ITALIA CRIMINALE_001_010 ultima versione dopo

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ITALIA CRIMINALE_001_010 ultima versione dopo
Prima edizione in questa collana: marzo 2012
© 2006 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4169-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Bamako, Roma
Stampato nel marzo 2012 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti da foreste
controllate e certificate, nel rispetto delle normative ecologiche vigenti
Cristiano Armati
Italia criminale
Dalla banda della Magliana
a Felice Maniero e la mala del Brenta
Newton Compton editori
Li conoscevo a fondo tutt’e due.
C’era del bene mescolato al male
in Billy the Kid
e del male mescolato al bene
in Pat Garret.
Qualunque cosa al mondo abbiano fatto
o il mondo pensasse di loro
erano miei amici.
Valeva la pena conoscerli tutt’e due.
Michael Ondaatje, Le opere complete di Billy the Kid
PROLOGO
Un’idea esagerata
di criminalità
Accade tra le pieghe della notte. Un gruppo di automobili si accosta
dov’è scuro. Ne escono uomini che parlano a voce alta. Un signore col
cappello passa e cambia strada. Ha fatto tardi al lavoro, vede quegli uomini e si spaventa. Sul giornale c’era scritto che l’altra sera, nel quartiere, c’è stata una sparatoria al ristorante: otto persone sono morte. Tre di
loro spacciavano l’eroina ma avevano cominciato a farsi dare la roba da
gente diversa rispetto a quella che li riforniva abitualmente. Gli altri erano semplici clienti, si trovavano lì per caso. Quelli che sono entrati,
però, non lo sapevano e gli hanno sparato lo stesso.
La verità è che una persona perbene non è più libera di andare in giro
di questi tempi. Sulla provinciale ci sono fuochi accesi ogni cinque metri e vicino a ogni fuoco c’è una che batte. In piazza, dentro una mercedes bianca, un tipo grosso come una montagna le aspetta tutte quante. Si
dice che controlli cento ragazze. E si dice anche che al bar, l’altro giorno, è entrato, ha chiesto di uno e poi, senza parlare, gli ha rotto la testa a
bastonate. Però lui c’ha la mercedes. Non deve aspettare un autobus che
non si sa mai se passa e dove è un miracolo se quando arrivi ti ritrovi ancora addosso il portafogli.
Lungo il suo percorso, l’autobus passa sempre accanto a una ragazza
nera alta almeno un metro e ottanta. C’è chi si staccherebbe un braccio
per portarsi a casa una donna come quella. Sulla provinciale, invece, paghi trenta euro e puoi fare alla ragazza quello che ti pare. Capirai. C’è chi
per arrivare a trenta euro deve lavorare un giorno intero. Lei, invece, deve solo stare con le gambe aperte per dieci minuti e la giornata se l’è già
messa in tasca. Tutto il contrario della vecchietta al piano di sotto: quattrocento euro di pensione al mese nemmeno gliele danno. Eppure l’altro
giorno due in motorino per portarle via la borsetta l’hanno trascinata per
cento metri sull’asfalto. Adesso sta all’ospedale. E la nuora che fino a ora
non s’è vista mai, quando ha saputo che la vecchia sta più di là che di qua
si è subito precipitata a controllare la casa. I figli della vecchia sono stufi di aspettare. Ma quelli sono in quattro e vedrai se non faranno a coltellate per vedere chi è che si deve prendere l’appartamento.
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PROLOGO
Sempre che i cinesi non decidano di cacciare via tutti quanti. Gli scantinati dei palazzi già sono pieni. Per carità, tutta gente che lavora, non gli
puoi dire niente. Però quel tipo con la camicia a fiori e la sigaretta in
bocca che la mattina fa avanti e indietro con un pacco di pantaloni tra le
braccia, pure lui la roba che tira fuori dallo scantinato la carica dentro a
una mercedes. Certo, una station wagon. Però nuova di pacca. Tanto che
gliene frega? I passaporti di quelli che cuciono sottoterra ce l’ha lui, e a
chi non gli sta bene poi non è che lo racconta. I cinesi sono tutti uguali
chi vuoi che se ne accorga… quello sparisce e dopo un po’ ne arriva un
altro con lo stesso documento.
Ma i carabinieri non gli dicono niente a questi? Per carità! Basta che si
attaccano alla multa per il divieto di sosta. Intanto per strada si vede certa gente… al signore col cappello il cugino di un amico del portiere gli
ha detto che la figlia di un collega è stata violentata. Quella tornava a casa e nell’androne del palazzo se ne sono approfittati in quattro. Qualcuno è pure passato mentre succedeva ma non è che ha detto niente. Beh…
è pure vero che uno magari si immischia e chissà quello che gli capita.
Con tutti i problemi che ci stanno se uno può non è che i guai se li cerca. E poi – dice il signore col cappello – allora uno che le paga a fare le
tasse? Dovrebbe pensarci la polizia a far sparire certa gente.
Quegli slavi sempre seduti sul muretto, per esempio. A lavorare non ci
vanno però la birra e le sigarette ce l’hanno sempre. C’è bisogno di chiedersi di chi è la colpa quando poi viene fuori che qualcuno è stato derubato? Alla fine, a questi, sono proprio le leggi che li proteggono: così la
pensa il signore col cappello. Ancora cento metri ed è arrivato a casa sano e salvo. La serratura del portone è difettosa: per aprirla basta una manata e non va bene perché sul regolamento di condominio c’è scritto
chiaramente che devono entrare solo i residenti. Domani telefona all’amministratore così lo sente. Qui non si può più andare avanti. Oggi,
l’amministratore, l’ha dovuto chiamare addirittura tre volte. La prima
per fargli sapere che quella dell’altra scala prima di uscire lascia la spazzatura sul pianerottolo anche per mezz’ora, la seconda perché gli ha telefonato la moglie e s’è lamentata che la donna delle pulizie di quella del
terzo piano quando spazza gli manda la polvere sul balcone, la terza perché i muratori di quelli che fanno i lavori se la devono smettere di prendere l’ascensore che a farci su e giù dopo si rompe e lui non ci pensa proprio a pagare i danni che gli fanno gli altri. Lui, l’ascensore, nemmeno
lo prende sempre. Il dottore gli ha detto che soffre di vene varicose e siccome a lavoro sta sempre seduto è meglio che usa le scale quando torna
a casa. Due piani, poi, si salgono presto. In cinque minuti si è già tolto il
cappotto e ha appeso il cappello all’attaccapanni dell’ingresso.
A tavola, la cena lo aspetta dentro un piatto: come al solito insalata e
una fettina fredda. Mangia da solo perché il figlio sta in camera sua a
PROLOGO
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sentire la musica con il volume troppo alto e la moglie dorme. Quando
finisce va in bagno e si lava i denti. Si toglie i calzini e le mutande e li
butta nella cesta dei panni sporchi. La camicia l’appende sulla spalliera
della sedia perché è buona ancora per un altro giorno. Apre due o tre cassetti perché la moglie, il pigiama, tutte le volte glielo infila in un posto
diverso: quando lo trova se lo mette ed è pronto per andare a letto.
Sotto le coperte si stringe addosso alla moglie. Lei lo sente ma fa finta
di niente. Prende e si gira dall’altra parte. Lui quasi si addormenta però
gli viene un dubbio. Allora si alza, si infila le pantofole e va a controllare. Prima di andarsene a dormire è molto meglio essere sicuri di aver
messo il paletto. L’altro giorno, alla televisione, hanno spiegato che
adesso i ladri non aspettano di trovare vuoto l’appartamento. Vengono
quando c’è la gente dentro e drogano tutti con una bomboletta.
L’uomo con il cappello appeso sull’attaccapanni controlla: il paletto
l’aveva messo, ora che è convinto torna verso il letto. La moglie, al suo
fianco, russa leggermente. Lui infila la testa sotto il cuscino così non
sente niente. Non sente la moglie, non sente il figlio, non guarda in faccia la realtà. Prigioniero com’è della sua idea esagerata di criminalità.
I
Chi semina vento
raccoglie tempesta
Salvatore Giuliano, il Gobbo del Quarticciolo,
la Volante rossa, Bezzi & Barbieri e altri
protagonisti del banditismo nel dopoguerra italiano
Chi semina vento raccoglie tempesta. Vortici di uomini sbandati, feriti
e stanchi, scheletri di case bombardate, pane razionato, idealisti traditi,
militari intenti a tessere strane alleanze con la criminalità comune e politici che fanno altrettanto, impegnati come sono a spartirsi le sorti di popoli e nazioni comodamente seduti ai tavolini della Storia.
In Italia sta finendo la seconda guerra mondiale. Le città come Roma,
Milano e Torino, in attesa dei soldi della ricostruzione, attirano le prime
vittime: uno stillicidio di contadini spiantati che non possono più sopravvivere in campagna e ora manodopera a basso costo per le poche
fabbriche che riapriranno i battenti prima degli anni Cinquanta.
Dove le fabbriche scarseggiano, come in Sicilia, la differenza tra la
pancia piena e la pancia vuota passa per due sacchi di farina attaccati al
basto di una cavalla. Davanti all’animale, con le redini in mano, cammina a capo chino Salvatore “Turiddu” Giuliano, il figlio di Turi “l’Americano”. Nella testa del ragazzo, nato a Montelepre nel 1922 da genitori
appena rientrati dagli Stati Uniti, i guadagni dell’intrallazzo – il mercato nero della Sicilia occupata dagli americani – seguono il verso sciolto
di una filastrocca popolare: un chilo di pane quaranta lire, un litro d’olio
trecento e chi se ne importa del listino ufficiale, quello che obbligherebbe mercanti e contadini ad ammassare le merci nei “Granai del popolo”
e a vendere il pane a tre lire e l’olio soltanto a diciannove.
Poco prima del tramonto, passata la curva che, sulla strada per Sferracavallo, porta a Quarto Mulino, frazione di San Giuseppe Jato, i conti di
Turiddu vanno a sbattere contro uno dei posti di blocco istituiti per rendere più difficile la vita ai contrabbandieri “indipendenti”. Su quello che
succede nelle caserme di Palermo e dintorni se ne dicono di cotte e di
crude. Danilo Dolci spiega perché quelli tanto fortunati da essere interrogati e poterlo raccontare incitano chi ascolta le loro storie a scappare,
a sparare, a fare qualsiasi cosa pur di non cadere nelle mani dei soldati
«coi pennacchi e con le armi»:
La prima volta fui arrestato nell’agosto del ’44 e portato nella questura di P. Per interrogarmi mi fecero trovare preparata la cassetta che consiste in due casse di legno, mes-
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se una sull’altra, della lunghezza di circa un metro. Alla parte dove ci vanno i piedi, ci
sono due anelli di ferro per legare i piedi. Le gambe sono stese sul piano della cassa superiore. Dopo i piedi legati, mi legarono le mani di dietro e una cinta di cuoio, che è al
centro della cassetta, me la passavano sopra le cosce, per così tenermi fermo. La corda
che era legata alle mani la passavano in un anello di ferro piantato nella cassetta, rasente a terra. Mi applicavano la maschera antigas col tubo svitato, e mi rovesciavano all’indietro tirando la corda legata alle mani. E incominciava la tortura cioè uno sbirro tirava la corda per farmi tenere rovesciato all’indietro. Un altro sbirro con una latta grande piena d’acqua e sale (e una mastella piena la tenevano vicina preparata per riempire
continuamente la latta) addetto a buttare acqua e sale nel tubo della maschera. Il maresciallo M., messo all’impiedi sulla cassetta, con una frusta piatta, un poco più stretta di
due dita, mazziava nei piedi, e un altro sbirro di tanto in tanto mi torcigliava i testicoli
con le mani. Li pigliava con la mano e per farmi provare più dolore attorcigliava forte,
ma siccome ero quasi soffocato dalla maschera che mi pareva una salvezza il poter morire quasi, il dolore ai testicoli e ai piedi lo sentivo di meno. Essi calcolavano il tempo
e quando uno arrivava proprio all’estremità, lo sollevavano. Mi domandavano se ero
deciso a parlare, e alla risposta negativa, mi rovesciavano di nuovo e rifacevano da capo le stesse cose. Con l’acqua e sale che mi gettavano nella maschera, io non potendo
respirare, inghiottivo acqua. Quando si calcolavano che uno aveva lo stomaco pieno
d’acqua, mi slegavano dalla cassetta e uno sbirro mi comprimeva le mani nella pancia
per farmi rigettare tutta l’acqua inghiottita [...]. Questa vita fu, a P., per sedici giorni
continui. Poi mi portarono al carcere denunziato. Aggiungo che negli ultimi giorni avevo i piedi tanto gonfi che le scarpe non mi potevano più entrare nei piedi [...]. In particolare il maresciallo M., perché non volevo confessare un delitto che non avevo commesso (e che poi fu pure accertato non a mio carico dai giudici), per sfregio, mi hanno
acceso due cerini di cera nei piedi. [...] Pur essendo innocente di tanti delitti, se avessi
saputo rispondere una cosa qualsiasi, basta che mi avessero levato da quelle torture,
avrei confessato qualsiasi cosa, che fui io che avevo ucciso Dio, che avevo incendiato
Roma e tutto quello che avrebbero voluto.
Se non bastasse il terrore che la forza pubblica ispira ai contadini siciliani, Salvatore Giuliano ha anche l’abitudine di portarsi appresso, nascosta in un calzino, una rivoltella avuta da un soldato in cambio di una
forma di pane e di un fiasco di vino. Quando i carabinieri gli ordinano di
fermarsi, Giuliano si sente perduto. I militari gli chiedono i documenti e
lo controllano con il fucile puntato ma poi, da dietro la curva di San Giuseppe, ecco il passo felpato di un somaro guidato da un disgraziato come Turiddu, uno di quelli che non hanno (ancora) la mafia che li protegge e che quindi possono essere arrestati: fumo negli occhi dell’opinione pubblica convinta che, contro il contrabbando, la forza abbia ben
poca voglia di fare.
Il tempo di andare a controllare i documenti del poveraccio e Giuliano,
approfittando della distrazione dei controllori, si butta nei campi di
Quarto Mulino. I carabinieri sparano ma, nascosto tra la sterpaglia, Giuliano risponde al fuoco. «A cu ti leva un pane, levaci la vita», recita un
antico proverbio siciliano: una pallottola nel cuore e il carabiniere Emanuele Mancino finisce nel Libro degli spersi mentre Giuliano, ferito, imbocca la via che conosce meglio, quella che costeggia il suo paese e por-
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ta tra le grotte e le capanne del monte Sagana, proprio sopra Montelepre.
È il 2 settembre del 1943: ferito a un fianco, il contrabbandiere Salvatore Turiddu muore. Ma il giorno dopo, armato fino ai denti, è già pronto a prendere il suo posto un personaggio dai contorni tristi e leggendari: il bandito Giuliano.
***
Non è la prima volta che succede e nemmeno l’ultima. Chi fugge dalla
legge può contare sulla simpatia del popolo. E spesso anche sulla sua solidarietà.
Salvatore Giuliano, insanguinato, aspetta il buio acquattato tra i rovi.
Appena fatta notte si trascina sulla via principale e agita le braccia davanti al carretto di un contadino. Probabilmente la voce del picciotto che
ha ammazzato il carabiniere giù a Quarto Mulino ha già fatto il giro delle località del circondario, suscitando nella gente paura se non vero e
proprio rispetto. Non a caso, il contadino incontrato da Giuliano, non ci
pensa due volte a spostare qualche balla di fieno e a nascondere il bandito fino a Borgetto dove, in casa di amici, è già pronto un dottore per
medicare le ferite e un paesano per correre fino a Montelepre a rassicurare la razza di Giuliano, sopratutto la madre e la sorella Mariannina, a
cui Turiddu è tanto legato.
La latitanza, per Giuliano, è una scelta obbligata. Tra l’altro ci sono almeno una trentina di bande che imperversano sulle montagne siciliane
rubando bestiame, rapendo persone, estorcendo denaro. Si tratta di forze tutt’altro che anarchiche visto che, nella fluttuante situazione del dopoguerra siciliano, i banditi sono fondamentali per mantenere il tipo
d’ordine a cui sono interessati sia i mafiosi mantenuti dai latifondisti che
i liberatori americani, ferocemente contrari a ogni genere di rivendicazione sociale. Una strana convergenza d’interessi, roba da raccontare
sfuggendo le orecchie che hanno anche i tufi impilati nei muraccioli a
secco e gli occhi che spiano ciò che accade da ogni zolla di terra che il
cafone rivolta con la zappa: per rendere più agevole lo sbarco delle truppe a stelle e strisce, i servizi segreti americani avrebbero scomodato don
Lucky Luciano, il capo di Cosa nostra negli Stati Uniti, pronto a fare un
piacere al suo paese d’adozione grazie ai buoni uffici del suo “ministro
degli esteri”, don Vitone Genovese, e alla pronta collaborazione dei
mammasantissima siciliani, don Calò Vizzini di Villalba e don Giuseppe Genco Russo di Mussomeli; non a caso puntualmente e incredibilmente messi a capo dei rispettivi comuni dall’Amgot (Governo militare
alleato del territorio occupato) del tenente colonnello Charles Poletti.
Sulla collaborazione tra mafia e Stato americano, nelle campagne del
Nisseno si racconta di aerei e di carri armati addobbati con il drappo
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giallo su cui sventola la “L” nera di Lucky Luciano: un modo come un
altro per spingere il popolo a baciare le mani dell’esercito americano come si baciano le mani dei vossia di Corleone, di Alcamo, di Villalba, di
Mussomeli, di Camporeale e di Bagheria, tenendo conto che nel luglio
del ’43, mentre gli americani si accingono a penetrare nel “ventre molle
dell’Europa”, l’Italia è ancora un paese nemico: cantare il suo inno è
proibito, sventolare il tricolore è vietato, issare gli stendardi di partiti politici che non rispondono al nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (MIS) estremamente pericoloso.
Gli Stati Uniti, dalla loro parte, hanno la fanteria più potente della terra e un’aviazione che non teme i confronti: davvero, allora, le truppe da
sbarco guidate dal generale George Patton avevano bisogno di chiedere
il permesso alla mafia per invadere l’isola più grande del Mediterraneo?
Per chi risponde di sì sono già pronte, elaborate dagli storici che non
trovano i documenti su cui basare simili insinuazioni, accuse di superficialità e dietrologia. Eppure l’importanza di poter fare affidamento sulla non belligeranza della popolazione locale (cioè sull’assenza di guerriglia) è una questione che gli esperti di strategia militare reputano assolutamente fondamentale quando si tratta di occupare e amministrare un
territorio nemico, specialmente se questo territorio, come nel caso della
Sicilia, non è altro che una piccola porzione di spazio all’interno di un
fronte estremamente ampio e frastagliato:
Più la guerra sarà vasta e più il nemico dovrà disperdere, di conseguenza, le proprie
forze su vasti territori, meno truppe sarà in grado di impiegare a lungo andare, per tenere sottomessi tutti i territori occupati. Certo il nemico ha la possibilità di distruggere
un piccolo esercito, in un tempo relativamente breve, ma questo dispendio di forze è
piccolo rispetto al peso che comporta il tenere un territorio sottomesso, in cui sia presente una dura guerriglia.
La lotta vittoriosa contro la guerriglia presuppone, sulla base dell’esperienza, una superiorità numerica schiacciante della fanteria. Inoltre solo una buona fanteria può avere successo a lungo andare. Questa fanteria numericamente forte non può essere sostituita dall’impiego – per quanto massiccio – dei più moderni mezzi pesanti (carri armati, aerei) dato che le macchine, nella guerriglia, possono sostituire meno che mai gli uomini. [...] Per la lotta alla guerriglia (rastrellamento): la premessa è una superiorità
quintupla di uomini! (Maggiore H. von Dach, La resistenza totale. Manuale di guerriglia, in In caso di golpe, a cura di Stella Rossa, Savelli, Roma, 1975).
Persino al potente generale Patton, in sostanza, poteva far comodo contare sull’amicizia dei picciotti. Inoltre, anche volendo respingere la notizia della “L” nera di Luciano nel campo della pura fantasia, resta comunque in piedi il ruolo assolutamente concreto della mafia nella gestione dei rapporti tra il governo americano e il MIS, un partito a cui i baroni dell’isola si votano presto e volentieri, con l’idea di scongiurare la
possibilità di una riforma agraria che avrebbe smantellato l’ordinamen-
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to feudale e, dopo secoli di sommosse, consegnato la tanto sospirata terra ai contadini. Ecco, allora, che al posto del verde, bianco e rosso della
bandiera italiana spuntano un po’ ovunque vessilli giallo-rossi con il
simbolo della Trinacria e, invece del Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli, è più semplice sentire intonare:
Contro i tiranni italici
nemici a nostra terra
ognuno le armi afferra
gridando libertà.
Con questi presupposti, uccidere un carabiniere come ha fatto Giuliano
può facilmente trasformarsi in un gesto che ha più a che fare con la ribellione politico-mafiosa che con la semplice criminalità. E raccontando, alla maniera dei contastorie siciliani, l’evoluzione con cui Giuliano
da contrabbandiere diventa bandito, non si può certo fare mistero delle
importanti personalità mafiose che, subito dopo l’omicidio, accolgono il
ragazzo di Montelepre sotto la loro interessata ala protettrice:
E un campagnolu cu modi cortesi
l’accompagnò a cavaddu a lu paisi.
Lu midicaru li duttura ‘ntisi:
unu ca ammazza diventa mpurtanti,
e nun pagò né medicini e spisi,
ca nta sti casi amici ci’ nnè tanti.
(E un contadino con modi cortesi / l’accompagnò a cavallo in paese. / Lo medicarono
dottori mafiosi: / uno che ammazza diventa importante / e non pagò né medicine né spese / che in questi casi gli amici sono tanti; Ignazio Buttitta, La vera storia del bandito
Giuliano, Edizioni Avanti, Milano 1963).
L’omicidio, com’è noto, è il metro con cui la mafia è solita misurare
la “grandezza” delle persone. Niente di strano, allora, se la figura di
Salvatore Giuliano è destinata a superare di gran lunga i centosessantasette centimetri di altezza del bandito già prima della fine del ’43.
Dopo l’intervento dei medici mafiosi, in effetti, Salvatore Giuliano trascorre la sua convalescenza vivendo una latitanza che può dirsi tale
soltanto dal punto di vista dei carabinieri che lo cercano. Ricoverato alla buona in una grotta del Sagana durante il giorno, grazie a un binocolo Giuliano può spiare ciò che accade tra le strade strette del suo paese e farvi ritorno dopo il tramonto. Questo almeno fino alla notte di Natale quando, grazie a una soffiata, un gruppo di carabinieri entra a
Montelepre prima della messa di mezzanotte, salutato dai latrati rabbiosi dei cani che, come gli abitanti del comune siciliano, non vedono
di buon occhio le divise.
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Salvatore Giuliano in quel momento è a casa sua e, a dargli il tempo necessario per scappare, è il padre, un uomo che porta lo stesso nome del
figlio e che ai carabinieri che lo fermano può dire: «Mi chiamo Salvatore Giuliano».
Mentre i carabinieri si rendono conto dell’equivoco Giuliano è già al
sicuro. Non altrettanto si può dire dei suoi compaesani, trattati tutti
quanti come criminali e favoreggiatori di criminali: ben centoventicinque di loro vengono caricati sulle camionette dei carabinieri senza andare troppo per il sottile quando si tratta di distinguere i “buoni” dai
“cattivi”. A Montelepre, d’altronde, la colpa di aver dato i natali a Salvatore Giuliano verrà fatta pagare con anni di intensa repressione militare e, nel tentativo di togliere al bandito ogni legame con la pianura, con
l’imposizione di misure spietate come la contingentazione dell’acqua
potabile. A vendicare i monteleprini la notte di Natale, però, è lo stesso
Turiddu che ci pensa. Mentre i carabinieri procedono all’arresto di massa il bandito esce allo scoperto, stagliando la sua figura contro il riverbero della luna. I militari lo vedono e cominciano a sparare ma una mano invisibile sembra deviare i colpi dalla sagoma del super-ricercato.
Anche Giuliano spara. Soltanto tre colpi: quanto basta per colpire e uccidere il tenente Aristide Gualtieri, proprio colui che si è permesso di
guidare le truppe dentro l’abitazione della famiglia Giuliano e di maltrattare Mariannina. La vendetta del bandito non finisce qui perché il 26
gennaio del 1944 il nome del terzo morto ammazzato da Giuliano è
quello del diciottenne Vincenzo Palazzolo, detto “Nzirita”, colpevole,
almeno secondo la voce del popolo, di aver messo i carabinieri sulle
tracce di Giuliano, provocando il rastrellamento dei monteleprini la notte di Natale.
Dopo l’assassinio di Nzirita, Giuliano smetterà i panni di “vendicatore
solitario” per mettersi alla testa di una vera e propria banda, formata, almeno parzialmente, dalle stesse persone arrestate dai carabinieri e rinchiuse nel carcere di Monreale. L’agiografia del bandito racconta di un
Giuliano armato soltanto del fischio con cui, da bambino, era solito
chiamarsi con il cugino Salvatore Lombardo. Con questo fischio, Giuliano si presenta sotto il muro della prigione e, al cugino che si affaccia,
lancia le lime necessarie a segare le sbarre dietro le quali languiscono i
monteleprini. Per coprire lo stridere della lima sul ferro, i monteleprini
cantano a squarciagola finché le sbarre non cedono. A questo punto c’è
anche una lunga scala a pioli portata da Giuliano, pronta per consentire
ai prigionieri di evadere in massa dal carcere di Monreale.
Questa dell’evasione è una storia senz’altro avventurosa ma troppo
semplice per essere vera. Non a caso, nelle carte dell’inchiesta aperta
per fare luce sul caso, si parla dell’aiuto dato a Giuliano dalla famiglia
di Ignazio Miceli, il capomafia di Monreale. Ed è ancora la presenza
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della mafia che consente a Turiddu e ai suoi sodali di assaltare la polveriera di Piano dell’Occhio, una battaglia nel corso della quale diciotto
morti vengono scambiati con quei mitra e quelle bombe a mano che fanno dei monteleprini di Giuliano un piccolo esercito, capace di confrontarsi e spesso di superare persino le truppe regolari impiegate dallo Stato per sconfiggere la piaga del banditismo siciliano.
Chiusa la sanguinosa parentesi della seconda guerra mondiale, in Sicilia si aprono le pagine di un’altra guerra: la “guerra dei sette anni”; perché tanto durerà il “regno” del bandito Giuliano, bravo ad arroccarsi sulle sue montagne e di colpire a valle, organizzando sortite micidiali come
valanghe.
In un primo momento, Giuliano gode del favore popolare. Una simpatia giustificata almeno dal fatto che la gente comune, in Sicilia, deve ancora vedersela con il più brutale dei nemici: la fame. La situazione è talmente grave che i netturbini di Palermo, in questo periodo, non si limitano a ramazzare dalle strade i soliti rifiuti urbani ma, costretti a improvvisarsi becchini, devono portare via i cadaveri di quelli che non ce
la fanno. E quando il popolo domanda pane i militari rispondono usando le pallottole. Accade a Palermo, il 19 ottobre del ’44, quando un corteo spontaneo di dipendenti comunali e di povera gente viene caricato
dalle forze dell’ordine che lasciano sul selciato dei Quattro Canti ventiquattro morti trapassati dalle pallottole, dilaniati dalle bombe o con il
cranio fracassato dal calcio dei fucili. Ad alimentare l’odio contro gli
“italiani”, poi, ci pensa il ripristino della leva obbligatoria: una misura
che mette il nuovo stato italiano sullo stesso piano dei vecchi Savoia,
abituati a trattare il mezzogiorno d’Italia più come una colonia da sfruttare fino all’osso che come una parte importante del Paese.
Sul fronte della comunicazione, Salvatore Giuliano cavalca il malcontento e si rivela abilissimo propagandista di se stesso. Quando il ministro Giuseppe Romita impone sulla sua testa una taglia di ottocentomila
lire, Giuliano risponde affiggendo manifesti in cui arriva a offrire due
milioni per lo stesso ministro e, per rendere più chiaro il messaggio, aggiunge: «Sono migliore pagatore io».
Il costante bisogno di Giuliano di trovare una giustificazione alle proprie azioni, lo fece diventare un campione dei poveri e degli oppressi. [...] Venne fuori un nuovo slogan:
«Giuliano non deruba i poveri». Lo trovarono [...] appuntato al petto di un uomo, ucciso per mano di Giuliano, che aveva rubato due barili di vino ad un vecchio contadino
con la moglie malata. [...] «Io vivo secondo coscienza e non agisco mai in maniera anonima», diceva Giuliano, «mi assumo piena responsabilità agli occhi di Dio e degli uomini di tutto ciò che faccio. Ho ucciso quando era giusto; Giuliano non si è mai sporcato le mani di sangue per amore del denaro». La sua abitudine di difendere i poveri con
la giustizia sommaria assunse proporzioni più ampie quando giustiziò un bottegaio di
Montelepre colpevole di estorsione [...]. La vittima che seguì fu un impiegato delle poste, anche lui di Montelepre. Da diverso tempo questo impiegato si appropriava di let-
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tere e pacchi contenenti danaro o merci o esigeva pagamenti di dubbia legalità sulle lettere provenienti dall’estero, sopratutto dall’America, dove molti monteleprini avevano
parenti facoltosi. «Non sopporterò mai l’ingiustizia; io sono dalla parte della giustizia»,
amava ripetere, pur senza mai spiegare, se non con l’azione diretta, cosa intendesse con
quella parola [...]. Per Giuliano la giustizia era Giuliano. Era giustizia, così aveva deciso lui, rubare ai ricchi per dare ai poveri, ed i poveri cominciarono a goderne. Una povera vecchia che il giorno dopo doveva essere sfrattata di casa, svegliandosi al mattino
trovò a capo del letto un grosso pacchetto di banconote; un contadino che aveva avuto
un cattivo raccolto ebbe lo stesso dono. A poco a poco questa ridistribuzione della ricchezza si andò diffondendo fra i contadini delle due pianure: la Conca d’oro di Palermo
e la lunga piana del Golfo sotto Montelepre (Gavin Maxwell, Dagli amici mi guardi Iddio, Feltrinelli, Milano 1957).
In questo modo nasce e si diffonde l’idea della “bontà” di Giuliano:
una bontà di matrice mafiosa, abile a far passare per gentili elargizioni –
pane, casa, lavoro – ciò che ai beneficiati spetterebbe di diritto. Ma se
nella Conca d’oro o nella piana del Golfo il diritto non esiste e lo Stato
è un’entità assolutamente vessatoria, i denari di Giuliano e l’eco delle
sue imprese diventano una realtà alla quale votarsi con tanto di preghiere – pubblicate persino sulle pagine del «Time» – che raccomandano alla Madonna la libertà di questo strano bandito che, come Robin Hood,
toglie ai ricchi per dare ai poveri.
Dove non arriva il denaro (quello che resta dopo aver passato sostanziose stecche ai protettori mafiosi), a dare lustro alla gente della campagna ci pensa lo sguardo limpido del suo figlio-bandito, presupposto di
una fama di latin lover capace di ammaliare le belle giornaliste straniere che si presentano in Sicilia a caccia di scoop e di avventure. Come la
svedese Maria Tecla Cyliacus, poi espulsa dal governo dal territorio italiano, a cui Giuliano, che tra una rapina a mano armata e un’estorsione
trascorre la latitanza dedicandosi alla compilazione di un pretenzioso
Trattato sulle maree, dedica anche una bella poesia in lingua siciliana:
Vinisti di la nivi a lu me suli,
sula, cu lu curuzzu intra li mani
comu la Madunnina a lu Figghiuzzu
lu fiuri volli: e non volli lu pani
(Sei venuta dalla neve fino al mio sole / sola con il tuo piccolo cuore tra le mani / come la Madonnina che va incontro al Salvatore / da te volli il fiore dell’amore e non il
pane).
Maria Tecla Cyliacus ricambia la lirica di Giuliano contribuendo, col
suo reportage, a diffondere l’immagine del Giuliano bandito cortese ma,
al di là della leggenda, resta vero che le azioni di Giuliano non sono
sempre dettate dalla razionalità economica. Tra gli obbiettivi preferiti
del bandito, per esempio, ci sono le caserme dei carabinieri, come quel-
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la di Bellolampo, nei pressi di Palermo, assaltata da Giuliano il 29 dicembre del 1945, quando la banda di Montelepre smette di dedicarsi alle estorsioni, all’abigeato, al sequestro di persona e alle rapina in banca
per “innalzare il livello dello scontro” e colpire direttamente i militari.
Alla spedizione, guidata da Salvatore Giuliano e da Gaspare “Tufanu”
Pisciotta, il luogotenente del bandito, partecipano anche un pugno di
studenti idealisti, soldati dello sparuto esercito del MIS messo in piedi da
Antonio Canepa.
Con questa singolare formazione le caserme prese di mira dalle “truppe” di Giuliano si moltiplicano: Grisì, Pioppo, Borgetto e Montelepre,
dove la Banda, il 7 gennaio del 1946, resiste un giorno intero, facendo
saltare anche qualche blindato che, sbuffando, è stato mandato a Montelepre da Palermo per rispondere a una disperata richiesta di rinforzi.
Nelle mani dei militari, quando Giuliano si ritira sul Sagana, restano le
insegne del movimento politico che, con la complicità della mafia, ha
armato il bandito dandogli una dignità di gran lunga superiore a quella
che compete a un comune criminale. Le insegne, nella fattispecie, sono
quelle dell’EVIS (Esercito dei Volontari per l’Indipendenza della Sicilia),
il braccio armato del MIS: un partito di cui Giuliano non può essere considerato semplice simpatizzante visto che, nel corso di incontri “segreti”
con alcuni dei capi del Movimento, Salvatore ha ricevuto i gradi di colonnello, impegnandosi a combattere per l’autonomia della Sicilia in
cambio non soltanto della grazia ma, raggiunta la vittoria, addirittura
della poltrona di ministro della difesa della nuova Sicilia indipendente.
A svolgere un luogo di collegamento tra le “truppe” del colonnello
Giuliano e le teste d’uovo del MIS c’è un ex partigiano, Pasquale Sciortino, futuro sposo di Mariannina Giuliano e quindi cognato del bandito
di Montelepre. Già reduce delle brigate che affrontarono i nazisti sul
Monte Amiata, Sciortino si mette al servizio di una causa completamente diversa rispetto a quella che ha animato la resistenza partigiana. D’altro canto l’idea della libertà siciliana, all’interno del MIS, viene portata
avanti attraverso un programma intriso di avventurismo e contraddizioni. Nel nome dell’autonomia, l’ala destrorsa del partito fondato da Andrea Finocchiaro Aprile, espressione dell’aristocrazia e del latifondo,
convive con una sinistra radicale che immagina l’indipendenza siciliana
come il primo passo verso la fondazione di una società di uguali, dove
la terra è di chi la lavora e non di chi la detiene nel nome di vetusti privilegi nobiliari. Ad aumentare la confusione c’è anche il fatto che molti
giovani comunisti siciliani, in questa fase di transizione, guardano a ciò
che sta accadendo nel nord Italia e, imbracciando i fucili, imitano i militanti delle repubbliche partigiane attaccando mafiosi e borsaneristi
senza mai ottenere l’approvazione della sinistra ortodossa, ben attenta a
non confondere le acque della causa del proletariato con quelle del ban-
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ITALIA CRIMINALE
ditismo e della criminalità. Per questa ragione la mafia, dopo aver guardato a sinistra in cerca di appoggi politici, sceglie di rappresentare gli interessi dell’indipendentismo, fornendo uomini e mezzi alla causa del
MIS. Tra le file degli indipendentisti, infatti, passa l’idea che per raggiungere l’autonomia non sia possibile fare a meno del supporto della
criminalità e, sopratutto dopo la morte di Antonio Canepa, un professore di scienze politiche di accese idee marxiste ucciso dai carabinieri in
un agguato, la destra del MIS, guidata da uomini come il conte Lucio Tasca, sindaco di Palermo, ha buon gioco nell’arruolare i banditi all’interno dell’organizzazione. Si tratta di una scelta niente affatto originale visto che non si contavano neppure i picciotti che avevano combattuto al
fianco di Giuseppe Garibaldi al tempo della spedizione dei Mille e che
persino sotto i Borboni, per domare i moti rivoluzionari o le sollevazioni popolari, si faceva solitamente ricorso alla cosiddetta “soluzione galiziana”: una forma di guerriglia in cui i banditi svolgevano un ruolo di
primo piano, salvo poi essere dimenticati o più spesso uccisi nel momento in cui l’ordine veniva ripristinato.
Ritenuto “abile e arruolato” dal MIS, il “colonnello” Salvatore Giuliano
– oltre a ricevere da Tasca bandiere, denaro e indicazioni sui ricchi possidenti da rapire – inizia a siglare i suoi gesti più eclatanti, come l’assalto al treno Trani-Palermo, con un singolare manifesto. Una specie di planisfero rimpicciolito dove la Sicilia, al centro del mondo, è tenuta ferma
da una catena che la lega sia alla penisola italiana, sia agli Stati Uniti.
Nel manifesto, la figura stilizzata di un bandito spezza quel tratto di catena che unisce la Sicilia all’Italia. Come a dire che gli Stati Uniti si sarebbero fatti garanti dell’autonomia dell’isola dove, per altro, non viene
vista di malocchio neppure la possibilità di una Sicilia annessa agli USA
in qualità di ciò che, al momento, sarebbe stato il quarantanovesimo Stato dell’Unione. Per rendere più esplicito il messaggio, sul manifesto in
questione campeggia una scritta sgrammaticata ma efficace: «A morte i
sbirri succhiatori del popolo siciliano e perché sono i principali radici fascisti, viva il separatismo della libertà»; immancabile segue la firma:
quella di Giuliano.
***
I separatisti tramano e i banditi uccidono. Né gli uni né gli altri, però,
possono sapere di essere, alla stregua dei pupi siciliani, semplici marionette di un disegno geopolitico molto più grande di loro: burattini manovrati dall’alto, carte da gettare sul tavolo delle trattative diplomatiche
e da buttare via quando gli accordi vengono raggiunti. Le tappe fondamentali della vicenda del MIS, dell’EVIS e della banda Giuliano non si
consumano a Palermo né, tanto meno, sulle montagne di Montelepre,
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ma nelle stanze dei bottoni in cui i russi e gli americani cominciano a decidere gli assetti del mondo in uscita dalla seconda guerra mondiale. Già
dopo la conferenza di Mosca (ottobre 1943), lo scenario del futuro diventa più chiaro: la sfera di influenza sovietica si sarebbe fermata a est
di Trieste questo sì, ma a patto che la Sicilia diventi parte integrante del
territorio italiano e non certo una provincia degli Stati Uniti!
I ricchi signori del separatismo siciliano, da parte loro, fanno presto ad
adeguarsi. Dopo aver intavolato una trattativa con re Umberto meditando di offrire all’ultimo dei Savoia l’appoggio del MIS e persino la corona di re di Sicilia (da unificare con quella di re d’Italia nel caso in cui la
monarchia avesse vinto il referendum del 2 giugno), gli indipendentisti
scendono a più miti consigli, limitandosi ad accettare l’idea di una Sicilia dotata di uno statuto autonomo e di vedere amnistiati i reati compiuti da coloro che hanno combattuto nelle file dell’EVIS.
Puntualissimi, arrivano sia lo statuto autonomo che l’amnistia: un’amnistia che, riguardando i reati di natura politica, taglia fuori il bandito
Giuliano e i suoi seguaci, macchiatisi di crimini gravissimi anche a causa della guerra separatista e ora abbandonati a un triste destino dagli
ispiratori politici delle loro imprese. I separatisti, d’altro canto, devono
rassegnarsi e capire che il loro partito non è altro che neve al sole di
fronte alle vere istanze politiche siciliane. Le elezioni del 20 aprile del
1947 lo confermano: il blocco del popolo (le sinistre) ottiene la maggioranza con 590.881 voti, quasi trecentomila voti in più della Democrazia
cristiana, ferma a quota 329.182 mentre ciò che resta degli indipendentisti, riuniti sotto la sigla del Movimento indipendentista siciliano democratico e repubblicano (MISDR) del progressista Antonino Varvaro,
malgrado l’appoggio di Giuliano, non va oltre le 170.879 preferenze:
ben poca cosa per un partito che si era vantato di avere seicentomila
iscritti!
Un risultato disastroso, quello degli indipendentisti, che se allontanerà
Giuliano dai saccheggi e dalle rapine compiute per portare acqua al mulino dell’autonomia siciliana non impedirà al bandito di gridare al tradimento e di cercare altrove l’ispirazione politica necessaria alle sue azioni. Chi fornirà istruzioni al bandito italiano più famoso del mondo è un
mistero che rivelerà retroscena sempre più inquietanti con il passare del
tempo e con il venire alla luce di documenti assolutamente esplosivi, capaci di portare le avventure di un intrallazzista nato a Montelepre nel
cuore di quelle trame atlantiche che hanno caratterizzato la storia italiana dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, nell’ambito di una
guerra detta “fredda” dai suoi protagonisti ma che sarebbe più giusto
chiamare “sporca” se si sceglie di raccontarla dalla parte di coloro che
ne patirono le conseguenze, a cominciare dai braccianti siciliani. Perché
proprio lui, Salvatore Giuliano, il bandito-contadino, il brigante del po-
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ITALIA CRIMINALE
polo, il re di Montelepre, il ladro benefattore, il Robin Hood della Sicilia, si rende responsabile di una strage spietata e soltanto apparentemente inspiegabile. Il fattaccio si consuma a Portella delle Ginestre, in aperta campagna, il primo maggio del 1947, giorno in cui, rispettando una
vecchia tradizione, gran parte dei contadini della zona, con i carri addobbati a festa, le bandiere rosse bene in vista e i bambini al seguito, è
solita radunarsi in aperta campagna per fare festa e non soltanto per
ascoltare i comizi che gli oratori pronunciano arrampicandosi sul “sasso
di Barbato”: una sporgenza rocciosa trasformata in un palco naturale dal
quale aveva infiammato le folle Nicola Barbato, il fondatore del movimento comunista dei fasci siciliani, soppresso dal regio esercito oltre
mezzo secolo prima.
Il primo maggio di quell’anno sembra il momento buono per voltare pagina e onorare la memoria di Barbato dedicandogli la vittoria della sinistra alle elezioni e, magari, auspicando una veloce applicazione della
riforma agraria di cui si discute in parlamento. Quel giorno, quando le bestie cominciano a muggire in tono cupo e l’aria a crepitare, gli uomini e
le donne levano le mani al cielo e i bambini ridono credendo che il tanto
atteso momento dello scoppio di mortaretti sia arrivato a celebrare l’allegrezza delle duemila persone ammassata in campagna per festeggiare la
giornata dei lavoratori. Quei colpi sordi, però, non sono provocati da innocui petardi ma da micidiali proiettili di mitragliatrici posizionate sui cigli del monte della Pizzuta. Inermi, i contadini non possono far altro che
assistere alla loro mattanza: Vito Allotta, Margherita Cresceri, Giorgio
Cusanza, Filippo Di Salvo, Castrenze Intravia, Filippo Lascari, Giovanni
Megna sono i nomi degli uccisi; gente adulta che, nell’altro mondo, va a
fare compagnia a ragazzi e a bambini come Lorenzo Maggio, di sette anni, Vincenzina La Fata, di otto, Giovanni Grifò, di dodici, e Serafino Lascari, appena quindicenne. La loro colpa?
Come si dice in questi casi, l’essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. L’unico problema è che questo posto “sbagliato” è l’Italia, la repubblica fondata sui misteri e sulle stragi, a partire proprio da Portella delle Ginestre. E, per quanto riguarda il momento, i vecchi, le donne
e i bambini mitragliati a Portella non sono altro che una parte del prezzo
pagato dalla Sicilia alla cosiddetta “dottrina Truman”: un piano che, su
scala planetaria, si propone di contenere l’avanzata sovietica e che, in Sicilia, alimenta la fantasia di Giuliano, concedendogli l’illusione di rappresentarsi come campione dell’antibolscevichismo, diga sulla quale si sarebbero infrante le illusioni di quelli che una volta erano i suoi amati contadini, diventati, in pochi mesi, la “canea rossa” da fermare a tutti i costi.
A testimoniare la trasformazione politica di Giuliano sono i suoi stessi
compari, a cominciare da Gaspare “Tufanu” Pisciotta. Il luogotenente del
bandito racconta di una misteriosa lettera recapitata al latitante Giuliano
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da suo cognato, Pasquale Sciortino. Giuliano, con Sciortino, si sarebbe appartato dietro una siepe per leggere lo scottante contenuto della missiva e
poi avrebbe distrutto tutto con il fuoco di un fiammifero. Ai suoi uomini,
che attendono istruzioni, Giuliano dice solamente: «È giunta l’ora della
nostra liberazione!»; e poi comincia a impartire istruzioni sulla possibilità
di andare a Portella per dare “una lezione” ai comunisti.
Quello che è sicuro è che, a Portella, Giuliano e i suoi uomini non sono soli. A dare manforte ai banditi, ancora una volta, gli onnipresenti
“uomini d’onore”. Esponenti della mafia di San Giuseppe Jato, San Cipirello e Piana degli Albanesi vengono visti aggirarsi armati dalle parti
di Portella prima e dopo la strage. In dispregio alla pretesa omertà siciliana, i contadini fanno i loro nomi e i loro cognomi. Di più: i dirigenti
del Partito comunista hanno il loro bel da fare per contenere la rabbia
della base, decisa, una volta per tutte, a farsi giustizia da sola, come era
già accaduto ai tempi della spedizione dei Mille quando, credendo di cogliere nei proclami populisti del generale Garibaldi un invito alla rivolta di classe, i contadini siciliani erano insorti ammazzando i padroni a
uno a uno usando, per compiere il massacro, le nude mani oppure gli attrezzi da lavoro, come le roncole, le falci e i forconi:
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo,
e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!».
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei
galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano.
[…] «A te prima, barone! Che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!» […] «A
te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! Che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! Che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!».
E il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di
sangue! […] Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine.
Quanti orecchini su delle facce insanguinate! E quanti anelli d’oro! (Giovanni Verga,
La libertà, 1883).
I contadini di Bronte, alla fine del Diciannovesimo secolo, vennero
passati per le armi da Nino Bixio, il braccio destro di Giuseppe Garibaldi. Quelli che sopravvivono alla carneficina di Portella, cinquant’anni
dopo, vedono le loro testimonianze insabbiarsi in un gioco di responsabilità che, dagli ispettori generali di polizia Ciro Verdiani e Ettore Messana, sale fino a toccare direttamente il parlamentare Bernardo Mattarella, ras della DC siciliana, e il ministro dell’interno Mario Scelba, campione della corrente più autoritaria dello stesso partito. All’indomani
della strage, nel parlamento italiano, per l’ultima volta rappresentativo
delle forze politiche espresse dalla Resistenza, dai banchi della DC di De
Gasperi si alza unanime il grido: «Portella delle Ginestre non è stato un
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ITALIA CRIMINALE
delitto politico!»; una pretesa inutilmente contrastata dai parlamentari
comunisti, con in testa il siciliano Girolamo Li Causi, capace di intuire
dietro la strage attribuita all’iniziativa di Giuliano una strategia ben più
complessa di quella contrabbandata come “vera” dagli organi ufficiali e
però inabile a fermare quello che è un attacco terroristico capace di
estendersi da Portella fino alle sedi siciliane del PCI, facendo strage di
dirigenti, militanti e semplici passanti in un’ondata di sangue che non
vuole saperne di placarsi.
Il 20 giugno del 1947, in modo particolare, Giuliano organizza i suoi
uomini in modo da attaccare più obiettivi simultaneamente. A Partinico,
a Borgetto, a Carini, a San Giuseppe Jato, a Cinisi, a Monreale le squadre di Giuliano, supportate dalla manodopera mafiosa, lanciano bombe
a mano davanti ai locali di partito e alle camere del lavoro, rafficando
chi passa senza domandarsi se quelli che muoiono hanno o no la tessera
del PCI in tasca e siglando tutte le azioni con un volantino di rivendicazione che, in calce, porta il nome dell’ex campione dei deboli e degli oppressi: “S. Giuliano”.
La “strategia della tensione” di cui si fa esecutore Giuliano non manca
di dare i suoi frutti. A livello nazionale, Alcide De Gasperi, cavalcando
le polemiche nate all’indomani della strage di Portella, si dimette da presidente del consiglio e forma un nuovo governo da cui le sinistre vengono escluse. Mentre, a livello regionale, quando si tratta di tornare alle urne (18 aprile 1948), si scopre che ai siciliani sono bastati pochi mesi per
stravolgere le proprie idee politiche perché, questa volta, l’assoluta
maggioranza dei voti va a un partito molto diverso da quello che aveva
vinto le elezioni del ’47: la Democrazia cristiana.
***
Con le elezioni del 18 aprile, l’ondata terroristica scatenata dalla banda
Giuliano si placa. Ma il mistero relativo alle complicità che hanno spinto il bandito di Montelepre a trasformarsi in stragista continua ad aleggiare sul Paese facendosi, se possibile, sempre più fitto. Uno dei pochi a
non avere dubbi sulle complicità istituzionali della Banda è proprio Girolamo Li Causi. Il senatore comunista rincara la dose e arriva ad affermare che, dietro la gestione del banditismo politico siciliano, c’è niente
di meno che l’ispettore Ettore Messana. Un’affermazione pesante ma
suffragata da un fatto: all’interno della banda Giuliano, Messana ha i
suoi infiltrati, come Salvatore Ferreri, detto “Fra’ Diavolo”. E la collaborazione tra il poliziotto e il bandito è talmente stretta che, prima di
Portella, Fra’ Diavolo viene munito di un salvacondotto diplomatico e
rifornito di nuove armi da guerra: dei micidiali mitra beretta.
Certo, l’uso dei confidenti nel corso di indagini poliziesche sarebbe
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una pratica piuttosto normale, peccato solo che Fra’ Diavolo utilizzi le
armi ricevute da Messana proprio per andare a sparare a Portella: a sostenerlo sono le perizie balistiche, non certo la testimonianza del diretto
interessato. Salvatore Ferreri, infatti, viene ucciso nel corso di un agguato tesogli dalle stesse forze di polizia che lo hanno spinto a collaborare. Anche intorno a Salvatore Giuliano il cerchio si stringe: a uno a
uno i suoi uomini vengono uccisi oppure arrestati. Sulla coscienza del
bandito, tra l’altro, pesa la colpa di vedersi attribuire un’azione infame
come la strage di Portella. Giuliano cerca di discolparsi pubblicamente,
inviando una lettera alla «Voce della Sicilia» in cui, nella consueta prosa dialettale, cerca di spacciare il massacro come un “incidente” provocato da elementi esterni alla Banda. Girolamo Li Causi risponde al bandito con un facile profezia: «Parla Giuliano, se no ti ammazzano!».
Il bandito non segue il suggerimento del senatore e il suo destino, inesorabile, si compie dopo che, tra il 1948 e il 1949, a cadere vittime di
Giuliano non sono più soltanto caserme dei carabinieri e ricchi signori
sui quali imporre un riscatto, ma quegli stessi mafiosi, come il boss Santo Flores, ritenuti colpevoli di non essere stati ai patti, negando a Giuliano l’impunità che il bandito considera un giusto premio dopo la sua collaborazione alla strage di Portella e agli attentati contro le sedi del PCI.
Sempre più solo, nel 1950 Giuliano si nasconde a Castelvetrano, ospite dell’avvocato Gregorio De Maria. Nella casa di De Maria, in via Severino Mannone 54, Giuliano resta cinque lunghi mesi: il tempo necessario a scrivere un ennesimo memoriale e, la notte tra il 4 e il 5 luglio,
ad aprire la porta al suo uomo più fidato, Gaspare Pisciotta, ormai convinto a dare un seguito agli accordi stretti con il tenente Ugo Luca, l’esperto di guerriglia che il governo ha appena messo a capo del nuovo
Corpo forze repressione banditismo, il CFRB.
In quella notte – l’ultima notte di Salvatore Giuliano – alcuni testimoni affermano di aver sentito due colpi secchi seguiti da prolungate raffiche di mitra. Dopo di che, del bandito Giuliano, non resta altro che il cadavere, piegato nella posa innaturale della morte nel cortile della casa di
De Maria, a Castelvetrano. Una fine messa a punto dallo stesso Ugo Luca che, nel marconigramma inviato a Scelba, pensa bene di ufficializzare una notizia completamente falsa. Secondo questo documento, infatti,
Giuliano sarebbe caduto nel corso di una sparatoria con i carabinieri.
Peccato soltanto che, a una semplice osservazione della salma, questa
eventualità risulti impossibile: nella fretta di allestire la messa in scena,
i carabinieri hanno sistemato il corpo di Giuliano a valle del rivolo di
sangue che gli cola dalle ferite!
Che cosa si nasconde, allora, dietro la morte di Salvatore Giuliano?
Nel corso del processo celebrato a Viterbo e teoricamente destinato a fare luce sulle malefatte della Banda – nel corso di sette anni di attività,
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ITALIA CRIMINALE
Giuliano e i suoi complici hanno ucciso più di quattrocento persone e
hanno gestito una somma di denaro superiore al miliardo di lire – ad accusarsi dell’omicidio del capo è Gaspare Pisciotta: sarebbe stato lui, l’ex
luogotenente del bandito, a sparare a Giuliano a tradimento; i carabinieri
si sarebbero limitati a trascinare Giuliano nel cortile e a sparargli addosso
quando ormai Turiddu era già morto. Questa, in realtà, è solo una delle
ben sedici ricostruzioni più o meno ufficiose della morte di Salvatore
Giuliano – un’altra versione dei fatti vuole che sia stato il mafioso Luciano Leggio a far fuori il bandito – ma le rivelazioni di Pisciotta non si limitano a rivendicare l’assassinio del suo capo, minacciano di andare oltre
e di dire di più, ripercorrendo i segreti contenuti nell’ultimo memoriale
scritto da Giuliano e immancabilmente scomparso dopo il suo assassinio
in casa De Maria. Sopratutto, le rivelazioni di Pisciotta, minacciano di
fornire i nomi dei veri mandanti della strage di Portella: nomi che, fino a
quel momento, Tufanu ha creduto di tacere, almeno parzialmente, pensando di ottenere, attraverso il silenzio, la salvezza della propria vita se
non la possibilità di uscire libero al termine del processo che lo riguarda.
Vane speranze quelle di Pisciotta: lui non lo sa ma, come il Giuliano
nascosto a Castelvetrano, è solo un morto che cammina. Attraverso il
suo avvocato, nel corso del processo di Viterbo, fa leggere un documento in cui afferma: «Avendo io personalmente concordato con il ministro
degli interni Scelba, Giuliano è stato ucciso da me».
In cambio della “cortesia”, Pisciotta avrebbe dovuto incassare i cinquanta milioni di taglia che pendevano sulla testa del bandito e ottenere
un passaporto con cui espatriare negli Stati Uniti dove, magari, si sarebbe pure fatto curare quella tubercolosi che lo costringe a sputare sangue.
Questo, naturalmente, non accadrà mai: i committenti di Pisciotta si
guardano bene dal rispettare i patti e tutto quello che fanno per lui è arrestarlo e rinchiuderlo nell’Ucciardone di Palermo. Da dietro le sbarre,
Pisciotta è ancora convinto di poter tenere in scacco politici e mafiosi
grazie ai segreti che custodisce gelosamente e che, come una bomba a
orologeria, minaccia di rivelare. Pisciotta, invece, non rivelerà un bel
niente. Il 9 febbraio del 1954 accosta le labbra a una tazzina di caffè, poi,
urlando, si porta le mani al collo: il suo corpo è percorso dai fremiti della convulsione prima di serrarsi nella rigidità più assoluta. Cianotico, Pisciotta prova a vomitare e sputa sangue per l’ultima volta: nel caffè che
ha appena bevuto c’è una fortissima dose di stricnina. Il tempo di una
bestemmia e Pisciotta muore con gli occhi sbarrati, avvelenato.
***
Gli scheletri nascosti nell’armadio della Storia hanno una caratteristica: da spiriti inquieti quali sono non si limitano ad ammuffire nel di-
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menticatoio, al contrario, tornano sempre. Così è per lo scheletro di
Salvatore Giuliano: un cadavere che ha continuato a marcire per cinquant’anni, dando dei pazzi e dei visionari a coloro che provavano a interpretare il bandito inserendo la sua carriera in un contesto non solo
siciliano.
Nel 1996, a Roma, in un magazzino di forniture militari grigio come lo
smog che funesta la circonvallazione Appia, all’interno di uno stanzone
ingombro di scartoffie consumate dall’umidità, il fantasma di Giuliano
torna a farsi vivo e questa volta parla. Si tratta di un racconto che comincia da lontano, ai tempi della Repubblica di Salò quando, su incarico del Duce, alcuni fedelissimi presero la decisione di foraggiare un
esercito dormiente, pronto a superare l’imminente disfatta per rifarsi vivo, organizzare bande armate, compiere azioni terroristiche, disseminare morte e distruzione con lo scopo di far maturare le condizioni che
avrebbero concesso agli ex delle Brigate nere, della Guardia nazionale
repubblicana e della X MAS di Junio Valerio Borghese di attentare contro
gli organi dello Stato e di riprendere il potere. Un disegno osceno ma per
nulla pazzesco. Ben presto il rinato esercito di Salò avrebbe trovato interlocutori insospettabili negli uomini dei servizi segreti americani, a
cominciare da James Jesus Angleton: capo dell’OSS e primordiale artefice di una strategia che prevede l’alleanza strategica tra gli alfieri della
democrazia statunitense e i neofascisti con l’obbiettivo dichiarato di fermare l’avanzata dei “rossi”.
All’interno di questa strategia trova posto anche Salvatore Giuliano:
contadino, operaio, contrabbandiere, bandito separatista, potenziale golpista monarchico e poi – nel momento in cui rivendica i suoi attentati
con volantini firmati “S. Giuliano” – nient’altro che una delle sigle dietro le quali si cela l’opera dell’ECLA, cioè l’Esercito Clandestino Anticomunista. Nero su bianco, le prove di ciò che fino a quel momento era
stato solo un fondato sospetto, si nascondono tra i resti dei duecentosessantadue faldoni ammucchiati in circonvallazione Appia:
Quelle carte sono state mandate lì a marcire: l’Ufficio affari riservati le ha ereditate
dal SIS, il Servizio informazioni e sicurezza. [...] Dalle carte salta fuori che alcuni apparati dello Stato erano perfettamente a conoscenza della collaborazione organica tra Giuliano e i “servizi” di Salò; che non fecero nulla per fermarli; e che poi non fornirono alla magistratura e alla polizia alcun aiuto per far chiarezza su questo aspetto cruciale della vicenda.
Eppure c’è un informatore del SIS che ha fatto un ottimo lavoro. Ha scritto per tempo
e con dovizia di informazioni concordanti [...] che «la banda Giuliano è da ritenersi a
completa disposizione delle formazioni nere». Anzi: «Il bandito Giuliano vi è stato più
volte segnalato anche e sopratutto in ordine ai suoi contatti con le formazioni clandestine di Roma».
[...] Dall’archivio-discarica della circonvallazione Appia, saltano fuori ancora altri
tasselli del puzzle, che combaciano. Dal processo di Viterbo, dalla memorialistica e dai
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ITALIA CRIMINALE
giornali del tempo emergevano, infatti, numerosi indizi dell’affiliazione di Giuliano, in
epoca precedente la strage di Portella, a un’organizzazione denominata «Fronte antibolscevico italiano», diretta a Palermo da Giacomo Cipolla, detto Jack, pregiudicato
per reati comuni e fascista acceso. È proprio in via dell’Orologio, nella sede del Fronte, in una viuzza del centro storico, che qualche giorno dopo le stragi vengono ritrovati
pacchi degli stessi volantini a firma “S. Giuliano” che erano stati lanciati davanti alle
sedi devastate dei partiti di sinistra (Vincenzo Vasile, Salvare Giuliano. Bandito a stelle e a strisce, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004).
Di questo parlano i faldoni abbandonati sulla circonvallazione Appia: di
un salto nel futuro che, nei decenni a venire, tornerà a presentare il suo
conto firmando la regia delle stragi di Bologna e di Brescia, animando i
progetti golpisti di Junio Valerio Borghese (la presenza di un suo collaboratore è accertata nella Palermo del ’46) e della Rosa dei Venti, finanziando eserciti clandestini come quello che si nasconde dietro la sigla
“Gladio” o, come succede a Michele Sindona, servendo caffè avvelenati
a chi prima si impantana in giochi pericolosi e poi minaccia di parlare. Faceva ridere Salvatore Giuliano e faceva la figura del pazzo e del megalomane quando, ricevendo il giornalista Michael Stern, accusato da più parti di essere al servizio della CIA, si permetteva di prendere la carta e la
penna per scrivere ad Henry Truman, il presidente degli Stati Uniti:
La nostra organizzazione è ormai interamente compiuta: abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto per eliminare il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo tollerare più oltre il dilagare della canea rossa. Il loro capo, Stalin, che come voi
ben sapete, manda milioni su milioni per conquistare il cuore del nostro popolo, con il
nostro sistema politico basato sulla falsità ha in qualche misura incontrato i favori della popolazione. Ma noi fortunatamente non crediamo nel paradiso che Stalin ci ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo scacciando il comunismo dalla nostra
nobile terra che fu fatta per la democrazia. Noi non permetteremo a questa gente ignobile di toglierci la libertà, che per noi siciliani è il più essenziale e il più prezioso elemento di vita.
Di Stern, uno dei tanti che scrisse di Giuliano paragonando il siciliano
a Robin Hood, resta un famoso giudizio: «Salvatore Giuliano è un bravo ragazzo, un ragazzo sincero. Ha un solo lato sbagliato: gli piace ammazzare la gente».
Più curioso è notare come il giornalista americano, abituato a intervistare i suoi interlocutori indossando l’uniforme di capitano dell’esercito
degli Stati Uniti, non colga il fatto che, quando si tratta di scrivere simili lettere, Giuliano non fa errori di grammatica e si esprime in un italiano gonfio di retorica ma formalmente ineccepibile. Tra i luogotenenti
del bandito, non risulta che Tufanu Pisciotta, Frank Mannino, Giuseppe
Cucinella, Salvatore “Fra’ Diavolo” Ferreri o Antonino Terranova detto
“Cacaova” potessero ostentare un simile stile. Non resta che ipotizzare
la presenza di un suggeritore la cui identità, malgrado i nuovi documen-
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ti venuti alla luce in circonvallazione Appia, resta incerta. E in questo
modo, malgrado il passare del tempo, torna ad avere ragione Tommaso
Besozzi quando, di fronte al cadavere di Salvatore Giuliano, pensava:
Di sicuro c’è soltanto che è morto e – senza sapere che la sicurezza della morte sarebbe stata l’unica certezza toccata in sorte alle vittime di tante stragi italiane – scriveva per «L’Europeo» numero 29 del 1950 un articolo intitolato proprio così.
***
Dalla Sicilia a Roma la strada è più corta di quella che sembra. Secondo l’anonimo compilatore delle informative del Sis rinvenute in circonvallazione Appia, Salvatore Giuliano non ebbe particolari difficoltà a colmare una simile distanza, consumando un “meritato” riposo del guerriero mescolato tra la bella gente di un caffè della centralissima via della Mercede,
luogo di ritrovo dei reduci di Salò, gente disposta a tutto pur di prendersi
una rivincita e tornare a guardare le cose dal punto di vista del potere.
Dimesse le camice nere, gli ispiratori di Giuliano passano a un più sobrio doppio petto ma identico, a saperlo osservare, è il disprezzo che nutrono nei confronti di coloro che, attraverso i vestiti logori o l’accento
che ha poco a che spartire con la lingua del Belli, tradiscono un’appartenenza a cui i monumenti arroccati sui “colli fatali” di Roma ricordano
solo il destino da deportati a cui sono stati condannati. È accaduto infatti, negli anni Trenta, che coloro che vivevano e lavoravano nelle casupole abbarbicate nel centro storico – i romani – fossero costretti a farsi
da parte per cedere il loro spazio ai lavori di ristrutturazione che, attraverso sistematiche demolizioni, avrebbero dovuto offrire al mondo il
volto nuovo di una Roma “imperiale” e, alla città, una nuova categoria
di abitanti, prontamente ribattezzati con il dispregiativo nome di “borgatari”. Così vennero detti gli abitanti di Centocelle e del Tiburtino, del
Tufello e di Fidene, del Quadraro e del Quarticciolo: zona dove sommari palazzoni di edilizia popolare si mescolano a baracche di mattoni e
dove un ragazzo nemmeno diciottenne doveva offrire la sua stessa vita a
ciò che, al di là della ricostruzione storiografica dei fatti, per la borgata
è prima di tutta un’eroica rivendicazione di identità.
Il protagonista di questa vicenda, al tempo simile e diversa da quella
vissuta in Sicilia da Salvatore Giuliano, si chiama Giuseppe Albano,
detto “il Gobbo del Quarticciolo” per via del quartiere dove abita e per
colpa di una deformità fisica che non gli impedisce di riscuotere un clamoroso successo con le donne.
Forse, per Giuseppe Albano, nato a Locri il 23 aprile del 1926 e arrivato a Roma all’età di dieci anni al seguito del padre muratore, la gobba
non è altro che l’incarnazione della stessa diversità subita dagli abitanti
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delle borgate: rinchiusi alla periferia della capitale e privati persino dei
mezzi pubblici necessari a raggiungere il centro, come se risiedere fuori le mura fosse una colpa da espiare.
In questo contesto, la diffidenza nei confronti del potere è un fatto che
si può dare per scontato. Per questo, quando dopo l’otto settembre del
1943 le truppe naziste si trasformano in una forza di occupazione, Giuseppe Albano, insieme a tanti altri ragazzi di borgata, sa benissimo da
che parte stare. Il Gobbo, appena diciassettenne, si mette a disposizione
dei gruppi partigiani romani. Se lo ricorda bene Gioacchino Basilotta,
intervistato da Vittorio Lojacono per la «Settimana Incom» (1958) in
quanto contatto politico dei militanti del Quarticciolo con il coordinamento dell’organizzazione partigiana Bandiera Rossa: «Quei ragazzi
non mi ispirarono molta fiducia. Alcuni ricordo che li scartai perché
troppo giovani. In quanto al Gobbo non so nemmeno perché lo tenni con
me, ma posso testimoniare che fu un buon patriota».
Giuseppe Albano, all’epoca impiegato come garzone di farmacia, è tra
quelli che, con mezzi di fortuna ma enorme coraggio, si oppongono all’esercito nazista che entra a Roma attraverso la via Ostiense, attaccando i convogli tedeschi prima a Porta San Paolo e poi a piazza Vittorio.
Seguono numerose azioni, tra cui diversi sabotaggi e una spietata caccia
al fascista che, tra le altre cose, consentì la cattura di diversi membri della famigerata banda Koch, specializzati in torture per conto dei nazisti,
e della banda Perrone-Cannavale, agli ordini del questore collaborazionista Pietro Caruso.
Sono, questi, i tempi eroici del Gobbo. Un combattente valoroso e
sprezzante del pericolo che, nel 1944, il giornale azionista «Italia Libera» descrive così:
Ed ecco da una porta uscire un gobbo armato di moschetto e di un tascapane di bombe. Si piazza in mezzo a un quadrivio e lancia una bomba. Poi, tranquillo, tira un primo
colpo di moschetto. I tedeschi rispondono. Il Gobbo tira un’altra bomba e un altro colpo. I tedeschi gli sparano con la mitragliatrice. Ma il Gobbo è fatato: nessun colpo lo
raggiunge. E continua a tirare bombe e a sparare.
Di sicuro, la gobba, a Giuseppe piega la schiena ma non fiacca l’orgoglio. Ne sanno qualcosa le tre Ss tedesche a pranzo in una trattoria del
Quadraro, in via Calpurnio Fiamma, il giorno di Pasqua del ’44, colpevoli di indossare l’uniforme degli aguzzini di Hitler ma anche di sottovalutare il loro avversario: un ragazzino deforme ma senz’altro più veloce di loro a fare centro con la pistola.
È avvenuto appunto che il Gobbo con i suoi amici di fermassero qui, in una trattoria
campestre per sorbire una birra [...] senonché si sono presentati due tedeschi, anche loro si erano seduti al tavolo, hanno preso una birra, però li avevano presi di mira. Con-
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fabulando tra loro sbirciavano sempre il gobbo del Quarticciolo [...]. Lo guardavano
perché avevano intuito chi era [...]. Però il gobbo, essendo un tipo molto furbo e agile,
ha intuito il pericolo. Perché, quando sono passati i tedeschi davanti, c’è stato uno dei
tedeschi che ha messo mano alla mauser. Il gobbo l’ha preceduto e l’ha freddato (Testimonianza raccolta da Anna Balzarro in La resistenza tra storia e memoria, a cura di Nicola Gallerano, Mursia, Milano 1999).
Dietro questo episodio c’è l’origine di uno dei momenti più sanguinosi della storia dell’occupazione tedesca di Roma. Dopo il triplice omicidio del Gobbo, infatti, le SS di Herbert Kappler si riversano nel quartiere e, il 17 aprile, procedono al rastrellamento dei suoi abitanti. Secondo
le ultime ricostruzioni furono ben novecentoquarantasette le persone del
Quadraro costrette a salire sui lugubri camion nazisti diretti prima al
campo di transito di Fossoli e poi nei campi di lavoro tedeschi, dove le
condizioni di vita sono assolutamente disumane. Alla fine della guerra,
del migliaio di deportati del Quadraro, ne tornano a Roma a malapena
un centinaio.
Per quanto riguarda il Gobbo, la spavalderia delle sue azioni gli frutta
una celebrità estremamente pericolosa. Nel tentativo di arrestarlo le truppe naziste arrivano anche a organizzare la grottesca retata di tutti i gobbi
di Roma finché, alla fine dell’aprile del ’44, non riescono a mettere le
mani proprio su di lui: Giuseppe Albano, “il Gobbo del Quarticciolo”.
Rinchiuso nella prigione di via Tasso, la sorte di Giuseppe Albano si fa
ambigua: alcuni lo vogliono pronto a collaborare con i suoi aguzzini, altri sostengono che il Gobbo seppe resistere alla tortura, altri ancora sono convinti che i tedeschi, trovandosi di fronte a Giuseppe Albano, non
riescono a credere che l’uomo capace di tenere in scacco le loro possenti divisioni fosse quel ragazzo deforme, afflitto, oltre che dalla gobba,
anche da un’insufficienza toracica che, a tratti, gli impedisce di respirare. Di sicuro c’è che Giuseppe Albano, tornato in libertà, prosegue – utilizzando metodi poco ortodossi – nella sua personale guerra contro tutti
coloro che hanno avuto a che fare con il caduto regime fascista: collaborazionisti che il Gobbo rapina, taglieggia e uccide in spregio al clima
di pacificazione che gli stessi partiti che hanno animato la Resistenza
cercano faticosamente di ricostruire. Quello che Salvatore Giuliano troverà sul monte Sagana, allora, Giuseppe Albano lo trova al Quarticciolo: una diffusa solidarietà e persone per nulla decise, dopo aver partecipato alla guerra partigiana, a rientrare nei ranghi di un’ordinaria esistenza sottoproletaria. Sono almeno una sessantina le persone disposte a
unirsi a Giuseppe Albano nella celebre “banda del Gobbo” all’interno
della quale, tra gli altri, spiccano le personalità prepasoliniane di “Nino
er boia”, “Mario er burino”, “Pippo er gatto” (al secolo Pippo Gatti) e
“Giovanni lo zozzo” (vero nome: Giovanni Zonnini). Si tratta di un piccolo esercito capace di controllare il territorio del Quarticciolo, di Grot-
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te Celoni e di Villa Gordiani, imponendo una legge alternativa a quella
ufficiale e, cosa ancora più importante, dividendo il “bottino di guerra”
con tutta la gente della borgata. Una strategia che, se da un lato dona a
Giuseppe Albano un’imperitura fama di bandit donneur, dall’altra non
fa che riaccendere la diffidenza che, da sempre, non solo i borghesi ma
anche i partigiani politicamente più preparati nutrono nei confronti dei
combattenti di questa risma:
Nelle borgate si formano due tipi di resistenza, spesso vicine, mai unite in una forza
politica omogenea. C’è una resistenza popolare, prepolitica, condotta da giovani predisposti dalla vita grama alla ribellione, e c’è quella politica degli intellettuali, degli artigiani, degli operai appartenenti al movimento trotzkista di Bandiera Rossa. Si formano
così bande dell’uno e dell’altro tipo a Centocelle, Torpignattara, Quadraro, Tiburtino.
[...] Le bande lazzaronesche si battono all’unico fine immaginabile dai loro componenti: difendersi dalle razzie tedesche e procurarsi cibo per sopravvivere. È inevitabile che
nel calore dell’azione venga fuori l’astio classista, la rabbia dei dimenticati; dove manca una guida forte, questa carica protestataria sfocia nel banditismo, genera personaggi
come Giuseppe Albano, detto il “Gobbo del Quarticciolo”. Passatore deforme: la sua
banda attacca i forni per distribuire la farina alla popolazione, ma gliene resta sempre
da vendere alla borsa nera; ingaggia combattimento con un plotone tedesco sorpreso in
una trattoria presso Cinecittà, ma i suoi membri eliminano i loro nemici personali; va a
tendere imboscate al nemico sulla Appia Nuova, ma anche a derubare di notte i contadini di Monte Mario (Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari, 1966).
Nel corso del ’45 la metamorfosi del Gobbo, da partigiano a bandito,
può dirsi completa almeno dal punto di vista della questura. Tra le forze
dell’ordine e Giuseppe Albano, dopo un periodo di collaborazione in
chiave antifascista, è guerra aperta: una guerra che il Gobbo affronta utilizzando sia i mitra che le armi della provocazione. Il 12 gennaio, è il
Gobbo con tutta la sua Banda a presentarsi direttamente ai carabinieri, in
un convento di Villa Gordiani. Ne nasce un tafferuglio che lascia sul terreno Giovanni Selvaggi: un ragazzo con la divisa. Pochi giorni dopo è
Tom Linson, un caporale inglese, a essere ucciso dalla banda del Gobbo:
le circostanze di questo omicidio non vengono mai chiarite, fatto sta
che, al Quarticciolo, la polizia italiana scatenerà un’ondata repressiva
senza precedenti, con tanto di carri armati utilizzati per mettere a ferro e
fuoco la borgata. Al termine dell’operazione vengono condotte in questura e selvaggiamente pestate oltre settecento persone: soltanto per
ventuno di loro l’accusa è quella di far parte della banda del Gobbo.
Probabilmente, nel cuore della sua borgata, il Gobbo avrebbe potuto
salvarsi o organizzare una resistenza capace di fare morti e feriti da entrambe le parti. Ma appena due giorni prima del rastrellamento, come
per assecondare un destino beffardamente avverso a ogni forma di riscatto sociale, è stato il centro di Roma a essere fatale a Giuseppe Albano. Le circostanze della morte dell’ex partigiano, a questo punto, an-
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ticipano le orme calcate dallo stesso Salvatore Giuliano. Tutto comincia con un comunicato ufficiale in cui si sostiene che, provando a sottrarsi all’arresto, il 16 gennaio del 1945 Giuseppe Albano avrebbe ingaggiato un conflitto a fuoco con un gruppo di carabinieri guidati dal
maresciallo Celestino Tozzi. Al grido di «Gobbo della malora questo è
il tuo ultimo misfatto!» Tozzi avrebbe esploso la prima delle sei pallottole che crivellano il bandito del Quarticciolo, lasciandolo esanime sul
marciapiede di via Fornovo, all’altezza del civico 12, nel rispettabile
quartiere Prati.
Due semplici circostanze incrinano la calma olimpica con cui Tozzi liquida la storia del Gobbo. Prima di tutto non si può certo parlare di
“conflitto a fuoco” visto che Albano non esplode nemmeno un colpo. E
poi il marciapiede su cui il Gobbo versa il suo sangue si trova di fronte
la sede di un partito particolarmente ambiguo: Unione proletaria.
L’Unione proletaria era una formazione politica dedita alla provocazione e all’infiltrazione tra le fila del movimento operaio e democratico. Capeggiata da tale Umberto
Salvarezza, detto “il Guercio”, un doppiogiochista e uno scaltro avventuriero, essa era
finanziata direttamente da Vittorio Emanuele III e da quanti – industriali, militari, politici compromessi col fascismo – vedevano nella nascita di una Repubblica la fine dell’ordine costituito e sopratutto dei privilegi che da esso derivavano. La strategia che essa andava perseguendo consisteva nel creare tensioni in seno al CLN, dividere i dirigenti dei partiti democratici dalla base popolare in modo che esplodessero violenze a Roma tali da legittimare un colpo di stato (Yari Selvetella, Il Gobbo del Quarticciolo, in
Cristiano Armati e Yari Selvetella, Roma criminale, Newton Compton, Roma, 2005).
Messo alle strette dalle prime inchieste giornalistiche della Roma liberata, Salvarezza fornisce nuovi particolari. Secondo il capo di UP, il
Gobbo sarebbe entrato nella sede del suo partito su mandato dello stesso Palmiro Togliatti per esigere non meglio specificati documenti. Per
difendersi dalla intimidazioni dei comunisti, Salvarezza chiama i carabinieri: da qui la sparatoria che costa la vita ad Albano.
Salvarezza la sa lunga, questo è certo, ma non la sa raccontare. Dietro
le sue false dichiarazioni si cela un disegno stragista che vede la complicità dello stesso questore di Roma, il monarchico Enrico Morazzini:
In particolare, dalle inchieste emerse che Salvarezza aveva incaricato il Gobbo di far
esplodere due bombe a mano a un comizio tenuto da socialisti e comunisti: operazione
che non andò a buon fine perché Albano si rifiutò di eseguirla, consegnando invece gli
ordigni al servizio d’ordine del PCI.
Salvarezza provò allora ad alzare il tiro, continuando a prospettare improbabili scenari di guerriglia urbana causati dal CLN. Si diceva pronto, con migliaia di uomini armati,
alla reazione.
Arrivò a incaricare i suoi uomini di lanciare per le strade di Roma grotteschi volantini a firma “direzione del PSI”, il cui testo recitava: «W i ladri, W i rapinatori. Come abbiamo difeso il Gobbo difenderemo anche voi» (Yari Selvetella, op. cit.).
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Sperare di fare luce fino in fondo sulla storia del Gobbo è pura utopia.
Probabilmente Albano, rifiutandosi di mettersi al servizio dei progetti di
Salvarezza, diventa un testimone scomodo da eliminare a tutti i costi: al
suo posto, i colleghi di Salvarezza troveranno altri banditi pronti a entrare in azione e, come nel caso di Giuliano, a sparare sulla folla a Portella delle Ginestre. Sopratutto per questo, se ha un senso ricorrere all’immagine di Robin Hood per descrivere un certo modo di muoversi al
di là della legge, questo titolo spetta più al romano di Locri che non al
siciliano di Montelepre. Tra l’altro, alle imprese di Albano, il regista
Carlo Lizzani dedica un film (1960) che concede al borgataro un onore
destinato a pochi: quello di entrare nei giochi dei bambini prestando il
volto e il coraggio all’eterno gioco delle guardie e dei ladri.
Lo testimonia un maestro sardo, Albino Bernardini, in un libro dedicato alla sua esperienza di insegnamento in un’altra borgata di Roma, Pietralata:
All’altezza del mercatino della borgata (i bambini) improvvisamente inscenarono una
finta battaglia tra banditi e polizia. Si trattava di un’imitazione di una scena del film Il
Gobbo che diversi mesi prima era stato girato proprio lì. Tutti avevano assistito alle riprese e conoscevano ogni sequenza alla perfezione. Allora rappresentarono quella in
cui il Gobbo, in uno scontro a fuoco con la polizia, venne ferito. Beppe, che impersonava alla perfezione il Gobbo, era aiutato da Sandro nella parte dell’amico e da Roberto in quella di un gregario della banda. Gli altri erano gli agenti. In mancanza di pistole adoperavano le fionde. Quando qualcuno sbagliava erano strilli:
«Ma nun te ricordi gnente? Te me spari da là; io sto nascosto dietro ar muro, come fai
a corpimme?» (Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, La Nuova Italia, Firenze
1968).
Quando, nel 1972, il Gobbo torna sullo schermo magistralmente interpretato da Tomas Milian, la sua trasfigurazione, da personaggio storico a
maschera popolare, è completa. Non a caso La banda del Gobbo di Umberto Lenzi non pretende di ricostruire la vita di Giuseppe Albano ma di
raccontare un dramma, quello della subalternità economica e dell’esclusione sociale, che si trasmette inalterato nel tempo. Alla stessa maniera,
generazione dopo generazione, il ricordo di Giuseppe Albano, nel quartiere che gli ha dato il nome, è un pezzo di memoria che fa arricciare il
naso ai benpensanti. Perché lontano dal Colosseo, dai Fori imperiali, dalla cupola di San Pietro, dalla Lupa capitolina e dalla statua di Marco Aurelio, basta mettere piede al Quarticciolo e chiedere del Gobbo per scoprire che l’unico monumento onorato dalla gente, qui, è proprio lui.
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Se le storie individuali sono l’unico strumento che consente a chi indaga il presente e il passato di assaporare il gusto dei tempi che corrono, le