Recenti orientamenti giurisprudenziali ed applicabilità

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Recenti orientamenti giurisprudenziali ed applicabilità
Recenti orientamenti giurisprudenziali ed
applicabilità dell’Accordo di Madrid
SOMMARIO: 1. Premessa 2. Corretta indicazione di origine e provenienza dei prodotti:
l’Accordo di Madrid 3. Le recenti disposizioni a tutela del “made in Italy” e l’orientamento della
giurisprudenza di legittimità 4. La sentenza del T.A.R. del 09 marzo 2006 n. 157: rispunta
l’Accordo di Madrid nei casi in cui non si ravvisano violazioni penali 5. Conclusioni
1. Premessa
Il “made in Italy” è diventato con il passare degli anni sinonimo di un’eccellenza produttiva che
merita di esser tutelata. Il crescente interesse verso lo specifico settore ha avuto effetti
rilevanti sul panorama normativo, come testimoniano i recenti interventi con cui il legislatore a partire dall’emanazione di specifiche misure contenute nella Finanziaria 2004 - ha inteso
garantire le produzioni nazionali dall’invasione di prodotti di bassa qualità, troppo spesso
immessi sul mercato in assenza di regole precise.
Tali disposizioni hanno innovato profondamente la legislazione in materia di tutela della
corretta provenienza ed origine dei prodotti, contenuta nell’Accordo di Madrid del 1891 e
recepita nell’ordinamento nazionale dalla L. 676/67 e dal D.P.R. 656/68.
Anche la giurisprudenza si è trovata più volte ad affrontare tali questioni e si è impegnata a
fornire un’interpretazione univoca delle norme progressivamente introdotte in materia. Proprio
di recente, la Corte di Cassazione – con sentenza nr. 2648 del 20 gennaio 2006 – si è
pronunciata in merito all’apposizione - su prodotti realizzati all’estero - di una “fallace”
attestazione d’origine italiana, fornendo dei preziosi spunti interpretativi e sovvertendo un
orientamento giurisprudenziale che, col passare del tempo, sembrava aver addirittura
ostacolato, per certi versi, l’applicazione delle disposizioni così come erano state concepite dal
legislatore nazionale.
Recentemente, anche il T.A.R. del Friuli Venezia Giulia ha emanato una sentenza in materia
(nr. 157/2006), fornendo taluni spunti interpretativi di grande rilievo per gli operatori giuridici
che si ritrovano - oramai sovente - ad applicare una normativa oggetto di costante evoluzione.
Tuttavia, gli elementi interpretativi contenuti nella sentenza de qua possono essere apprezzati
solo in seguito ad una compiuta analisi della normativa contenuta nell’Accordo di Madrid e nelle
norme di attuazione, successivamente integrate dalla Finanziaria 2004 e dal D.L sulla
competitività.
2. Corretta indicazione di origine e provenienza dei prodotti: l’Accordo di Madrid
L’ apposizione del “made in…” consente di individuare l’esatto luogo di fabbricazione di un
determinato prodotto ed è pertanto riconducibile all’accertamento dell’origine del medesimo.
L’Accordo di Madrid sulla repressione delle false o ingannevoli indicazioni di provenienza,
stipulato nel 1891 e riveduto a Lisbona il 31 ottobre 1958, è stato recepito nell’ordinamento
nazionale dalla L. 676/67.[1]
Tale Accordo prevede efficaci strumenti di tutela della corretta indicazione di origine e
provenienza, consentendo all’atto dell’importazione il sequestro di qualsiasi prodotto recante
una falsa o ingannevole indicazione di provenienza, nella quale uno dei paesi cui si applica
l’Accordo, o un luogo situato in uno di essi, sia direttamente o indirettamente indicato come
paese o come luogo d’origine.[2]
1
La tutela si estende anche nel paese in cui la falsa o ingannevole indicazione di provenienza è
stata apposta e non soltanto al Paese in cui vengono importati i prodotti.
L’art. 2 dell’Accordo prevede che l’autorità doganale sia competente per l’esecuzione del
sequestro. Tuttavia, la merce sottoposta a provvedimento cautelare può essere oggetto di
regolarizzazione da parte del responsabile dell’importazione, che deve essere pertanto
informato tempestivamente dell’esecuzione del provvedimento.
L’azione di controllo può essere effettuata d’ufficio o in seguito a denuncia della parte lesa; in
caso di transito delle merci, la Dogana non è obbligata ad eseguire il sequestro, a norma
dell’art. 2, comma 3 dell’Accordo.
Inoltre, per come è stato recepito nel nostro ordinamento, l’Accordo di Madrid ammette la
possibilità di vendere un prodotto importato apponendovi il marchio dell’importatore recante
eventualmente anche il Paese in cui è stabilito; tuttavia, quando il venditore mette il suo
marc hio su un prodotto importato, deve riportare anche “l’indicazione precisa ed in caratteri
evidenti del paese o del luogo di fabbricazione o di produzione, o un’altra indicazione
sufficiente ad evitare ogni errore sull’origine effettiva, sotto pena del sequestro del prodotto”.
Da quanto esposto sembrerebbe rilevarsi che l’obbligo di indicazione della provenienza
geografica sussista dal momento in cui il venditore mette il suo marchio sul prodotto
importato. In realtà, l’apposizione del marchio di una ditta non comporta l’obbligo di
indicazione del “made in… ” sul corrispondente prodotto.
Tuttavia, laddove oltre all’apposizione del marchio, risultino altre indicazioni potenzialmente
fallaci, occorrerà verificare la sussistenza dei presupposti per la configurazione delle condotte
illecite richiamate dall’Accordo di Madrid.
Ciò si evince dall’attenta lettura dell’art. 1 del DPR n. 656/1968 (di attuazione dell’Accordo di
Madrid),[3] il quale dispone che “le merci per le quali vi sia il fondato sospetto che rechino una
falsa o fallace indicazione di provenienza sono soggette a fermo (amministrativo) all’atto della
loro introduzione nel territorio della Repubblica, a cura dei competenti uffici doganali che ne
danno immediatamente notizia all’autorità giudiziaria”.
Il successivo art. 2, prevede che, “qualora gli interessati abbiano proceduto alla
regolarizzazione prevista dall’art. 2 dell’Accordo di Madrid…(omissis)…e siano trascorsi 60
giorni dalla data della comunicazione all’A.G., senza che questa abbia disposto il sequestro, gli
uffici doganali potranno restituire le merci agli interessati”.
In conclusione, alla luce di quanto disposto dalle norme richiamate, mentre strictu sensu
l’Accordo di Madrid prevede l’obbligo di indicazione precisa ed in caratteri evidenti del paese o
del luogo di fabbricazione o di produzione, o un’altra indicazione sufficiente ad evitare ogni
errore sull’origine effettiva, le norme che lo hanno recepito nel nostro ordinamento limitano
l’applicazione del sequestro (indicando le modalità esecutive dello stesso a cura
dell’Amministrazione doganale) ai casi in cui sussista fondato sospetto che le merci rechino una
falsa o fallace indicazione di provenienza.
3. Le recenti disposizioni a tutela del “made in Italy” e l’orientamento della
giurisprudenza di legittimità
Ritenendo probabilmente obsoleta la normativa contenuta nell’Accordo di Madrid che in realtà,
come peraltro rilevato nella sentenza nr. 157/2006 del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, ha
dimostrato tutta la sua attualità alla luce delle rinnovate esigenze di tutela delle produzioni di
qualità e dei consumatori, il legislatore è intervenuto in più occasioni, a partire dal 2004, per
dare rinnovato vigore alla legislazione vigente nello specifico comparto.
2
A partire dalle disposizioni contenute nella Finanziaria 2004 - la L. 350/03 - che ha
praticamente riscritto la disciplina sull’indicazione della provenienza e dell’origine delle merci in
etichetta, il legislatore ha voluto fornire nuovi ed efficaci strumenti agli organi di controllo per
arrestare il fenomeno dell’invasione dei mercati da parte di prodotti di scarsa qualità.
La L. 350/03 ha previsto che “l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione
ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza ed
origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale”.[4]
Le disposizioni contenute nella Finanziaria 2004 sono state successivamente modificate prima
dal comma 9 dell'art. 1, D.L. 14 marzo 2005, n. 35 e poi dall'art. 2-ter, D.L. 30 settembre
2005, n. 203, aggiunto dalla relativa legge di conversione.
Tornando alla Finanziaria 2004, l’art. 4, comma 49 della ha ulteriormente specificato che:
per “falsa indicazione” si deve intendere la stampigliatura “Made in Italy” su prodotti e
merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine.
si ravvisa la “fallace indicazione”, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza
estera dei prodotti o delle merci, laddove l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il
consumatore a ritenere che il prodotto o la merce siano di origine italiana.
Alla luce di tali novità normative, si è reso necessario delineare con maggiore precisione i
concetti di “provenienza” ed “origine” dei prodotti.
La tutela della corretta indicazione di “provenienza”, che consente di individuare l’impresa rappresentata dal suo marchio – dalla quale proviene il prodotto immesso sul mercato, è un
obbligo il cui rispetto è salvaguardato da norme di carattere sia penale che amministrativo.[5]
In passato, la dottrina riteneva sussistente il mendacio ingannevole allorché l’intero prodotto
non provenisse da chi vi appone il proprio marchio, senza specificare la sua reale provenienza.
[6]
Per quanto riguarda l’“origine” dei prodotti, la Finanziaria 2004 contiene uno specifico rinvio
alla normativa comunitaria, che a sua volta fissa le regole da applicare in relazione al fatto che
i beni siano stati interamente ottenuti in un unico Paese oppure alla loro produzione abbiano
concorso più Paesi. Inoltre, il legislatore comunitario ha inteso distinguere le disposizioni
relative all’origine delle merci, a seconda che si tratti dell'origine “non preferenziale” o
“preferenziale” dei prodotti.[7]
Alla previsione di una normativa novellata, emanata con l'intento dichiarato di tutelare le
produzioni nazionali, sono seguite numerose sentenze della Cassazione, che hanno avuto un
effetto dirompente sull’applicazione delle norme relative al “made in Italy”.[8]
Da ultimo, anche alla luce delle modifiche normative apportate in seno D.L. nr. 35/05, in
vigore dal 17 marzo 2005 - convertito in legge dall’art. 14, comma 1 della L. 80/05 - ed
all'inserimento di norme che hanno ulteriormente specificato la disciplina dell’indicazione di
provenienza ed origine dei prodotti, la Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta,
confermando la necessità di garantire un'adeguata tutela alle produzioni nazionali.
I dubbi interpretativi emersi dall’esame di una serie di sentenze del Supremo collegio sentenze
sembrano essere stati superati solo dopo il recente pronunciamento della Corte di Cassazione,
con sentenza nr. 2648 del 20 gennaio 2006.
Il caso di specie verteva sul sequestro di capi di abbigliamento provenienti da un paese terzo
(la Moldavia) sui quali era apposta la targhetta “designed & produced by Alfa srl Rovereto
3
Italy”, ritenuta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l'origine e la provenienza del
prodotto.
Si trattava, infatti, di un tipica attestazione contenente fallaci indicazioni relative all’origine
(geografica) dei prodotti, sulle quali la Cassazione si era già pronunciata in maniera
parzialmente difforme nelle precedenti sentenze. Tutto sommato, quindi, un caso molto simile
a quello prospettatosi dinanzi al Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia.
Nell’occasione, la Cassazione ha affermato che coloro i quali riconducono i concetti di “origine o
provenienza” (dell'opera dell'ingegno e del prodotto industriale) non al luogo geografico di
produzione bensì al soggetto cui deve farsi risalire la responsabilità giuridica e produttiva del
bene (e che pertanto garantisce la qualità del prodotto), devono necessariamente rivalutare gli
effetti innovativi delle disposizioni contenute nella legge Finanziaria del 2004 e nei successivi
interventi normativi, specie nella parte in cui (l'art. 4 comma 49), nel proporsi la tutela della
indicazione " made in Italy ", richiama la normativa europea sull' origine dei prodotti.
La Suprema Corte ha confermato come, ad esempio nel comparto tessile, “l'Italia goda di una
riconosciuta leadership in campo mondiale, dovuta anche alla particolare specializzazione delle
maestranze impiegate nel settore. Deriva da ciò che a tutto concedere, pur considerando che il
disegno ed il tessuto sono italiani, resta pur sempre il fatto che la lavorazione del prodotto è
avvenuta all’estero ad opera di un'azienda avente personalità giuridica diversa dalla ricorrente,
ma soprattutto ad opera di maestranze che non hanno la stessa tradizione di quelle italiane in
questo settore specifico”.
Pertanto, l’attestazione in etichetta “produced by Alfa s.r.l. Rovereto ltaly”, lasciando intendere
che la produzione fosse avvenuta in Italia, era certamente idonea ad indurre in errore i
consumatori di media diligenza, che potevano avere un legittimo interesse ad acquistare un
prodotto che fosse stato anche materialmente lavorato in Italia, proprio in virtù delle qualità
attribuite alle produzioni italiane nello specifico settore. Fornendo maliziosamente al
consumatore avare se non addirittura fallaci indicazioni sull’origine dei beni, il produttore ha
evidentemente conferito al prodotto “una maggiore affidabilità promuovendone in definitiva
l'acquisto”, omettendo di indicare il luogo di produzione sui capi di abbigliamento.
Concludendo, nella citata sentenza il Supremo Collegio ha indirettamente ammesso le difficoltà
applicative di una normativa in movimento, alla ricerca di un punto di equilibrio fra fenomeni
diversi e virtualmente contrastanti quali la globalizzazione, la necessità di sostenere la capacità
concorrenziale delle imprese nazionali ricorrendo alla delocalizzazione della produzione, ma
anche quella di apprestare una efficace tutela di un consumatore sempre più esigente. La
sentenza de qua, tuttavia, ha rappresentato un importante base interpretativa per garantire
finalmente piena tutela al “made in Italy”, non soltanto in settori, come quello tessile, in cui
l’industria italiana vanta indiscussi esempi di eccellenza produttiva.
L’indicazione “designed & produced by Alfa srl Rovereto Italy” non conteneva, infatti, elementi
idonei ad indurre in errore i consumatori in relazione all’origine “giuridica” dei prodotti
sequestrati, avendo riscontrato che i medesimi erano stati effettivamente realizzati all’estero
sotto la diretta responsabilità dell’impresa italiana. La Cassazione ha considerato irrilevante la
nazionalità del committente, affermando che tale indicazione non consentiva al consumatore di
conoscere l’origine reale dei prodotti.
Ebbene, mentre nelle prime sentenze citate, il Supremo collegio aveva ritenuto irrilevanti
eventuali fallaci indicazioni relative all’origine geografica delle merci, riconducendo il concetto
di origine a quello di provenienza da una determinata ditta (e non da uno specifico Paese),
nella sentenza in oggetto è stato affermato che - ai fini dell’individuazione dell’origine dei
prodotti - occorre far riferimento alla normativa comunitaria sull’origine e non all’origine
giuridica dei prodotti.
4
Infine, occorre ricordare che la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata in materia,
ribadendo i concetti già espressi nelle precedenti sentenze. In seno alla sentenza nr. 3669 del
31 gennaio scorso, la Cassazione ha infatti ribadito che l’apposizione in etichetta della bandiera
italiana o di indicazioni fallaci con riferimenti all’Italia sono certamente tali da indurre in errore
il consumatore sull'origine della merce.
Secondo il Supremo Collegio, pur volendosi accogliere un’interpretazione delle norme a tutela
dell'origine imprenditoriale del prodotto e non di quella geografica, occorre sempre accertare
che i prodotti su cui vengono apposte tali indicazioni relative all’origine siano stati fabbricati
all'estero per conto di una ditta italiana e non straniera.
Solo tali circostanze giustificherebbero, eventualmente, l’apposizione di indicazioni relative
all’origine imprenditoriale italiana dei prodotti (realizzati secondo i criteri di produzione e sotto
la responsabilità della ditta nazionale). Nell’occasione, la Cassazione ha altresì ribadito che
l’origine imprenditoriale dei prodotti non può desumersi dalla mera proprietà dei prodotti: sui
medesimi potranno essere, quindi, apposti chiari riferimenti al “made in Italy” solo se
effettivamente la provenienza imprenditoriale dei medesimi è riconducibile all’Italia.
4. La sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia del 09 marzo 2006 n. 157: rispunta
l’Accordo di Madrid nei casi in cui non si ravvisano violazioni penali
In seno alla citata sentenza, emessa dal Tribunale amministrativo regionale in seguito al
ricorso presentato da una ditta italiana che aveva importato prodotti tessili dalla Turchia, il
giudice ha confermato la legittimità del fermo delle merci ivi confezionate e successivamente
importate in Italia.
Le motivazioni contenute nella sentenza rispecchiano l’orientamento recentemente emerso
nella giurisprudenza di legittimità, laddove è stata attribuita maggiore importanza alla corretta
indicazione dell’origine geografica dei prodotti, non limitando quindi l’applicabilità del sistema
sanzionatorio alle sole ipotesi di falsa o fallace indicazione della provenienza “giuridica”.
Il provvedimento cautelare oggetto di ricorso era stato disposto dalle Autorità doganali in forza
dell'art. 1 del D.P.R. 656/1968, per il rilevato contrasto con l'art. 3 dell'Accordo di Madrid sulla
repressione delle false o fallaci indicazioni di provenienza delle merci, ratificato con la legge n.
676/1967.[9]
L’organo di controllo, infatti, aveva rilevato che sul lato esterno della confezione e sulla
targhetta interna delle t-shirts marchio D.G. – linea junior figurava la dicitura "D.G.I. s.p.a. Legnano, Milano (Italy)", senza alcuna indicazione dell'origine turca del prodotto.
Il successivo ricorso è derivato dalla mancata restituzione della merce da parte della Dogana,
nonostante il P.M. competente avesse escluso l’eventuale emissione di un decreto di sequestro,
non ravvisando gli estremi per l’integrazione del delitto di cui all’art. 517 C.P..
Il procuratore, infatti, sul solco di un orientamento giurisprudenziale fuorviante che vedeva, in
questi casi, "documentalmente dimostrato" che la ditta destinataria della merce - in qualità di
committente - avesse la piena responsabilita' giuridica, tecnica ed economica del processo
produttivo, aveva ritenuto non fallace l'apposizione sui prodotti dei dati identificativi della ditta
ricorrente. Tali valutazioni si fondavano sull’orientamento giurisprudenziale che attribuiva
unicamente tutela all’indicazione della “provenienza giuridica” dei prodotti e non all’origine
geografica dei medesimi.
Tuttavia, come osservato nel paragrafo precedente, quest’orientamento giurisprudenziale,
anche alla luce degli ulteriori interventi del legislatore volti a chiarire la portata del sistema
giuridico di tutela del “made in Italy”, è stato recentemente rivisitato.
5
Col senno di poi, quindi, bene aveva fatto l’Agenzia delle Dogane – allo scadere del termine di
60 giorni – a non disporre la restituzione della merce sottoposta a fermo amministrativo,
facendo presente che la merce "poteva essere rilasciata solo previa rimozione delle indicazioni
irregolari riscontrate (false o fallaci)”, seguendo peraltro il disposto dell’Accordo di Madrid.
Tuttavia, l’azione dell’Autorità doganale ha spinto la parte a presentare un ricorso al T.A.R.,
che a sua volta ha colto l’occasione per chiarire la portata del sistema di norme posto
principalmente a presidio dei mercati e dei consumatori.
Il ricorso si fondava principalmente su due aspetti, essendo stato eccepito:
1)
che in seno alla normativa a tutela del “made in Italy”, i concetti di origine e
provenienza dei prodotti fanno riferimento ad un determinato produttore e non da un
determinato luogo;
2)
che, comunque, l'art. 3 dell'Accordo di Madrid sarebbe inapplicabile nella fase
dell’importazione, non riferendosi al caso del produttore che importa la propria merce fatta
materialmente realizzare altrove, ma solo al venditore. Infatti quando quest'ultimo intenda
apporre il proprio nome od indirizzo su prodotti provenienti da un paese diverso da quello della
vendita dovrà, ai sensi dell'art. 3 succitato, accompagnarlo con la precisa indicazione del paese
o luogo di fabbricazione o produzione o "da altra indicazione che valga ad evitare qualsiasi
errore sull'origine vera delle merci".
Il T.A.R. del Friuli, a discapito di quanti credevano probabilmente superata la normativa
contenuta nell’Accordo di Madrid e nelle disposizioni nazionali che lo hanno recepito, nella
sentenza nr. 157/2006 ha confermato la legittimità dell’operato dell’Agenzia delle Dogane.
In merito al primo punto, il Tribunale amministrativo ha chiarito che l’ideatore/importatore,
apponendo il proprio nome e marchio sulla merce, garantisce al consumatore che la qualità dei
prodotti e' stata verificata, guidata e approvata dall'azienda produttrice. Pertanto, non
assumerebbe rilievo il luogo di produzione effettivo dei prodotti.
Tuttavia, il senso dell’art. 3 dell'Accordo di Madrid è quello di consentire al consumatore di
acquisire tutte le informazioni di origine della merce, al fine di impedire qualunque possibilità
che l'acquirente si faccia un'idea non veritiera (ingannevole) sull'origine della merce che
acquista. Alla luce di questa interpretazione, appare fondamentale l’indicazione sui capi della
provenienza geografica dei medesimi, accanto alle indicazioni relative alla localizzazione del
produttore/venditore.
Relativamente alla possibile configurazione della violazione amministrativa solo in capo al
venditore, e non anche all’importatore, il giudice ha chiarito che l’importazione di una partita di
merci rappresenta una delle fasi della catena di vendite attraverso le quali i prodotti arrivano ai
consumatori finali, ragion per cui la fabbricazione estera del capo non può dirsi priva di
rilevanza e l’art. 3 non deve essere interpretato in maniera così restrittiva, limitando
l’applicazione delle norme al solo venditore di prodotti confezionati all’estero.
5. Conclusioni
L’orientamento del giudice amministrativo rappresenta senza dubbi un importante indirizzo
interpretativo, che rafforza ulteriormente la tutela del “made in Italy”, essendo chiaro oramai
che non è consentito apporre indicazioni “fallaci” sui prodotti (siano esse relative alla
provenienza o all’origine geografica) che possano indurre i consumatori a ritenere che i
medesimi sono stati realizzati sul territorio nazionale.[10]
Anche in ambito amministrativo, quindi, è stato chiarito che la normativa non si applica alle
sole ipotesi di falsa o fallace indicazione di provenienza, da individuarsi nell’impresa rappresentata dal suo marchio – dalla quale proviene il prodotto immesso sul mercato, bensì
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anche alle non corrette indicazioni dell’origine geografica delle merci, che sovente può rivelarsi
determinante per la scelta dei prodotti da parte dei consumatori.
Infine, il giudice ha ribadito la lungimiranza del legislatore nella predisposizione di un Trattato
che - pur risalendo ad anni ormai molto lontani in cui il mercato era sicuramente meno incline
a fenomeni di globalizzazione - è apparso quanto mai attuale nell’ottica di garantire al
consumatore (“che e' poi, in ultima analisi, colui che paga la merce!”) la esatta conoscenza
"dell'origine vera delle merci".
Così facendo, all’autorità doganale ed alla Guardia di Finanza - che collaborano per la
repressione delle violazioni alla normativa sul “made in Italy” - è stato riconsegnato un
fondamentale strumento operativo per procedere al fermo di merci per le quali l’autorità
giudiziaria non ravvisi gli estremi per la configurazione di un illecito penale ma che comunque
rechino indicazioni di origine e provenienza non conformi ad un adeguato standard informativo
per i consumatori finali. Dopo l’entrata in vigore della nuova normativa a tutela del “made in”,
tale strumento sembrava sepolto sotto il peso di oltre cento anni. Il Tribunale amministrativo
del Friuli gli ha ridato vigore, a conferma che la tutela del “made in Italy” è finalmente
diventata una priorità nazionale.
Fabio Antonacchio
[1] La L. 4-7-1967 n. 676 (pubblicata nella Gazz. Uff. 12 agosto 1967, n. 202) dispone la
ratifica e l’esecuzione dei seguenti atti internazionali, firmati a Lisbona il 31 ottobre 1958:
a)
Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 20 marzo 1883,
riveduta successivamente a Bruxelles, a Washington, a l'Aja, a Londra e a Lisbona;
b)
Accordo di Madrid per la repressione delle indicazioni di provenienza false o fallaci del
14 aprile 1891, riveduto successivamente a Washington, a l'Aja, a Londra e a Lisbona;
c)
Accordo di Lisbona
denominazioni di origine.
per
la
protezione
e
la
registrazione
internazionale
delle
[2] Se la legislazione di un paese non ammette il sequestro all’importazione, si applica il
divieto d’importazione. Ove non sia previsto neanche il divieto d’importazione, l’organo
preposto è chiamato ad applicare le misure che la legge del paese assicura in simili casi ai
propri cittadini. In ultima istanza, si ritengono applicabili le disposizioni a tutela dei marchi e
delle denominazioni commerciali.
[3] Il D.P.R. n. 656/1968 (pubblicato nella Gazz. Uff. 27 maggio 1968, n. 133) contiene le
norme per l'applicazione dell'Accordo di Madrid del 14 aprile 1891 sulla repressione delle false
o fallaci indicazioni di provenienza delle merci, riveduto a Lisbona il 31 ottobre 1958.
[4] L’art. 517 C.P. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) prevede che “chiunque
pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con
nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il compratore
sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito se il fatto non è preveduto
come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a
lire due milioni”.
[5] A tal proposito, sembra opportuno richiamare la tutela posta dal legislatore penale in caso
di violazioni inerenti la corretta indicazione di provenienza. L’art. 515 C.P. vieta e punisce la
consegna all’acquirente di cosa diversa per qualità, origine e provenienza da quanto dichiarato
7
(per es. in etichettatura) o pattuito. L’art. 517 C.P., a sua volta, vieta e punisce la messa in
commercio di prodotti industriali con marchi ingannevoli sulla origine, provenienza o qualità del
prodotto.
[6] All’inizio degli anni ottanta, la giurisprudenza aveva ravvisato la violazione dell’art. 517
C.P. in un caso in cui una nota casa automobilistica commercializzava sul territorio nazionale
col proprio marchio, senza altra specificazione, veicoli prodotti all’estero. In merito, cfr. A.
Fiandaca – E. Musco, Diritto penale – parte speciale, Volume 1, 2001, pagg. 660 e ss.
[7] In tal senso, G. Lovetere – A. Sgroi, Delocalizzazione all'estero di attività di mero
assemblaggio, confezionamento ed etichettatura e tutela del Made in Italy, in "il fisco" n. 32
del 5 settembre 2005, pag. 1-5002.
[8] Si permette di rimandare a F. Antonacchio e N. Monfreda, Etichettatura dei prodotti e
tutela indiretta del made in Italy nel nuovo codice del consumo, in "Impresa c.i." n. 1 del 31
gennaio 2006, pag. 62..
[9] La società che ha presentato il ricorso al T.A.R. Friuli Venezia Giulia si avvaleva di
un'impresa turca denominata "G.D.T.A.S." per l'assemblaggio di t-shirt e slip per bambino, per
i quali la ricorrente determinava e controllava tutte le fasi del processo produttivo, inviando
anche le etichette e i cartellini. I capi cosi' realizzati venivano poi inviati alla ricorrente
attraverso una ditta di spedizioni.
Nel corso di un controllo doganale riguardante merce proveniente dalla Turchia contenente
anche "t -shirt a marchio D.G. - linea junior" veniva riscontrata sul lato esterno della confezione
e sulla targhetta delle suddette t-shirt di proprieta' della ricorrente la dicitura "D.G.I. s.p.a.Legnano, Milano (Italy)" che, secondo l'Agenzia delle Dogane di Trieste, in considerazione
dell'origine turca del prodotto, contrasterebbe con l'art. 3 dell'Accordo di Madrid sulla
repressione delle falsi o fallaci indicazioni di provenienza delle merci, ratificato con la legge n.
676/67. Veniva quindi disposto il fermo amministrativo "ai sensi dell'art. 1 del D.P.R. n.
656/1968" della merce in questione. Non veniva emesso alcun sequestro penale perche' il P.M.
presso la Procura riteneva "documentalmente dimostrato" che la ditta ricorrente, destinataria
della merce sequestrata, fosse anche la committente di produzione della ditta turca e avesse la
piena responsabilita' giuridica, tecnica ed economica del processo produttivo, tant'e' che non
poteva essere ritenuto fallace o fuorviante l'apposizione sui prodotti dei dati identificativi della
ditta ricorrente.
L'Agenzia delle Dogane, pero', nonostante il mancato sequestro penale entro il termine di 60
giorni, non ha disposto la restituzione della merce sottoposta a fermo amministrativo e, di
fronte alla specifica richiesta della ricorrente, ha negato la restituzione facendo presente che la
merce "potrebbe essere rilasciata solo previa rimozione delle indicazioni irregolari riscontrate
(false o fallaci) a prescindere ed al di la' delle valutazioni dell'A.G. in merito alla configurabilita'
di una fattispecie penalmente rilevante" e restando in attesa dell'istanza di regolarizzazione
suddetta.
[10] Cfr. F. Brusa, Falsi, TAR contro Cassazione, in “Il Sole 24 Ore” del 31 ottobre 2006, pag.
32. A parere di chi scrive, proprio alla luce delle recenti sentenze della Cassazione (ex pluribus
sent. nr. 2648 del 20 gennaio 2006 e nr. 3669 del 31 gennaio 2006), non è corretto affermare
che la Suprema Corte, esaminando provvedimenti di sequestro relativi a casi in cui
l’imprenditore italiano aveva delocalizzato la produzione in paesi a basso costo del lavoro, ha
privilegiato la provenienza giuridica rispetto a quella materiale. In particolare, nella sent. 2648
del 20 gennaio 2006, la Cassazione ha chiarito che occorre rivalutare gli effetti innovativi delle
disposizioni contenute nella legge Finanziaria del 2004 e nei successivi interventi normativi,
specie nella parte in cui (l'art. 4 comma 49), nel proporsi la tutela della indicazione " made in
Italy ", richiama la normativa europea sull' origine dei prodotti affermando quindi, la centralità
dell’ “origine geografica” e non “giuridica” dei medesimi. Parimenti, non è corretto affermare
che, nella sentenza nr. 157/2006 il T.A.R. Friuli non ha tenuto presente che la possibilità di
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sanare sul piano amministrativo la falsa indicazione sembra alludere ad un’estinzione
amministrativa del reato. Infatti, nella citata sentenza nr. 3669 del 31 gennaio scorso, la
Suprema Corte ha ribadito che “la possibilità di sanare sul piano amministrativo la "fallace
indicazione" delle merci con l'asportazione, a cura ed a spese del contravventore, dei segni o
delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di questa Corte (Cass.
Sez. 3^, 23 dicembre 2004, P.M./D'Amodio)” non comporta l'estinzione del reato (art. 517
C.P. in combinato disposto con l’art. 4, comma 49, L. 350/03), ma è tuttavia idonea ad evitare
la possibilità di trarre in inganno gli eventuali acquirenti e conseguentemente legittima il
dissequestro della merce "regolarizzata".
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