: Giovanni Busacca: Costantina: Bordin: Capitano Castelli: Alberto Sordi Vittorio Gassman Silvana Mangano Folco Lulli Bernard Blier LA VICENDA Siamo nel 1916, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), ed il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) sono due scansafatiche che fanno di tutto per evitare di partire per il fronte. I due si incontrano una prima volta quando Oreste raggira Giovanni sottraendogli dei soldi con la promessa di farlo riformare. Successivamente, falliti tutti i tentativi di imboscarsi, i due si ritrovano arruolati e mandati al fronte. Nonostante l'iniziale rancore di Giovanni, tra loro nasce un'intensa amicizia, cementata soprattutto dalla comune lotta per sopravvivere il meglio possibile nelle difficili condizioni in cui si trovano tutti i soldati al fronte. Insieme i due vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un'avventura con una prostituta (Silvana Mangano). Pur trovandosi spesso in circostanze che rivelano la loro disastrosa ingenuità i due sono maestri nell'evitare le grane, piccole o grandi che siano. e così riescono a farla franca tutte le volte. Partecipano a tutte le vicende belliche, vivono la disastrosa ritirata dopo Caporetto e sono fra le truppe che tentano di resistere all'avanzata austriaca lungo la linea del Piave. Le forze armate italiane affrontano il nemico con gravi sforzi e subendo numerose perdite. Incaricati di portare un messaggio, Gianni ed Oreste si distaccano dalla loro squadra sulla via del ritorno e, perdutisi, cercano riparo in un casolare, dove vengono individuati da un ufficiale austriaco che li cattura scambiandoli per spie. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno alcune informazioni decisive per la battaglia in corso. I due inizialmente decidono di parlare per salvarsi, ma poi il colonnello austriaco dice la frase sbagliata e proprio l'arroganza dell'ufficiale farà venir fuori la dignità dei due italiani. È Gassman il primo a reagire: "... visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda...". Saranno entrambi fucilati, portando con sé i segreti da cui dipende la vittoria degli Italiani. LA COMMEDIA ALL'ITALIANA “Commedia all'italiana” è il termine con il quale viene indicato un filone cinematografico nato in Italia negli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Più che un genere dalle caratteristiche ben definite, come potrebbero essere il western o il thriller, il temine può essere utilizzato per indicare un periodo in cui in Italia venivano prodotte principalmente commedie brillanti, che avevano in comune però un approccio satirico ai cambiamenti in atto nell'Italia del periodo e una costante amarezza di fondo che stemperava sempre i contenuti comici. Le principali ragioni di successo delle ”commedie all'italiana” sono probabilmente da rintracciare sia nella presenza di una intera generazione di grandi attori, con la loro capacità di incarnare vizi e virtù degli italiani dell'epoca, sia nell'attento lavoro di registi e sceneggiatori, che inventarono un vero e proprio genere, completamente nuovo, riuscendo a trovare prezioso materiale per i loro film fra le pieghe di una società in rapida evoluzione e dalle molte contraddizioni. Pur con i limiti connessi alla comune appartenenza di classe di gran parte di autori e spettatori del genere – quella piccola e media borghesia che spesso si identificava con i personaggi rappresentati, mostrandosi fin troppo indulgente con i loro vizi e stemperando così gli intenti satirici delle pellicole – la commedia all'italiana probabilmente è stata il genere che meglio ha dato conto dei cambiamenti in corso nella società italiana dell'ultimo mezzo secolo, conseguendo spesso esiti mirabili anche sul piano artistico. Rappresentanti principali tra gli attori sono indiscutibilmente Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Nino Manfredi, e, qualche anno più avanti, Giancarlo Giannini, Claudia Cardinale, Monica Vitti, Sofia Loren, Stefania Sandrelli, oltre a un'infinità di caratteristi. Tra i registi, oltre a Germi, vanno ricordati Mario Monicelli, Luigi Comencini, Steno, Vittorio De Sica ,Antonio Pietrangeli, Nanni Loy, Lina Wertmuller, Ettore Scola, Luigi Zampa e Dino Risi, A buon diritto inventore della “commedia all'italiana” può essere considerato proprio Mario Monicelli, ecco come il regista definisce il genere in una sua intervista di qualche anno fa: La commedia “all’italiana” fu chiamata così, per disprezzo, dai critici e veniva fuori da un film bellissimo di Germi, Divorzio all’italiana, in cui si raccontava una truffa: un uomo faceva in modo di essere tradito per uccidere la moglie e fare quello che gli pareva. Ebbene la commedia all’italiana è proprio questo: tratta argomenti che sono drammatici, qualche volta tragici, con umorismo, con satira. Usa la satira e il grottesco, ma gli argomenti sono sempre drammatici: è la maniera di trattarli che provoca questa “comicità” che sappiamo fare solo in Italia e che è una cosa che viene da molto lontano, che non abbiamo inventato noi nel dopoguerra. [...] la commedia dell’arte fa ridere sempre giocando sulla miseria, sulla fame; Arlecchino è servo non di uno, ma di due padroni. Questa è la commedia all’italiana, che forse viene da ancora più lontano, dalle atellane, dal teatro romano, da Plauto: un teatro fatto di truffatori, di servi che rubano, di bisogni umani. LA GRANDE GUERRA AL CINEMA NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE Interpreti: Lew Ayres, Louis Wolheim ORIZZONTI DI GLORIA Regia: Lewis Milestone Interpreti: Kirk Douglas, Ralph Meeker, Adolphe Menjou 1930 - Bianco e Nero Regia: Stanley Kubrick Il film segue abbastanza fedelmente il capolavoro di Erich Maria Remarque dal titolo omonimo e riesce perfettamente a catturare tutta la tragicità e l’angoscia espressa nel romanzo. 1957 - Bianco e Nero ADDIO ALLE ARMI Interpreti: Rock Hudson, Vittorio De Sica,Alberto Sordi, Jennifer Jones Regia: Charles Vidor 1957 - Colore Dal celebre romanzo di Hemingway che, all’inizio della sua carriera di scrittore, si trovava proprio di stanza sull’Isonzo, a seguito delle truppe italiane, in qualità di autista volontario della Croce Rossa. Inizialmente vietato dalla censura francese, il film svela la natura di "macchina logica" della guerra e dell’esercito, il loro carattere di meccanismo impermeabile a qualsiasi infiltrazione di buon senso. UOMINI CONTRO Interpreti: Gian maria Volonté, Giampiero Albertini, Mario Feliciani, Regia: Francesco Rosi 1970 - Bianco e Nero Liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu "Un anno sull'Altipiano", si tratta di un lungometraggio di chiara impronta pacifista e antiautoritaria, che mette alla luce la follia della guerra. LETTERATI AL FRONTE Alla prima guerra mondiale parteciparono anche numerosi intellettuali italiani. È interessante leggere la loro testimonianza, nella forma del diario, del romanzo, della poesia oppure del pamphlet politico. Si tratta di documenti preziosi per comprendere la qualità e l'intensità della partecipazione al conflitto da parte di una categoria che, per sua stessa natura, era portata a riflettere sugli eventi ai quali partecipava. Si tratta di una produzione molto diversificata, che tuttavia presenta tratti comuni. Innanzitutto si trova in queste pagine una descrizione dall'interno degli aspetti sociali della guerra: l'incontro e lo scontro delle provenienze geografiche, dei dialetti, dei mestieri; la divisione di classe rispecchiata fedelmente dalla rigida gerarchia dell'esercito; la durezza della vita nelle trincee e la lotta per la sopravvivenza quotidiana; il formarsi spesso di una solidarietà che nasceva dalle difficili condizioni di vita sofferte quasi da tutti allo stesso modo. In secondo luogo, si tratta di fonti utilissime per capire le motivazioni della partecipazione alla guerra da parte di un ceto intellettuale che da sempre si era considerato separato dalla nazione e che aveva visto nella letteratura un'attività fine a se stessa, separata dalla vita e non modificabile dagli eventi esterni. I motivi che spingono a partire per il fronte sono spesso estranei alla letteratura, ma anche alla politica: in genere si tratta della volontà di far parte del corpo nazionale, di riallacciare solidarietà spezzate, di vivere per la prima volta veramente condividendo uno sforzo collettivo. La guerra diventa una sorta di catarsi, di riscatto dalla propria esistenza borghese, attraverso il contatto con gli umili. La guerra come mezzo per restituire dignità ad una vita altrimenti vuota, senso ad una quotidianità scialba. Indipendentemente dalle motivazioni con cui si va in guerra, però, nella maggior parte dei casi l'insegnamento che si trae dall'esperienza bellica è lo stesso e la riflessione sulla guerra si concentra sull'orrore per l'incredibile massacro, sull'insensatezza della disciplina militare, sull'ignoranza diffusa delle finalità del conflitto, sulle prevaricazioni odiose. Non mancano però posizioni diverse: se la maggior parte dei letterati scopriva nelle trincee la solidarietà con i propri simili, c'era anche chi viveva la guerra come pura esperienza stetica. È il caso di Filippo Tommaso Marinetti: ciò che lo attrae della guerra sono la velocità futurista, i rumori che diventano onomatopee, la possibilità di giocare, rompendo le regole costituite e facendo valere il proprio coraggio, l'esplosoione erotica favorita dalle condizioni di vita eccezionali. Ecco allora che i combattimenti diventano amplessi e le macchine da guerra “alcove d'acciaio”. LETTERATI AL FRONTE Poi sentiamo la danza furibonda e il ta-ta-ta-ta-tà capriccioso, spietato, ironico, femminile della mitragliatrice S. Etienne che, sei metri a destra, sputa come una andalusa fuoco di passione e garofani rossi dal suo bacone mascheratio di fogliami. È lei la leggendaria Dama al Balcone della Brigata Casale. [...] La bella Dama d'acciaio respira golosamente l'eccitante miscela diodori notturni: vaniglia, violette, acacie e menta selvaggia, tutti pepati dall'odore aspro dominatore della balistite. Sembra balllare pazza di gioia la sua strana danza a schiena curva. Fumano i suoi capelli sciolti. Il mitragliere le stringe i fianchi e l'ombra ingigantita della coppia bizzarra danza [...] Ben lontano dai Bergson seduti nelle cretine poltrone universitarie trovo nel momento più pericoloso d'una battaglia la soluzione di molti problemi che i filosofi non potranno mai scoprire nei libri, poiché la vita non si svela che alla vita. Il segreto amplesso del passato e del futuro nella stesa coscienza si rivela a coloro che tutto il passato hanno vissuto, sudato, pianto baciato, morso e masticato e che vogliono fra le carezze o le gomitate della morte vivere, baciare,masticare e soffrire il loro futuro. F. T. Marinetti, Alcova d'acciaio Hanno detto che l'Italia può riparare, se anche manche questa ocasione che le è data; la potrà ritrovare.Ma noi, come ripareremo? Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. [...] Perchè eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice. [...] Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. Mi contento di quello che abbiamo in comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna. R. Serra, Esame di coscienza di un letterato “Se non hai paura – disse il generale Leone rivolto al caporale – fa quello che ha fatto il tuo generale. Signor sì – rispose il caporale. E, appoggiato il fucile a terra montò sul mucchio di sassi. [...] Bravo! - gridò il generale – ora puoi scendere. Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui [...] Anche il genrale si curvò. I soldati lo guardavano con odio. È un erore – commentò il gnerale - Un vero eroe. Quando egli si drizzò, i suoi occhi, nuovamente, si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell'istante mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale”. E. Lussu, Un anno sull'altipiano “UN ILLETTERATO AL FRONTE” “Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare”. Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, nato a Chiaramonte Gulfi (Ragusa) nel 1899. Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 Vincenzo Rabito ha scritto, utilizzando una vecchia Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore ne inferiore e inserendo, come punti di interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola. Il pubblicato è di circa 400 pagine. Rabito ha scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu. Nel suo diario racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà, l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie Rabito è stato, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale sul Piave. A soli 18 anni, insieme a tanti suoi coetanei, Rabito incontra dunque la "Grande Storia", e la racconta così come l'ha vissuta: con disincanto, mescolandovi le mille storie personali. Così la prima guerra mondiale sul Piave è spogliata di ogni retorica, cinico e disincantato Vincenzo pensa solo a dormire e mangiare. L’orrore dell’evento emerge privo di enfasi nel momento in cui Rabito ricorda di essere stato decorato perché ammazzava come un vero assassino. È moderatamente felice della vittoria, ma al terzo giorno senza rancio nota: "Abbiamo vinto la guerra ma abbiamo perso il manciare". Poi passa molto tempo in Slovenia, a Gorizia, sul Piave a sotterrare morti e ricostruire case fra l’ostilità degli italiani "liberati" dalla guerra appena finita. Tornerà in Sicilia solo nel 1922 e attraversando l’Italia assisterà ai disordini e ai moti sociali di quegli anni. Poi c’è di nuovo la miseria, anche se è "salito su" il fascismo. Un certo Ignazio Patata pare che lo raggiri: Vincenzo si trova come camicia nera in Libia, poi in Abissinia. Non se ne dispiace troppo: "perché se all’uomo di questa vita non ci incontra aventure non ave niente derracontare". Tornato al paese trova moglie e non smette più di biasimare il giorno in cui si è deciso al grande passo. Nel luglio del ’43, mentre lavora come fattore nel mulino di Mazzaronello gli giunge la notizia che a Gela sono sbarcati gli americani. Subito viene a sapere che questi hanno liberato i mafiosi dalle galere e che ci sono incendi nei municipi per bruciare "le carte". Lui stesso si dà alla borsa nera, sostiene e insieme teme l’esercito di liberazione della Sicilia, ha a che fare col banditismo e, negli anni Cinquanta, trova un posto da cantoniere grazie a raccomandazioni e raggiri politici. Lui si destreggia e si arrangia sempre fra tedeschi e americani, fra mafiosi e carabinieri, fra contrabbando e legalità. Solo con la suocera e la moglie non ce la farà mai. «È un capolavoro assoluto dice la curatrice Evelina Santangelo - Oltre alla straordinarietà dei fatti narrati, il punto di forza della autobiografia è l'invenzione di una lingua originale, che non somiglia a nessuna altra sperimentata prima. Parole siciliane e italiane, talora trasfigurate, per raccontarsi. Non c´è nulla di artificioso, ma solo la necessità di trovare un modo espressivo per rievocare i fatti vissuti. Ne scaturisce un vigore che né la lingua comune né il siciliano letterario e cinematografico utilizzati finora possiedono appieno. Io definisco questo impasto, dal nome del suo autore, "rabitese"». “UN ILLETTERATO AL FRONTE” Così, ci hanno portato nella provincia di Verona. Recorso che erino le prime ciorne del settempre. [...] E tutte noi ci abbiamo quardate in faccia sentendo che erimo nella “zona di querra”. Ni ha cominciato la paura. E comincianto da me, diceva: “Ma allora siammo in querra!?” [...] E così, il bravo cenerale di bricata ci ha detto: - Ragazze del 99, fate attenzione che questa notte si parte per la prima linia. E quanto siammo lì, non ci antiammo per stare bene o pure per lavorare e stare bene, ma ci antiammo per un solo scopo, per defentere la nostra Madre Patria. [...] E così, amme, tutta la paura che aveva mi ha passato, che antava cercando li morte magare di notte, che deventaie un carnefice. Impochi ciorne sparava e ammazzava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutti li ragazze del 99, che avemmo revato piancendo, perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carneficina che ci ha stato, deventammo tutte macellaie di carne umana. Così, avemmo visto milliaia di ferite che credavino e correvino come li pazze, con il tando dolore che sentevino, poverette, e ce n'erano che moreva nella barella e mentre che correva. [...] E poi che li austiece per 2 ciorne non ci l'hanno voluto fenire più di terare cannonate sopra Mont Fiore. E per tre ciorne fuommo abandunate del Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che la strada era tutta voltata sotta e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e piene di fanco. E il nostro elimento era la bestemia, tutte l'ore e tutte li momente, d'ognuno con il suo dialetto: che butava bsteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto. Vincenzo Rabito, TERRA MATTA, Torino 2007 LINKS Altre informazioni sul film http://it.wikipedia.org/wiki/La_grande_guerra Siti sulla Prima Guerra Mondiale http://www.grandeguerra.com/ http://www.lagrandeguerra.net/ http://www.primaguerramondiale.it/ http://it.wikipedia.org/wiki/Prima_guerra_mondiale Un sito dedicato alle rappresentazioni artistiche della Prima Guerra Mondiale (in inglese) http://www.art-ww1.com/gb/index2.html MONICELLI: GUERRA “ALL'ITALIANA” a cura di Daniela Basso Come è nata l’idea de La grande guerra? Da un soggetto che mi ha presentato il figlio di Cervi e che era stato scritto da Vincenzoni, il quale l’aveva ripreso, anzi “fiutato”, da un racconto di Guy de Mauppassant, che s’intitola Deux amis. La storia ripercorre la guerra del 1870, tra Napoleone III e la Prussia. Il soggetto mi piacque molto e mi misi in contatto con Vincenzoni per farlo. Lui lo vendette a De Laurentiis, che volle farne un film e scelse me come regista e Sordi e Gassmann, che avevano un contratto con lui, come protagonisti. Perché ha voluto rappresentare la guerra? Io sono sempre stato antifascista: ho avuto la fortuna di esser nato in una famiglia antifascista. Mio padre era giornalista, ex-direttore dell’Avanti, aveva fatto il corrispondente di guerra, aveva diretto dei giornali e, in seguito, era stato cacciato, perché aveva scritto degli articoli contro il fascismo. In casa mia c’era questo risentimento verso il fascismo, era il mio ambiente naturale. Io sono nato nel 1915 e, quando avevo 3 o 4 anni e la guerra stava per finire, vedevo mio zio che ogni tanto tornava a casa in licenza e si metteva a parlare con mio padre, che già faceva il corrispondente di guerra. Tutta la mia famiglia era contro il fascismo, quindi sono cresciuto in questo clima e, durante gli anni Trenta, ho avuto la percezione che di tutta questa guerra, di cui sentivo raccontare, se ne stesse facendo un mito, dal fascino incredibile. Sapevo che cosa fosse la guerra e il fascismo ne era l’esaltazione: esaltazione delll’Italia, della guerra d’indipendenza, della conquista di Trieste, dei soldati italiani accorsi alle armi contro il nemico austriaco. Beh, non era vero niente: era tutto falso e io volevo dirlo. Non lo si poteva fare durante il fascismo, ma caduta la dittatura e perduta la guerra, che anch’io ho combattuto, volevo in qualche modo raccontarla, cancellare questo “mito”, questo “tabù”, anche perché c’erano dei libri di Lussu che raccontavano come erano andate veramente le cose. I suoi libri non circolavano molto, ma io li avevo letti, perché a casa mia se ne parlava. Quindi, quando finalmente ho potuto, ho raccontato la mia versione, in termini graffianti e umoristici. Io ho sempre cercato di raccontare tutto quello che volevo in termini umoristici, qualunque ne fosse l’argomento. Così mi misi a tavolino, insieme a Vincenzoni, Age e Scarpelli, “rubando” un po’ qui un po’ lì, situazioni, personaggi… specialmente da Lussu, dal quale sono andato con l’intenzione di ripagarlo, perché ci aveva fornito del materiale, ma lui era così divertito dalla commedia all’italiana – che all’epoca era considerata “spazzatura” – che non volle niente. Poi quando uscì la notizia che avevo fatto un film sulla grande guerra mondiale usando la commedia, che io e i miei amici-compagni di nefandezze c’eravamo uniti per sfatare questo “mito”, questo tabù, allora ci fu la rivolta della stampa italiana, all’avanguardia della retroguardia. A un certo punto sembrava che la cosa stesse per saltare e invece De Laurentiis tenne fede alla sua volontà: il film si fece, ebbe un successo clamoroso e ancora oggi se ne parla. Finalmente si parla in maniera diversa di quello che è accaduto: di Trieste, della guerra d’indipendenza; se ne parla per come se ne deve parlare, come di una truffa, di una tragedia. Alcuni milioni di giovani, di ragazzi analfabeti – perché l’Italia del 1915 era per il 70% fatta di analfabeti – furono trascinati sotto la neve, sotto la pioggia, sotto il sole cocente, sotto le bombe, malnutriti, male armati, mal equipaggiati, mal guidati e sono rimasti lì. Ebbene, quando milioni di giovani stanno insieme, anche se c’è la guerra, nascono delle cose: o giocano o pensano alle fidanzate… ma comunque nascono delle cose che sono divertenti e tenere. È così che volevo raccontare la guerra e così, alla peggio, siamo riusciti a fare. Sordi e Gassman nel film ripetono “amor di patria e disprezzo del pericolo” e anche altri episodi ricordano la retorica fascista. La retorica è qualcosa di fascista. Da quando sono nato a quando è caduto il fascismo sono vissuto in un contesto, in un’ambiente, che era antiretorico, perché era antifascista. Ancora oggi c’è la guerra, ancora oggi la retorica per rappresentarla è sempre la stessa. Si parla di “eroi”, di “caduti”. La guerra è sopraffazione, occupazione, affermazione dell’individuo. La guerra è incivile, è solo prevaricazione: trovare la maniera di migliorare la propria condizione a scapito di quella degli altri, occupando terre, popolazioni, schiavizzando le persone, così come hanno fatto l’Inghilterra o il popolo romano. Sopraffare tutti e in questo modo conquistare l’autorevolezza di continuare a sottomettere. Ora tocca agli Stati Uniti: sono diventati padroni del mondo perché “sono stati bravi, perché hanno combattuto, perché hanno rischiato”. Adesso che sono padroni del mondo, fanno sì che gli altri facciano quello che vogliono loro. Nella sua commedia c’è uno sguardo pieno di tenerezza e di pietà per i suoi personaggi. Sono tutti così, sono gli stessi de I soliti ignoti o i componenti de L’armata Brancaleone: sono gli oppressi, quelli che vogliono riscattarsi e non ci riescono mai; quelli che sono costretti a essere vigliacchi e, quando non ne possono fare a meno, non sono nemmeno vigliacchi, ma se lo sono, non si possono accusare. Sono i sopraffatti e siccome i sopraffatti sono la grande maggioranza sono sempre loro, che vengono a fare la guerra, che cercano di arrangiarsi rubando e che non riescono nemmeno a fare quello. Commedia ma non solo, lei ha sempre trattato temi sociali di grande importanza e attualità. La commedia “all’italiana” fu chiamata così, per disprezzo, dai critici e veniva fuori da un film bellissimo di Germi, Divorzio all’italiana, in cui si raccontava una truffa: un uomo faceva in modo di essere tradito per uccidere la moglie e fare quello che gli pareva. Ebbene la commedia all’italiana è proprio questo: tratta argomenti che sono drammatici, qualche volta tragici, con umorismo, con satira. Usa la satira e il grottesco, ma gli argomenti sono sempre drammatici: è la maniera di trattarli che provoca questa “comicità” che sappiamo fare solo in Italia e che è una cosa che viene da molto lontano, che non abbiamo inventato noi nel dopoguerra. continua MONICELLI: GUERRA “ALL'ITALIANA” a cura di Daniela Basso A quando risale questo lato grottesco, dissacrante? Certo non l’abbiamo inventato io, Risi o Germi. È sempre esistito. Ad esempio Boccaccio: nel Decamerone ci sono dei racconti, delle novelle, che sono addirittura feroci; però sono divertenti, hanno il tratto dell’umorismo. Sa qual è il lato grottesco del Decamerone: c’è gente che, chiusa in una bellissima villa, mangia, beve, dorme, fa l’amore e racconta storie, mentre fuori c’era la peste e la gente muore. La mandragola è una farsa turpe; la commedia dell’arte fa ridere sempre giocando sulla miseria, sulla fame; Arlecchino è servo non di uno, ma di due padroni. Questa è la commedia all’italiana, che forse viene da ancora più lontano, dalle atellane, dal teatro romano, da Plauto: un teatro fatto di truffatori, di servi che rubano, di bisogni umani.Dissacrare attraverso l’umorismo è un segno specifico secondo lei della cultura italiana? Ci viene naturale. Gli altri dicono: ma come fate a ridere di questo? Perché ci viene naturale, perché la morte diventa un tema di grande comicità, la fame lo stesso, il dolore, tutto può diventarlo, se lo si sa trattare. Se uno lo ha dentro, lo sa fare. [...] Lei ha avuto molta attenzione per l’attualità, chi sono oggi i registi che hanno questa stessa attenzione? Ci sono, ma qui nasce un altro problema: il cinema non è solo una forma d’arte, seppure minore, è un arte minore applicata all’industria; se non c’è un’industria forte alle spalle, il cinema non si fa. Ovviamente, finché c’è quest’industria, esiste anche un’attività culturale, cinematografica, che fornisce talenti, scrittori, attori, scenografi, ovvero tutto il caravan-serraglio di cui ha bisogno il cinema per fare delle cose che abbiano un minimo di valore. Quando non c’è alle spalle l’industria, la cosa diventa impossibile. Negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui c’era la commedia all’italiana, con Germi, Risi, De Sica, Rosselini, Fellini, alle spalle c’era un’industria che faceva trecento film l’anno, fra i quali tre o quattro potevano essere dei capolavori. In quella stagione, il cinema americano entrò in crisi e l’industria dello spettacolo, fatta nei teatri della Metro Goldwin Mayer o della Columbia, venne messa in crisi dagli italiani, che non avevano bisogno di nulla di tutto questo, perché facevano leva su una verità che non era solo nelle immagini, ma nei rapporti tra le persone. Adesso, se un giovane vuole fare cinema, non trova nemmeno le sale cinematografiche, perché sono occupate dai film americani, che riscuotono grande successo. Lei dice che la verità della commedia all’italiana si trovava nei rapporti tra le persone, oggi i registi puntano l’attenzione sull’incapacità di questi rapporti. Cosa è cambiato? È cambiata la qualità della vita. Dopo la guerra, l’Italia ha avuto un momento che credo non abbia mai avuto nella sua storia: per una decina d’anni gli italiani erano fattivi, pieni di gioia, pieni di voglia di fare, non si lamentavano di nulla, erano felici di vivere, di lavorare, di costruire, avevano la libertà, avevano finito la guerra e quindi le cose si svolgevano in maniera molto concreta e gioiosa, ed erano vere. Questa generazione, e non parlo solo del cinema, ha portato a un boom economico e culturale: lì è stata la svolta che ci ha rovinato e che Pasolini, in maniera anche troppo nostalgica, rimpiangeva. I giovani che sono nati dopo, e quindi i sessantottini, che sono stati acculturati, hanno voluto, come sempre avviene, rivoltarsi ai padri e si è imboccata una strada che era individualistica, di riflessione su se stessi, di smarrimento, in cui si è perso il senso della collettività in cui eravamo. Il cinema ad esempio: eravamo tutti amici, ci aiutavamo, io davo idee ad altri sceneggiatori o registi, loro ne davano a me, non c’era competitività, tutti lavoravamo, eravamo contenti, soddisfatti di quello che facevamo. Poi è venuto il boom ed è finita, per cui i giovani si sono ritrovati soli. Nel cinema, gli autori non avevano più la spinta: volevano solo contrastare i padri, non volevano più fare il cinema; o meglio, volevano farne uno loro, ma il loro cinema era di una realtà “personalistica”, non più aperta, ma chiusa in se stessa. Quelli che avevano qualcosa da dire, una loro intelligenza, sono riusciti anche ad affermarsi – vedi Bellocchio, Bertolucci, Moretti – però è un cinema che non ha nulla a che vedere con quello nostro, che era un cinema complesso: il nostro cinema era fatto di tanti personaggi, erano tante le persone, gli attori di cui avevamo bisogno. Loro hanno fatto film sul proprio personale smarrimento e li facevano da soli: se li sono scritti, interpretati, girati e rendendo tutto asfittico. Noi invece eravamo un gruppo: il gruppo lavorava insieme e ci si aiutava l’un l’altro, in questo modo ci si deresponsabilizzava o si ci responsabilizzava. Noi eravamo felici, mentre questi sono degli infelici: hanno iniziato ad essere infelici e lo sono ancora adesso, ora che le condizioni di certo non aiutano. Inoltre il cinema del dopoguerra non riguardava unicamente l’amore; l’amore c’è, ma non è il punto centrale, è secondario, i temi sono altri: sociali, economici o l’incomunicabilità, così come li ha trattati Antonioni. Che retorica oggi vorrebbe dissacrare? La retorica del liberismo, dell’individualismo, del far sì che ognuno si arrangi, che ognuno è padrone di sé stesso e chi è sconfitto peggio per lui, vuol dire che non ha saputo vincere. Lo Stato non deve aiutare nessuno, anzi deve fare in modo di eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono tra l’individuo che ha la forza e la capacità di farsi da solo. Questa è una cosa, per esempio, assolutamente antiumana, feroce. È una cosa che bisogna combattere e che io combatto, pacificamente, con la commedia. Coloro che praticano questa nuova retorica con convinzione, gente convinta che bisogna far piazza pulita dell’italiano che chiede aiuto – che muoia, ma non gli si facciano favori – adottano la filosofia generale di chi è arrivato e dice “facciamo piazza pulita di quello che l’Italia è stata nei secoli”, ovvero l’Italia del “o franza o spagna purché se magna”. Io ho una cultura mia personale: sono per dare allo Stato le possibilità più ampie di aiutare il cittadino. Pensi un po’, io sono comunista! MONICELLI e il MILITE NOTO di Elisa Uffreduzzi Il confronto. In 50 anni di cinema, da La grande guerra a Le rose del deserto, passando per L’armata Brancaleone, Mario Monicelli ha raccontato l’italiano in guerra bilanciando umorismo e impegno. Cos’è cambiato e cosa è rimasto uguale in mezzo secolo? Realizzare un racconto che riguardasse un gruppo di soldati italiani sbattuti in mezzo al deserto alla conquista della Libia, durante la seconda guerra mondiale. Un racconto che rifuggisse però dalla mitizzazione, per ricercare una sorta di giustezza della rappresentazione scenica: gli italiani infatti sono andati in guerra non “col petto in fuori” – non è questa la loro indole, ci dice il regista – né da piagnucolosi… però alla fine “si sono sempre arrangiati”. Caratteristica del regista è una maniera di fare cinema – che è poi quella della commedia all’italiana – basata sull’equilibrio tra comicità e impegno, alla ricerca di un punto d’incontro tra cinema d’autore e istanze commerciali. Sono i modi della farsa a fare da padroni nella sua filmografia, costituita da 65 apologhi, ognuno dei quali di volta in volta ci fa prendere coscienza di un aspetto diverso dell’essere italiani, tra senso critico e compiacimento patriottico. In particolare, ad interessare il regista, tirando le somme della sua produzione, sembra essere lo speciale modo di affrontare la vita dell’italiano: appunto “senza petto in fuori, né piagnucolare”, proprio come va in guerra. “Come l’italiano combatte la propria battaglia quotidiana”: questo è un po’ il leitmotiv della filmografia di Monicelli. In Amici miei (1975) per restituirci il senso di questa presa di coscienza sceglieva lo spirito goliardico dei quattro vecchi amici protagonisti; della vita presa come perenne burla, per “stemperare” la paura del passato e del futuro – come recita il Perozzi nell’ultimo monologo interiore. Ne I soliti ignoti (1958) a simboleggiare il modus vivendi italico è “il furto perfetto e impossibile”, più per paura del lavoro (inteso come emblema dell’affrontare la vita vera, fatta di preoccupazioni e responsabilità) che per reale “spirito di delinquenza”. Con quest’ultimo Le rose del deserto Monicelli torna però a raccontarci l’italiano in guerra (la seconda guerra mondiale). Lo aveva già fatto con La grande guerra (1959) e in certa misura con la saga di Brancaleone (L’armata Brancaleone, 1966, seguito poi da Brancaleone alle Crociate, 1970), che ci racconta comunque una figura di guerriero italico. In queste tre pellicole l’autore ricorre alla metafora militare per veicolare il caratteristico modo italiano di combattere la propria battaglia quotidiana. Ne La grande guerra (Italia/Francia 1959, b/n, 129’), con Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Silvana Mangano, un milanese e un romano finiscono nello stesso battaglione dell’esercito, durante la prima guerra mondiale. Ad accomunarli è una spiccata viltà in battaglia. Fino all’ultimo, sorprendente, atto di coraggio. L’attenzione del regista si focalizza sul dettaglio contenutistico, tracciando tanti bozzetti che, sommati, restituiscono l’immagine di un esercito straccione e malandato, dove però c’è spazio per la solidarietà, l’amore e qualche volta il coraggio. Il soggetto è tratto dal racconto di Maupassant Due amici. Ne L’armata Brancaleone (Italia/Francia/Spagna 1966, col, 120’), con Vittorio Gassman, Carlo Pisacane, Catherine Spaak e Gian Maria Volonté, una sgangherata e improbabile compagnia di poveracci guidati da un altrettanto “traballante” cavaliere (Brancaleone da Norcia), parte da Faleri alla volta di Aurocastro, nelle Puglie, dove ad attenderli c’è un feudo, del quale vorrebbero impadronirsi, forti del possesso di una pergamena imperiale. Dopo una serie di rocambolesche avventure incontrate lungo il tragitto nonché all’arrivo nel feudo stesso, a salvarli dal rogo sarà l’eremita Zenone, in nome della Guerra Santa. Infine, ne Le rose del deserto (Italia 2006), con Giorgio Pasotti, Alessandro Haber e Michele Placido, tratto dal libro Il deserto della Libia di Mario Tobino e dal brano Il soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco, Monicelli narra le vicende del Terzo Reparto della Trentunesima Sezione Sanità, spedito in Libia durante la seconda guerra mondiale. Sullo sfondo di una guerra in realtà solo a tratti evocata, l’autore traccia i contorni di un esercito ancora inadeguato a vent’anni di distanza dalla prima guerra mondiale. Anche qui – nonostante l’intento dichiarato dal regista di dare maggiore spazio al contesto – emerge prepotente la costruzione per piccoli quadri, ritratti caratteristici a comporre l’atmosfera generale come in un puzzle. In tutte e tre le pellicole protagonista è una compagnia di perdenti, di anti-eroi tutt’altro che all’altezza della propria missione… eppure ogni volta, ciascuno in un modo peculiare e poco ortodosso, ma pur sempre efficace, svolgerà il proprio compito. Perché questo – ci dice il Maestro – è il modo italiano di battersi sul campo della vita: non c’è reale prodezza, né d’altro canto autocommiserazione. Magari un po’ di ostentata spavalderia – questa sì – come insegna la tradizione plautina del Miles gloriosus. Così è per i due soldati de La grande guerra, pronti a proporsi volontari per i battaglioni d’assalto solo per allontanarsi dal fronte con la scusa del relativo corso di addestramento. Così è per Brancaleone, magnifica versione medievale dell’anti-eroe plautino, valoroso cavaliere a parole, quanto imbranato nella pratica militare. Così è per i soldati della Sezione Sanità accampati nel deserto libico: prodighi nell’aiutare il prossimo, non si tirano mai in dietro di fronte al loro dovere di medici… soprattutto quando si tratta della bella moglie di un potente del luogo. Prontamente offrono il proprio aiuto, salvo poi rivelarsi inadeguati all’occasione: come quando un oculista si trasforma magicamente in pediatra. Certo poi però “si arrangiano sempre”… De La grande guerra in Le rose del deserto ritroviamo la figura del soldato che scrive alla propria amata in patria, la quale puntualmente si rivela non all’altezza delle poetiche parole d’amore inviatele. Parimenti torna la figura del frate, seppure con modalità diverse: più remissivo nel 1959, si fa più aggressivo nel 2006. Del resto anche Brancaleone finiva per seguire un religioso. La spiritualità è dunque un corollario della guerra, conseguenza questa del maggiore rischio di morte. Di nuovo, in quest’ultimo film come in quello del 1959, soldati poco zelanti in battaglia fanno da protagonisti, salvo poi redimersi in extremis con un’insospettabile atto di prodezza, compiuto per una questione d’onore o comunque per un ideale da salvaguardare. continua “MONICELLI e il MILITE NOTO” di Elisa Uffreduzzi Ne La grande guerra era il dichiarato disprezzo per la loro vigliaccheria da parte dei nemici austriaci a spingere i due protagonisti verso la morte, pur di evitare di tradire i compagni. Ne Le rose del deserto è in certo qual modo di nuovo l’onore a spingere il comandante (Alessandro Haber) in braccio alla morte. Difatti è per sottrarre all’avanzata nemica le lettere d’amore della propria moglie, dunque per proteggere il proprio sentimento e in questo senso la propria integrità di uomo, che nel finale torna sui propri passi, rimanendo così ucciso. Anche ne L’armata Brancaleone il guerriero protagonista – stavolta per tutto il film – metteva a repentaglio la propria vita per salvare l’onore – il proprio, di valoroso cavaliere (come quando affronta un suo “collega” che non gli lascia il passo), o quello di una bella fanciulla. Brancaleone da Norcia aveva inoltre per compagni di ventura ancora una volta personaggi poco solleciti nel pugnare. Di nuovo torna, sia nel ritratto della prima guerra mondiale che in quello della seconda o nelle avventure di Brancaleone, il motivo del soldato che fantastica sulle fattezze femminili per “tirare avanti” nella propria impresa. Ne La grande guerra le forme erano quelle di Silvana Mangano nel ruolo della prostituta Costantina e quelle dell’irraggiungibile Francesca Bertini. Per l’esercito della seconda guerra mondiale Monicelli modella la sagoma del soldato che si sposa per procura; quella del comandante la cui principale occupazione è scrivere alla moglie lontana; infine quella del giovane tenente-medico Salvi (Giorgio Pasotti), che “perde la testa” per la moglie di un “signore” locale, finendo così per inimicare all’intero Reparto l’unico alleato che aveva in terra straniera. Brancaleone sognava Matelda senza osare toccarla. Tutte figure femminili fumose, oniriche, evocate quasi esclusivamente a parole e dunque sfuggenti, ma sempre presenti nei sogni del soldato/guerriero protagonista di un’impresa bellica, per dargli coraggio. Il gioco linguistico funambolico dà colore a tutte e tre le opere cinematografiche: i vari dialetti italiani contribuivano a caratterizzare protagonisti e figure di contorno, accompagnati dai relativi luoghi comuni regionali ne La grande guerra; Brancaleone parlava una geniale forma ibrida tra il latino e il viterbese; nel nuovo film il frate interpretato da Michele Placido travolge la divisione medica dell’esercito e lo spettatore col suo torrenziale esprimersi in dialetto siciliano, ricco di battute. Inoltre torna la macchiettistica caratterizzazione “regionaldialettale” dei vari militari, a suggerire una moderna Babele, nonché il fatto che la Morte è poliglotta. L’aspetto giocoso del linguaggio ricorda la saga surreale di Ubu roi di Alfred Jarry (1896), opera teatrale che proprio sulle inusitate combinazioni del linguaggio previste dalla Patafisica (“scienza delle soluzioni immaginarie” volta all’ironia sul pensiero accademico), basava la parodia della tirannide. Anche per i tre film qui esaminati c’è ogni volta un regime d’oppressione da sovvertire: una monarchia, la dittatura fascista, il regime feudale; ciascuno dei quali per motivi diversi mette di fronte al rischio della morte, che si tratti della conquista di un territorio per il cosiddetto “bene superiore della nazione” o di un feudo del quale essere signori, per non essere dei pezzenti senza identità in un altro. Inoltre il gioco parodico-linguistico è senz’altro volto a destrutturare la mitologia del soldato a petto in fuori. Francamente discutibile in Le rose del deserto è la trovata un po’ kitsch delle musiche odierne che accompagnano momenti come l’arrivo dei signori libici nelle loro visite ai soldati. La locandina del film ricorda la grafica dei titoli di testa e di coda de L’Armata Brancaleone, le cui modalità “cartonate” di nuovo rievocano l’Ubu roi, nella messa in scena di Lugné-Poe (con la collaborazione dello stesso Jarry) al Théâtre de L’Œvre (1896), per la figuratività piatta funzionale alla parodia dei generi e dei contenuti narrati. Lì quel tipo di resa scenica traduceva quella delle marionette, per le quali era inizialmente stato concepito questo dramma grottesco. Per l’epopea di Brancaleone invece, l’immaginario “di cartapesta” appositamente ricostruito grazie alla grafica dei titoli, nonché all’inventiva dei costumi (che “strizza l’occhio” al costume tipico del samurai giapponese), è teso alla critica della visione hollywoodiana del Medioevo: a petto in fuori e un po’ troppo inverosimilmente luccicante (vedi The Adventures of Robin Hood, Usa 1938, di Michael Curtiz). Al contrario, se si potesse riassumere in una sorta di mantra il pensiero dell’italiano medio, medievale e non, questo reciterebbe più o meno così: «coraggio è: agire nonostante la paura». Perciò niente busto proteso, sprezzanti del pericolo; né lacrime inutili. L’italiano d’ogni tempo semmai “ci mette un po’” a rassegnarsi ad affrontare l’impresa che gli viene assegnata dalla vita, ma poi “si rimbocca le maniche” e nonostante “la tremarella alle gambe” recita il suo ruolo sulla scena. La soluzione visiva della nuova locandina vuole quindi richiamare alla mente questo atteggiamento esistenziale. Atteggiamento del quale è emblematica una delle ultime sequenze de La grande guerra: quando il romano soldato Jacovacci, pur gridando di non voler morire perché è un vigliacco, si fa fucilare per non tradire i compagni. Monicelli, intervistato, parla della sua nuova opera rivelandoci di essersi riproposto per l’occasione un cambiamento di rotta nel linguaggio cinematografico, volendo trattare non più dettagli o espressioni come in passato, ma grandi spazi; rinunciando a seguire gli attori in modo particolare per definire in tal modo una sorta di gerarchia visiva tesa a privilegiare la star, per costruire una vicenda di primi attori. Era questo il caso de La grande guerra, dove emergevano con uno stacco molto netto rispetto alle figure di contorno, Gassman, Sordi e la Mangano. Nel 2006 il regista ci dice di aver tentato di tracciare – all’opposto – una vicenda collettiva, di contesto, corale, fatta di ampi spazi. A questi suoi buoni propositi si potrebbe obiettare che però anche per Le rose del deserto ha cercato tre grandi attori affermati, sui quali principalmente puntare i riflettori: Giorgio Pasotti, Alessandro Haber e Michele Placido. Ha poi fatto ricorso ad attori minori e non-professionisti solo per i ruoli secondari, di contesto appunto, proprio come cinquant’anni fa. Inoltre non rinuncia alla dimensione affabulatoria del bozzetto, della caratterizzazione del personaggio di tipo “macchiettistico” tipica della maniera sua e della commedia all’ italiana in generale. È però vero che come ne La grande guerra quando ci lascia orfani dei due soldati protagonisti, così qui, alla morte del comandante nel finale, lo spettatore ha l’impressione che il film non sia veramente finito. Gli rimane addosso una sensazione d’indefinito, di sospensione… la domanda inespressa che lo incolla ancora per qualche attimo alla sua poltrona è: «e gli altri, che fine fanno?». Segno che l’interesse della vicenda e quindi dello spettatore, non è centrato esclusivamente sulle tre figure in primo piano, ma si è come espanso, disperso in tutto il contesto, nel corso della narrazione. In questo senso di attesa dunque sta la dimensione collettiva del film. La regia in tutti e tre i casi evita accuratamente primo piano e primissimo piano televisivo, preferendogli inquadrature meno ravvicinate come piano americano (inquadratura della figura umana dalle ginocchia in su) e mezza figura (dalla vita in su), accanto a diverse misure del piano d’insieme (comprensivo dell’ambiente); scelta questa, di nuovo funzionale ad una visione collettiva. Nondimeno questo è valido per tutte e tre le pellicole. Per La grande guerra il Maestro ricorreva al dettaglio (di oggetto) nelle inquadrature iniziali, con sovrapposti i titoli di testa: si trattava ora di uno scarpone nel fango, ora della pentola del rancio, ora di un bottone maldestramente cucito: metonimie della dura vita di guerra, a delineare da subito il quadro situazionale generale. Dunque, elementi costanti accanto a piccole varianti dello stile registico intervengono in tre pellicole che raccontano come il modus vivendi italiano, dal Medioevo a oggi, non sia cambiato.