“LA MIA ANIMA VISSE COME DIECIMILA”

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“LA MIA ANIMA VISSE COME DIECIMILA”
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“LA MIA ANIMA VISSE COME DIECIMILA”
“Ed è proprio quello che non si potrebbe che vorrei,
ed è sempre quello che non si farebbe che farei”
Questa citazione di una canzone di Vasco ci sembra racchiudere al suo interno l’essenza di cui era
fatto D’Annunzio: egli sembra voler essere padrone del mondo.
Questa sua caratteristica, che ha suscitato quasi sempre giudizi negativi, ci ha incuriosito e ci ha
portato a intraprendere questo viaggio alla scoperta di D’Annunzio, attraverso alcune opere
significative. Leggendo l’autore, ci siamo rese conto che egli, dietro l’aspetto più immediatamente
percepibile di esteta e di superuomo, cela un’urgenza di volere essere e di voler sperimentare
sempre qualcosa di nuovo: non è “uno”, ma assume innumerevoli “volti”, tutti ugualmente
autentici. Solo così la sua vita ha per lui un senso.
UN UOMO “MONDANO” (Il Piacere, libro primo)
“Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Questa frase tratta dal primo capitolo del
libro Il piacere vuole presentare il protagonista, Andrea Sperelli nel suo carattere e nei suoi diletti
maggiori: il piacere dell'arte e il piacere della mondanità, legati al vivere nella città di Roma, e la
passione nel possedere le donne.. Questo gli consente di raggiungere di un piacere massimo e di una
vita inimitabile, che lo innalza al di sopra di tutti.
Leggendo il Piacere, soprattutto nel primo capitolo, sembra quasi che D'annunzio abbia voluto
raccontare se stesso tramite il personaggio di Andrea Sperelli; questo perchè in Andrea abbiamo
riscontrato molti aspetti simili alla vita di D'Annunzio.
Egli infatti descrive Andrea Sperelli come un uomo mondano. Probabilmente come D’Annunzio
avrebbe voluto essere (e fu): infatti in età giovanile contrae molti debiti che portarono la famiglia a
una difficile situazione economica. Abituato a vivere nel lusso e nello sfarzo, circondato da gente
d'alta nobiltà, Andrea Sperelli “era il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti
eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale”, dedito a fare la propria vita, come si fa
un'opera d'arte, cioè costruire la propria vita intorno ai piaceri legati al bello.
Tra questi piaceri possiamo trovare il piacere dell'arte, trasmesso dal padre e poi approfondito da lui
grazie agli studi e al trasferimento nella città di Roma, simbolo della cultura e dello sfarzo della
società di quel tempo, e il piacere della mondanità romana.
Tutto il capitolo infatti è pervaso da lunghe e dettagliate descrizioni dell'ambiente mondano che
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Andrea frequenta, caratterizzato dalla presenza di feste, banchetti e ricevimenti che vengono tenuti
in ampi saloni, con camini, grandi divani e pianoforti per allietare le serate con danze e musiche,
frequentati da gente d'alta nobiltà come marchesi e conti, e si apre con una bellissima descrizione
che parte dal cielo limpido e quasi primaverile e dalle strade popolose della città di Roma. Quindi,
viene descritto dettagliatamente ogni oggetto che compone la casa in cui Andrea Sperelli vive.
Le descrizioni fanno capire al lettore la mondanità di Sperelli, abituato a vivere nel lusso e, grazie
ad esso, a provare piacere. Questa ricchezza, di cui egli si circonda, si riscontra nei mobili di legno
pregiato che avvolgono la sua casa, nei quadri di pittori famosi appesi alle pareti, nel caminetto
acceso in cui ardono legni di ginepro che emanano un dolce profumo e danno un tepore alla casa e
perfino nel servizio da te preparato con molta cura con tazze e sottocoppe in maiolica decorate con
immagini mitologiche. Ma a Sperelli piace circondarsi di ricchezze non solo in casa ma soprattutto
al di fuori di essa dove ha l'opportunità di incontrare gente e mettere in mostra ciò che possiede.
Infatti molto spesso partecipa a vendite pubbliche, che sono piene di persone eleganti, venute ad
assistere alla contesa. Nelle sale in cui esse si tengono, sono disposti lungo le pareti, mobili di legno
scolpito, grandi trittici e dittici antichi e vengono venduti bronzi, medaglie, monete, avorii e argenti
lavorati di un valore inestimabile. Sperelli durante queste aste ha l'occasione di comprare oggetti
molto preziosi per arricchirsi e soprattutto arricchire la sua fama e farsi notare dalle donne.
Un'altra grande passione per Sperelli, così come per D'Annunzio, sono, infatti, le donne: egli le
vuole possedere, anche più di una contemporaneamente, perché gli fanno provare piacere e lo fanno
sentire potente e padrone del mondo: attraverso le donne “credeva di possedere l’infinito”; “la
donna era il “mezzo” per arrivare al piacere”.
Nel primo capitolo del libro, viene presentato in particolare il rapporto di Andrea con Donna Elena
Muti, che egli voleva possedere a tutti i costi ”Egli avrebbe voluto involgerla, attrarla entro di sè,
suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovraumano.”. Il primo incontro con questa
donna avviene durante un ricevimento tenutosi nella casa della marchesa D'Ateleta, cugina di
Andrea. Sperelli alla prima vista della donna pensa " Ecco la MIA donna" e da quel momento inizia
a sedurla e a frequentarla, incontrandola alle feste e alle aste. Un giorno Andrea viene a sapere che
Elena è malata, chiede e ottiene di farsi ricevere dalla donna ed in un'atmosfera di intimità Sperelli
le rivela il suo amore. Così nei mesi seguenti inizia la loro " storia d'amore" durante la quale Andrea
è molto possessivo nei confronti di Elena, la vuole solo per sé perchè soltanto tramite il suo
possesso egli prova un piacere immenso che lo innalza al di sopra di tutti e lo fa sentire potente.
Elena si fa trasportare dalla dolcezza delle parole e dei comportamenti di Andrea fino quasi ad
innamorarsi: "La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che per ambedue non fosse un
godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all'esercizio di tutti
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i più alti e i più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, L'Insuperabile, l'Inarrivabile".
Ma appena Elena si distacca da lui, a causa di un' imminente partenza, egli quasi impazzisce di
gelosia, perché sa che ora, la donna che pensava di possedere fino a quel momento, non potrà più
essere sua e questo gli provoca un tormento insopportabile di struggimento: “Talvolta, contro la
donna lontana, l'invadeva una bassa ira, un rancore pien d'amarezza, e quasi un bisogno di
vendetta, come s' ella lo avesse ingannato e tradito per abbandonarsi a un altro amante”. “ A
quella specie di raccoglimento, prodotto in lui dal dominio unico di Elena, succedeva ora il
dissolvimento. Non più tenute dall'ignea fascia che le stringeva all'unità, le sue forze tornavano al
primitivo disordine”. Il termine dissolvimento, in questo caso, vuole significare che dopo il totale
possesso di Elena che quindi gli permetteva di provare piacere ora si trova da solo, senza più niente
da possedere e si sente male, dissolto, svuotato come se dovesse ricominciare tutto da capo: "le sue
forze tornavano al primitivo disordine".
In conclusione, in questo primo capitolo si possono individuare alcune fra le”diecimila” forme in
cui l'anima di Sperelli-D'annunzio, esteta e Don Giovanni, viene presentata, passando da momenti
di contemplazione estetica e attenzione verso il mondo “bello” che gli sta intorno ( le tante
descrizioni) ad un secondo momento in cui l'anima “si difformava” e prendeva altri aspetti diversi
da quelli iniziali: “Egli passava dall'uno all'altro amore con incredibile leggerezza; vagheggiava
nel tempo medesimo diversi amori, tesseva senza scrupolo una gran trama di inganni, di finzioni, di
menzogne, d' insidie, per raccogliere il maggior numero di prede”, fino alla “preda” più ambita,
Elena, che però lo abbandona. E, dato significativo, inevitabilmente “a poco a poco egli quasi
giungeva a non veder più la sua vita interiore”.
LA RINASCITA (Il Piacere, libro secondo)
“Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni subitanee, d’illuminazioni
improvvise, di significazioni inaspettate.”
Nel secondo libro del Piacere, Andrea Sperelli, dopo una lunga convalescenza causata dal colpo
inflittogli durante il duello, vuole rinascere, essere un uomo nuovo attraverso la meditazione e la
scrittura. E quale luogo migliore se non di fronte all’immensità del mare. D’Annunzio descrive
spesso la figura simbolica del mare: se lui avesse potuto essere solamente una piccola parte di esso,
sarebbe diventato infinito, ed era proprio ciò che voleva. Abbiamo anche trovato un'analogia con la
canzone di Lucio Dalla 'La casa in riva al mare' nella quale un prigioniero, da una cella in riva al
mare, canta l’amore per una donna di nome Maria e canta il mare, su cui si affaccia dalla sua cella.
Maria e il mare lo fanno sognare e lo rendono libero fino alla morte, che avviene infatti “in mezzo
al blu”.
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Dalla sua cella lui vedeva solo il mare
E sogno' la liberta'
ed una casa bianca in mezzo al blu
E sogno' di andare via, via
una donna si affacciava.... Maria
E un anello vide gia'
E' il nome che le dava lui
Sulla mano di Maria
Alla mattina lei apriva la finestra
(…)
E lui pensava quella e' casa mia
E gli anni son passati tutti gli anni insieme
Tu sarai la mia compagna Maria
ed i suoi occhi ormai non vedon piu'
Una speranza e una follia
disse ancora la mia donna sei tu
e poi fu solo in mezzo al blu" (…)
Quanta storia di D'Annunzio è rinchiusa in questi versi? L’amore per le donne (e per Maria, in
particolare: “una speranza e una follia”, come vedremo) e il mare, la sua 'musa' ispiratrice, e il
piacere di provare a possederlo, il suo sentirsi prigioniero in una sola anima e il bisogno di libertà e
di cambiamento attraverso il piacere, anche durante la sua cecità in vecchiaia.
"Certo, quanto più la cosa da un uomo posseduta suscita negli altri l'invidia e la brama, tanto più
l'uomo ne gode e n'è superbo”. Il mare era proprio quella 'cosa' immensa, che voleva avere a tutti i
costi e che lo avrebbe reso migliore degli altri.
Oltre a questo aspetto, in questa parte del libro, Andrea è completamente diverso dal personaggio
incontrato nel primo libro e sembra quasi, anche dallo stile con cui è scritto, che sia stato realizzato
in due momenti diversi della vita di D’Annunzio. E invece così non è! Si nota infatti una
somiglianza incredibile tra il protagonista e l’autore come se D’Annunzio volesse descriverci il suo
cambiamento, ma raccontato da un’altra persona nascondendosi dietro Sperelli: Andrea
/D’Annunzio sono, alternativamente, “don Giovanni e Cherubino”. Due anime insieme.
" Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male ; il convalescente misurava il
suo respiro sul largo e tranquillo respiro del mare". Dopo la convalescenza Andrea si sofferma
spesso a pensare sulla bellezza infinita della natura, sulle piccole cose quotidiane, sull’arte, sulla
poesia e sull’amore, a cui prima non badava. La natura è fonte di ispirazione, la cosa più pura e
immensa che esista ed è quindi il giusto mezzo da utilizzare proprio per rinascere diversamente.
Inoltre, dopo la delusione dell’amore passionale con Elena, Andrea scopre un nuovo modo di
amare con Maria, una donna che si trova con lui nella villa di Schifanoja.
Anche i nomi sembrano denunciare il cambiamento: Elena, un nome altezzoso, regale, lussurioso,
ammaliante e legato probabilmente alla bellissima donna che fece scatenare la guerra di
Troia. Maria un nome puro, antico, casto legato alla figura femminile della Bibbia. Due nomi in
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contrapposizione, due modi diversi di affrontare l’amore da una parte passionale verso Elena,
dall’altro quasi timido, come se fosse il primo amore, verso Maria. "Il pensiero che Donna Maria
fosse rimasta su la loggia a guardarlo gli dava un tutbamento indefinito, gli metteva nel petto un
palpito forte, quasi l'intimidiva, come s'ei fosse un giovinetto in sul primo amore." Andrea si sente
preso da una nuova emozione rappresentata dall’incontro con un amore timido e puro. Donna Maria
è l'unica, forse, che puó riuscire a cambiarlo e a farlo diventare l'uomo ingenuo che vuole essere.
“Era vero! Era vero! egli l’amava; egli le metteva a’ piedi tutta l’anima sua.” Queste sono le parole
di Andrea mentre osserva Maria camminare.
Infine, l’ultimo “passaggio” dell’anima di Sperelli/D’Annunzio verso una nuova fonte di
vita è questo: Maria non è il suo unico amore, perché riscopre l’arte, la poesia, la
meditazione. “L’Arte! L’Arte!” ecco l’amante fedele, sempre giovine immortale; ecco la fonte
della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa
l’uomo simile a un dio.” Andrea confessa così la sua attrazione verso l’arte e il desiderio di scrivere
versi belli e raffinati. Probabilmente, in questa frase è rinchiusa la verità: l’arte era tutto quello che
D’Annunzio
davvero
amava
e
utilizzava
per
sentirsi
potente,
superiore agli altri uomini. L’Arte è la via migliore per poter rinascere come uomo riflessivo,
attento agli aspetti della vita ed esprimere veramente i propri sentimenti. È concessa ai pochi, ma
coloro che riescono ad impossessarsene si sentono migliori, come se potessero davvero somigliare
ad una divinità. E sia D’Annunzio sia Andrea, i quali sono molto simili, vogliono superare i limiti
del possibile attraverso la scrittura: “Il verso è tutto”.
LA SECONDA GIOVINEZZA (Il Piacere, libro terzo)
Il protagonista, in questo terzo capitolo del romanzo, sembra essere voler tornare indietro nel
tempo: quante cose sta rivivendo e quanti sentimenti lo tormentano come una volta! L’amore per
Roma, la confusione della mondanità e il possesso delle donne.
"Il piano e vivace risveglio del suo vecchio amore per Roma, per la dolcissima Roma, per
l'immensa augusta unica Roma, per la città delle città, per quella ch’ è sempre giovine e sempre
novella e sempre misteriosa, come il mare."
Andrea ritorna a Roma dopo la convalescenza e riscopre l'amore che non si è mai spento per la sua
città descrivendola come la più bella e nobile città che lui abbia mai visto. E la paragona al mare,
sua fonte di ispirazione e elemento sempre ricorrente in quasi tutte le opere, mettendo in risalto gli
aggettivi "novella" e "misteriosa"; questi vogliono descrivere il modo in cui Andrea, e
probabilmente D'Annunzio, vedono i luoghi che amano: sempre nuovi, osservati con occhi diversi e
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riscoprendo l'amore per essi. La misteriosità rende il momento più magico e spinge a intraprendere
un percorso attraverso queste meraviglie per scoprirne la vera natura.
"Gli parve di ritrovare in quelle stanze qualche parte di sè, qualche cosa che gli mancava." In
questa citazione sembra quasi che ad Andrea in realtà manchi una parte della sua vita mondana e ,
nel momento in cui ritorna alle sue origini, riassume lo stesso comportamento che aveva in
precedenza. Gli manca quel provare un piacere immenso attraverso il possesso delle donne poiché
Donna Maria non è più con lui e Elena sembra solo un lontano miraggio. Così si rituffa nella
cascata di piacere possedendo diverse donne che però non riescono a procurargli lo stesso piacere
che gli davano le due amanti principali e più importanti delle altre.
"Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato al mondo uomo men infelice di me." Andrea è
confuso, non riesce ad essere felice come una volta: doveva rimanere l’uomo mondano che era
prima della convalescenza o l’uomo nuovo che aveva cercato di essere? "Codesta sofferenza era
una condanna a cui non avrebbe egli potuto sottrarsi giammai." In questo capitolo del libro,
Andrea soffre, prova dolore soprattutto per l’incertezza in cui si trova, perché ogni piccolo oggetto e
gesto che lo circonda gli riporta alla mente il periodo lieto che ha vissuto con la prima amante
passionale che sapeva soddisfare ogni suo bisogno.
Inoltre reincontra Elena che aggrava la sua triste situazione, poichè la donna si è maritata con il
marchese di Mount Edgcumbe, costruendosi una famiglia, a differenza di lui: non potrà mai più
averla. Decide di rifugiarsi in Donna Maria, ma continua a confondere le due donne, ritrovando
nella seconda donna la presenza di Elena di cui non riesce a fare a meno.
“Tutto in lui si trasformava e si difformava, senza tregua.” Andrea è in continuo mutamento, non sa
più chi è, cambia opinione spesso, non è più sicuro come un tempo e Donna Maria e Elena
complicano la situazione.
IL DISINGANNO (Il Piacere, libro IV)
"Egli faceva cullare dalla voce di lei l'angoscia che gli veniva dall'altra; faceva animare dalla voce
di lei la figura dell'altra".
Questa frase tratta dal quarto capitolo del Piacere fa capire esplicitamente il " doppio gioco" svolto
da Andrea Sperelli nei confronti delle due donne: Donna Elena Muti e Maria Ferres. Egli le vuole
possedere contemporaneamente per provare un piacere Sommo.
Elena dopo aver respinto duramente Andrea, si è sposata con il marchese di Mount Edgumbe, ma
questo, Sperelli non lo riesce ad accettare perchè vuole provare piacere tramite il possesso della
donna. " Io perdo la ragione... io divento folle... Ho bisogno di te, Elena... ti voglio...".
Questo passaggio si capisce molto bene, all'inizio del capitolo quando Andrea sta tenendo un
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dibattito su opere d'arte con il marito di Elena. Egli invece di stare attento ai disegni proposti è
molto attratto da un grande ritratto della donna, appeso alla parete e continua a distrarsi con pensieri
di gelosia nei confronti del marito, che infatti descrive come un uomo brutto, anziano e senza buon
gusto per l'Arte. Quando Donna Elena Muti rincasa, Sperelli viene colto da una grossa rabbia nei
confronti della donna che l'ha respinto. " Andrea trasalì: una insurrezione di brutalità lo sconvolse;
gli attraversò lo spirito una visione oscena; gli passò nel cervello un pensiero criminoso" e il fatto
di trovarsi di fronte al nuovo amante di Elena con lei vicino gli provoca un'angoscia profonda e un
sentimento di tristezza per il passato perduto: " Egli sentì che la sua trista passione era
immedicabile". Quindi non reggendo più la situazione in cui si trova decide di andare via.
Tornando a casa incontra Maria Ferres che sta andando da lui. La donna è molto attratta da Andrea
e infatti cede al suo desiderio di piacere nonostante il suo matrimonio con Manuel Ferres, ministro
del Guatemala. Nella mente della donna c’era il dubbio che il suo amante fosse venuto dalla casa di
Elena e Maria purtroppo sapeva che in passato Elena era stata una sua amante; questo le provocava
una ancora più forte gelosia e voglia di conoscere il passato di Andrea, che egli le aveva tenuto
nascosto.
Nonostante questi pensieri Maria raggiunge la casa di Sperelli e cede a lui. Insieme passano una
notte di passione in cui Andrea tramite i gesti, le parole e i comportamenti di Maria prova un
piacere enorme evocando l'immagine di Elena. Quindi Sperelli si serve di Maria per evocare
l'immagine di Elena, la donna che realmente vuole possedere, per provare piacere. Questo si può
capire nel capitolo perchè dopo il tempo passato con Maria, Andrea si sente male psicologicamente
a causa di questa dissimulazione che è costretto ad adottare PUR DI PROVARE PIACERE. "
L'inganno medesimo lo legava forte alla donna ingannata. Il suo spirito era così adattato alla
mostruosa comedia, che quasi non concepiva più altro modo di piacere, altro modo di dolore.
Quella incarnazione di una donna in un'altra non era più un atto di passione esasperata ma era
un'abitudine di vizio e quindi un bisogno imperioso, una NECESSITA’".
Durante un'ultima notte di piacere Andrea inconsciamente pronuncia il nome di Elena e Maria
scappa in lacrime: Andrea è ancora legato ad Elena e pensa a lei!. E’ la prova che Andrea ha
un’urgenza incolmabile di provare piacere e non esita a “MUTARE ANIMA”, cioè a fingere, pur di
raggiungere il suo scopo.
Tuttavia, la finzione dura poco. Il giorno seguente, ad un asta dei Ferres, Andrea vede in lontananza
Elena, in compagnia del suo nuovo amante e sente dentro di sè un ribrezzo, una orribile stanchezza,
" un bisogno fisico di morire". " La tortura fisica e l'angoscia morale si mescolavano".
In quest'ultimo capitolo si possono individuare le ultime delle "diecimila" forme di anima dello
Sperelli. Passa da essere geloso e rabbioso per il passato che non può più tornare ( in casa di Elena)
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a sognare un futuro insieme a Maria, fino ad arrivare al disinganno: è stanco della vita e prova un
desiderio fisico di morire.
Le analogie fra Sperelli e D’Annunzio terminano qui: se per Andrea Sperelli il bisogno di “nuovo”
è terminato con l’ultima pagina del libro, D’Annunzio non si ferma e cerca ancora e sempre un
rinnovamento con cui provare piacere e continuare a vivere.
LA POESIA: UNA NUOVA FORMA DI VITA
“ Ma io aspiro a superare i limiti dello stile scritto: meglio, a cancellarne i limiti. O divinazione
remota! Come posso io rileggere i miei sonetti giovenili al mite poeta Giovanni Marradi senza che il
cuore mi balzi e la mente mi baleni? ”
(Libro segreto)
In questo passo del Libro segreto può essere contenuta l’ispirazione che spinge D’Annunzio a
scrivere: egli scrive poesie principalmente per questi due motivi: superare i limiti che bloccano
l’uomo alla mondanità e gli impediscono di entrare in comunicazione con la natura e di scoprire
quindi un nuovo mondo, e rivivere, e far rivivere, emozioni.
Come fa? Con i sensi che vibrano nella natura. Principalmente con i suoni. Due esempi di “poesia
in musica” sono La sera fiesolana e La pioggia nel pineto, entrambe contenute nella raccolta
“Alcyone”.
La sera fiesolana
Nella prima strofa la poesia è ricca di suoni dolci come le lettere “gl,sc,l,n,ce, ge, e, a” ( per
esempio “lenta, inargenta, foglie, coglie, soglie, pace, giace, fruscio”) e anche nella seconda strofa
la presenza della consonante “v” (come “bruiva, fuggitiva, viti, verde, olivi, clivi”) vuole come
indicare un’azione lenta, lunga e piacevole. Nella strofa finale, tutta questa calma e questa serenità
incontrano parole molto dure come “morte, forte, divieto, segreto”, che è come se spezzassero un
po’ la magia che si era costruita attorno al lettore per riportarlo alla realtà. Tuttavia questo
passaggio non è definitivo, in quanto le parole rima finali “stelle, belle, novelle” rinnovano l’alone
fiabesco e musicale. È incredibile come semplici parole, se messe nel giusto punto e nel giusto
ordine, possano creare poesia e musica allo stesso tempo. Grazie a questa combinazione magica
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l’autore riesce a far immedesimare chiunque in una situazione che può risultare nuova al lettore, o
sulla quale quest’ultimo non si era mai soffermato. Infatti chiunque, pur non avendo mai visto
Fiesole/ Assisi (le due città, come si vedrà, sono sovrapponibili), i suoi campi, le sue strade e
neanche i suoi tramonti o il sopraggiungere del notturno, leggendo La sera fiesolana può riuscire a
farsene un’immagine: una tranquilla cittadina di campagna, dove tutti gli abitanti si conoscono,
dove si fa tutto all’aria aperta, dove ogni piccolo avvenimento è momento di festa e dove la gente è
ancora capace di sorprendersi delle piccole cose, che noi troppo spesso diamo per scontate.
Fresche le mie parole ne la sera
mentre la Luna è prossima a le soglie
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
cerule e par che innanzi a sè distenda un velo
del gelso ne la man di chi le coglie
ove il nostro sogno giace
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
e par che la campagna già si senta
su l'alta scala che s'annera
da lei sommersa nel notturno gelo
contro il fusto che s'inargenta
e da lei beva la sperata pace
con le sue rame spoglie
senza vederla. (vv.1-14)
L’inizio dà l’idea di una comune sera nella cittadina di campagna. Infatti, quella sera aveva non
aveva qualcosa di speciale, non era diversa dalle altre. O meglio, per un visitatore comune, con uno
sguardo comune, questa è una sera come tante altre. Per D’Annunzio, invece, diventa speciale (e
anche per noi), se lo sguardo e i sensi si immergono: solo così si creano immagini nuove. Ed è
proprio questo che D’Annunzio vuole che impariamo a fare: a guardare il mondo, non nella sua
banalità, ma nella sua magia che siamo soliti trascurare per le attività quotidiane. L’autore ti invita
così a fermarti e cerca di farti capire che se guardi il mondo nella sua completezza, attraverso tutti e
cinque i sensi e non facendone prevalere uno solo, questo ti riserva grandi sorprese e meraviglie. Ti
stupisce con la sua semplicità, con i suoni (il “fruscìo”), con i colori (“s’annera”, “s’inargenta”, “le
soglie cerule”, “notturno”) e con la dolcezza e la freschezza (“notturno gelo”, “sperata pace”), che si
possono sentire solo lì, all’aperto.. È impagabile il paesaggio che si vede da questa “vetta dei sensi”,
ti fa sentire pieno, ti fa provare piacere, nonostante tutta la fatica che si sia dovuta fare per arrivarci.
Si può affermare che l’unico modo per guardare il mondo e farti stupire da lui è quello di guardarlo
con occhi nuovi. Come affermò Marcel Proust: “ L’unico vero viaggio verso la scoperta non
consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi”; anche D’Annunzio disse: “Se
vieni con me per un sentiere che tu hai passato cento volte, il sentiere ti sembra novo. ” (Libro
segreto)
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Per scrivere questa lirica (composta alla Capponcina nel giugno 1899, “verso sera, dopo la
pioggia”), D’Annunzio utilizza gli appunti scritti nel Taccuino XIV (1897), steso ad Assisi. Dunque
quasi gli sembra di essere, ora, ad Assisi la città natale di San Francesco. Sembra stimare molto il
frate e lo prende come modello per scrivere le sue prime poesie. Una delle sue prime opere è “Canta
la gioia” e pare racchiuda al suo interno tutti i principi francescani come
il rispetto e
l’apprezzamento alla vita: “ Canta l’immensa gioia di vivere… la gioia, la gioia, la gioia questa
invincibile creatrice.”.
Anche ne La sera fiesolana D’Annunzio introduce diverse strofe con
Laudata sii, tipico inizio del Cantico delle creature, scritto appunto da San Francesco.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
tace
il fien che odora! (vv. 32-34)
l’acqua del cielo! (vv. 15-17)
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle! (vv. 49-51)
Iniziare un verso con “laudata sii” è un modo per farsi umili e per ringraziare il mondo per quello ci
dona; a D’Annunzio, però, a differenza di San Francesco, piace stare al centro dell’attenzione e
riesce, pur iniziando umilmente e quasi religiosamente, a far emergere la sua forte personalità,
inserendo il desiderio di possedere tutto quello che il mondo ci ha donato: di mordere i frutti
terrestri/con saldi e bianchi denti voraci,/ di por le mani audaci e cupide/su ogni dolce cosa
tangibile,/ di tendere l'arco su ogni/preda novella che il desìo miri. (Canta la gioia, vv. 7-12)
La poesia è ricca di personificazioni: la Luna (La Luna è prossima a le soglie,v.8), la Sera
((laudata sii/ pel tuo viso di perla,/o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace/l’acqua del
cielo! (vv. 15-17), la pioggia (che bruiva, v. 19), i pini (dai novelli rosei diti, v. 23), il fieno (che
già patì la falce, v. 27), gli olivi (fratelli, v. 29), il fiume (v. 36), le Colline, (ti dirò per qual
segreto/le colline su i limpidi orizzonti/s’incùrvino come labbra che un divieto/chiudavv. 40-42),
quasi a sottolineare che quello della natura è un mondo anch’esso umano, molto simile a quello
progettato e costruito dagli uomini, ma più tranquillo, senza la fretta del “devo fare tutto subito” ,
ma facendoti gustare la bellezza del quale è formato. Un mondo senza problemi, un mondo
spontaneo e semplice, al quale D’Annunzio vorrebbe appartenere per sentirsi più libero nonché
superiore agli altri esseri umani; è un modo anche questo per provare piacere. Vuole infatti lasciarsi
alle spalle la mondanità per scoprire un nuovo mondo, fatto di sensi naturali, difficile da trovare,
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ma che quando lo possiedi provi piacere e ti emozioni. Tutti potremmo trovarlo, a patto di usare
immaginazione, attenzione e lealtà e di liberarci del superfluo.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
parole più nuove
del bosco non odo
che parlano gocciole e foglie
parole che dici
lontane. (vv. 1-7)
umane; ma odo
La poesia inizia con un imperativo: taci! Ecco cosa D’Annunzio vuole che facciamo: che ci
fermiamo e iniziamo a fare più attenzione al mondo intorno a noi. Se riusciamo a farlo ci sembrerà
tutto più nuovo: nel bosco si sentono parole nuove, che provengono dalle gocce d’acqua che cadono
sulle foglie. D’Annunzio riesce infatti a immergersi totalmente nella natura fino al punto che anche
questa prende vita. Era il primo a farlo e a riuscirci e questo scatenava in lui un senso di piacere e
potenza. Doveva assolutamente trasmettere e far sapere agli altri questa sua nuova “scoperta”: usare
le parole in modo da riuscire a trasmettere agli altri il piacere che lui in prima persona aveva
vissuto, e permettere a chi legge di immedesimarsi e viverla come un’esperienza propria. Come fare
però a portare la natura tra le righe? Ancora con i suoni.
L’inizio della poesia della poesia è ricco di suoni molto dolci grazie all’allitterazione di o/e/m/n/gl
come nelle parole “soglie, foglie, piove, nuove”. È steso così il sottofondo musicale sul quale
tessere la melodia della pioggia. Questa prende l’avvio con i suoni successivi s/t/r/i, piuttosto secchi
e “stretti” di “sparse, arse, irti, mirti”, che evocano il ticchettio della pioggia sulla vegetazione arida
e minuta. Quando la vegetazione si fa più folta e densa (le ginestre) il suono e più “rotondo” e
morbido, prevalendo i suoni o/e sugli altri. Sembra che il poeta voglia indicare che anche nel mondo
della natura ci sono elementi più dolci e altri più duri, severi, ma senza uno di essi il mondo non
sarebbe lo stesso; tutti sono necessari (E il pino/ha un suono, e il mirto/altro suono, e il
ginepro/altro ancora, stromenti/diversi/sotto innumerevoli dita, vv. 46-51).
Ecco come D’Annunzio vede la pioggia che cade nella pineta, come un maestro che dirige
un’orchestra composta da tanti elementi, ognuno con un suono diverso, ma che insieme formano
musica, e di conseguenza creano poesia.
Oltre alla musica, già nella prima strofa e poi, definitivamente, nell’ultima, D’Annunzio compie
l’estremo atto di piacere poetico: l’immersione nella natura, cioè il panismo. L’autore si immerge,
cioè, tanto nella natura da entrare a farne parte :E immersi/noi siam nello pirito/silvestre,/d'arborea
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vita viventi, (vv. 52-55); E tutta la vita è in noi fresca/aulente,/il cuor nel petto è come
pesca/intatta,/tra le palpebre gli occhi/son come polle tra l'erbe,/i denti negli alveoli/
son come mandorle acerbe (vv. 101-109).
La poetica del panismo è spiegata dall’autore nella poesia Le stirpi canore, nella quale le parole
nascono dalla natura, ne sono le discendenti, sotto tutte le sue forme: le onde del mare, il sole, il
vento (I miei carmi son prole/ delle foreste,/altri dell'onde,/altri delle arene,/altri del Sole,/altri del
vento Argeste, (vv. 1-6).
La poesia è infatti un susseguirsi di similitudini, in cui la parole sono accostate ad elementi naturali.
Questo è possibile perché il poeta è egli stesso natura. La similitudine più bella è l’ultima, quella
della poesia i cui versi sono tenui come i teli/che fra due steli/tesse il ragno (vv. 35-37). Il ragno,
cioè il poeta, esprime con estrema cura e dedizione le emozioni più sottili; la sua tela, la poesia, è
un’opera che gli è necessaria per la sopravvivenza, anzi di più: gli rende la vita piena di piacere e
degna di essere vissuta.
La conclusione è molto particolare. La fine di tutta la poesia è identica (o quasi) alla fine della
prima strofa:
E piove su i nostri volti
che l'anima schiude
silvani,
novella,
piove su le nostre mani
su la favola bella
ignude,
che ieri
su i nostri vestimenti
m'illuse, che oggi t'illude,
leggeri,
o Ermione. (vv. 116-128; cfr. vv.20-32)
su i freschi pensieri
Questa identità delle due strofe può bene essere considerata come il ritornello musicale della poesia,
che potrebbe quasi essere anche intitolata “La favola bella”, cioè il sogno in musica di D’Annunzio
di una vita colma di ebbrezza panica. Possiamo affermare questo, se pensiamo che D’Annunzio
pensò, fra l’altro, di intitolare Favola breve di una lunga vita la sua mancata autobiografia.
I NUOVI SENSI DEL ”NOTTURNO”
Il Notturno è un’ opera di genere autobiografico realizzata nei primi mesi del 1916 mentre il poeta
era costretto a letto a causa di un brutto incidente aereo che gli era costato parzialmente la vista.
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L’opera non è unica solo per la forma in cui fu scritta (venne redatta su circa diecimila strisce di
carta, contenente ognuno una riga di testo), ma anche per la diversità che traspare nel confronto con
il resto della produzione dannunziana; infatti è un’opera riflessiva e meditativa con un grande
contenuto emotivo.
A causa di un’infermità grave gli è proibito scrivere, ma sentendone l’esigenza per poter guarire,
decide di comporre frase per frase su piccoli fogli in quanto gli è impossibile accettare intermediari
tra lui e la sua arte (non m’era impossibile vincere l’antica ripugnanza alla dettatura). L’unica ad
aiutarlo nel suo intento è la figlia che spesso giunge al suo capezzale aiutandolo nella guarigione.
Mantiene l’amore per la natura che viene enfatizzato da lunghe descrizioni (posso noverare i
granelli , affondarvi la mano, riempirmene la palma, lasciarli scorrere fra le dita/ la fiamma brilla
nella mia visione come mica e quarzo. Mi abbaglia, mi dà la vertigine e il terrore.) e da metafore
che le rendono musicali e ne fanno intuire i suoni. Spesso, infatti, paragona oggetti di uso
quotidiano o sensazioni provate a a elementi della natura (la carta fa un fruscio regolare che nella
mia immaginazione evoca quello della risacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio;
il fondo del mio occhio ferito fiammeggia come il meriggio estivo di Bocca d’Arno)
Scopre che alcuni sensi; in mancanza della vista, si sono sviluppati maggiormente diventando più
recettivi rispetto a prima (ora io ho un orecchio più sensibile di quello che musicò la pioggia nel
pineto). E questa scoperta permette all’autore di rifiorire e di poter godere delle intense emozioni
dovute proprio a questa novità.
Un episodio significativo è quando riceve in regalo un mazzo di fiori che provoca in lui un turbinio
di sensi soprattutto l’olfatto (la mia continua sete fiuta l’odore umido che subito impregna il mio
buio Il cuore mi batte). In questo momento lui riconosce e visualizza i diversi tipi di fiori presenti
nel mazzo e ad ognuno associa un’ emozione e un ricordo, creando una situazione molto
coinvolgente ed emozionante.
All’ interno dell’opera si individua un sentimento di insofferenza per la sua condizione di malato e
si sente come condannato a morte (la dura sentenza mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo
stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro). Conserva però la voglia di riscatto e di
significare anche dopo l’incidente (risorse il bisogno di esprimere ,di significare).
Nei primi tratti dell’opera è lampante il fatto che D’Annunzio si senta rinchiuso in un corpo non
suo, come fosse una prigione (sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo
come una guaina). Tuttavia ritrova Roma e l’amore per essa dopo tanto tempo e viene invaso da un
sentimento di felicità (mi teneva un amore sensuale di Roma … dopo tanti anni di lontananza,
dopo tante stagioni di desiderio e di rimpianto).Non è la prima volta che D’Annunzio descrive
Roma, ma in questo particolare caso la descrizione è emotivamente molto carica e coinvolgente e
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suscita una così forte immedesimazione, che, dopo averla letta, sembra di aver vissuto in prima
persona le esperienze narrate.
Inoltre la scoperta di cose semplici, come una lucciola, accende in lui un sentimento di stupore e
meraviglia (il cuore mi balzava di meraviglia).Nonostante ciò si sente comunque oppresso dalla sua
immobilità e vorrebbe liberarsi dalle bende e camminare libero.
Quando giunge la primavera e il protagonista sente l’arrivo delle rondini, supplica di poter uscire e
viverle nella natura; non potendo, si immagina che il canto delle rondini fosse il suo pianto. (le odo
gridare di dolore, gridare al sole il mio dolore).
Quando è finalmente permesso a D’Annunzio di scoprire l’occhio sano, rinasce e capisce che anche
senza un occhio può continuare a scrivere e a vivere; infatti, grazie alla riscoperta di antiche
passioni come la musica, capisce che in lui vi è lo stesso animo di prima e che ciò che lo rendeva
felice in passato (poesia, musica, avventura e tant’altro) può farlo ancora, in maniera anche più
intensa
C’è un’espressione chiave che può esprimere il senso dell’intera opera del Notturno, ma anche dare
compimento alla riflessione sulla vita e sull’arte dell’autore:
Non so più dove sia il mio male. Il mio male è il bene che non si conosce.
Per mezzo di questa frase l’autore vuol trasmettere quel suo senso di malessere dovuto non tanto da
un dolore ben identificato come l’insofferenza per la sua situazione o per le perdite affettive, ma per
questa sua incapacità di poter gioire delle cose belle che accadono e di poterle apprezzare come una
volta.
Rivive nel ricordo della corsa a cavallo nel deserto il piacere che gli dà la poesia e nel movimento
del cavallo sente il brivido della libertà e per questa esperienza ricorda quella meravigliosa bestia
con un sentimento di fraternità (ecco che io e il mio fedele siamo una cosa sola/ fratello mio dolce,
mi vien voglia di piangere/ hai il mio cuore nel tuo cuore
Durante tutta l’opera si nota che il protagonista rimpiange fortemente la vita e le condizioni di
salute passate (soprattutto all’inizio) ma si nota anche un’evoluzione e un perfezionamento dei sensi
che lo aiutano a ritrovare se stessa anche in un corpo nuovo.
D’Annunzio in quest’opera si metta a “nudo” ed esprime in maniera diretta ciò che prova, facendo
scoprire una parte di sé in maniera più esplicita.
In lui rimane inalterata quella voglia di scoperta e ricerca che lo accompagna da tutta la vita, e che
gli permette di poter ritrovare le forze e non arrendersi davanti a questa sfida che si trova costretto a
dover affrontare.
A renderlo nuovo è sia la malattia che il desiderio di scoprire, possedere, amare e godere di altre e
cose, più nuove delle passate. Anche se la convalescenza è per lui inaccettabile in un primo
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momento, arrivando al punto di farlo sentire imprigionato in un corpo non suo. Ad aiutarlo ad uscire
da questo difficile momento è la riscoperta delle emozioni che gli facevano provare le vecchie
passioni, e sono proprio queste a spingerlo a cercarne di nuove.
La novità per l’autore è il dover convivere con un corpo che non gli permette di essere ciò che era
prima, trasformandolo in un essere imperfetto, ma che allo stesso tempo, gli consente di provare
piaceri in un modo che non avrebbe mai potuto sperimentare prima e di poter godere delle gioie che
affiorano durante la guarigione.
Possiamo concludere che il nuovo è tutto ciò che non abbiamo ancora provato, oppure qualcosa che
conosciamo ma in un contesto e in un modo diverso e, per quanto ci possa spaventare, decidiamo di
affrontarlo perché non possiamo resistere all’impulso di conoscere e scoprire ciò che per noi è
ancora ignoto, misterioso.
Il bisogno del nuovo, infatti, è quel sentimento che si prova quando si è alla ricerca di un’esperienza
e di un’emozione nuova, in quanto la precedente non soddisfa più i nostri bisogni o le nostre
aspettative.
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